Il bambino malato come persona

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Il bambino malato come persona
ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 1997
Il bambino malato come persona:
l'approccio rogersiano e il disegno analogico
per "dialogare" col piccolo paziente
Seconda Parte
Elena Negri1 , Luisa Massimo2
Nella prima parte di questo articolo (pubblicata sul numero di ottobre
1994 della rivista) abbiamo cercato di delineare il contesto all'interno del quale è
stato impostato e realizzato l'intervento psicologico, descrivendo in particolare
la "realtà" che il bambino malato vive quotidianamente nella Divisione di
Ematologia ed Oncologia Pediatrica dell'Istituto G. Gaslini di Genova in relazione
sia alla peculiare organizzazione che l'Istituzione Ospedaliera si è data, sia ai
differenti approcci diagnostici e terapeutici che all'interno della Divisione vengono posti in atto per affrontare, sul piano clinico, le varie sindromi di
interesse emato-oncologico. In questa seconda parte la D.ssa Negri presenterà
sommariamente il modello di intervento psicologico che ha progettato ed attuato
all'interno della nostra Divisione dal 1991 al 1994, soffermandosi in particolare
sull'uso del "disegno analogico", quale strumento che, inserito all'interno
dell'Approccio Centrato sulla Persona di Carl Rogers, può divenire un importante
mezzo di comunicazione con il mondo infantile ed adolescenziale in genere e, nel
caso specifico, con il "mondo della malattia pediatrica".
L'intervento dello psicologo rogeriano nella
divisione di ematologia ed oncologia pediatrica
dell'istituto G. Gaslini di Genova
E' importante ricordare come l'iter terapeutico ospedaliere in età pediatrica crei
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Centro Progetto Armonia. Via Crispi, 21 A/2 - Sori (GE)
IV Divisione di Pediatria, Istituto G. Gaslini - Genova
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una speciale linea di "contatto" tra bambino, famiglia, equipe curante e scuola al
cui interno si intrecciano e convivono malattia e bisogno di normalità. All'interno
di questo "contatto", il lavoro di psicologi è stato agevolato dalla formazione
rogersiana che mi ha permesso di "centrarmi" non tanto sulle tecniche della
relazione, quanto sul "bambino inteso come persona" e di comprendere e di
accettare la sofferenza e le paure nella convinzione che il loro riconoscimento sia
utile al processo di guarigione.
Secondo la mia esperienza, l'area dell'intervento psicologico all'interno di una
Divisione pediatrica si apre a ventaglio e comprende:
- interventi psicologico-relazionali inerenti il costo psicologico della malattia ed i
suoi bisogni emergenti, legati, da un lato al rapporto tra il bambino malato e la
sua famiglia e dall'altro al rapporto tra la famiglia e l'equipe curante;
- interventi di assistenza psicologica i cui obiettivi mirano: ad un corretto
inserimento della famiglia nell'Istituzione Ospedaliera; ad una corretta
comunicazione tra l'equipe curante e la famiglia; ad un corretto inquadramento
del bambino malato avviato all'iter terapeutico nel rispetto dei suoi vissuti; ad un
corretto reinserimento del bambino, durante il trattamento in Ospedale di
Giorno (DH) al suo ritorno a casa.
Gli interventi di assistenza psicologica si avvalgono dei seguenti strumenti:
- osservazione partecipante
- osservazione del comportamento
- colloquio rogersiano
- disegno analogico
- gruppo d'incontro (gruppo mamme; gruppo Vigilatrici d'Infanzia)
supervisione (sui casi e per gli operatori) riunione di equipe
- ricerca
Gli interventi di assistenza psicologica devono essere integrati sia con le
pratiche diagnostiche, sia con gli interventi terapeutici posti in atto
dall'Istituzione Ospedaliera i quali richiedono spesso tempi rapidi e modalità di
applicazione che tenderebbero ad interferire con l'intervento psicologico
creando inevitabili momenti di discontinuità. Ovviamente quando tutte le
professionalità che operano nella Divisione lavorano secondo un'ottica
interdisciplinare, tali difficoltà si appianano; i miei contributi in tal senso sono
stati: da un lato quello di adattare il mio intervento a setting non tradizionali e
per me non usuali individuando un "timing" appropriato alla realtà
istituzionale e dall'altro quello di individuare un modello comunicazionale
che favorisse una rapida traduzione del mio linguaggio "psicologico" nel
linguaggio "medico" e viceversa.
