Metodo del laboratorio e costruzione della motivazione

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Metodo del laboratorio e costruzione della motivazione
QUESTIONI DI METODO
Metodo del laboratorio e costruzione della motivazione
Intervento di:
Domenico Canciani
Formatore, insegnante, operatore psicopedagogico
Movimento Cooperazione Educativa
Laboratorio è una parola-totem, che spesso viene usata con significati diversi, come un grande
ombrello sotto il quale ci possono stare più persone, anche diverse fra loro.
Ho cercato di stabilire che cosa sia essenzialmente un laboratorio pensando alle procedure e agli
ingredienti che lo determinano, e ho preparato una sorta di dizionario, maturato mescolando
l'esperienza di formazione degli insegnanti nel Movimento di cooperazione educativa, le
riflessioni che mi vengono dall’esperienza educativa con i ragazzi a scuola, e l'esperienza maturata
nei Centri età evolutiva di Venezia.
1. Per provare a dire che cos'è un laboratorio incomincio col dire che cosa non è.
Non è solo un luogo. Quando sentiamo parlare del laboratorio di informatica di solito si pensa alle
macchine. Secondo me una sala informatica (blindata) non è un laboratorio: è un luogo dove ci
sono degli strumenti preziosi, certo, ma questa non è condizione sufficiente a farne un laboratorio.
Se invece pensiamo alla radice labor, essa ci rimanda al senso produttivo dell’officina, un luogo
dove ci si addestra per apprendere un mestiere.
Il laboratorio è certamente un luogo formativo, ma non serve solamente per imparare un mestiere,
per avviarsi a un lavoro.
Nella nostra concezione un laboratorio è un luogo in cui è vivo, attivo, un gruppo condotto da un
adulto, (animatore, educatore, insegnante, coordinatore) nel quale, lavorando su delle tecniche, si
apprendono relazioni, si impara a vivere con gli altri.
Se proprio dovessi tradurre la parola in un’altra lingua non userei l'inglese workshop perché mi
sembra che la radice work, lavoro, insieme a shop, negozio, rimandi al mondo economico, in cui si
vende e si compra ciò che è stato prodotto. Il mondo educativo oggi è letteralmente assediato
dall’idea della mercificazione, per cui sceglierei per laboratorio la parola atelier. Nel termine
francese ci leggo di più l'idea di essere, di stare, di lavorare insieme.
Mi riferisco anche ad un’immagine personale che mi è cara, l’atelier di sartoria nel quale io sono
cresciuto, dove lavoravano mio padre e mia madre. Mio padre era il tagliatore, quello che con le
forbici dava forma e misura alle stoffe; mia madre era la cucitrice, colei che con l’ago e la
pazienza le univa insieme a formare il vestito.
L'idea di laboratorio come atelier ci è utile perché ci rimanda alla necessità di un dare forma mettendo insieme .
Nel linguaggio psico-pedagogico potrebbe significare dare senso a quello che stiamo facendo.
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C’è anche chi intende il laboratorio come luogo di sperimentazione e ricerca scientifica (chimicafisica-medica)…ma per noi il laboratorio è simile a una bottega artigiana: vi partecipano in modo
attivo un gruppo di ragazzi e un animatore adulto che li accompagna, li coordina, li sostiene.
Lo scopo delle azioni che si svolgono nel laboratorio formativo non è unicamente produrre:esso ha
uno scopo manifesto, ma il suo produrre consiste nel creare, nel fare un gioco.
2. Che cosa dobbiamo intendere per gioco?
Ci troviamo di nuovo nella necessità di risignificare una parola abusata, perchè ripetutamente
usata in molti contesti diversi.
Nel gioco ci sono molte radici semantiche. Sicuramente c’è il gioco inteso come scherzo; c’è la
radice ludus, che rimanda al confronto, alla sfida; e c'è una radice, alea, che ha a che fare con il
rischio, la possibilità, come nel gioco dei dadi.
