Untitled - Leo d`Alessandro

Transcript

Untitled - Leo d`Alessandro
Paul BOURGET
LUSSO TRAGICO
Versione elettronica curata per TT.net da G.d.A.,
per il quale si chiede un’Ave come ringraziamento.
I.
A chi legge parecchi giornali – e chi è fra voi che non abbia la triste abitudine di perdere un’ora della sua mattina od un’altra ora della
sua serata ad andar cercando sulle colonne d’una mezza dozzina di
giornali le identiche informazioni inesatte e gli stessi appassionati
sofismi e le medesime inique parzialità – non deve essere ignoto il
nome del signor Hector Le Prieux e quello della sua signora, che si
sono visti mille volte segnati sulle cronache cosiddette mondane.
Molto giustamente essi figurano l’uno e l’altra nella prima fila di
quell’ordine di persone che si suol chiamare il mondo delle notabilità
parigine: lui, un veterano della cronaca dei boulevards e delle appendici drammatiche: lei, benché sposa d’un semplice giornalista, conosciuta come una signora alla moda che dà grandi pranzi annunziati
nelle cronache dei giornali e che non perde alcuna prima rappresentazione né un’apertura d’esposizione, né, in una parola, una sola di
quelle cerimonie nelle quali sfila quell’indefinibile “tutta Parigi” sogno perenne dei provinciali e degli stranieri. Questa “tutta Parigi”,
però non è punto la società parigina: gli elementi sono troppo complessi perché quella eterogenea mistura possa mai, da vicino o da
lontano, rappresentar la nostra vera società, anch’essa con le sue esclusioni, coi suoi costumi e con la sua gerarchia.
La “bella signora Le Prieux” – come essa è ancora qualificata
malgrado i suoi quarant’anni suonati, – sarebbe certo una Régine di
un tal mondo, se una tal potestà regale si conferisse in base alla frequenza delle menzioni nei rendiconti giornalistici d’una tal quasi
quotidiana parata. Si dice invece che con l’esser celebri si è misconosciuti dalla maggior parte delle persone: questo sembra un paradosso
ma è la verità, sia per questa bizzarra celebrità parigina di cui stiamo
parlando, sia anche per chiunque altro.
Avete mai pur una volta pensato, ritrovando il nome della signora
Le Prieux nel bel mezzo del resoconto d’una festa mondana, o quello
del marito di lei messo come firma in fondo a un articolo, al bel modo come dev’essere combinata, in mezzo al turbine della vita, una
coppia come quella costituita dai coniugi Le Prieux.
Se ciò è avvenuto, io scommetto che alcuna di queste visioni si è
svolta dinanzi ai vostri occhi.
Voi immaginate certamente che lui sia modellato sul tipo leggendario del marito boulevardier: un marito, cioè, d’una mediocre fedeltà, amante più o meno della bella vita, giocatore, spadaccino, sempre
pronto a far tardi la sera o dietro le quinte dei teatri di secondo ordine
o in qualche bisca.
Voi anche vedete lei, tagliata sul modello non meno leggendario
della parigina dei romanzi eleganti, vaporosa fino al limite estremo,
quando non è civetta anche fino al limite estremo.
Voi potrete creder tutto di loro, all’infuori che il brillante zingarismo, in cui vive quella coppia da loro formata, possa associarsi legittimamente all’idea d’un focolare domestico e d’una famiglia. Ragionando però in questa maniera – ed è la sorte che tocca a quasi tutti i
ragionamenti che si formano sopra una base ampia e generale – voi
avete allo stesso tempo torto e ragione.
V’ingannate sulle persone, poiché Hector Le Prieux, nonostante
che sia giornalista, è pur sempre il miglior marito che mai un burbero
borghese abbia potuto augurarsi per la propria figliola; e la signora
Le Prieux, sotto il punto di vista dell’onestà, è pur sempre la più irriprovevole di tutte le donne.
Voi siete nel vero solo nel principio, solo sulla mite probabilità di
seria felicità che, praticata in condizioni simili e in mezzo a un tal
centro, possa offrire una vita coniugale. La coppia Le Prieux riposa,
infatti, sopra un’anomalia, che bisogna ora spiegare, perché possa
esser compreso il dramma sentimentale di cui, tanto queste prime riflessioni, quanto quelle che ora seguiranno, formano il prologo lungo
sì ma ben anche necessario.
D’altronde raccontar la storia di questa coppia è come voler dare
alla relazione d’un semplice aneddoto il suo giusto valore di sociale
insegnamento. La situazione reciproca della signora Le Prieux e di
suo marito non ha nulla a vedere con la professione alquanto eccentrica di quest’ultimo. Supponete pure se volete che egli fosse per esempio in mezzo alla industria e al commercio di Borsa, coi sessanta
o settantamila franchi all’anno che gli dovrebbero bastare a quietare
le sue gravi necessità di giornalista arrivato alla mèta, non per questo
varierebbe la singolarità dei rapporti imperanti fra lui e la sua donna.
Questa strana coppia la cui piaga divorante, come si vedrà, è quella malattia tutta propria della società presente, quella fatale, quella
passionata cura del lusso, non è veramente eccezionale che solo per
alcune circostanze. Il desiderio di brillare fino all’estremo dei propri
mezzi, il bisogno di sorpassare tutti gli altri del proprio ceto, la necessità di rendersi uguali sempre e in tutto, nella maniera di vivere e
nel contorno e nei piaceri, a coloro che ci stanno al di sopra, è forse
altra cosa se non un particolar caso della nostra democratica degenerazione?
Ad usar formule così gravi si prova quasi scrupolo quando si tratti
di un’avventura abbastanza comune e di persone le quali, di per loro
stesse, si ritengono esseri semplici. Ma, riflettendoci bene, ci accorgeremo che i più vasti movimenti di costumi che la storia registra, in
fondo, non escono fuori dall’ambito delle più semplici cose: tutto
non è che una somma indefinitamente ripetuta di minuscole abitudini
individuali, allo stesso modo che un’immensa marea altro non è che
la spinta in avanti di molti miliardi di minuscole onde.
Al momento in cui ebbe il suo principio il dramma al quale ho accennato e che ora mi accingo a raccontare, cioè nel gennaio del 1897,
i Le Prieux erano uniti in matrimonio già da tredici anni; poiché Hector – che allora si chiamava semplicemente Leprieux, con
l’ortografia da lui usata prima dell’epoca in cui diventò un personaggio mondano – aveva sposato la signorina Mathilde Duret
nell’autunno del 1874.
Quel matrimonio fu celebrato in modestissime condizioni e tali
che non avrebbero mai fatto prevedere le future eleganze della signora Le Prieux – dal cognome diviso in due parole. Avevano fatto un
breve cenno della cerimonia soltanto i due giornali nei quali lo scrittore collaborava. E la descrizione di un tale annunzio era stata così
voluta dallo stesso Hector, desideroso di evitare qualsiasi allusione al
disastro ancora recente che aveva colpito il padre della sua fidanzata.
Tanti fatti poi della medesima specie sono da allora avvenuti col passare del tempo!
Nessuno certamente ora si ricorda di quell’audace Armando Duret
che, il giorno avanti e il giorno dopo alla caduta dell’impero, prese a
lanciare una quantità di speculazioni vaste od arrischiate, organizzando anche il famoso Credito dipartimentale e ostentando un lusso
che aveva quasi dell’insolenza, che fondò una quantità di giornali e
finì sommerso sotto uno scandalo immenso, da cui fu precipitato nella rovina e spinto infine al suicidio.
La vedova e la figliola di quello speculatore fallito avevano appena, dopo la morte di lui, potuto raggranellare una rendita di quattromila franchi, tanto da non essere costrette a morir di fame: e con quel
danaro una piccola quantità di mobilio che era sfuggita alle unghie
degli uscieri.
Hector, da parte sua, per la collaborazione a cui ho di sopra accennato, poteva contare sopra un guadagno annuo di cinquemila
franchi. E il conto è presto fatto: in uno dei due giornali egli occupava il posto di cronista giudiziario, il quale gli fruttava uno stipendio
annuo di 2400 franchi: nell’altro giornale egli firmava una serie di
corrieri bisettimanali che, pagati a 25 lire l’uno, gli fruttavano alla
fine dell’anno altri duemilaseicento franchi.
Aveva anche tre piccole tenute mantenute a mezzadria nel Bourbonnais, che rappresentavano la parte meno aleatoria ma anche la più
magra delle sue rendite: considerando un anno per l’altro, esse gli
fornivano circa 900 franchi di frutti. Queste cifre sono bastevoli a far
comprendere come la giovane coppia decidesse subito di far vita comune con la madre. Tanto più che le due donne riuscirono facilmente
a dimostrare allo scrittore, profondamente ignaro delle faccende della
vita materiale, che con quella combinazione di famiglia unita si poteva raggiungere una grandissima economia.
La vedova Duret aveva anche insistito sulla necessità che
s’imponeva di non spendere sull’acquisto di nuovo mobilio. Hector,
fino al giorno del suo matrimonio, aveva abitato una camera ammobiliata in un albergo di via dei Martiri, in prossimità dei due uffici di
giornali ove egli collaborava.
– La mamma è così buona! ella mi cederà il suo salone per una
giornata di ricevimento… – aveva detto Mathilde, mentre invece da
quella semplice frase egli avrebbe dovuto comprendere quale fosse il
concetto che dell’avvenire in comune la sua fidanzata s’era formato
nella mente.
Ma come il giovane scrittore, che non conosceva il valore di nulla, poteva comprendere l’accordo dei caratteri che è così difficile?
Orfano di padre e di madre, non aveva avuto nessuno che avesse potuto indicargli anticipatamente la parabola del suo avvenire coniugale, insegnandogli anche come dai più piccoli errori di tattica commessi all’inizio del matrimonio sarebbero potute derivare le più gravi
conseguenze.
Tutto aveva contribuito a far di lui il marito schiavo, come, anche
senza accorgersene, doveva poi rimanere per tutta la durata della sua
vita; tutto, ripeto: la stessa solitudine in cui era cresciuto, la sua educazione, la forma del suo spirito e la forza della sua educazione, fin
anche la sua razza e l’indole ereditaria del suo temperamento, che
tanto è più forte quanto meno noi ci curiamo di prenderne conoscenza.