In tale contesto mi sono chiesta: in che modo è possibile aiutare il bambino e
l'adolescente a parlare con l'adulto di sé per esprimere le paure e le ansie legate
all'essere ospedalizzato e malato? E come l'adulto (psicologo, medico, insegnante,
genitore, volontario) può stimolare l'espressione di queste specifiche emozioni
per inglobarle in un nuovo "progetto" di vita?
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Una prima immediata risposta è giunta dalla mia formazione rogersiana: la
possibilità di creare un clima di accettazione, di rispetto positivo e
incondizionato e di empatia, oltre che la possibilità di essere "persona"
congruente - e dove necessario "trasparente" - all'interno di quell'ambiente, hanno
rappresentato per me una base fondamentale sia per lavorare con i piccoli pazienti
ed i loro familiari, sia per collaborare, all'interno dell'equipe, con le altre figure
professionali.
Contemporaneamente ho potuto constatare come il mezzo figurativo può
rappresentare un utile ausilio se utilizzato come strumento "facilitante" il dialogo e
la comunicazione all'interno della cornice rogersiana piuttosto che come strumento
di interpretazione da parte dell'adulto rispetto al bambino. Sono convinta che il
disegno sia come una finestra aperta sul mondo infantile e in quanto tale possa
costituire un'opportunità di "contatto" con esso.
L'approccio rogersiano e la tecnica del "disegno
analogico": da una "storia malata" ad una "storia
ricreata"
La possibilità di utilizzare il mezzo figurativo all'interno dell'approccio rogersiano
nasce da alcune premesse teoriche.
Nell'impianto teorico e metodologico dell'approccio di Carl Rogers, l'esigenza
di un riferimento al Sé intuitivo e creativo, la quarta condizione rogersiana
"necessaria e sufficiente" per facilitare i processi di comunicazione nelle relazioni
interpersonali, rappresenta un'acquisizione recente ed è il frutto di continue
osservazioni e sperimentazioni in omaggio a quell’atteggiamento fenomenologico,
empirista e pragmatico che ha sempre ispirato l'opera di Carl Rogers.
Nella letteratura analitica il Sé rappresenta il centro regolatore e unificatore della
psiche globale, conscia ed inconscia; ugualmente, nel corso della storia
dell'umanità, il Sé è stato simbolicamente espresso come la "divinità interiore"
(miti, riti, ecc.). Occorre inoltre ricordare che, fra le funzioni psichiche, l'intuizione
rappresenta quella irrazionale, in quanto percepisce le possibilità insite nel
presente, tramite l'inconscio, il quale a sua volta si avvale di simboli attraverso la
comunicazione analogico-metaforica; contrariamente a quanto invece avviene con
la sensazione, che è la funzione recepente la realtà immediata attraverso i sensi fisici.
Vorrei anche sottolineare che il mondo del bambino è ricco di immagini e che la
psiche utilizza l'immagine quale mezzo espressivo privilegiato; ciò spiega perché il
processo di visualizzazione, tramite il disegno, può diventare un importante
strumento per la descrizione del Sé infantile.
Su queste premesse, lavorando direttamente con i piccoli pazienti, ho
sperimentato che, costruendo con il bambino una relazione improntata alla fiducia,
al non-giudizio e all'accettazione propri dell'approccio rogersiano, attivando la
creatività e gli stati d'animo del bambino sotto forma di contenuto immaginifico e
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simbolico e "posando" sull'immagine la riformulazione rogersiana dei sentimenti,
è possibile ottenere significativi cambiamenti di quei vissuti "negativi" e "negati"
così potenzialmente pericolosi anche sul piano dell'incidenza psicosomatica.
