Per un errore di ortografia

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Per un errore di ortografia
Unità
9
I TEMI: LA PAURA
Kaylie Jones
Per un errore di ortografia
1 Quel... chien: “che tempo da cani, che brutto
tempo” in francese.
2 grippe: influenza.
3 cartable: cartella.
Mi sedetti in cima alle scale della metropolitana sotto la pioggia, rannicchiandomi sempre di più ogni volta che una raffica di vento mi
sferzava la faccia. Sentii la terra tremare sotto di me all’arrivo del
treno successivo. Udii le porte che si aprivano e dopo trenta secondi
su per le scale arrivò un’orda di francesi di pessimo umore. Erano le
cinque passate e tutti, tranne me, volevano arrivare a casa al più
presto. Si spingevano, sgomitavano e brontolavano «Quel temps de
chien1».
Vidi un uomo in giacca e cravatta dare uno spintone a una signora
che lo intralciava nel salire le scale. Poi proseguì di corsa e, arrivato
alla mia altezza, mi pestò un lembo della gonna grigia della scuola,
infangandola.
– E che cosa diavolo fai qui seduta?! – gridò. – Vuoi prendere la grippe2?
Non alzai neppure gli occhi e cercai invece di ripulire dal fango la
gonna. Uno dopo l’altro, arrivarono rombando altri quattro treni. Una
cicciona con i tacchi alti mi pestò un piede graffiandomi; ma per
quanto mi avesse fatto male, purtroppo non mi uscì neanche un po’
di sangue.
Piena di autocommiserazione, speravo di ammalarmi o di avere un
incidente sulla strada di casa. Una volta, tre anni prima, mi era venuta la polmonite e, nelle nebbie rosse della febbre, mi era sembrato che
in casa la vita si fosse fermata. Mio padre mi aveva tenuto la mano
quando il dottore mi aveva messo a pancia in giù sul letto dei miei
per farmi una puntura nel sedere. Mi aveva raccomandato in tono
gentile di stare rilassata, che così non avrei sentito niente, ed era vero.
Ero stata così male che aveva rinunciato a lavorare un giorno intero
per assistermi personalmente.
Quanto avrei voluto che mi venisse un bel febbrone come quella volta, prima di dover affrontare mio padre...
Raccolsi il mio cartable3 pieno di quaderni e mi alzai. Mi pulii le gambe sporche di fango e mi sbottonai la giacca blu. Al semaforo aspettai
il verde con i piedi nel canaletto di scolo pieno di acqua gelata, muovendo le dita dentro i mocassini blu. Starnutii tre volte: buon segno.
Madame Beauvier, la directrice, mi aveva convocato nel suo ufficio nel
bel mezzo di una lezione. Davanti a tutti! L’insegnante e i miei compagni erano ammutoliti e mi avevano guardato esterrefatti mentre
uscivo dall’aula. Mi ero sentita i loro occhi puntati nella schiena e mi
erano venuti i brividi.
Sapevo benissimo perché madame Beauvier mi aveva mandato a chiamare e scendendo per le grandi scale coperte di linoleum mi ero dovuta tenere forte alla ringhiera per la paura. Mi avrebbe espulso. Non
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mi sentivo più le ginocchia. Non avevo mai avuto problemi prima di
allora e con madame Beauvier ero sempre stata educatissima. Ma tutti temevano la collera della direttrice, perché era glaciale e si manifestava in maniera imprevedibile. Una volta le avevo visto estrarre dalla
tasca un enorme paio di forbici e tagliare la frangia di un chiacchierone nel bel mezzo del corridoio pieno di scolari. «Ti ho detto di farti
tagliare i capelli la settimana scorsa, Antoine», aveva spiegato senza
alzare la voce, imperturbabile.
Madame Beauvier mi aspettava dietro la sua imponente scrivania. Era
una donna bassa, con le spalle strette e curve e un viso tirato e pallido.
Aveva lo smalto rosso alle unghie, che erano le più lunghe e le più
belle che avessi mai visto, tanto lunghe che per fare i numeri di telefono usava una matita dalla parte della gomma.
«Bonjour, mademoiselle Charlotte-Anne!» esordì energicamente con una
voce che sembrava un violino scordato, quasi fosse sorpresa e contenta di vedermi, mentre io me ne stavo paralizzata a mezzo metro dalla
scrivania.
Madame Beauvier mi si avvicinò incrociando le lunghe dita sottili sul
piano del tavolo.
«Sentiamo, mademoiselle Charlotte-Anne» mi disse in tono confidenziale, «come si scrive gymnastics?»
Fissai le dita di madame Beauvier senza rispondere. Le mani sparirono
da sopra la scrivania, aprirono un cassetto e ne estrassero un foglio
piegato. Lo aprirono lentamente e me lo posarono davanti.
«Questa è la giustificazione che hai portato per non fare ginnastica...»
Aspettò un momento. «Tuo padre è un famoso scrittore americano,
vero? Quindi mi sembra che dovrebbe conoscere l’ortografia, no? Invece...» Spinse verso di me il foglietto con la punta delle unghie rosse,
voltandolo dalla mia parte. «Invece qui c’è un errore. Gym è scritto
con la j. E questa è la firma di tuo padre, vero?»
«No,» mormorai. «L’ho fatta io, madame. Non mi sentivo bene.»
«C’è l’infermeria.» Madame Beauvier mantenne la calma, ma alzò
terribilmente la voce. «Ho telefonato a tuo padre. Normalmente per
una cosa come questa, ci sarebbe l’espulsione.» Prese una delle sue
matite gialle nuove e batté con la gommina sul tavolo. Pensai che
sarei stata costretta a scappare di casa.
«In considerazione del fatto che non hai mai dato problemi finora,
che il tuo profitto è discreto e frequenti questa scuola da quattro anni,
giusto? abbiamo deciso di darti un’altra chance. Lasceremo ai tuoi
genitori il compito di punirti come meglio credono.»
Gli occhi mi si riempirono di lacrime, ma rimasi impassibile, impietrita davanti a madame Beauvier che scuoteva lentamente la testa.
«Mi dispiace» disse soltanto. «Torna in classe per il resto della lezione.»
K. Jones, La figlia di un soldato non piange mai, trad. di A. Biavasco – V. Guani, Garzanti