Ho detto già che Le Prieux – manteniamogli pure la seminobiltà
di questo suo nome diviso in due parti – era oriundo del Bourbonnais. Il solo nome, del resto, ne indica facilmente la provenienza. Nel
dialetto della Francia di mezzo, ancora al giorno d’oggi si chiama
prieux o samoneux il bel parlatore il quale si prende l’incarico
d’andar di porta in porta a far garbatamente gl’inviti per le feste nuziali. Questa parte di messaggero campestre fu forse, nel passato, sostenuta con particolare entusiasmo da qualcuno degli antenati di Hector? I modesti archivi di Chevagnes, dove Hector ebbe i suoi natali,
non dicono nulla: essi attestano invece che i Le Prieux sono conosciuti a Chevagnes da parecchie generazioni sotto questo curioso
nomignolo che poi è diventato il loro regolare cognome. Essi debbono realmente aver vissuto là da tempo immemorabile, poiché il loro
discendente con la sua testa più larga che lunga, con la fisionomia
quasi piatta terminante in un mento assai rotondo, coi suoi capelli lisci che rimanevano castani nonostante lo spolveramento argentino
dell’età, con gli occhi scuri, l’incollatura taurina, le spalle orizzontali, il torace ampio, la vita corta e tutta la persona alquanto tozza, presentava il perfetto tipo del contadino celta che, all’epoca
dell’invasione di Cesare, abitava quella parte di Francia.
Là è una razza autoctona, i cui tratti morali sono rimasti sempre
identici attraverso la storia: un’intelligenza alacre senza però il sussidio d’una immaginazione accesa, una volontà paziente ma senza iniziativa – ciò, per esempio, che gli scienziati moderni sogliono chiamare lo «spirito gregario” – l’idea di non voler mai agire da soli e
quasi anche il bisogno di essere guidati. Sembra che possa essere un
poco ardito il voler generalizzare tali forme caratteristiche: pure gli
annali dell’Alvenia e del Bourbonnais sono là per provare la giustezza di tale generalizzazione. Per ciò poi che riguarda questa seconda
provincia – e ne parliamo, dal momento che noi stiamo qua discorrendo d’uno dei suoi più umili figlioli – si vede come l’elemento cel-
tico abbia sicuramente impresso alla sua storia una evidente unità.
Durante la lunga durata del medioevo, quando la locale indipendenza
permetteva un più libero sfogo alle forme originali, che cosa è di là
uscito? Nessuno o pochi uomini d’arme; nessuno o pochi uomini
d’arte: proprio come se la razza ripugnasse da quanto d’eccessivo è
necessario perché possa formarsi un essere geniale. Invece innumerevoli uomini prudenti ne sono usciti, e gente di legge o di chiesa.
Quando si ha in sé tanto del proprio paese quanto Hector Le
Prieux aveva del suo, le qualità e i difetti del paese di origine ricompaiono sempre, anche quando si vive in mezzo a un ambiente e si esercita una professione che, si suppone, siano diametralmente opposti
a questa influenza del suolo avito.
Rileggete ora una delle appendici drammatiche di Hector Le
Prieux o uno dei suoi corrieri parigini e vi riconoscerete subito prudenza di spirito e mitezza di idee, giudizio e timidezza, un’esattezza
senza slanci ed una saviezza tranquilla. Si tratta d’un ingegno che,
troppo presto, ha cessato d’osare; si tratta d’un carattere che, troppo
presto, s’è sottomesso.
Però se questa ereditaria passività dello spirito può spiegare come
la direzione della famiglia di Hector dovesse subito essere afferrata
da sua moglie, pure un problema ci si presenta, la cui soluzione occorre sia fatta prima che pienamente si offra ai nostri occhi questa
superiorità presa dalla signora Le Prieux su tutte le azioni e i fatti
della vita di suo marito.
Perché mai costui, con la sua innata mancanza di spirito
d’iniziativa, in mezzo a tanto numero d’impiegati ufficiali e sicuri, a
stipendio fisso e con la prospettiva della pensione, che si offrono innanzi alla vita d’ogni individuo pecorone dei nostri giorni, ha scelto
invece la carriera più avventurosa, la più feconda di casi imprevisti,
la meno conforme al prudente aire della nostra borghesia? Ma anche
in ciò il nostro giovane amico, allorquando appunto pareva dar prova
e di audacia e di originalità, non aveva invece dato prova se non di
docilità all’influenza che subiva e di poca fiducia nelle proprie forze.
Ed ecco come.
Il più inatteso caso volle che il padre di Hector, domiciliato a
Chevagnes nella sua qualità di medico, rinnovasse una antica conoscenza al vicino stabilimento termale di Bourbon Laucy – che è assai
prossimo e Chevagnes – con uno dei suoi antichi compagni
d’università, dimorante vicino a Nohant e che prestava le sue cure a
Georges Sand. L’amico ritrovato fu invitato a passare qualche giorno
a Chevagnes e parlò assai della sua illustre cliente davanti al nostro
Hector, il quale allora stava compiendo il suo corso di retorica al liceo di Moulins e, come tutti i giovani della sua età, faceva anche dei
cattivi versi. In seguito a quei discorsi, il giovanotto appassionato
ammiratore di Lelia e d’Indiana, mise in atto la prima ed ultima arditezza della sua vita. Egli osò scrivere alla buona signora di Nohant
un’epistola, nella quale domandava all’illustre scrittrice qualche consiglio sopra alcune sue idee di religione!
Con quell’ammirevole facilità di scrivere che la Sand conservò
fino all’ultimo e malgrado l’abbondanza dei suoi lavori, ella rispose
allo studente. Ella non dubitava certo che le quattro pagine di quella
sua lettera scritta con quel suo grande carattere rotondo e alquanto
rovesciato, come ella usava in quei suoi ultimi anni, avrebbero esercitato l’influenza più funesta sull’avvenire di quel suo improvvisato
corrispondente.
Egli tornò a scrivere e, fatto questa volta più ardito, le mandò dei
versi. La buon’amica di Alfredo de Musset s’intendeva di poesia
presso a poco come s’intendeva di politica: ma, per contrapposto, sapeva a perfezione mettere insieme un romanzo: ed ella ne preparò
subito uno intorno al giovane verseggiatore provinciale, unicamente
perché questi era riuscito a coprire di strofe assai mediocri una pittoresca leggenda locale. Ella lo vide come l’inauguratore in Francia di
quella poesia rusticana di cui aveva sempre vagheggiato l’idea. Lo
incoraggiò quindi coi suoi elogi; elogi imprudenti e dannosi, di cui
purtroppo non sono avari tutti gli artisti che hanno raggiunto la gloria.
Essi, fatalmente, non sanno misurare la portata del fascino che esercitano sulla immaginazione dei principianti. Poi una breve permanenza a Nohant, dove Hector fu accolto con la più spinta cordialità,
finì di far girare la testa, al giovanotto, che credette sinceramente al
suo avvenire di poeta.
Il risultato di tutto ciò fu che, all’uscire dal liceo, Hector, invece
di seguire il corso di medicina come desiderava suo padre, chiese di
seguire il corso di diritto: egli vedeva in questa ultima via
un’occasione a studi meno aridi e che meglio si accordavano coi suoi
desideri segreti.
In seguito, mortogli il padre, Hector, rimasto orfano e libero della
sua fortuna – poiché aveva perduto la madre quando era ancora in
tenera età – cercò di realizzare quanto più presto poté il capitale della
sua famiglia, modestissimo, del resto, come poteva esser quello di un
tranquillo esercente di Chevagnes. In quella prima fuga di future speranze, le tre tenute, che dovevano poi in appresso costituire la parte
solida della sua possessione, non furono sacrificate solo perché egli
fu nella impossibilità di annullare gli affitti.
Egli abbandonò anche gli studi di diritto che aveva cominciato a
Digione e lo scolaro di Georges Sand andò a Parigi per condurvi la
vita di candidato alla gloria della letteratura.
La partenza del “ragazzo Le Prieux” produsse realmente un grande effetto in quell’angolo provinciale di Chevagnes dove il defunto
dottore contava tanti pretesi parenti, vale a dire altrettanti clienti gratuiti quanti casali sono sparsi nella circostante campagna.
Ciò avvenne nel 1865. E la conseguenza fu quella che già voi avrete immaginato: ancora una volta Icaro consunse, al fuoco della
realtà, la cera delle sue ali imprudenti.
Nel 1870 all’epoca della guerra, durante la quale Hector fece bravamente e semplicemente il suo dovere, egli aveva pubblicato a sue
spese due volumi di versi: Ramoscelli di ginestra o Sonetti campestri
oltre a un romanzo: Il rossignolo, dal nome che in dialetto del Bourbonnais si suole dare ai bovi dal pelame rossiccio. Tutta questa roba
era affogata in quel colore di provincialismo rusticano che gli scrittori sbarcati a Parigi non abbandonano, onde mostrarsi sempre, in
qualche modo, appartenenti al loro paese. Le tre opere, in media, si
erano vendute a un centinaio di copie. Intanto però il nostro autore
aveva imparato a sue spese tutto ciò che di brutale positivismo,
d’implacabile vanità e di calcolo ignobile si nasconde sotto le pompose dichiarazioni o sotto i fantasiosi paradossi della bohème artistica.
Passando per ricco – e, per ragion di confronto, essendo realmente ricco – in mezzo alle riunioni del Quartiere Latino e ai cenacoli di
Montmartre, dove naturalmente lo condussero le sue aspirazioni letterarie, il provinciale dovette subito far conoscenza con le numerose
varietà di quel sistematico sfruttamento che, in linguaggio di caffè, si
nasconde sotto il nomignolo allegro e famigliare di “scapaccione”.