Tuttavia ciò che vorremmo si svolgesse nel laboratorio è un gioco creativo.
Creativo, ovvero che permette a ciascuno di esprimersi,; che dà e mette a disposizione dei ragazzi
strumenti espressivi: da quelli classici (la parola, la scrittura, il teatro), ai linguaggi non verbali
(pittura, musica, modellazione); fino ai linguaggi del corpo (il gesto, la danza, le mani, il
movimento) in modo che ciascuno possa ricrearsi. Ri-crearsi nel senso ricreativo del termine (stare
in relax), ma anche, da creta, prendere forma, nel senso di cercare di rappresentare se stessi in
modo nuovo e inatteso, giocandosi nuove e possibili identità.
Per comprendere meglio di quale gioco stiamo parlando ci può aiutare la definizione inglese to
play che è un po’ più ricca del nostro giocare.
La nostra tradizione pedagogica penalizza l’azione del giocare: lo considera il contrario di lavorare,
il contrario di produrre; il gioco è trattato come cosa da bambini, come perdita di tempo. Credo che
questi luoghi comuni ci siano ancora negli strati profondi di molte figure educative, a scuola e
nell’extrascuola. Tuttavia attraverso la definizione inglese possiamo riscoprire alcuni significati
creativi del giocare, che può diventare di volta in volta: agire, recitare, suonare, fare un gioco,
attivare un ruolo. Ci ricorda che giocare è parola bifronte, significa al fondo mettersi in gioco,
assumere una posizione attiva, a volte anche passiva, ovvero accettare di essere giocato.
C’è infatti un altro senso che voglio sottolineare: attraverso l’azione del giocare entriamo in
contatto con altri, e possiamo creare nuovi legami, scoprire o ri-scoprire nuove relazioni all'interno
di un gruppo.
Nessuno di noi si conosce fino in fondo, ognuno di noi affina la conoscenza di sè mettendosi alla
prova, incontrando ostacoli, specchi che riflettono la propria immagine, persone con le quali entrare
in relazione. Solo in questa maniera riusciamo a creare un circuito tra ciò che pensiamo di essere, e
ciò che ci viene restituito dalla realtà; tra ciò che siamo capaci di fare, e il modo in cui ci vedono
gli altri.
Ed è in questo intreccio che ciascuno di noi si conosce.
Nell’età adolescenziale e preadolescenziale questo gioco è particolarmente proficuo perché
l'adolescenza è una nuova nascita, non biologica ma sociale, extra familiare, non determinata
esclusivamente dal patrimonio genetico, e nemmeno dalla cultura familiare che durante l'età
infantile ci ha costruito e delineato.
L'adolescenza è un luogo della scelta, è un tempo in cui si vuole…, si pensa d’essere…, ci si
propone di diventare….
E’ uno spazio-tempo importante in cui poter mettere in gioco le identità possibili.
Per questo motivo un laboratorio è sempre un evento che avviene in gruppo.
3. Gruppo è un'altra delle parole chiave del nostro dizionario.
Stare in un gruppo non vuol dire stare uno appresso all'altro. Il modello di gruppo non è un
condominio. Come ci ha insegnato la psicologia (Kurt Lewin), è un sistema, qualcosa di più, e
qualcosa di altro dalla somma delle parti.
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Nel laboratorio, mentre si gioca ci si mette in gioco, costruendo legami, cioè si costruisce un senso
di appartenenza, un’identità sociale, in cui, come diceva Franco Floris, c'è un noi nel quale un io si
vede inserito.
Il laboratorio è il risultato di una relazione continua tra sé e l'altro, una costruzione individuale che
avviene in un gioco di attese reciproche.
Un laboratorio è come una palestra relazionale nella quale i ragazzi possono mettere alla prova
quello che loro sanno della vita relazionale.