Ho così progettato una specifica tecnica d'intervento psicologico che ho
definito "disegno analogico" e che consiste nel proporre, all'interno di un setting
già definito (psicoterapeutico, didattico, eco), l'uso spontaneo o guidato
dell'immagine figurata quale mezzo che consente di "posare" sul foglio i vissuti e
le tematiche interiori attraverso il disegno, cioè con un linguaggio analogico, al di là
di ogni interpretazione. In questo tipo di relazione il mio compito di "facilitatore"
è quello di "centrarmi" su questa modalità di espressione del "facilitato", seguendolo
ed entrando in quel suo mondo attraverso un linguaggio adeguato al mezzo
figurativo utilizzato, quindi con un linguaggio metaforico e simbolico (dialogo
analogico). Attraverso l'applicazione di questa tecnica, infatti, i disegni possono
rappresentare il cambiamento del modo di vivere l'esperienza da parte del piccolo
paziente e "raccontare" il mutamento della simbolizzazione dell'esperienza stessa
verso l'attualizzazione del Sé. Questi segnali di mutamento dei suoi vissuti
sembrano avvenire proprio a livello del Sé intuitivo e all'interno di un processo
immaginifico facilitato dall'uso della comunicazione verbale in chiave analogica e
metaforica (dialogo analogico). In tale modo può nascere il delicato passaggio da una
"storia malata" ad una "storia ricreata", a mio avviso i risultati sopra menzionati sono
possibili in quanto l'uso del "disegno analogico", all'interno dell'approccio
rogersiano, permette di attivare e facilitare un processo di visualizzazione ed
autodescrizione del Sé, attraverso la mediazione dell'immagine, così "familiare" per
la psiche, in un clima di ascolto, accettazione e rispetto.
In generale il punto di vista dell'adulto applicato al disegno infantile è centrato
sulla nozione di "realismo"; al contrario, nella mia esperienza, ho potuto osservare
che il bambino e il pre-adolescente che disegnano sono centrati sul "raccontare se
stesso" e spesso sul "raccontare se stesso a se stesso" facendo ampio uso del
linguaggio metaforico, grazie alla specifica funzione della immaginazione creativa
(fantasia) e per la capacità di sintetizzare qualità opposte (simbolo): per loro, infatti,
la comunicazione analogica sembra essere quella più appropriata. In che modo
l'adulto può utilizzare la sua immaginazione attiva quando sceglie il mezzo della
comunicazione analogica a mediazione figurata ("disegno analogico")? Deve darsi il
permesso di operare con quella memoria "destro-emisferica" che privilegia la
comunicazione analogico-metaforica e che è legata al Sé infantile di ognuno di noi,
ma che l'adulto è poco abituato ad utilizzare.
La comunicazione analogico-simbolica (dialogo analogico), in cui il "disegno
analogico" assume il ruolo fondamentale di mezzo "facilitante" d'elezione, deve
svilupparsi senza la formulazione di domande direttive o la proposizione di
risposte giudicanti o interpretative, in contrapposizione al consueto approccio
dell'adulto nei confronti del bambino e consiste proprio nello "stare", in modo
rogersiano, con lui, nel pensiero intuitivo e nelle forme dell'immaginario infantili e
pre-adolescenziali.
Questo tipo di comunicazione, infatti, ha la prerogativa di svolgersi per "campi
di significato" permettendo così al bambino e al pre-adolescente di parlare
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sinteticamente e rapidamente all'adulto di sé e dei propri vissuti, in quanto lascia
liberamente "posare" dal dentro-Se al fuori-Se, nella "scena figurata" (disegno) i
propri problemi e le proprie tematiche esistenziali. Evitando la classica "lettura"
interpretativa del disegno infantile e dei tests proiettivi, l'adulto può comunicare
con il bambino in modo analogico attraverso "temi simbolici" sempre nuovi,
significativi ed importanti per il bambino nel suo "qui e ora" e nel suo essere
persona.