Egli era stato l’amico compiacente il quale non riesce ad entrare
in un caffè senza che non vi siano cinque o sei persone le quali corrano ad assidersi intorno a lui per intavolare lunghe e alte discussioni
d’estetica; pronte ad allontanarsi poi, appena è venuto il momento di
pagare il conto degli innumerevoli bicchieri di birra, i cui piattini si
alzano a pila uno sopra l’altro in monumentali colonne; e il giorno
appresso, appena pone la mano sopra alla maniglia della bussola per
entrare nello stesso caffè, da quegli stessi sottili esteti della vigilia si
sente colpire con un «non val nulla” dedicato alla sua opera e alla sua
persona e che gli entra dentro al petto come una lama di pugnale a
martirizzare il suo amor proprio.
Le Prieux era stato anche lo sciocco che compra venticinque scudi
d’azioni d’una rivista destinata a difendere i giovani e che poi ritrova
nelle pagine di essa un articolo pieno di allusioni crudeli, attraverso
alle quali egli riconosce se stesso, ed ha così il dolore d’aver pagato
il proprio massacro morale come un altro paga i suoi elogi. Egli era
stato anche – e non una volta sola, ma venti, ma cinquanta volte – il
Mecenate, prima commosso e poi intimidito, che comincia con
l’aprire la propria borsa ai letterati mendicanti di professione e che
poi, al primo rifiuto che si oppone, si scontra nell’oltraggio canagliesco di coloro al cui ozio egli non vuol cooperare… Ma a che scopo
enumerare ora tutte queste così comuni e così volgari miserie? È una
fortuna vera quando chi le attraversa riesce ad uscirne senza pervertire la giustezza del proprio senso sociale.
Fortunatamente, mentre Hector vanamente e pretenziosamente si
sforzava di rendere quella poesia della terra nativa, che egli aveva
avuto il torto d’abbandonare, la forza della sua terra, ad insaputa di
lui, lavorava dentro le sue fibre. L’astuta prudenza, dei suoi avi paesani gli faceva interpretare rettamente quelle strane esperienze: ed
egli, per la forza d’un oscuro ma irresistibile istinto di conservazione,
ne traeva una vista precisa delle condizioni, in mezzo alle quali avrebbe dovuto condurre la sua vita e cercare d’indovinare il mezzo
più sicuro per accomodarvisi dentro.
Sotto la tenda e sulla terra tedesca, dove fu condotto prigioniero,
egli aveva fatto molte serie riflessioni. Vedendosi giunto, senza nessun pratico risultato, alla fine del suo piccolo capitale, egli comprese
che il suo sogno di gloria altro non era che una semplice chimera.
Egli si credé romanziere e, conservando in sé una segreta compiacenza per i suoi scritti di gioventù, accettò di ritardare la realizzazione del suo ideale. Egli si vedeva a venticinque anni, senza titoli e
senza protezioni, senza aver intrapreso una carriera qualunque. E disse a sé stesso che bisognava almeno utilizzare i suoi primi sforzi, e
che, mestiere per mestiere, la letteratura ne valeva ben un altro, allorchè fosse esercitata con le debite disposizioni: cioè lavoro assiduo ed
esattezza, qualità che sono necessarie in ogni professione. Dopo tutto, un gran giornale non è altro che un laboratorio commerciale il
quale esige una data qualità di lavoro positivo, eseguito regolarmente: Hector risolvette di voler esser un buon operaio di uno di quei laboratori, e mantenne la parola.
La sua prima cura fu di profittare della dispersione forzata dei
gruppi letterari, dei quali più o meno egli aveva fatto parte, per isolarsi da quasi tutti i suoi antichi disegni. Poi ricordandosi di essersi
iscritto alle lezioni di diritto, egli ebbe il coraggio di completarle per
potersi poi presentare al tribunale e là giunto cercare un posto di cronista giudiziario in qualche gran foglio alla moda. Egli vi giunse
mercé l’opera di un suo antico compagno di caffè, il quale dopo aver
ben bene ragionato era anch’egli entrato a far parte della stampa.
L’esattezza con la quale egli prese a portare il suo manoscritto, la
precisione e la chiarezza nella seria esposizione dei fatti narrati, la
gaiezza del suo carattere lo fecero ben presto apprezzare
nell’ambiente di quel primo giornale.
Il redattore-capo parlò di lui al proprietario del giornale – il quale
non era altri che Duret – con parole piene di sincera lode.
Costui ambiva circondarsi di buoni lavoratori e di bravi segretari,
che gli fossero collaboratori intelligenti nella fortuna politica ch’egli
contava formare sulla sua fortuna finanziaria. Perciò volle conoscere
Le Prieux. Ed ecco come Hector entrò, essendo giornalista di nessuna importanza ed appena stipendiato, nel palazzo principesco che
Duret possedeva allora in via Friedland.
Poco tempo dopo, lo speculatore si uccideva nelle tristi circostanze già note al lettore, cioè in seguito alla completa rovina del Credit
Departemental.
La vedova e la figlia furono ben felici di trovare nella spaventosa
confusione di quella rovina, la devozione del modesto collaboratore
giudiziario, il quale offrì loro i suoi servizi col fervore di
un’ammirazione passionale per la bella ed infelice Mathilde.
Il resto s’indovina facilmente: e l’intimità crescente, e la passione
del giovane, sul principio intimidito fino a non osare nemmeno di nutrire la speranza di piacere, e la tenera riconoscenza delle due donne,
e la gioia quasi paurosa dell’innamorato avanti alla prospettiva ad un
tratto scoperta di una possibile unione, ed il seguente idillio innocente e delizioso, il ricordo del quale faceva battere il cuore dello scrittore, invecchiato dopo un quarto di secolo, come s’egli fosse ancora il
giornalista di ventinove anni che sorvegliava il trasporto della sua
roba e dei suoi libri nell’appartamento della suocera, un appartamento molto triste, sul cortile, in cima alla via Rocher, non osando ancor
di credere alla realtà della sua felicità!
II.
Infatti il primo periodo di quella unione, per Hector, completamente ed assolutamente felice, durò circa sette anni. E fu in quel periodo che si stabilì la reputazione del giornalista, e durante il quale la
signora Le Prieux si formò un concetto del lavoro di suo marito, che
doveva poi tristemente influire sul loro avvenire comune. Mathilde
era una di quelle donne, la cui mancanza straordinaria d’intelligenza
ed il nobile volto offrono un tale contrasto che sconcerta
l’osservatore senza ch’esse abbiano alcun bisogno di dissimulare,
soprattutto se quell’osservatore le ama.
Sua madre era oriunda di Aix in Provenza ed usciva da una buona
famiglia di là; suo padre era il figlio di un piccolo commerciante del
Nord. Quelle mescolanze di sangue tanto frequenti nelle famiglie
moderne, e a cui nessuno oggi più bada, danno spesso il risultato di
una eredità di tendenze contraddittorie le quali si paralizzano equilibrandosi.
Da quel padre Mathilde aveva ereditato la tendenza al lusso, un
egoismo implacabile e quel fondo d’insensibilità che distingue i giocatori d’ogni razza e specialmente quelli appartenenti alla Borsa.
Dalla famiglia di sua madre ella aveva preso l’ammirabile tipo meridionale che, quando è purissimo, assume la finezza e le eleganze di
un medaglione greco.
Ella aveva gli occhi profondi, ardenti, e scuri sopra una carnagione di un bianco d’avorio. La fronte piccola e rotonda si ricongiungeva al naso per mezzo di quella linea quasi dritta che dà un aspetto
tanto nobile; e la sua testolina lasciava indovinare, sotto i folti capelli
neri, quella forma d’un ovale allungato dove si perpetua la razza di
quel pieghevole e minuto dolicocefalo bruno, lodato dagli antropologi.
Ed aggiungete a tutto ciò una fila di denti piccoli e belli fra due
labbra che sembravano tagliate con la forbice, talmente esse erano
ben delineate, – un mento diviso da una fossetta e solidalmente formato, una linea di collo degna di una statuetta di Tanagra, la nuca
graziosamente rotonda, le spalle ed il seno di Diana, la vita alquanto
alta ma ben fatta, le mani e i piedi da bimbo, e quella graziosa maniera d’incedere che le donne di Arles hanno reso celebre.
Qualunque sia la posizione sociale in mezzo a cui la fortuna si
compiace di lanciare una creatura così meravigliosamente dotata dalla sovrana Bellezza, essa non ha che comparire per esercitare su tutti,
anche senza il lenocinio dell’acconciatura, un fascino irresistibile. E
per un anima già incline per istinto all’abuso della personalità, nulla
v’ha di più dannoso. L’eccesso della continua ammirazione nelle
donne che ne sono oggetto rapidamente abbatte ogni capacità di giudizio. Avviene ad esse ciò che avviene ai principi troppo adulati ed
agli artisti troppo glorificati.
Tali vittime del proprio successo finiscono col far del proprio “Io”
il centro del mondo con una ingenuità che è allo stesso tempo sciocca
e feroce.
Questa “autorità” aveva in Mathilde la scusa che la natura le aveva interamente negato lo spirito altruista; – facoltà che, del resto, è
molto meno comune di quel che si creda – il potere cioè di conoscere
il cuore degli altri, di capirne le idee, d’afferrarne tutte le gradazioni
della sensibilità.
Dietro quella fiera e nobile maschera di antica dea si nascondeva
quella specie di sentimento animale che è così comune nella gente
del Mezzogiorno, e che si può chiamare il “pensiero di sé stesso”.
Mathilde era stata commossa dalla devozione di Hector, senza scorgere il principio segreto, la nobile pietà di quel poeta, tanto più poeta
in azione, quanto meno lo era nell’arte.
Ella aveva trovato naturalissimo quel trionfo della propria bellezza e, consentendo a divenire la signora Le Prieux, aveva veramente
creduto di far cosa gradita a sua madre, la quale, molto più ragionevole ed anche molto più sensibile di lei, aveva insistito con tutte le
sue forze in pro di quell’unione.
La signora Duret era stata veramente toccata al cuore da quel tesoro di abnegazione che ella aveva indovinato nell’innamorato di sua
figlia. Illuminata da una crudele esperienza, ella aveva riconosciuto
in Hector tutte quelle qualità precisamente opposte a quei difetti, che
avevano spinto il marito di lei verso il precipizio della catastrofe orrenda.