C'è molta curiosità nell’età preadolescenziale e adolescenziale attorno alla figura dell'altro. Esso è
inteso innanzi tutto come l'altro sesso, cioè l’altro maschile e/o femminile. Tecnicamente i ragazzi
di oggi sembrano molto preparati, sanno tutto dell’anatomia, ma la domanda che sta al fondo della
loro ricerca è: che cosa succede quando si è vicini? Per crescere devono conoscere l'emozione, il
sentimento, l'imbarazzo dell'incontrare l’altro da sé e parafrasando per un momento la nota
canzone di E. Jannacci potremo dire che quello che i ragazzi e le ragazze non conoscono è l'effetto
che fa.
- L'altro può essere inteso come lo straniero, colui che viene da fuori, da un paese lontano.
- L’altro può essere anche- e ce lo diceva molto bene Laura Formenti - come l'altra famiglia,
vicina , ma con una diversa cultura alimentare, e relazionale; con un'altra religione, un altro orario
per andare a dormire, un diverso uso del tempo libero; che ha modi discutibili di trattare grandi e
piccoli, mariti e mogli.
- Ma l’altro è soprattutto un’alterità che ci abita.
E allora scoprendo l'altro che è fuori di me io scopro quella parte di me che non conosco. Riuscire a
metterle insieme è un grande contributo all'integrazione, alla pace e al futuro.
Infatti in ogni famiglia, in ogni gruppo, anche in un gruppo-laboratorio si creano delle forme di
etnocentrismo: ovvero quando un gruppo si è formato tende ad allontanare tutti quelli che si
vogliono avvicinare ad esso; quando un gruppo si sente solido tende ad escludere coloro che non si
adeguano. Tenere aperta la dimensione della diversità, tenere aperta la dimensione della conoscenza
dell'altro, dare voce e forma ad un gioco di reciprocità è una delle cose più difficili.
4. Il laboratorio è un set
Riecheggiava stamattina nella relazione di Mori la denuncia di un’idea culturale diffusa
dell’educazione come supermarket. Sottoscriviamo aggiungendo che un laboratorio non è un selfservice. Il laboratorio non è neanche un luogo sempre aperto, nel quale si entra a qualsiasi ora e si
va via a qualsiasi ora. Un laboratorio formativo è un luogo istituito da uno spazio e da un tempo.
Esso è definito da un set: uno spazio fisico nel quale possiamo riconoscerci (stanza, parco, muretto,
panchina, aula); è un luogo che segna la nostra presenza e le nostre identità, ed è a sua volta
segnato dal nostro gioco di relazioni reciproche.
È un luogo definito e riconoscibile, e non solo uno spazio fisico.
- Il laboratorio è un tempo definito, non è sempre disponibile: non è un frigorifero che ogni volta
che viene aperto dona sempre qualche cosa.
Il laboratorio formativo è un momento definito, cioè funziona il martedì e il giovedì, e non il sabato
e la domenica supponiamo. E se chi vi partecipa non assume quel ritmo non ha la possibilità di
incontrare gli altri.
Istituire il laboratorio come se fosse un set è importante per diversi motivi. Uno di essi è che
produce un apprendimento della regola. I ragazzi davanti al frigorifero apprendono che c'è sempre
qualcuno a loro disposizione, apprendono la dipendenza.
Un luogo istituito rappresenta la cura reciproca del luogo e del tempo che passiamo insieme. È
come un appuntamento, cioè un movimento reciproco, di più soggetti, verso un determinato luogo,
ma nello stesso giorno e alla stessa ora, perché altrimenti non ci si può incontrare. Istituire un
laboratorio come luogo educativo significa porre cura, creando di fatto scelta, autonomia,
crescita.
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- Tuttavia il laboratorio è soprattutto uno spazio affettivo e mentale: creare una cornice spaziotemporale ricca di relazioni significa che ciascun soggetto si dà una mappa mentale. E’ la mappa
del gruppo che ognuno costruisce dentro di sé; è uno spazio di accoglienza che si crea nella mente e
nel cuore; è una mappa che ciascuno può usare nel pensare i propri compagni anche quando essi
sono assenti.