Descriverò ora brevemente alcune problematiche specifiche dei pazienti
sottoposti a trapianto di midollo osseo (IMO) e dei donatori in quanto, soprattutto
nell'Unità di IMO della nostra Divisione ho potuto applicare la tecnica del disegno
analogico verificandone l'efficacia e l'utilità.
I bambini sottoposti a trapianto di midollo osseo
ed i fratelli donatori: uno studio psicologico
La diagnosi di malattia maligna e la decisione medica, in precisi casi, di avviare il
paziente al trapianto di midollo osseo (TMO), possono mettere a dura prova l'identità
del paziente stesso. L'identità e spesso la crisi di identità dal momento dell'assenso
chiesto al piccolo paziente e del consenso chiesto ai genitori, attraversa tutta la
famiglia ripercuotendosi fortemente sul vissuto dei genitori, soprattutto quando il
donatore è una persona estranea alla famiglia, e sul vissuto del fratello sano, spesso
ancora minorenne, quando è scelto come donatore.
Il vissuto dell'"io scelgo per te" è carico di un profondo e angosciante senso di
responsabilità, per un'altra vita.
La compatibilità del midollo da "donare" con l'organismo in cui viene infuso, si
basa sugli antigeni del sistema HLA: la "fonte" del midollo può quindi essere, oltre al
paziente stesso (TMO autologo), un donatore consanguineo totalmente o
parzialmente compatibile oppure un donatore volontario, fenotipicamente
istocompatibile (TMO allogenico).
Quando si deve scegliere la procedura dell'allotrapianto possono sorgere
problemi legati al "riconoscimento" biologico e psicologico tra due persone e due
sistemi immunitari. Infatti, nel corpo del ricevente, più precisamente nel
microambiente midollare, per favorire l'attecchimento delle cellule donate occorre
"creare lo spazio" al nuovo midollo con un trattamento pre-trapianto che provochi
l'aplasia e quindi l'immuno-soppressione intensiva del ricevente, ottenuta con la
terapia antiblastica e spesso con l'irradiazione totale corporea: abolire la
sorveglianza immunitaria del ricevente è un trattamento paragonabile a un "rito di
purificazione" dove il proprio "Sé" lascia spazio al "Sé" del donatore.
Con il TMO allogenico, il sistema emopoietico del ricevente viene sostituito dalle
cellule staminali normali del donatore istocompatibile: il bambino trapiantato
diventa così una "chimera" le cui cellule ematiche circolanti sono divenute di "sua
proprietà" ma derivano tutte, come fabbricazione, dal donatore. Si può quindi
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affermare che, sotto un profilo simbolico, il trapianto di midollo osseo ricorda un
"rito" di sangue dove, in un corpo solo, si "fondono" due coscienze.
Il bambino o l'adolescente che riceve in dono il midollo di un'altra persona,
diventa il protagonista di se stesso sia nella "trasformazione" esterna dell'aspetto
corporeo che lo sollecita ad un continuo "riconoscersi" causato dalla perdita dei
capelli, dalla modificazione del peso, della pigmentazione e dei tratti somatici del
viso, sia nella "trasformazione" interna dell'immagine di Sé e del sentimento
d'identità, causata dal "chimerismo" ematologico, che lo stimola al bisogno di
"ritrovarsi". Si apre così il conflitto d'identità più profondo, dove l'"io sono" diventa
"io sono me, più te".
Il conflitto d'identità nel vissuto di "coabitazione" donatore-ricevente trova
radici nel momento del consenso e dell'assenso e si estende all'evento della
trasfusione del sangue midollare, cioè a "quel" momento del "giorno zero". Poche
ore, o pochi giorni dopo la terapia di condizionamento si ha il nadir, l'ablazione di
tutto il midollo osseo del ricevente, ed è a questo punto che avviene il trapianto.