Ella aveva supplicato la figlia d’accogliere quel protHector sicuro, e questa aveva risposto “sì”, giustificando ai suoi occhi l’onestà
di quell’unione nell’immolazione che faceva alla felicità della madre.
Nonostante che i guadagni del fidanzato fossero ben modesti, pur
la loro unione avrebbe portato la loro rendita da quattro a diecimila
franchi, quanto occorreva cioè per prendere una cameriera di più e
sollevare la buona mamma d’una gran parte delle cure di casa.
Al momento del suo matrimonio Mathilde non aveva sospettato
affatto il dramma intimo che s’era già svolto nello spirito
dell’aspirante poeta, divenuto un manovale della prosa, né i desideri
segreti che Hector nutriva ancora traverso all’arduo lavoro mercenario, per raggiungere la mèta di una qualunque opera d’arte, una raccolta di versi, un volume di novelle, un romanzo.
Nemmeno adesso ella ne sospettava alcunché. Dopo più di
vent’anni di unione, durante i quali non erano avvenute altre scene,
all’infuori di quelle che formano la materia di questa narrazione, Mathilde si credeva sempre la sposa più irriprovevole e più fedele.
Ella s’inorgogliva d’aver “formato la posizione” di suo marito: il
che, in fondo, altro non significava se non l’obbligo di dover mandare nel mese di gennaio quattro o cinque centinaia di carte da visita.
Ed ella sarebbe morta senza sospettare d’aver immolato il più raro ed
il più delicato dei cuori umani, alla più egoistica e alla più meschina
di tutte le vanità: quella cioè di voler tenere il posto di donna alla
moda e d’esser citata nei resoconti dei giornali mondani, di cui sopra
ho parlato, coll’appellativo di “la bella signora Le Prieux”. Forse voi
non avrete più la tentazione di sorridere davanti a quest’appellativo,
quando avremmo finito questo studio e potrete sapere a quali reali
miserie esso corrisponda.
Bisogna ben dirlo: Hector durante la prima fase del suo matrimonio prese a godere, prima che a soffrire, di una tal vanità. È cosa rara
assai che le tragedie di famiglia non abbiano per primitivi complici
coloro stessi che ne debbono essere i martiri. Sono i genitori, e i mariti, e le madri, e le spose che cominciano a sviluppare nei loro figli,
o nel loro parenti, quei difetti di cui più tardi saranno essi stessi i
primi a dolersi amaramente. È ben vero che, sul principio, tanti difetti non sembrano che grazie. La menzogna comincia coll’astuzia, la
civetteria col desiderio di piacere, l’ipocrisia, col contegno e così tutto il resto.
Durante i suoi primi anni di matrimonio, Hector vide che ogni cosa deliziosamente s’andava armonizzando nell’interno della casa sua
e intorno alla sua vita, in modo che la bellezza della sua giovane spo-
sa ne brillava pienamente. Come mai egli non avrebbe goduto di
moltiplicare allegramente le sue fatiche, anno per anno, mese per
mese, pur di moltiplicare i primi diecimila franchi di rendita del suo
lavoro?
Tanto di gioia gli causava il permettere a Mathilde quelle piccole
raffinatezze che sono così naturali in una creatura giovane e bella,
quanto di brutalità gli sarebbe parso a privarnela. Fra un cappello da
venticinque lire e un elegante cuffietta da tre napoleoni; fra un abito
da centocinquanta franchi, ed un modesto abbigliamento di trecento;
fra una giacchetta e un paio di scarpine prese belle e fatte, ed un ricco mantello e un paio di stivalini d’un passabile tagliatore, la differenza di materia e di forma è immensa mentre quella del costo è così
piccina, o almeno tale doveva sembrare la differenza ad un marito
innamorato alla follia e per il quale le cifre del dispendio coniugale
erano così compendiate: – Mille e duecento lire di più all’anno per la
toilette, il che significava ventiquattro articoli di più all’anno a cinquanta lire l’uno, o anche quarantotto a venticinque, vale a dire uno
in più alla settimana: e ciò era un nulla. Non era infatti passato più di
un anno dalla sua unione con Mathilde, che lo scrittore aveva aggiunto al suo lavoro due corrispondenze settimanali a due grandi giornali
della provincia.
I tea-gowns della signora Le Prieux erano quindi assicurati, senza
che ella minimamente si accorgesse di quell’aumento di spese. Ora
voi converrete che per i tea-gowns occorre necessariamente un salotto in cui poterli mettere in mostra, e per il salotto occorre un “giorno”
– quel giorno appunto di cui Mathilde aveva tanto parlato al suo fidanzato. Il “giorno” a sua volta ha bisogno di un domestico per aprir
la porta, di fiori per adornare i vasi, di pasticcini per il tè o il cioccolato, e di lampade per illuminare l’ambiente. Una quantità insomma
di spese sulle quali Hector si sarebbe ben guardato di lesinare, tanto
più che egli era vittima di una strana illusione retrospettiva.
Durante il tempo del suo fidanzamento, quando egli nel povero
appartamento di via Rocher ritrovava alcuno di quei mobili che avevano figurato nel palazzo dello speculatore milionario, egli aveva
provato una specie di tenerezza vicina al rimorso e quel rimorso ora
continuava nel tempo del suo matrimonio. Gli pareva che Mathilde,
sposandolo, gli sacrificasse interamente la possibilità di riavere quelle splendide cose; gli pareva che quel passato lussuoso desse alla
giovane donna il diritto di godere d’una vita più ricca, più elegante e
più conforme alle sue consuetudini primitive.
Un simile ipnotismo esercitavano su Mathilde quei mobili e quei
gingilli, avanzi della sua passata esistenza – un passato del resto tanto recente che faceva a lei sembrar come un sogno quella caduta giù
dall’olimpo delle sontuosità.
Il miraggio della perduta ricchezza, vera malattia mentale della
gente precipitata in rovina, agiva in lui senza che ella se ne accorgesse. E quella, senza che ella appunto lo sospettasse, doveva essere
l’idea, direttrice di tutte le sue azioni e di tutti i suoi pensieri, e che a
poco a poco l’avrebbe condotta a realizzar la parvenza, o meglio una
parodia di ciò che sarebbe stata la sua vera esistenza, se non fosse
avvenuto il fallimento del padre.
Tutte le prime piccole soddisfazioni concesse a quella nostalgia
del passato si tradussero in piccole spese di casa le quali, l’una per
l’altra, rappresentarono per Hector un nuovo dispendio d’oltre un
migliaio di lire all’anno. Quasi subito però l’occasione di raddoppiare i suoi cespiti gli si offerse: un periodico illustrato gli propose un
compenso di cento lire alla settimana per una cronaca da lui scritta e
firmata con uno pseudonimo; ed egli scelse lo pseudonimo di Clavaroche.
Il domestico ebbe allora una livrea; i fiori e i pasticcini “del giorno” di Mathilde furon presi in un negozio di prim’ordine: le lampade
furono aumentate, e ricambiate le stoffe dei mobili; tutte queste eleganze naturalmente dovevano far arrivare a un indispensabile cambiamento di domicilio.
Dalla malinconica via Rocher i mobili tentatori, e i panneggiamenti cattivi consiglieri, e i gingilli sovraccarichi di ricordanze, emigrarono in una civettuola palazzina di via Viette, sulla spianata Monceau. Un nuovo impegno – questa volta quotidiano, l’invio cioè di un
centinaio di linee ogni sera a un giornale francese di Pietroburgo –
compensò bene quell’aumento di fitto. – E che mai sono cento linee
di scritto, quando currenti calamo si tratta di riassumere per lettori
stranieri le piccole notizie che, naturalmente, si annusano nell’aria di
Parigi? Quindi né Hector né sua moglie si accorsero affatto di quel
nuovo aggravamento di lavoro.
Due avvenimenti però molto seri impedirono, durante questo periodo della sua vita, che la coppia Le Prieux si spingesse troppo avanti per quella dispendiosa via della falsa mondanità parigina.
Uno fu la nascita di una bimba, a cui fu posta il nome di Régine,
rinnovando in lei quello della nonna Duret: l’altro fu appunto la morte della signora Duret, che avvenne dopo gli spasimi d’una malattia
terribile – un cancro al seno.
Le lunghe permanenze in casa, primieramente imposte a Mathilde, dalla gravidanza e dal puerperio che fu alquanto penoso, quindi
dalla malattia di sua madre, e infine il lutto per la morte di essa, non
le permisero di allargare il cerchio delle sue conoscenze.
Queste allora non erano molto numerose. Usciti ambedue da famiglie di provincia, né lei né suo marito avevano intorno quel cerchio di conoscenze, che tanto nella minuta borghesia, quanto nella
più alta aristocrazia è costituito dalle affinità. Inoltre né Hector, nel
povero inizio della sua vita letteraria, né il defunto Duret, con la lussuosa esposizione della sua ricchezza tanto rapidamente acquistata e
anche tanto più rapidamente perduta, erano riusciti a crearne intorno
una loro propria società.
L’imprenditore d’affari non aveva avuto alle sue feste sfarzose
che invitati di occasione, i quali poi si dispersero collo sparir dei milioni: a Parigi infatti sono centinaia e centinaia di questi semiparassiti
che il pettegolezzo mondano riconosce col nome enigmatico di boscards, i quali sono come un corteggio in disponibilità al servizio di
ogni fortuna la quale possa sopportare pranzi da diciotto coperti, cacce, balli ricchi di doni e palchi di abbonamento all’Opera. Tali boscards di professione sono o grandi signori, più o meno rovinati, in
cerca di una partecipazione agli utili altrui, o artisti intriganti alla
caccia di un’ordinazione di busto o di ritratto, o affaristi in abito e in
panciotto bianco che annusano un fruttuoso tramenìo, o anche stranieri di dubbiosa provenienza, travestiti da gentlemen con una correttezza alquanto decorativa. A questa serie di gente è da aggiungere un
lungo ordine di donne compromesse a metà, d’avventurieri di circolo, e infine di praticissimi epicurei i quali in fondo si contentano solo
di un buon pranzo, di un sigaro prelibato, di vini fini o, quand’è la
stagione, d’un bel colpo di fucile sopra una torma di fagiani, a cui
non sono state certo risparmiate le uova di formica.