Quando ciò accade si può dire di avere raggiunto il livello di integrazione ovvero che si è realizzata
l'interiorizzazione di un gruppo.
5. Per primo è l'animatore a creare uno spazio affettivo e mentale per poter accogliere i
ragazzi.
Infatti l’istituzione maggiore del laboratorio è la presenza dell’animatore adulto, che riassume in sé
la tutela dello spazio e del tempo (fisico e relazionale), e la realizzazione del compito. Egli invita i
ragazzi ad entrare, ad accettare il gioco proposto, a smettere di sostare sulla soglia in attesa di una
realizzazione magica dei propri desideri. Con la sua adultità capace di giocare e
contemporaneamente di assumersi delle responsabilità, l’animatore esercita una funzione di
modeling nei confronti della quale i ragazzi agiscono numerose emozioni: il rifiuto, la rabbia, ma
anche la stima e l’ammirazione.
Attraverso la disponibilità di un adulto, ovvero di qualcuno che è già passato per la strada della
crescita, a stare insieme ai ragazzi mettendosi in gioco, nel laboratorio si apre una via di
comunicazione, fatta di azioni proiettive e introiettive. I ragazzi fanno così sentire all’animatore ciò
che essi sentono, ed egli prova a rielaborare insieme a loro quei sentimenti mettendoli in gioco.
Egli così testimonia ai ragazzi la possibilità di diventare grandi costruendo se stessi creativamente
insieme agli altri, ma solo a patto di entrare, di stare dentro la cornice.
Sostare fuori dall’esperienza fa perdere la possibilità di vivere con gli altri l’azione creativa quanto
entrarci permette di aprirsi nuovi orizzonti da esplorare. L’adolescente che sta sulla soglia è
impegnato a chiedersi se starci o non starci, se mettersi alla prova oppure no. Ed è l’animatore che,
lanciando la sua proposta, lo aiuta ad entrare e a rinunciare al desiderio distruttivo di starsene fuori
per accettare la sfida di mettersi in gioco.
Ci sono molte domande dei ragazzi intorno ai loro insegnanti e alle loro insegnanti che non
attengono al fatto delle materie di studio e che non attengono alle competenze che hanno o ai giochi
che sanno fare, ma attengono principalmente a questa domanda: ma che razza di uomo è? Ma che
tipo di donna è? Ma come fa a fare la mamma? Come farà ad essere un marito?
Le domande degli adolescenti, anche se non dette, riguardano spesso il modello adulto che gli viene
proposto: come tratta i ragazzi? Come si comporta quando riceve un'offesa? E se gli si dice una
parolaccia come reagirà?
Queste sono le domande più interessanti per un gruppo adolescenziale, ed è su questo terreno che
l'adulto educatore risponde perché non ha solo attraversato la vita, ma ha anche riflettuto sulla sua
esperienza, l’ha rielaborata e rimessa a disposizione degli altri proprio perché ha scelto di fare quel
mestiere.
L'adulto animatore ha soprattutto il compito di cucire, di tenere insieme, di fare convivere gli
opposti che si respingono, i sottogruppi che si mandano via, le soggettività che rivendicano
originalità ed estraneità.
Il laboratorio quindi non può essere un supermarket nel senso che non è la ricchezza delle
esperienze che manca ai nostri ragazzi: oggi ciò che fa crescere è riuscire a portare a termine
un'esperienza, orientarsi, scegliere e condurre a buon fine un'esperienza.
È una specie di nevrosi che colpisce le famiglie di oggi: un mese al calcio, poi il nuoto, e appena la
fatica si fa sentire si passa alla chitarra…Questo passare da un'esperienza all'altra senza attraversarla
e concluderla è una delle malattie sociali del nostro tempo.