La cellula staminale pluripotente donata, infusa nel corpo del ricevente per via
endovenosa, presenta una spiccata capacità di orientamento e "sente l'odore" di casa
perché sa esattamente dove "andare", "stare", rigenerare, insediandosi nel
microambiente midollare e creando la neo-ematopoiesi. Nel tempo di due o tre
settimane si producono le nuove cellule del sangue (globuli bianchi, globuli
rossi,piastrine) ed inizia la fase di ripresa midollare: la reinfusione o l'infusione
dura poco tempo, ma la fase di ripresa del midollo dura da poche settimane ad
alcuni mesi.
Il giorno del trapianto è definito "giorno zero" perché diventa il punto di
riferimento per tutti gli avvenimenti successivi, di cui i più importanti sono
l'attecchimento del midollo, che coincide spesso con il periodo d'aplasia posttrapianto e col periodo di tossicità acuta del regime di condizionamento, e la
"coabitazione" vera e propria. Oltre l'istocompatibilità, l'attecchimento del
midollo è l'evento atteso che sancisce la "coabitazione" donatore-ricevente: si
evidenzia con la risalita dei globuli bianchi, cioè quando il numero dei
neutrofili diventa superiore a 500/mm3, mentre le piastrine e i globuli rossi
risalgono più lentamente.
L'infusione del midollo donato avviene come una normale trasfusione di
sangue e dura poche ore: sotto un profilo più intimo e profondo d'identità e di
crisi d'identità, il "giorno zero" è vissuto dal ricevente, e dal genitore che lo
assiste, in modo cosciente e partecipativo: l'attecchimento è la prova
inconfutabile da un lato della "presa" del trapianto e dall'altro dell'accettazione
biologica e psicologica dell'io sono azzerato per ricevere te e diventare me più
te", culmine del conflitto d'identità nel vissuto di "coabitazione" donatorericevente cioè di "quel" conflitto già aperto e sofferto nel momento del
consenso e dell'assenso al trapianto. La "coabitazione" sia sul piano biologico
che sul piano psichico, diventa tangibile nel "chimerismo" ematologico che fa
acquisire al ricevente il gruppo sanguigno del donatore e diventa visibile nella
malattia "trapianto contro ospite" (GVHD) cioè nella possibilità che si sviluppi,
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durante o dopo la ripresa midollare, la reazione dei linfociti del midollo del
donatore che, non riconoscendo il ricevente, lo possono aggredire, facendo, di
tutti gli organi e i tessuti, il loro bersaglio. I segni di questa reazione sono la
comparsa, nell'organismo del bambino, di macchie cutanee, diarrea e alterazioni
della funzionalità epatica. Dal punto di vista psicologico la GVHD può essere
letta come una "crisi d'identità" che si incarna nel biologico.
Ancora più particolare è il "chimerismo" che avviene tra un donatore maschio e
un ricevente femmina e viceversa: ad esempio, nel primo caso, quando il midollo
del donatore maschio va ad occupare lo "spazio" creato nel microambiente
midollare del ricevente femmina, se il midollo nuovo attecchirà, molte cellule del
sangue e solo del sangue da quel momento verranno fabbricate con un cariotipo
maschile. Questo evento ematologico, ovvio sotto un profilo medico, può invece
rappresentare per il ricevente in età adolescenziale, sempre pronto a "captare" tutto
ciò che clinicamente si dice su di sé, un possibile vissuto di "infiltrazione" del
biologico nello psichico che, se non ben rielaborato, rischia di provocare o di
acuire una crisi d'identità.
Presso l'Unità di Trapianto di Midollo Osseo della nostra Divisione, fra
l'ottobre 1984 e il marzo 1993,230 piccoli pazienti (120 maschi e 110 femmine)
di età mediana di 71 mesi sono stati sottoposti, dopo condizionamento, a 260
IMO: il donatore in 170 casi è stato il paziente stesso (IMO autologo), in 60 casi è
stato un donatore HLA identico (IMO allogenico).