Questo popolo di parassiti si divide in squadre diverse di più o
meno fine qualità, a seconda del posto che nel mondo occupa la ricca
persona che si vuol boscarder.
La squadra che s’era raccolta intorno a quel lanciatore di emissioni sospette, come era stato il Duret, non aveva potuto essere che di
un ordine affatto secondario.
La frase di quel medico, la quale diceva a un frequentatore di
buoni pranzi vittima dei suoi eccessi di ghiottoneria: – Voi non siete
affatto degno di aver la gola! – racchiude una intera filosofia sociale.
Il carattere poco fine dei boscards, che costituivano la squadra
Duret, apparve manifesto coll’immediato abbandono avvenuto dopo
la rovina. E ciò avrebbe dovuto per sempre disgustare Mathilde da
quella parvenza di gente mondana, in mezzo a cui sono condannati a
vivere tutti coloro che, senza appartenere per nascita o per parentela
alla vera grande società, vogliono esservi introdotti ed a loro volta
ricevere. Invece era accaduto il contrario.
Lo sconforto di quell’abbandono era passato sulla giovanetta senza recare alcun profitto alla giovane sposa. Ciò avvenne perché la
vanità ripugna dall’esperienza, precisamente a causa del difetto che
indica la stessa etimologia della parola: la radicale mancanza di solidità e di verità, la voglia di produrre ad ogni costo un effetto,
quand’anche si sappia che tale effetto è menzognero e che viene esercitato sopra gente affatto spregevole.
Ecco perché le prove di cinica indifferenza che i frequentatori delle feste di casa Duret avevano prodigato a lei ed a sua madre,
all’epoca del loro disastro, non impedirono affatto che la signora Le
Prieux, non appena maritata, volesse subordinare tutta la sua vita alla
ripresa della sua antica situazione. Ella non per altro, visse che per
invitare ed essere invitata, ricevere ed esser ricevuta.
Se suo padre all’epoca dei suoi milioni e delle sue magnificenze
non aveva ricevuto in casa sua che parassiti di un ordine inferiore, si
comprende bene come anche le persone, con le quali la moglie del
giornalista andava ricambiando quelle tanto costose cortesie, non potessero essere, come oggi si suol dire, la crema della società più fine.
Erano tre o quattro coppie di persone scelte fra quei colleghi di
Hector, che avevano anch’essi il loro giorno di ricevimento. Erano
anche tre o quattro di quelle coppie, raccolte per mezzo delle prime,
nella classe dell’alto commercio parigino; poiché dopo la profonda
modificazione, o per meglio dire la totale scomparsa di quella borghesia, così come ancora esisteva al principio del secondo impero,
coloro che si sono arricchiti per la via dei commercio incontrano una
immensa difficoltà a crearsi un ambiente, e tale difficoltà spinge gli
uni a stropicciarsi ai politicanti, gli altri agli scrittori o agli artisti.
V’erano anche alcune mogli d’avvocati desiderose di assicurare ai
propri mariti un favorevole resoconto sopra qualche loro prossima
perorazione. C’erano anche… ma l’enumerazione di queste comparse riuscirebbe certo noiosa tanto quanto il frequentarne la compagnia.
Ciononostante quella gente rappresentava il salotto della palazzina di
via Viette, una riunione in mezzo a cui Mathilde poteva recitar la sua
parte di mondana, una corte in mezzo a cui ella poteva raccogliere
l’omaggio alla sua bellezza, – vera, unica passione della vita sua e
che una imprevista circostanza doveva finalmente fare svolgere in un
quadro più vasto.
Questa circostanza d’un genere del tutto professionale, e che
sembrò non essere affatto gravida di conseguenze mondane, si produsse durante l’anno 1883.
Il dirHector d’un giornale di gran formato offrì a Le Prieux il posto di critico drammatico che l’istantanea morte del titolare aveva reso vacante. Quantunque la critica teatrale non abbia più la stessa importanza di una volta, da quando il sommario resoconto quotidiano
ha quasi ovunque rimpiazzato la vecchia rivista del lunedì – resa celebre già, per non parlare che dei morti, da Gautier, da San Victor, da
Janin, da Weiss e da Sarcey –, eppure nel mondo giornalistico nessun
incarico è più desiderato di questo e ad ogni posto vuoto concorrono
una ventina almeno di candidati. Le Prieux non ebbe nemmeno il fastidio di presentarsi al concorso e il sapiente calcolo che egli, entrando nel giornalismo aveva fatto e al quale fino allora era rimasto fedele, si realizzò interamente.
Egli raccoglieva il frutto prodotto da quella qualità, che in ogni
mestiere assicura sempre il successo, la coscienza tecnica.
Allo stesso tempo che la costante apparizione del suo nome in
fondo ad articoli accuratamente scritti e pensati, lo rendeva a tutti noto, egli andava acquistando per la sua accuratezza appunto, e per la
giusta moderazione dei suoi giudizi sulle persone e sulle cose, e per
l’esattezza anche dei documenti di cui corredava i suoi scritti, quel
potere misterioso che si chiama autorità.
Poche parole di schiarimento basteranno per coloro che conoscono con quale incredibile leggerezza s’infarciscano di chiacchiere i
giornali moderni: Hector non aveva mai parlato di un libro, senza
prima averlo almeno sfogliato.
Oltre a ciò, malgrado l’evidente fortuna che lo seguiva, egli fin
dal principio aveva avuto il bene di non suscitare alcuna invidia.
Quell’oscura e implacabile passione che è il malanno dell’esistenza
letteraria, ha generalmente la strana perspicacia d’attaccarsi più alle
persone che ai loro successi. L’uomo di vero ingegno che cade non
invidia la riuscita di un altro dall’ingegno mediocre, ma è invece
quest’ultimo che, anche nel suo trionfo più ampio, invidia l’altro nel
suo insuccesso.
Noi veramente non siamo gelosi di coloro – e non desideriamo far
loro del male – che dentro di noi pensiamo siano a noi inferiori. E
questa, sul principio della sua carriera, fu la forza di Le Prieux: né
letterariamente, né fisicamente, né socialmente egli invidiò mai alcuno. Gl’invidiosi invece contro di lui dovevano sorgere più tardi, dalle
belle relazioni e dalle ricche toilettes della sua signora e dal coupé
affittato a mese.
A farla breve l’entrata di Hector nella critica drammatica, sarebbe
passata inosservata come la stessa sua persona, se egli non avesse
preso subito l’abitudine di farsi vedere alle prime rappresentazioni in
compagnia della sua giovane moglie, che, come abbiamo visto, ben
pochi dei suoi colleghi conoscevano.
La bellezza di Mathilde, la quale allora contava appena ventotto
anni, era troppo sfolgorante per non essere immediatamente osservata in mezzo a quell’ambiente delle grandi solennità parigine, in cui i
personaggi non si rinnovano quasi mai, e dove, come diceva un tale:
“sono sempre gli stessi quelli che si fanno uccidere”.
Ella infatti, in mezzo a tutti quei volti uccisi veramente dalle veglie, dagli abusi della vita nervosa, dal belletto e dal resto, ebbe subito un immenso successo di curiosità.
Il “servizio” al quale nel giornale suo marito era applicato non
portava con sé il diritto a quei palchi e a quei prosceni così adatti al
ricevimento delle conoscenze: ed ella più tardi lo decise a farne richiesta. I posti che si cedevano a Le Prieux per il Teatro Francese,
per il Vaudeville, per il Ginnasio, per le Varietà, per l’Odéon – infine
per tutti i teatri – non erano che semplici poltrone di galleria; e tutti i
binocoli della sala potevano liberamente osservare quella bella testa
dal tipo sì fine e che, nei momenti di riposo o assorbita dallo spettacolo teatrale, tanto meravigliosamente sapeva mostrare la passione e
l’intelligenza.
Mathilde non sarebbe stata la donna che realmente era se non si
fosse avveduta, con tutte le fibre della sua intima essenza, di quel suo
trionfo, e non avesse pensato, prolungandolo, a renderlo più ampio.
E nemmeno Parigi sarebbe più stata Parigi se tra i frequentatori
delle prime rappresentazioni, non si fosse trovato colui destinato ad
essere il Barnum di questo successo nascente. Questi Barnum volontari mietono il loro grano nei campi di questa strana città che ha come la manìa, la furia della moda, per tutto ciò che riesce e che brilla,
fosse pure sol per un giorno, sopra il cielo iridato di quella moda
stessa. E ve ne sono per i libri e per i quadri, per i principi stranieri e
per gli esploratori, per le produzioni teatrali e per le belle donne. Diciamo subito – affinché non possa sorgere equivoco alcuno, o affinché almeno la signora Le Prieux non corra il rischio di essere vittima
di un ingiusto sospetto – diciamo subito che i Barnum di questa ultima specie non sono altro, quasi sempre che platonici patitos. Quasi
tutti nutrono un pensiero interno che non ha nulla a vedere con ciò
che i nostri padri chiamavano allegramente la bagatella. Se essi vogliono trarre profitto dalla generosità della persona che hanno in animo di lanciare, ciò non avviene che per ragioni di vanità e
d’interesse. La corte che essi fanno è una corte assai discreta, paterna
o fraterna, a seconda dell’età.
Questa corte consiste nel dare pranzi in trattorie elegantissime
sotto la direzione della bella signora, dove ella s’incontra con altre
signore e con altri uomini che a lei piace di conoscere e che al Barnum piace assai di più di far conoscere a lei. Se costoro arrivano fino
a chiedere un appuntamento, ciò è per far la parte di cavalier servente
alla bella donna, e per farsi vedere in sua compagnia in alcuno di
quei ritrovi ove le eleganze di Parigi sono passate in rivista; esposizioni d’arti o di fiori, ippodromo o ricevimenti all’accademia, e qui
una fila di eccetera che il lettore può da se stesso facilmente riempire.
Accade poi di solito, che non è la protezione di un solo Barnum,
che la bella donna è costretta a subire, ma di due, di tre, di quattro,
che si sorvegliano e s’ingelosiscono come se fossero tanti veri inna-
morati, mentre invece non sono che freddi calcolatori o inoffensivi e
ridicoli snobs di quella specie così particolare, da valere essi soli la
pena di uno schizzo. Ma non è qui il momento d’abbozzarlo.