E allora è bene che il laboratorio non sia basato sulla stessa modalità, non proponga ogni volta e
ogni giorno un gioco nuovo, ma si snodi in una continuità.
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6. Il laboratorio è un gioco-storia
Se il laboratorio creativo proponesse una situazione ludica ogni giorno nuova e piacevole, avrebbe
finito per mostrare nel tempo la propria frammentarietà e ripetitività, costituendo per i ragazzi un
cibo gradevole, ma poco nutriente per la crescita. L'animatore invece svolge una importante
funzione narrativa nei confronti del gruppo: egli propone ai ragazzi di fare storie giocando a dare
vita ai loro oggetti interni mettendoli fuori: sono indizi, impronte; poi oggetti; infine veri e
complessi personaggi. La sua proposta di gioco aiuta i ragazzi a progredire, facendoli divenire
attori protagonisti di un gioco-storia pensato come costruzione che si innalza nel tempo. Un giocostoria capace di separare e collegare le tappe precedenti con le successive, realizzando un percorso
che non ricomincia ogni volta da zero, ma che conserva le tracce della propria evoluzione.
Lo chiamiamo gioco-storia, intendendo un gioco che, attraverso l’allestimento di uno sfondo
narrativo va a collocare i vari eventi quotidiani (i bisogni e i desideri, le paure e i vissuti) in una
griglia narrativa.
Nel gioco-storia il compito del gruppo infatti, non è solo di giocare insieme, ma tende a far
procedere i ragazzi ad un livello di integrazione superiore proponendo loro di realizzare qualcosa
che parli di loro stessi, che racconti la loro storia.
Viene proposta un’ambientazione, cioè uno sfondo narrativo, uno spazio fisico e simbolico,
all’attività del laboratorio: in questo modo si vuole fornire al gruppo una rete di comunicazione e
comprensione reciproca, una possibilità di connettere i frammenti dell’identità integrando i vissuti
dei ragazzi.
Il laboratorio diventa così un atelier di storie in cui i frammenti di gioco e di vita vengono cuciti
insieme per realizzare una storia di tutti capace di comprendere la storia di ciascuno. Una storia che
aiuta a separare e integrare passato, presente e futuro, rinforzando il sentimento di identità sotto il
profilo dell’integrazione temporale.
Ma il laboratorio non è saturo, nel senso che non è un gioco strutturato che prevede delle tappe da
percorrere. Più che essere un puzzle che ha già un disegno precostituito, si tratta di mettere le
tessere del mosaico al posto giusto…un laboratorio assomiglia più a un tangram: ci sono sette o
otto pezzetti coi quali però si possono comporre diverse figure, a seconda di chi fa il gioco.
La proposta dell'animatore è in parte da costruire. È gioco-storia, inteso come un gioco che
costruisce se stesso. La proposta dell’animatore agisce come un incipit narrativo, rendendo il
laboratorio un libro da scrivere insieme, e il romanzo che ne viene fuori alla fine parlerà della storia
collettiva, parlerà dei pezzi che ognuno dei ragazzi ci ha messo.
7. Il laboratorio è come una tribù
Per comprendere come si sviluppa l’integrazione sociale nell’arco di tempo in cui si articola il
laboratorio, seguendo alcune riflessioni di Donald Meltzer, possiamo dire che il gruppo tende a
mettere in atto dei comportamenti simili a quelli di una piccola tribù, cioè crea la propria avventura
attraversando tappe simili a quelle che l’umanità ha attraversato nel percorso dalla preistoria alla
storia.
Inizialmente i ragazzi sono sconosciuti, nemici l’uno all’altro in quanto in preda alla paura di essere
aggrediti. Nei primi tempi essi sviluppano forme di difesa del territorio dalle invasioni altrui,
costruendo tane, case,segnando confini , innalzando steccati, postazioni di vedetta e simili.
A poco a poco, e grazie alla presenza di un mediatore, essi iniziano a dialogare e a costruire un
proprio linguaggio, fatto di oggetti, comportamenti, parole che stabiliscono un maggiore livello di
scambio: passata la ricerca delle condizioni di convivenza, ora si cercano le regole della
comunicazione.