Nell'arco di tre anni (fra il Gennaio 1991 e il Gennaio del 1994) all'interno di
questa Unità abbiamo condotto uno studio sull'uso del "disegno analogico"
quale strumento facilitante l'espressione del Sé intuitivo e creativo (la quarta
condizione rogersiana) all'interno del progetto di "assistenza globale". Questo
studio è stato rivolto al piccolo paziente sottoposto a trapianto di midollo osseo
sia sotto il profilo del vissuto personale della "coabitazione" donatore-ricevente
prima, durante e dopo il trapianto stesso, sia rispetto al vissuto dell'eventuale
donatore.
In tale periodo sono stati studiati 60 piccoli pazienti sottoposti a trapianto di
midollo autologo o allogenico (di cui 20 osservati prima e dopo il trapianto) e 5
donatori.
Da questa ricerca abbiamo potuto rilevare come la paura della malattia e del
rischio di recidiva, l'ansia per la remissione della malattia stessa e i "fantasmi"
legati al rischio di una perdita di identità, oltre ad incidere sul piccolo paziente,
creino forti conflitti anche all'interno del nucleo familiare coinvolgendo, in
particolare, il fratello donatore sano, tanto da lasciare inespressi i vissuti
"negativi" e "negati" per evitare così di "aprire" vecchie e nuove ferite
psicologiche. Tuttavia, in simili situazioni, il nostro studio sembra confermare
che, proprio quelle specifiche emozioni negative, se non elaborate sul piano
psichico, possono anche influire sul "buon" esito del trapianto e sull'intero
processo di guarigione.
Il bambino e l'adolescente accettano maggiormente l'allotrapianto da
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donatore non-consanguineo nella misura in cui ('"intruso" è "accolto" dalla
famiglia prima sotto un profilo psicologico e poi biologico: la continuità
dell'identità del bambino o la restaurazione dell'identità, dopo una crisi, passa
anche dalla reazione e dall'accettazione genitoriale del trapianto. Non a caso le
frasi dei bambini fanno trasparire quell'ansia genitoriale legata ad una identità,
anche biologica, che si è allargata a tutto il nucleo familiare nel caso del
trapianto allogenico non consanguineo ("Col mio midollo sono sempre io, con il
midollo di un donatore è diverso!"), oppure un'ansia legata ad una identità che
rischia di "confondersi" nel caso del trapianto da fratello ("Se do il midollo a mia
sorella, ho paura di darle un midollo cattivo, perché passano anche le litigate!"),
oppure un'ansia del bambino legata ad un profondo senso di colpa materno
perché la malattia ha inficiato l'immagine interiorizzata di "buona" madre ("lo
devo fare il trapianto perché sono nata dalla pancia malata di mia madre!").
La "visualizzazione" di queste tematiche, tramite la tecnica del disegno
analogico quale "facilitatore" e mediatore immaginativo, può trasformare quei
vissuti "negativi" e "negati", di cui abbiamo già parlato, in vissuti riconoscibili,
accettabili e positivi all'interno di un processo di autoidentificazione ed
autodescrizione del Sé, mentre il disegno del bambino diventa il documento di
questa trasformazione che viene "posata", al di fuori di Sé, sul foglio, tramite la
grafica simbolica - che sfrutta, come abbiamo visto, messaggi metaforici tipici
del mondo immaginifico infantile e pre-adolescenziale - e la successiva
rielaborazione attraverso il "dialogo analogico".