Per caratterizzare agli occhi dei lettori, che conoscono le maschere della commedia parigina, la specie a cui apparteneva il Barnum
della signora Le Prieux, basterà dire il nome di un tal personaggio.
Egli altri non era che Crucè, il celebre collezionista, quell’abile
sessagenario, il quale, rovinato da più d’una trentina di anni, ora rifaceva le rendite della sua vita gioiosa comprando, vendendo o scambiando in misteriosa maniera gli oggetti artistici del suo museo che si
rinnovavano perennemente. È in questa qualità che egli era stato uno
dei primi a frequentare un tempo le sale del palazzo Duret, ed è sotto
questa stessa qualità che egli fu anche uno dei primi a dimenticare
come l’affarista suicida, a cui egli aveva fornito parecchie costose
galanterie, avesse lasciato sole al mondo una moglie e una figlia.
Avendo però ritrovato quella fanciulla, bella d’una bellezza sovrana, gli ritornò la memoria del passato, tanto più rapidamente in
quanto che ora Mathilde era sposa d’uno dei giornalisti più in vista, e
da quel momento Crucè incominciò a prepararsi la réclame per una
grande vendita possibile. Del resto tutti si ricordano com’egli riuscisse a mettere in esecuzione questo suo progetto, e quale immenso successo egli ottenne.
Il vecchio mondano s’era fatto presentare alla signora Le Prieux,
ricordando a lei come egli l’avesse conosciuta quando non era “più
alta di così”.
E fu sotto gli auspici di quel sedicente vecchio amico della sua
famiglia – il quale le avrebbe fatto orrore se il desiderio di brillare su
tutto non avesse in lei soffocato ogni altro sentimento – che la giovane donna aveva cominciato quel mestiere di grande notorietà parigina, di cui occorre ancora per mezzo di cifre di riassumere il bilancio.
Forse l’eloquenza brutale di esse avrà quella forza d’insegnamento,
che sarebbe indebolita da qualunque commento.
Nel 1897 dunque – poiché questa è l’epoca nella quale scoppiò il
dramma familiare in mezzo al quale ci dovranno condurre questi particolari preparatori – la passività della famiglia Le Prieux era pressappoco ripartita alla maniera seguente: – Ottomila franchi di fitto,
poiché la piccola palazzina di via Viette era stata cambiata con un
grande appartamento di via General Foy, assai più adatto ad essere
aperto ai ricevimenti; dodicimila franchi per il legno di rimessa, il
famoso coupé tenuto a mesata, e che aveva già fatto a Le Prieux tanti
nemici quanti erano i suoi colleghi costretti ad usar la carozzella,
quel coupé aveva due attacchi di ricambio, il che era assolutamente
necessario, e per le visite del pomeriggio, e per le uscite della sera;
quattromila franchi per il personale di servizio, il quale del resto non
comprendeva che il più stretto necessario: un maestro di casa, una
cameriera, una cuoca, una donna di faccende, che aiutava anche nel
basso servizio della cucina, un groom per l’anticamera e per le piccole corse, e infine tutto il personale straordinario che doveva servire
per il “giorno” della signora Le Prieux o per le sue serate.
A ciò si dovevano aggiungere dodicimila franchi per la toilette
della signora Lo Prieux e di sua figlia, duemila franchi di fiori, e con
queste nuove cifre arriviamo a trentaseimila franchi.
Bisognava infine contare una somma di cinquemila franchi per le
spese personali di Hector il quale nonostante le sue vecchie consuetudini di economia, era obbligato a prendere il legno al ritorno dal
teatro quando la moglie si trovava altrove, in qualche ricevimento.
E oltre alle spese dell’abbigliamento di lui a cui Mathilde teneva
assai, v’erano anche le infinite spese inerenti alla sua professione:
dalle piccole mance ai cocchieri e ai custodi teatrali, fino alle ventine
di franchi che egli doveva sottoscrivere quando alcuno dei giornali
dov’egli collaborava, per mezzo d’una lista di nomi, si rivolgeva alla
pubblica carità al fin di lenire un infortunio cittadino qualunque. E
con questo siamo arrivati a quarantaduemila franchi.
Se ora si consideri che la signora Le Prieux dava due grandi pranzi al mese; che la sua cucina era finemente accurata; che v’erano per
ogni stagione tre o quattro grandi serate di musica e di prosa; che i
doni da lei fatti erano annoverati fra i più ricchi nelle liste di una decina di matrimoni riportate dalla cronaca mondana; e che, ciò nonostante, c’era da vivere per il resto del tempo e c’era da rinnovare i
mobili, ed esser pronti a far fronte all’imprevisto, alle malattie, alle
villeggiature o che so io; il lettore dovrà convincersi che, per tutto
ciò, altre mille e cinquecento lire al mese bastavano appena, ed eccoci arrivati alla somma di sessantamila franchi – quei sessantamila
franchi all’anno che Hector guadagnava e che facevano dire di lui
che era un “uomo arrivato”.
Poniamo adesso in cifre il lavoro del marito, insistendo per
l’onore della casta giornalistica – la quale è, a volta a volta, o portata
alle stelle, o gettata nell’abisso – sull’integrità di questo laborioso
operaio della penna.
Le Prieux non aveva mai saputo che cosa volesse significare la
parola “affare” e non aveva mai toccato altro danaro se non quello
prodottogli dal suo lavoro. Egli aveva prima di tutto dodicimila franchi l’anno, come critico teatrale per una media di tre articoli la settimana, ossia di dodici articoli al mese. Aveva naturalmente abbandonato la cronaca dei tribunali, ma era riuscito ad esser nominato “corrierista” in un altro gran giornale dove era riuscito anche ad ottenere
un lauto compenso alla prosa sua: duecentocinquanta franchi ad articolo. Di tali articoli egli ne scriveva due alla settimana cioè otto al
mese, e questo gli formava una nuova rendita di ventiquattromila
franchi all’anno. Altri settemila e duecento franchi all’anno gli fruttavano, a centocinquanta franchi l’uno, i quattro articoli mensili firmati Clavaroche, ch’egli forniva al suo vecchio giornale illustrato, a
cui era rimasto fedele e che, come lui, era cresciuto in prosperità.
Ogni quindicina egli inviava anche una lettera a un giornale
dell’America del Sud; faceva inoltre la critica d’arte in un quinto foglio, che gli rappresentava una media – compresi i resoconti del Salone – di trentasei articoli all’anno, cioè altri tre articoli al mese.
Finalmente una corrispondenza telegrafica quotidiana al più importante dei “corrieri” della provincia completava il bilancio dei suoi
incassi, che si equilibrava – o almeno egli lo credeva – presso a poco
coll’importo delle spese, permettendogli anche l’economia d’una
molto mediocre assicurazione.
Se il lettore ora vuol far la somma delle cifre che abbiamo qui sopra citate, vedrà come tutto questo lavoro rappresentasse una media
di sessanta articoli al mese, o per dir meglio di settecentoventi articoli all’anno. Ed era questo appunto che la bella signora Le Prieux
chiamava: “Aver fatto la propria situazione”.
III.
E che cosa mai, intanto, di questa situazione andava pensando
l’antico allievo di Georges Sand, colui che nelle sue lettere la scrittrice aveva chiamato “il suo piccolo paesanotto”, il poeta dei campi solitari e delle paludi nebbiose, sbarcato a Parigi a cercarvi la gloria
d’un Mistral e cambiato invece, prima per la sua ereditaria prudenza
e poi a causa del matrimonio, in una vivente manifattura di prosa?
La sua natura sprovvista di forti reattività e paziente invece fino al
massimo grado della docilità, aveva forse subìto il male contagioso
della donna sua, quella febbre di mondano amor proprio, la quale
impone che ognuno di noi debba paragonarsi a chi è più ricco e che,
sempre aggravando le proprie spese, complicando la propria vita, vada a sacrificare pazzamente, alcune volte anche tragicamente,
l’”essere” al “sembrare”? O invece, nel suo fondo, egli era rimasto il
semplice paesano d’una volta, assistendo ai trionfi cittadini della sua
Mathilde, da innamorato che si sacrifica con piacere alla volontà di
colei che egli adora, riconoscente che ella accolga benevolmente quel
sacrificio? Oppure ancora, egli aveva giudicato quella donna per
quello che valeva ed ora si trovava essere in quella infinita schiera di
mariti rassegnati i quali non tentano nemmeno di lottare contro la
spinta delle circostanze, contro quell’ingranaggio irresistibile dentro
al quale si trovano presi? Ben arguto sarebbe stato colui che avesse
potuto rispondere adeguatamente a questa domanda sull’essenza spirituale dell’infaticabile articolista.
Il giovane provinciale del 1866, timido e leale, s’era, a poco a poco, col passar degli anni, cambiato in un uomo sempre sull’attenti,
dalle maniere scostanti, di poche parole, delle quali poi non si serviva se non per raccontare qualche aneddoto di vita parigina sopra un
tono – quello di moralista che ha tutto veduto e conosciuto, in piena
armonia insomma con ciò che appariva di lui nelle sue cronache letterarie, una specie di Desgenais dell’alta borghesia.
Alquanto appesantito dall’età, ma sempre forte e vigoroso, per
quell’abitudine di “star sulla sua” e a teatro e al passeggio e in innumerevoli altri ritrovi serali, egli aveva assunto quell’aria
d’importanza quasi ufficiale che si potrebbe rassomigliare a quella
d’un antico prefetto. La traccia dei suoi lavori gravi ed inutili traspariva dal suo colorito reso plumbeo dall’abuso delle notti vegliate, e
anche appariva dalle pieghe della fronte incorniciata da capelli grigiastri tagliati corti severamente.
Ma quali pensieri mai si accendevano dietro a quella facies d’una
freddezza così burocratica? Quella bocca così spesso ironica sotto ai
mustacchi a spazzola non l’ha mai rivelato e non lo rivelerà mai.
