MATTEO CORTI
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MATTEO CORTI
Appunti di Storia della Medicina Pavese: MATTEO CORTI di Luigi Bonandrini Matteo Corti (o Curti, o Corte, o Curzio, o De Curte) nasce a Pavia; non vi è accordo né sulla data di nascita, né su quella di morte, ma si può ragionevolmente collocare l’inizio della sua vita attorno al 1475, smentendo quanti ritengono sia nato una ventina di anni dopo. I Corti appartengono ad una antica famiglia patrizia lombarda, della quale fanno parte “benefattori e dotti, castellani e capitani, giureconsulti e notai”, oltre che podestà e “non pochi medici”, tanto che si diceva scherzosamente che “i Corti nascono tutti dottori”. La famiglia Corti dimora a Pavia fin dall’undicesimo secolo, ma è soprattutto fra il XIII e il XVI secolo che alcuni componenti della stirpe assumono importanti responsabilità di governo. Primogenito e nobile, Corti è nipote dell’illustre giureconsulto Francesco, personaggio di spicco nel panorama legislativo ed economico del tempo; non solo, ma il padre di Corti è decurione della città. Corti viene avviato, “in patria”, allo studio della Filosofia, della Notomia e, poi, della Medicina. “Aitante, volenteroso, intelligente e ricco”, Corti fin da giovane cerca di “evitare la politica”, ma finisce per esserne coinvolto; gli eventi storici causano a Corti una vita turbolenta e rocambolesca, in netto contrasto con il suo spirito semplice e pacato. Corti si laurea in medicina a Pavia, al tempo “la più fiorente università di ogni altra d’Italia per presenza dei migliori maestri”. Giovanissimo, subito dopo la laurea, Corti, nel 1497, viene nominato “ad lacturam sophystariae” all’Università di Pavia. Due anni dopo, nel 1499, è trasferito sull’insegnamento “ad lecturam logicae”; al tempo i docenti accademici avevano il titolo di lettori. Da sottolineare che i lettori di filosofia venivano scelti fra i medici, ”per poter leggere la filosofia secondo un indirizzo pratico, diverso da quello puramente ideologico”. Indicato come novello Esculapio, Corti viene considerato “ medicorum sua tempestate facile princeps”; è un vero maestro Corti, che si circonda di un buon numero di discepoli, fra cui Camillo Bono, Oddo de Oddis, Francesco Puteo e tanti altri. Il suo allievo più importante è Girolamo Cardano, che Corti designerà Matteo Corti come suo successore. Mente strana e geniale, Cardano interpreta la figura medioevale ed italica dello spirito poliedrico ed enciclopedico, capace di eccellere in ogni campo, dalla medicina alla matematica, dall’astrologia alla filosofia, dalla chiromanzia alla metoposcopia. Corti vive in un quadro politico instabile ed in costante fermento; un clima di continue rivalse e conquiste, sovverte senza tregua l’ordine pubblico. Corti, pur coinvolto negli eventi, cerca di perseguire con determinazione il suo obiettivo di diventare un grande anatomico. Così, affamato ed assetato del sapere, decide di recarsi a Milano per un corso di perfezionamento in anatomia, ma è ostacolato dallo scoppio della guerra. Gli antefatti dello scontro bellico sono complicati. Una volta sconfitto Ludovico il Moro a Novara nel 1500, l’imperatore di Germania Massimiliano d’Austria cede al francese Luigi XII, duca d’Orleans, il Ducato di Milano per la bella somma di 155.000 scudi d’oro; un prezzo equo, tenendo conto che i nuovi occupanti possono fare “il buono e il cattivo tempo” su un territorio tanto vasto, quanto ricco. I pavesi e la gente del ducato, alla fine, non sono I “scontenti più di tanto”, poichè molti ricordano il dominio dispotico e tirannico sia dei Visconti che degli Sforza. In sostanza i pavesi finiscono per accettare il concetto del minore dei mali. L’occupazione non è però gradita a Papa Giulio II, il quale intravede nei francesi un potenziale e mortale pericolo per il suo regno. Il Papa organizza così la Lega Santa per cacciare i Francesi e restituire