Dai disegni dei bambini ho potuto verificare che le relazioni simboliche
intercorrenti tra donatore e ricevente sono molteplici e ricche di significati, ma
sembrano legate da una unica simbologia: la simbologia del sangue come
messaggero di coscienza e di vita. Sul piano delle immagini mentali il sangue con il
suo colore rosso come il fuoco e il suo calore irradiante l'organismo può
rappresentare, nel microcosmo del corpo umano, ciò che il sole rappresenta nel
macrocosmo dell'universo: un vero e proprio "albero circolatorio" che riscalda
e da vita.
Così Alberto, ricoverato per linfoma, e sottoposto all'età di 15 anni a TMO
allogenico, scrive, alcuni giorni dopo il trapianto, una poesia intitolandola "II
Sole scuro" e dedicata ad un Sole che prima, si era "ammalato". Quel Sole che
"riposa" dentro di lui, come dentro di noi, sul piano delle immagini mentali e che
può forse rappresentare la luce archetipica dell'identità.
Di seguito, a scopo esemplificativo, presenterò sommariamente tre casi che ho
trattato nel mio lavoro psicologico presso la nostra Divisione e in cui ho
utilizzato la tecnica del "disegno analogico" all'interno di colloqui rogersiani.
E' opportuno precisare che i frammenti dei colloqui sotto riportati si
riferiscono esclusivamente ai "dialoghi analogici" che hanno seguito di pari passo
i rispettivi disegni.
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Matteo disegna la sua malattia: dialogo analogico
Matteo, un ragazzo di 16 anni, attualmente fuori terapia e appartenente alla
fascia dei guariti era affetto da Leucemia Linfoblastica Acuta (LLA). Non
disponendo di donatori consanguinei compatibili, è stato sottoposto a TMO
autologo con esito favorevole. In seguito è stato periodicamente controllato,
anche sotto il profilo psicologico, presso il nostro Ospedale di Giorno (DH), per
gli esiti legati alla terapia ricevuta e durante un controllo Matteo chiede di
"parlare" con me della sua malattia perché si sente "diverso dagli altri".
Presento di seguito un significativo frammento di dialogo analogico:
T. "vuoi disegnare la tua malattia?"
P. "sono un piccolo bambino indifeso che viene attaccato da questo immenso
mostro!"
T. "in che modo?"
P. "questo mostro è entrato dentro di me!"
T. "da che parte?"
P. "dalla bocca mentre dormivo"
T. "come ha fatto?"
P. "camminando!"
T, "come fa a camminare?"
P. "con i suoi lunghi artigli... ha tentato di modificare il mio organismo, ma è
stato sconfitto!
T. "cosa ha tentato di modificare?"
P. "aveva distrutto e rifatto a suo piacimento le grosse fabbriche di globuli
rossi: ha fatto sì che i globuli bianchi invece di aiutare i rossi, si volgessero
contro!"
Matteo ha potuto "visualizzare" sul foglio quel "mostro" che in chiave
analogica rappresentava la sua malattia e liberarsene elaborandolo attraverso il
dialogo analogico. Quest'ultimo evidenzia la "potenza" del ricordo di malattia
che aveva continuato a coabitare con lui anche dopo la sua guarigione.
Andrea disegna la paura della recidiva: dialogo
analogico
Andrea è un ragazzo di 13 anni, affetto da Leucemia Linfoblastica Acuta
(LLA) dall'età di anni sei. Inizialmente è stato trattato con terapia antiblastica e a
distanza di due anni e mezzo dalla conclusione della terapia si è verificata una
recidiva con localizzazione testicolare. Nel 1990 è stato sottoposto a TMO
autologo con esito favorevole. In seguito, durante i consueti controlli presso il
nostro Ospedale di Giorno (DH), la madre ha segnalato che Andrea manifestava
timore di una nuova ricaduta. Si trattava in realtà di una paura ossessiva che lo
portava a cercare continue rassicurazioni in merito. Abbiamo pertanto ritenuto
opportuno stabilire una serie di colloqui psicologici per consentire ad Andrea di
rielaborare quella paura che, come vediamo di seguito, si è subito evidenziata
tramite il dialogo analogico. Ecco le sue prime parole durante il primo incontro:
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"Quando ho fatto le radiografie non mi hanno detto niente ed io ero tesissimo,
spero che non siano bugie. Ho una sensazione di malessere, di agitazione nello
stomaco e nel cuore e aumenta, è da due anni che va avanti così: ho paura sempre
più forte". Mi è sembrato questo il momento più adatto per proporre la tecnica
del disegno analogico. Ecco il dialogo analogico che ne è seguito:
T. "come è fatta la paura che ritorni la malattia?"
P. "la paura che entra dentro al cuore lo colpisce come se fosse un dolore e
provoca al cuore del sangue!"
T. "e poi dove va?"
P. "dal cuore la paura va al cervello e provoca nel la testa una paura talmente
forte che da persino dei ricordi bruttissimi!"
T. "di cosa è fatta questa paura?"
P. "sono come dei microbi che non hanno un colore bello (nel disegno sono
rappresentati come spermatozoo, hanno colore marrone con occhi neri perché la
paura non da amore e non da diritto ad un colore bello!"
T. "dove sta di casa la paura?"
P. "la paura è fuori e quando il cuore sente qualcosa vuole dire che la paura
gli è entrata dentro!"
Attraverso il disegno Matteo può rappresentare i suoi "fantasmi", dare loro
una forma e un colore intonati ai suoi vissuti, mentre, tramite il dialogo
analogico, può esplorare tutto questo liberamente anche in modo simbolico e
metaforico all'interno di un clima di accettazione, rispetto e non-giudizio.
Paola disegna il suo "dono": dialogo analogico
Paola è una bambina di sei anni che ha donato il proprio midollo al fratello per
un TMO allogenico. All'epoca del trapianto la donatrice non era stata sottoposta a
trattamento psicologico prima della donazione - essendo ancora saltuaria la
presenza dello psicologo nella Divisione - e le spiegazioni di prassi che le erano state
fornite non potevano lasciare spazio ai suoi vissuti, tanto che, anche dopo molto
tempo, l'importanza del suo "dono" era in lei offuscata dalle emozioni negative. Il
mio incontro con Paola è avvenuto dopo anni dalla donazione, nell'ambito di quel
lavoro psicologico che, all'interno del progetto di "assistenza globale" coinvolge anche
i donatori consanguinei.
E' opportuno ricordare che l'espianto del midollo dal donatore consiste nel
prelevare in anestesia totale sangue midollare dalle creste iliache e che, al risveglio, il
donatore avverte sensazione di dolore nella zona dell'espianto, cosa che, per un
bambino, oltre che fastidiosa può anche risultare poco comprensibile.
All'inizio del dialogo Paola si mostrava contenta di aver aiutato il fratello a
guarire ma quando le ho chiesto di disegnare il proprio dono sono emerse, come
vedremo di seguito, quelle emozioni negative che erano rimaste inespresse:
T. "mi vuoi disegnare il tuo dono?"
P. "il mio dono? ora al suo posto c'è la paura!"
T. " com'è fatta questa paura?"
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P. " ha quattro braccia con sei dita e ha in mano tanti aghi che pungono la gente!"
T. "di cosa è fatta la tua paura?"
P. "di coltelli! Dentro ci sono dei coltelli!"
T. "tu cosa vorresti metterci?"
P. "un cuoricino! Sai, se c'è,... la paura è meno, se no è tanta!"
Per Paola, accanto al dono, vi erano anche vissuti fortemente negativi e per lei
inaccettabili, di fronte ai quali il normale atteggiamento dell'adulto sarebbe stato
improntato al realismo e quindi al loro rifiuto. Il dialogo analogico, in questo caso,
ha consentito invece l'accettazione, la comprensione e la trasformazione di tali
vissuti e infatti, al termine di questa breve sequenza, accanto all'elemento
aggressivo (aghi e coltelli) compare l'elemento affettivo (cuoricino).
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ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 1997
Bibliografia
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