Per chi avesse avuto il tempo e la volontà di studiar l’espressione
dei volti – e chi è mai che a Parigi possa avere l’una e l’altra cosa? –
Hector Le Prieux non era la sola figura enigmatica di quella famiglia.
Da circa due anni – dall’epoca del nostro racconto, dal 1897 – gli assidui delle prime rappresentazioni, quando la commedia era di quel
genere a cui possano anche assistere le giovanette – una di quelle
commedie che si sogliono dire “matrimoniali”, a base d’unione legale – gli assidui vedevano la bella signora Le Prieux assisa nel suo
palchetto in compagnia d’una fanciulla fine e graziosa, abbigliata
quasi come lei e che, di lontano, era anche con lei d’una rassomiglianza di sorella, una rassomiglianza di piccola Cenerentola. Ella
era sua figlia, quella Régine appunto la cui nascita era stata per costarle la vita.
Come la maggior parte dei figlioli nati da una madre che abbia
assai sofferto nella gravidanza, Régine aveva in sé qualche cosa di
troppo delicato e quasi di troppo gracile che contrastava assai con la
bellezza opulenta di quella madre, la quale, ora sulla quarantina, si
trovava in possesso d’una maestosità veramente giunonica.
Régine aveva ventuno anni e non ne dimostrava che appena diciotto. Era allo stesso tempo fresca e fragile, dalle spalle e dal busto
sottili come se vi mancasse qualche cosa per raggiungere il pieno
sviluppo fisico; il suo sguardo, pensieroso soverchiamente in quel
volto infantile, aveva una inquietante precocità d’espressione.
Dalla madre ella aveva preso la forma allungata della testa, il profilo diritto, la regolarità delle linee: ma quel bel tipo di razza pura in
lei era come smorzato, come attenuato e sotto il nobile arco dei sopraccigli, invece delle nere pupille meridionali della signora Le
Prieux, ella aveva la scurezza e la riflessione dello sguardo paterno.
Dal padre ella aveva anche ereditato il color castano dei capelli e la
bocca dalle labbra lievemente rigonfie agli angoli in una piega d’una
espressione di tristezza.
Mai, come in quel caso, era apparsa visibile la mescolanza di due
sangui. Ed era forse per quell’intima esitazione, per quel segreto con-
trasto sorgenti da quella doppia eredità che lo sguardo della signorina
Le Prieux era così singolarmente malinconico?
Ancora in età così giovane aveva forse attraversato una di quelle
prove misteriose, aveva forse subìto uno di quei sentimentali disinganni che, soprattutto per non altro essere essi che un parto della nostra immaginazione, intaccano assai profondamente un’anima giovane? O ciò era semplicemente per la stanchezza tutta fisica, d’una fanciulla già abbattuta dall’abuso della vita mondana?
Quando si parlava di lei a sua madre, domandandole, con qualche
premura notizie della salute della figliola, ella rispondeva sempre:
– È un poco pallida, non è vero? Il suo sviluppo è alquanto lento,
ma è fatta così. Fin da quando era bambina non è stata mai malata
due giorni di seguito… – E quando parlava con un’intonazione di
maggiore confidenza, aggiungeva anche: – Non perché sia mia figlia,
ma essa è una vera perfezione. Da quando l’ho avuta, non ho mai
dovuto rivolgerle una parola un poco più alta d’una altra. Ella non si
merita che un solo rimprovero: quello d’essere troppo seria. Ella non
pare nemmeno giovane… Io, alla sua età, ero pazza di gioia per il
ballo… e ancora mi ci diverto… Ella ci va invece come quando da
bambina andava a imparar la sua lezione di scrittura. Si direbbe che
lo faccia come un dovere. Suo padre prima era così. Ora, invece, si
può ben dire che egli è assai cambiato… E anche Régine cambierà…
Per il momento però nessuna cosa la diverte. È una cosa veramente
straordinaria!
E la bella signora Le Prieux aveva nello sguardo una specie di
stupore mescolato d’orgoglio. Nel raddrizzamento di quel busto, racchiuso impeccabilmente dentro alle molle d’un corsetto tagliato
all’ultima moda, s’indovinava quel sentimento che ha la sposa e la
madre cosciente d’aver elevato il marito e la figlia all’altezza sociale
in cui si trovano con le sole sue forze, senza punto aver avuto bisogno del loro aiuto. Se per caso Le Prieux si trovava presente, quando
sua moglie parlava così di Régine, egli non mancava mai di scrollar
le spalle dicendo:
– Ma no, ma no…
E continuava con quel tono di indulgente rimprovero che un marito assume quando pensa che sua moglie parli un po’ troppo: e a un
tratto, con uno di quegli aneddoti che gli erano abituali, deviava il
discorso. A somiglianza, però, di tutti gli altri che amano di racconta-
re, egli non ne possedeva che ben pochi, ed erano sempre gli stessi
che gli uscivano dalle labbra con lo stesso suono di voce, col medesimo tempo, con gli stessi appoggi sulle stesse sillabe e con gli effetti
stessi.
Essi però erano diretti – sola debolezza di quell’uomo – contro
quei suoi confratelli che avevano avuto il torto di abbandonare il
giornale per il libro, e guadagnare, con questo, quanto egli era ancora
costretto a chiedere al giornale.
– Régine è come me – egli diceva – si diverte in silenzio. Voi, invece, vi divertite rumorosamente. Non v’ha altra differenza che questa. Fortunatamente ella ha troppo spirito e assai buon senso, per incapricciarsi di qualcuno degli odierni giovanotti, che hanno la mania
di recitar la parte di annoiati nei ritrovi allegri, dove hanno fatto di
tutto per poter essere ammessi… Io ho visto nascere questa mania.
Mi ricordo ancora che molto tempo fa, il romanziere Jacques Molan
venne a casa mia, in via Viette, a implorarmi perché gli facessi avere
un invito al ballo in maschera che dava la contessa Komow. Dovetti
brigare assai, ma finalmente gliela ottenni: quella buona contessa
amava tanto la mia Mathilde!… Il caso volle che verso le undici,
prima di andarmi io stesso a mascherare, entrassi un momento
all’ufficio del mio giornale, e… indovinate un po’ chi mai trovo, attorniato dallo stupore degli altri redattori? Jacques Molan, il mio romanziere, mascherato da orso, con la grossa testa pendente a uso di
cappuccio dietro le spalle, fermo lì in mezzo a cantaferare ai suoi poveri colleghi: – Non mi è riuscito in alcuna maniera a dir di no alla
contessa… ella ha insistito troppo… ah! che brutto mestiere è mai
quello che si fa a voler frequentare il gran mondo!
Quelle due frasi: «Régine non è abbastanza giovane… Régine si
diverte con serietà…» riassumevano nella loro espressione famigliare le centinaia di conversazioni che insieme avevano avuto su quel
soggetto i coniugi Le Prieux.
Quei discorsi d’un genere così delicato e allo stesso tempo così
grave – poiché si trattava appunto del carattere e, per conseguenza,
delle probabilità di felicità o di sventura che attendevano al varco
quella loro unica figlia – aveva luogo ordinariamente nell’interno del
coupé, al loro ritorno da una di quelle prime rappresentazioni a cui
essi non avevano potuto condurre la fanciulla.
Erano quelli i soli momenti in cui i due coniugi si trovassero assolutamente soli, nonostante che essi fossero molto uniti o per lo meno
si credessero così. E del resto fra le fatiche di società per la donna e
quelle di tavolino per il marito, in quale altra ora avrebbero essi potuto insieme discorrere lungamente e intimamente?
La necessità che egli aveva, nella sua qualità di critico drammatico,
di rimanere all’ufficio del suo giornale fin dopo l’una del mattino per
gettar giù interamente, o finire l’articolo allorquando gli era stato concesso di poterlo incominciare dopo aver assistito alla prova generale,
aveva portato di conseguenza la decisione della separazione di letto.
Hector aveva voluto poter tornare a casa senza turbare il sonno di
sua moglie quando essa era andata a letto prima del suo ritorno, e viceversa aveva voluto non essere disturbato quando sua moglie e sua
figlia erano costrette per qualche ballo a far tardi fuori di casa. Hector non sarebbe riuscito a tener fronte a tutto il suo lavoro se non dedicandovi l’intera sua mattinata. Sedutosi alle nove precise dinanzi
alla sua scrivania e proibito a chicchessia d’entrar nella sua camera
da studio, egli non ne usciva che al suonar di mezzogiorno, dopo aver buttato giù la maggior parte del suo quotidiano lavoro. Ci voleva
proprio una circostanza eccezionale che lo spingesse ad andare a bere
il suo uovo e a sorbire il suo caffè in compagnia della moglie. Solitamente egli non la vedeva che alla colazione di mezzodì, proprio un
momento, per ricambiar l’augurio della buona giornata. E allora era
là anche Régine: come v’era a pranzo allorquando – e ciò accadeva
assai raramente – i coniugi Le Prieux pranzavano in casa.
Nelle altre ore la mamma era tutta assorbita dalle sue visite, il
babbo dai suoi giri o dall’aumento del lavoro o dalla enorme corrispondenza che gli si accumulava sulla scrivania. Poiché egli, ad imitazione di un altro famoso giornalista, aveva fatti tanti collaboratori
dei suoi corrispondenti: le lettere di costoro diventavano sempre i
temi dei suoi articoli.
La sera poi era dedicata alla società e al teatro. Non v’ha, dunque,
da stupire se i discorsi più gravi di questa coppia avvenissero durante
l’unico tête-à-tête concesso a queste due vittime della vita parigina,
al ritorno dal teatro. Così accadde che la prima scena del dramma di
famiglia, che ora mi accingo finalmente a raccontare, si svolse tutta
nell’interno d’un coupé di rimessa fra l’androne d’un teatro e la porta
d’un uffizio di giornale.