il ducato di Milano a Massimiliano Sforza, primogenito ed erede legittimo di Ludovico il Moro, morto in Francia nel 1509. Per i pavesi del tempo, ormai assuefatti ad essere sottomessi, un invasore vale l’altro, ma troppa gente ricorda ancora le leggi oppressive di Ludovico il Moro; così i pavesi si schierano dalla parte del Papa e della Lega Santa, “non tanto perchè fossero guelfi, ma per spirito di reazione”. A farne le spese è il vescovo di Pavia cardinal Francesco Alidosio, accoppato a Ravenna il 24 luglio 1511 dal duca di Urbino. L’esercito della Lega è una “accozzaglia” di soldati malassortiti e malmessi; c’è un po’ di tutto, svizzeri mercenari, alemanni imperiali, veneti serenissimi e tanti altri. Li comanda un personaggio discusso e controverso, il Cardinale di Sion. L’esercito francese, invece, è comandato da un grande esperto di guerra, il generale Gastone di Foix, duca di Namours. Lo scontro frontale, dopo qualche scaramuccia, avviene a Melegnano, vicino Milano, nel 1515; è una disfatta annunciata per la Lega, che lascia sul campo ventimila morti. Corti, travolto dalla guerra, malvisto per le sue origini, sospettato per presunte posizioni politiche, scappa prima a Pisa e poi a Padova, dove trova l’occasione e le condizioni per proseguire i suoi studi anatomici. È all’Università di Padova che Corti dimostra di essere “superiore ad ogni altro allievo, infondendo scienza pari ai maestri, li eguaglia, li supera”; cambia l’insegnamento accademico di Medicina per assumere quello delle “Dimostrazioni anatomiche”, la vera passione della sua vita. Purtroppo ancora una volta, le vicende politiche mutano il quadro sociale e complicano la vita di Corti. A Luigi XII succede Francesco I, “cavalier cortese”, grande guerriero e protettore di letterati e di artisti, fra cui Leonardo da Vinci, allievo, a Pavia, dell’anatomico Marcantonio della Torre. Per Francesco I il problema è semplice: è padrone di tutta la Lombardia, ma non ha il possesso di Pavia, dove si sono rifugiate le residue e polimorfe truppe della Lega. Al tempo stesso, Carlo V, figlio di Giovanna la Pazza a sua volta figlia di Ferdinando d’Aragona e di Isabella di Castiglia, riunisce in un unico impero i Regni di Germania, Castiglia, Aragona, Borgogna, Paesi Bassi, Napoli, Sicilia e Indie, scoperte da Cristoforo Colombo. Per Carlo V il problema è altrettanto semplice: il suo Sacro Romano Impero stringe a tenaglia la Francia di Francesco I, ma non ha il possesso della Lombardia, anche se detiene una guarnigione strategica a Pavia. Carlo V, precursore di disegni europei, possiede un impero dove “il sole non tramonta mai”; quando cala dietro Gibilterra il sole riscalda le Indie coloniali, quando tramonta fra le onde del Pacifico il sole illumina la vecchia Europa. Lo sbocco “naturale” è la guerra. La personalità dei due contendenti è di prim’ordine, ma assai differente. Carlo V è un personaggio accorto, sagace, calcolatore; è un uomo capace di attendere l’occasione propizia per sfruttare “con grandissimo profitto”. Francesco I è un personaggio magnanimo, eroico, generoso; è un uomo leale, valoroso, da combattimento frontale. Carlo V è ambiziosissimo e vanaglorioso; è un introverso che mira “solo alla propria grandezza”. Francesco I è affidabile ed umano; è un estroverso, amante delle belle arti, “aperto a qualunque eccellenza d’ingegno”. Sono di fronte un grande calcolatore, specialista in trappole, ed un uomo d’impeto, specialista da campo aperto; un imperatore manager contro un monarca di tradizione. In sostanza Carlo V è un uomo “dal pensiero ingordo”, mentre Francesco I è un sovrano “dal pensiero regale”; il primo è un tattico; il secondo uno stratega. Carlo V mangia troppo, beve a dismisura, soffre di asma e di gotta, se ne infischia dei medici. Francesco I è parco, vuol star bene, è morigerato, si occupa della salute ed ascolta i suoi medici. Anche i soldati dei due eserciti