Nascono linguaggi segreti come esordio di una cultura del gruppo, fioriscono miti e ritualità
d’ingresso e d’uscita dalla storia come segni di una appartenenza.
Nei laboratori si realizzano quiz, prove, giochi, inviti, destinati a chi arriva tardi: prove d’ingresso
per conquistare il diritto a partecipare, a far parte.
L’esigenza di uno scambio umano è rappresentata in forma figurata attraverso la realizzazione di
mercatini, fiere in cui ciascuno mette in mostra quello che realizza, ciò che ha da mettere in
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comune. Dal baratto presto si passa al conio di monete valide dentro al gruppo, capaci di regolare lo
scambio. In questa fase ogni membro inizia a pensare il gruppo come un insieme di ruoli e
aspettative, ovvero sente di partecipare, di esser parte di un insieme di relazioni.
Alla fine del laboratorio ogni gruppo porta a termine la propria storia creando un oggetto collettivo
e ognuno realizza un oggetto individuale. A volte si tratta di una rappresentazione, di una canzone,
di un murales, di una festa… L’oggetto condiviso sintetizza in sé il senso di appartenenza
raggiunto, che permette al ragazzo di sentire un gruppo interno, ovvero di pensare il gruppo anche
quando i suoi amici non ci sono, di sentire i compagni e l’animatore come personaggi testimoni
della propria vita, amici invisibili che egli può consultare in ogni momento giacchè sono diventati
parte del sè.
Al termine dell’esperienza egli se ne torna a casa, portando dentro di sé questo oggetto interno e in
mano un oggetto concreto: nel loro insieme essi simboleggiano la costruzione di un Io intrecciato ad
un Noi, ovvero la possibilità di continuare ad andare per altri mondi (in famiglia, a scuola) più
ricco e forte di un senso nuovo di identità , capace di continuare a crescere .
8. La motivazione
Si può arrivare in alcuni mesi di lavoro anche a costruire degli oggetti comuni, a cooperare alla
costruzione di qualcosa che rappresenta la relazione che abbiamo costruito tra di noi. Come tutti i
processi di crescita - diceva il fondatore del Movimento di cooperazione educativa Celestin Freinet
- non è una scala a pioli nella quale ogni gradino corrisponde ad una fase. È un cammino nel quale a
volte si saltano due gradini, a volte si cade, a volte se ne fanno due o tre di seguito e poi ci si
sofferma. L'andamento dei gruppi dentro ai laboratori vive questi intrecci di assenza e presenza, di
ricatto reciproco, momenti di grande slancio e momenti di calma piatta.
La motivazione non può essere una trappola per topi. Chi lavora con i ragazzi sa che prima o poi
trova nella sua strada qualche cosa che si chiama conquistare i ragazzi oppure sedurre i ragazzi.
Conquistare e sedurre sono due confini dell'agire educativo che hanno a che fare con territori agli
antipodi del campo educativo come il dominio e la sottomissione…
Il compito dell'educatore adulto è di proporre, di chiamare e di attrarre, però la motivazione è
qualcosa che si costruisce insieme: la motivazione è un movimento reciproco, ha a che fare con la
proposta di qualcosa che meriti di essere giocato, un gioco che valga la candela, un rischio che
valga la pena di essere colto. La parola che riecheggia è impresa. Una impresa da compiere è
sufficientemente motivante se non è un gioco fine a se stesso, se non si consuma totalmente al
proprio interno, ma può essere comunicato all’esterno. Per i ragazzi è molto importante.
Per esempio costruire una stazione radio, fare un disco, scrivere un libro, stampare un giornale,
mettere in scena una rappresentazione teatrale si rivela assai affascinante. Non sembrino proposte
desuete, esse hanno rilevanza perché la domanda di riconoscimento che ha dentro di sé
l'adolescente nei confronti dell'adulto e della società è molto alta.