sono molto diversi. L’esercito di Carlo V è formato da feroci lanzichenecchi, truculenti e scalmanati; l’esercito di Francesco I è formato da soldati di mestiere, ordinati e disciplinati. I pavesi, nel loro animo, non fanno il tifo né per l’uno, né per l’altro, perchè non nutrono affetto né verso Carlo V, né verso Francesco I. Sotto l’incalzare degli eventi, i pavesi prendono posizione “con indifferenza più che per passione”. Qualcuno tifa per Carlo V perchè “pare la causa meno infausta”; qualcun altro tifa Francesco I per campanilismo, come la presenza di Fanfulla da Lodi, di Francesco Ferruccio e di Giovanni dalle Bande Nere, così chiamato perchè alla morte di Papa Leone X, suo parente, aveva fatto vestire di nero i suoi soldati. Dopo una serie di sortite e di scontri, i due eserciti si affrontano, tra la Torretta e Mirabello, nella battaglia di Pavia; il giorno decisivo è il 24 febbraio 1525. “Allo spuntar del sole di una precoce primavera”, nonostante i consigli negativi dei suoi generali, Francesco I ordina l’attacco. È una disfatta per il francese. II Con la battaglia di Pavia, nascono le storie leggendarie dell’onore regale (Francesco I ferito che dice ai lanzichenecchi: “Ne me touchez pas, je suis le roi!”), dell’orgoglio personale (“Tutto è perduto, fuorchè l’onore e la vita”), del vocabolo lapalissiano (il capitano La Palisse che di fronte ad un soldato morto esclama: “Prima di morire, era vivo”), della zuppa pavese (brodo, uovo, pane e formaggio) offerta da una povera contadina a sua maestà Francesco I. Terminate le ostilità, Corti rientra a Pavia, dove “si diede a professar medicina e anatomia”; il successo è straordinario “per la sua grande valentia” Corti diviene il più celebre medico del momento, non solo come insegnante, ma soprattutto per la accuratezza delle diagnosi e delle terapie. Corti viene richiesto, cioè chiamato a consulto, dove “grandi personaggi soffrono malattie complicate, croniche e tarde alla guarigione”; quella di curare il malato difficile è la vera “riputazione” di Corti. Personaggio dotto, “piacevole nel conversare”, Corti è un uomo “dal giudizio sano e naturale”; il suo grande merito è di coltivare una solida esperienza, che gli permetta di “essere di maggior utile alla misera umanità”. La situazione politica cambia ancora una volta, quando, dopo “la strepitosa vittoria degli ispanoteutonici sui franco-svizzeri, Francesco I, tornato libero dalla Spagna a Parigi, medita la rivincita. Forma un esercito di quindicimila uomini che, al comando di Odette di Foix, signore di Lautrec, nel 1527 tenta la riconquista di Pavia. La ottiene e i francesi entrano in città, dopo aver atterrato, a colpi di bombarda, le due torri e il lato settentrionale del Castello Visconteo. I soldati francesi si abbandonano, per quindici gironi, al saccheggio più sfrenato e brutale che la storia di Pavia ricordi. Accanto alle migliaia di morti, “vengono contaminate spose e fanciulle e persino le vergini sacre dei chiostri”. Case e chiese vengono depredate e distrutte; “pissidi, croci, calici e paramenti”, vengono rubati e rivenduti “a prezzo vile”. Dura poco la vittoria francese perchè, complice la terribile pestilenza del 1530, “l’esercito gallico viene richiamato in patria da bisogni più imperiosi e più urgenti”; così Pavia diviene spagnola e spagnola rimane per un paio di secoli. Corti vive in diretta l’assedio di Pavia e il saccheggio del palazzo di famiglia situato nella attuale Via Cardano. A malapena salva la pelle; accusato di essere filo-spagnolo, fugge da Pavia, riparando nel centro Italia. Corti è ormai un medico famoso e Papa Clemente VII lo chiama a Roma come suo medico personale. La stima e la confidenza del Papa verso Corti è tale che Clemente VII “lo vuole con sè come medico ed accompagnatore” nel viaggio a Marsiglia per l’incontro fra il pontefice e Francesco I. Pur lontano da Pavia, Corti si occupa “del miserevole stato in cui sono ridotti i pavesi”, sostenendo e sollecitando “una gara” per aiutare i suoi concittadini. Nel 1534 muore Papa Clemente VII e Corti rimane, per così dire, disoccupato, nel senso che viene a mancare il suo maggior protettore. Le risorse e la fama di Corti sono però notevoli e molte università se lo contendono come insegnante di medicina. Corti accetta l’offerta dell’Università di Bologna, dove insegna dal 1538 al 1541. È in questo periodo, trascorso “nella pienezza delle sue possibilità e lo studio e l’insegnamento tranquillo”, che Corti sviluppa e approfondisce una serie di argomenti medici; in pratica Corti, nel periodo bolognese, raccoglie e analizza tutta la sua straordinaria esperienza clinica. Nascono così alcuni testi di medicina che verranno adottati in tutte le principali università del tempo. La mattina del 15 gennaio 1540, Corti diviene, suo malgrado, protagonista di un evento epocale. Corti, fedelissimo a Galeno, aveva tenuto, a Bologna, cinque lezioni di anatomia, improntate allo spirito dei testi antichi. Gli studenti, di loro iniziativa, invitano Andrea Vesalio, dell’Università di Padova, “per assistere a un modo nuovo di insegnare anatomia”. L’impatto è traumatico, sconvolgente. Corti “non vede motivo per studiare il cadavere umano”, Vesalio “sostiene l’indipendenza intellettuale per lo studio dell’anatomia”; e lo scontro fra la filosofia medievale e la filosofia rinascimentale. Le dimostrazioni anatomiche avvengono nella chiesa di S. Francesco, “con quattro file di posti rialzati attorno al tavolo della dissezione”; così, tutti i duecento spettatori possono avere “una visione totale”. Vesalio dimostra di avere ragione; è Galeno ad aver torto. Corti, indignato e piccato dalla presunzione del giovane collega, invoca l’autorità di Galeno; Vesalio, implacabile, con grande coraggio, dimostra “la verità anatomica”. I membri anziani della facoltà medica bolognese lasciano l’aula in segno di protesta e “voltano le spalle al futuro”. È l’inizio della più straordinaria opera di anatomia, la Fabrica di Vesalio seicentosessantatre pagine in folio, con undici grandi tavole e trecento altre illustrazioni. Il libro, dal titolo “De Humani Corporis Fabrica Libri Septem”, solleva una serie incredibile di riserve, al punto da essere indicato da Jacobus Sylvius, vecchio maestro parigino di Vesalio, come una “oscenità piena di errori di un insolente ed ignorante diffamatore”. A quel punto Vesalio, dopo una accanita difesa, nel dicembre del 1543, e dopo l’ultima dissezione su “una bellissima prostituta”, chiude l’odiosa polemica bruciando sulla pubblica piazza III i suoi manoscritti anatomici; da quel momento Vesalio si dedica alla professione medica, convinto che l’anatomia sia la migliore ed unica base per la cura dei malati. L’astro di Andrea Vesalio, enfant terrible dell’anatomia, tramonta male; parte in pellegrinaggio per Gerusalemme e muore, senza alcuna assistenza, sull’isola di Zante, nel Peloponneso. La sconfitta anatomica non offusca la fama “pratica” di Corti, anche perchè “vi è chi dà la caccia ai grandi ingegni per il lustro della propria corte”; i ”cacciatori”, in questo caso, sono i Medici, sovrani di territorio, di cultura e di potere. Cosimo II è duca di Firenze, Papa Pio IV è un Medici, Margherita Medici sarà madre di San Carlo Borromeo; è quasi naturale che Corti passi da Bologna a Firenze, una volta divenuto medico personale di Cosimo II. Il peregrinare di Corti non finisce qui, perchè da Firenze passa ad insegnare all’Università di Pisa, che diviene il capolinea della sua carriera. Corti “scrisse molto” e poco stampò; non esiste neppure un elenco completo delle sue opere. Le pubblicazioni di maggior rilievo sono il “De curandis febribus ars medica”, il “De venae sectione”, il “Methodus dosandi ad Tyrunculos”, il “In mundini Anatomen explicatio”, il “Deseptimestri partu”, il “De prandii ac coenae modus