Una seconda cosa che va definita è che una buona motivazione è capace di insegnare al ragazzo di
sostenere un tempo di attesa.
Su questo punto mi soffermerei perché è un'altra delle malattie sociali di oggi: per esemplificare
possiamo dire che prima ancora che il bambino abbia detto "ho fame" c’è un adulto che gli offre
delle patatine, così non si riesce nemmeno a mettere a fuoco la domanda che è sottesa alla domanda
inespressa. È una situazione che non aiuta a crescere e rafforza la dipendenza.
Invece, le grandi imprese come quella di crescere, hanno bisogno di un tempo di attesa.
Tra l'idea e la sua realizzazione c'è un tempo fatto di corteggiamento dell'idea, di tempi vuoti,
difficoltà, risorse, fatica, studio. Ognuno lo riempia come vuole, però quel tempo di attesa è
fondamentale per crescere. Senza la sopportazione, l'allenamento alla frustrazione, non c'è
possibilità di grandi imprese, rimane scarsa la possibilità di pensare il futuro; c'è solo la possibilità
di riempire il presente. Quindi se vogliamo aiutare i ragazzi a crescere, dobbiamo aiutarli a
mentalizzare la frustrazione del tempo di attesa.
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È come il tempo dell’innamoramento alla fin fine. Una volta era codificato, c'era un tempo di
fidanzamento tra il conoscersi di un uomo e di una donna… e il consumare. E sul tempo del
corteggiamento si è creata una grande letteratura, si è inventata l'arte dei fiori, le poesie, le canzoni,
le liriche, i sotterfugi, gli scherzi: cioè un monte di cose sono state inventate proprio per impegnare
quel tempo di attesa.
9. Pensare sul fare
Non basta per fare un laboratorio, attivare un laboratorio, ci vuole un tempo per la riflessione sul
laboratorio. Conoscere vuol dire non solo fare, ma sapere quello che si sa fare. Allora l'animatore e
l'educatore che si accingono a lavorare in un laboratorio che si propone di aiutare a crescere, hanno
bisogno di documentare la propria esperienza: dal tenere un proprio diario, fino alle mostre
fotografiche; dal parlarne con altri colleghi, al riflettere su quello che va accadendo.
Non sono solo questioni di tipo tecnico - come risolvo, cosa faccio domani - ma è un “Che cosa mi
è successo oggi che è andata a finire in questo modo?”, “Perché questa situazione va sempre ogni
giorno a finire così e poi si litiga, poi io alzo la voce, poi Pierino se ne va?”.
Allora domandarsi che cosa avviene mentre si fa il laboratorio è indispensabile; aiuta a trovare una
via di uscita, ma soprattutto aiuta a non replicare il gioco all'infinito.
Si è parlato stamattina delle altri due grandi istituzioni educative: la famiglia e la scuola. La
famiglia e la scuola sono professioniste della replica del gioco. I rapporti sono così decisi o fissati
che va sempre a finire nello stesso modo, perché ognuno dei personaggi - il professore e l'alunno,
la mamma e la figlia - replicano se stessi nel gioco. Chi si pone in posizione educativa deve provare
a interrogarsi perché il gioco vada a finire sempre nello stesso modo.
Interrogarsi insieme, lavorare insieme, riflettere insieme, può aiutare a trovare altre strade, a non
replicare il gioco e quindi farlo diventare un gioco evolutivo.
Riferimenti Bibliografici
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- D. Canciani. Un laboratorio per imparare a giocare, in Cooperazione educativa, n. 4/95
- D. Canciani. Il laboratorio creativo ripercorre la storia della civiltà umana. Atti interni Cee Venezia 98
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P. Sartori. Un laboratorio per diventare gruppo. Preadolescenti alla ricerca del proprio essere sociale,
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D. Winnicott. Gioco e Realtà. Armando
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