libellus”, il “Consilium medicum”, il “De aquae bonitate”. Nel De Febribus, Corti definisce la febbre “calor, non res calida” e la suddivide in “hectica, putrida, ephemera”, per ciascuna delle quali vi è una particolare terapia come i rimedi infrigidanti, gli ossimelliti, la febotomia, i salassi e i clisteri. Curioso un suo consiglio pratico ai medici in corso di febbre: “oportet mortem praedicere ad evitandam ignominiam”. Nel commento alle lezioni del Mondino, Corti sottolinea la forma rotonda dello stomaco, la suddivisione del fagato in cinque lobi, la forma piramidale del cuore. Curiosa la segnalazione della possibilità che i calcoli della colecisti possano essere esplulsi dall’ano. Nel De venae sectione, Corti affronta i problemi del salasso, in particolare in corso di “pleuritide”, sostenendo l’utilità di praticarlo attraverso la vena ascellare del braccio destro, in alternativa alla tecnica “goccia a goccia” dai piedi. Corti giustifica la sua idea, “dimostrando che la vena azygos sbocca nella vena cava superiore”. Singolare la questione trattata da Corti “se sia meglio prescrivere il pasto principale e più abbondante a mezzogiorno oppure alla sera”. Dopo una serie di cavillosità dialettiche, Corti si avventura in numerosi “distinguo” e “dipende”; in realtà Corti deve difendersi dall’accusa di aver “agevolato” la morte di Papa Clemente VII, prescrivendogli, sia come vecchio che come convalescente, una cena ricca e pesante. Se si fanno lavori pesanti scrive Corti, ci vuole pranzo abbondante e cena leggera; se si fanno lavori leggeri, pranzo leggero e cena abbondante. In linea di principio, scrive ancora Corti, conviene fare un pasto più copioso a cena che a pranzo; questa affermazione contrasta con la Scuola Salernitana, per la quale “Ut sit nocte levis, sit tibi coena brevis”. Corti muore a Pisa, all’improvviso, intorno al 1544. La vita avventurosa di Corti narra la storia tribolata di un medico che offre ai colleghi una magistrale lezione di vita: la professionalità, come unica vera difesa dei medici e della medicina. Corti è uno “zingaro” della medicina, sempre in fuga da una città all’altra, per vicende politiche, belliche e sociali; Pavia, Milano, Pisa, Padova, Roma, Bologna, Firenze, ancora Pisa, ogni volta Corti deve ricostruire la propria vita di medico e di insegnante. In verità non è inconsueta, fra i medici, una vita nomade ed errabonda; il record, per così dire, appartiene a Thomas Sydenham, detto Ippocrate inglese, il quale nella vita cambia residenza per ben sessantasei volte. Definito “uomo d’ogni dottrina pieno, che ha messo la dritta via del medicare secondo Ippocrate e Galeno”, Corti ha l’onore di essere ricordato nelle opere di Albert von Haller e di Giovanni Alessandro Brambilla. Lo svizzero - tedesco Haller, soprannominato “il grande”, scopritore del tripode celiaco e del circolo vascolare del nervo ottico, giudica Corti come “uno dei primi anatomici del suo tempo”. Brambilla, nella sua “storia delle scoperte”, indica Corti come “uno che sapeva curar bene le malattie le più gravi e difficili ed era felicissimo nelle sue intraprese”. Molti messaggi di Corti sono ancora attuali e sono conservati in 56 lezioni, scritte a mano; fra essi vi è l’attenzione all’uso dei medicamenti “semplici o composti, dei quali Corti descrive, con straordinaria lucidità, “la facoltà e la dose”. Il granduca Cosimo I “gli fa innalzare un pomposo mausoleo” nel Campo Santo fiorentino; l’iscrizione latina è tanto lodevole quanto veritiera. Uomo colto, di grande erudizione, abile trattatista, efficace insegnante, Corti preferisce seguire la strada tradizionale e galenica delle fonti classiche, anzichè avventurarsi nelle “lusinghe innovatrici degli arabisti e dei vesaliani”. Le contorte strade del destino, conducono Corti, anatomico, medico e farmacologo, ad una straordinaria fama presso i contemporanei, ma al più completo oblio presso i posteri. IV