Voi potete benissimo figurarvi la scena: intorno la nebbia acre
d’una notte di gennaio che le fiamme gialle del gas riescono appena a
sforacchiare qua e là; lungo i marciapiedi la corsa affrettata dei passanti infreddoliti; la carrozza scivolante, quasi senza rumore, sopra i
rotanti cerchioni di caucciù; il cocchiere fermo a guidar con le mani
ghiacciate e chiuse dentro i grossi guanti, la sua rozza fumante che
scuote senza resta il campanello appeso al collare, nella gioia della
presentita vicinanza della scuderia; dietro ai cristalli resi opachi dalla
nebbia si disegnano i profili di Mathilde e di Hector. Ella con in capo
un delizioso cappellino da teatro dalle tinte assai tenere e il profilo
giunonico uscente fuori dalla bianca pelliccia di capra del Tibet, di
cui è foderato il suo mantello di velluto colar rubino; egli con lo sparato candido della camicia dai bottoni d’oro battuto e il panciotto
bianco da clubman su cui s’apre il pastrano foderato di lontra.
A vederli si sarebbe detto che quei due formassero una coppia di
perfetti oziosi, un uomo di mondo che la moglie, prima di rientrare in
casa, va ad accompagnare fino alla porta del circolo; e non era invece
che un semplice giornalista in via di provvedere a quel costoso lusso
approssimativo da cui s’era circondato, affaticandosi a quell’ora così
tarda della notte a correggere bozze di stampa ancora umide per la
pressione del torchio.
Il loro passaggio attraverso Parigi in quel modo e in quell’ora era
il simbolo di tutta la loro vita.
Non ho ancor detto che la commedia a cui essi avevano proprio
allora assistito era stata data all’Odèon, e che il giornale, sulle colonne del quale Le Prieux faceva la critica drammatica, era situato a un
mezzanino di quella via La Grange Batèliere che, assieme con la via
Croissant, si divide l’onore d’aver visto nascere e morire tanti giornali.
La signora Le Prieux aveva senza dubbio calcolato la durata di
quel viaggio notturno, in rapporto alla conversazione che ella s’era
prefissa di tener con suo marito, poiché non appena il coupé si trovò
fuori dall’ingombro della piazza ed il cavallo ebbe preso liberamente
il trotto ella chiese:
– Contate, amico mio, di rimanere molto a lungo al giornale?
– No… – rispose Hector – ho scritto il mio articolo fin da stamane, basandomi su quel gran principio che non si deve rimandare a
domani ciò che si può far oggi…. Dalla prova alla rappresentazione
nessuna cosa è stata cambiata. Non avrò quindi che una mezz’oretta
per parlare del successo ottenuto e per correggere le bozze. Ma perché?
– Perché desideravo parlarvi a lungo e di una cosa assai seria. –
rispose Mathilde.
Anche nell’intimità, ella era sempre la “bella signora Le Prieux”;
il “tu” famigliare e borghese da lei non era mai concesso che come
un favore, come una derogazione alla sua parte di dea.
– Se si tratta d’una sola mezz’oretta, v’attenderò nella carrozza…
– Attendermi? – esclamò Le Prieux – Ma potrò fare a meno di
correggere le stampe, ecco tutto. Ci penserà quel buon Cartier.
Questo Cartier era il segretario di redazione e, poiché doveva quel
posto all’influenza di Hector, era da questi considerato come persona
a lui interamente devota. Egli esitò per qualche istante; quindi provando ingenuamente fino a qual punto una tale idea lo tenesse preoccupato, si rivolse nuovamente alla moglie:
– Una cosa assai seria? Si tratterebbe forse di un matrimonio per
Régine?
– Precisamente – rispose la signora Le Prieux, quindi con una lieve aria d’esitanza, come una vaga ombra d’inquietudine di cui Hector più tardi doveva ricordarsi, aggiunse: – Che cos’è che vi fa domandare ciò? Qualcuno vi ha forse avvertito?
– A me? – rispose – affatto! ma dal momento che tu mi parli in
una certa maniera… Di che cosa mai si può trattare se non della felicità di Régine? Tu le vuoi tanto bene ed hai ragione d’amarla così. Ti
rassomiglia tanto…
E le strinse la mano con quella profonda tenerezza che si era rivelata in quel momento e dalla lode che le tributava e da quel subitaneo
passaggio dal “voi” al “tu”. Mathilde però non aveva bisogno di
quelle piccole esplicazioni di tenerezza per imparare che quell’uomo,
il quale aveva tanta fedeltà di cuore e tanta instancabile devozione,
era innamorato di lei come al primo giorno. Fu commossa forse dal
poter constatare ancora una volta quell’alta sensibilità di suo marito?
O forse anche quell’omaggio così spontaneo alle sue fini e preziose
qualità di sposa e di madre, qualità che ella aveva la convinzione di
possedere, arrivò a vellicare un angoluccio nascosto del suo amor
proprio? O forse anche, presentendo qualche obiezione all’idea che
già da tanti mesi andava ravvolgendo sotto alla sua fronte stretta e
dominatrice, voleva annientarla ad un tratto? chi sa? il fatto è che anche ella strinse la mano di Hector e, quasi condiscendente gli rispose
dandogli del “tu”.
– Io non ho che un merito; quello di non aver cessato mai d’essere
una donna come si deve… e vedo bene che tu me ne ricompensi largamente… Ecco: – ella continuò – Crucè venne la scorsa settimana a
parlarmi di questo progetto. Per tema di toglierti quella libertà di spirito che è tanto necessaria al tuo genere di lavoro, io non ho creduto
di parlartene fino a che le cose non fossero arrivate più avanti. Oggi
egli è tornato e, questa volta in maniera più certa, mi ha domandato
che cosa penseremmo del matrimonio di Régine col giovane Faucherot…
– Edgard Faucherot? – esclamò Le Prieux – Faucherot vorrebbe
sposare Régine?
– E perché no? – chiese Mathilde – che cos’è che ti stupisce di un
tal passo? Guarda bene che sono stati i Faucherot a muoversi per i
primi. Crucè non mi ha punto nascosto che, pur non essendo venuto
sotto la veste di ambasciatore ufficiale, egli però veniva da messaggero ufficioso…
– Che cos’è che mi stupisce? – rispose Hector – ma… prima di
tutto, Faucherot non è affatto libero. Hai forse dimenticato che proprio in questo autunno sua madre si sfogava con te delle pazzie
ch’egli andava facendo intorno alla piccola Percy? Ella voleva perfino che io m’incaricassi di farla scritturare in America onde separarla
da suo figlio… E poiché so che Percy é ancora alle Variétés…
– Ciò prova semplicemente – rispose la signora Le Prieux – che
egli se ne è liberato completamente. Ed ha finito tutto, appunto perché egli ama Régine… Oh! non dubitare, amico mio, anche io ho
preso le mie informazioni: la signora Faucherot ha esagerato assai le
cose: ciò, del resto, è naturale: ella è vedova e non ha che quel figlio.
A lui ha fatto girar la testa la vanità di mettersi in mostra con
un’artista di moda. Non si tratta affatto d’uno di quei legami che lasciano un segno nella vita e che possono dare inquietudine ai genitori
d’una ragazza.
– È lo stesso: – rispose Hector – io ti confesso che per colui al
quale noi concederemo la mano di Régine, avevo sognato altri ricordi di gioventù che non fossero le cenette con la piccola Percy… E
poi non v’ha solo la piccola Percy, ma v’è anche la madre… Ci sono
voluti parecchi anni, mi pare, prima che tu ricevessi la signora Faucherot… Ed ora la continui a vedere per tua bontà, perché dopo tutto,
ella è una brava signora e tu sei una persona eccellente. Ma se ella
diviene la suocera di Régine, allora sarai costretta ad avere con lei
dei rapporti di famiglia… tu che sei stata educata da gran signora
(così almeno credeva il cronista parigino). E lei? Io non le rimprovero certo che ella abbia iniziato la sua vita come venditrice nella casa
Faucherot, prima d’essere innalzata al posto di padrona… V’hanno
venditrici che sono vere signore… Ma lei… Ho tutto il diritto di dire
che ella ha saputo mantenere un profumo di bottega, a cui i milioni
del defunto Faucherot padre non possono levar nulla. Ha fatto levare
le grandi lettere d’oro che io vedeva risplendere sul davanzale del
balcone in via della Banca, quando altre volte passavo di là andando
al giornale: Hardy, Faucherot successore – Seterie e velluti. Ma essa
porta con se quelle lettere dovunque impresse su tutta la sua persona… Ed è rimasta quel che era dietro il suo banco, una vera borghesuccia triviale fino all’ultimo grado. Tale ella è rimasta per le grandi
sarte dove ora va per le sue toilettes e al Bois, nella carrozza trascinata dalla sua pariglia di diecimila franchi… E non ce ne ha fatto certamente ignorare il prezzo, come anche non ci ha fatto ignorare quello delle sue pietanze e dei vini che si servono in casa sua!… E quegli
inviti che, sulle prime, ella diffondeva in tutta Parigi alle grandi celebrità che non conosceva, per potersi formare un salotto? E le sue goffaggini non sono forse celebri? Come potrai sopportarle tu che sei
donna di mondo per eccellenza? Povera amica mia, con il tuo tatto ed
il tuo saper fare così superiore, non arriverai certo a trartene fuori.
La signora Le Prieux aveva lasciato parlar suo marito il quale,
come si vede, aveva un po’ preso dalla sua professione l’abitudine di
parlare alla maniera come scriveva, a tratti ed a sbalzi. Se come ho
già detto, e come tutta la sua vita dimostrava, a Mathilde mancava
interamente quell’intelligenza del cuore altrui che sola fa nascere la
vera delicatezza, ella però possedeva quell’altra intelligenza, tutta
femminile, poiché essa è l’essenza stessa della donna, e che consiste
nel conoscere esattamente ciò che Virgilio, il più delicato degli antichi poeti, chiamava già sola viri molles aditus et tempora noras.
[Virgilio, Eneide, IV, 423. Didone sta parlando alla sorella Anna: «Tu sola
dell’uomo i momenti, gli approcci migliori sapevi» (trad. di Rosa Calzecchi Onesti)
NdE]
Ella aveva avuto la sua idea non rompendo il filo del discorso a
Le Prieux. La grande obiezione a un matrimonio che, come appariva,
ella aveva tanto sapientemente preparato non era già quella risultante
dalla maggiore o minore distinzione della signora Faucherot della
Casa Hardy, Faucherot successore – Seterie e velluti. Lasciando correre la parlantina di suo marito, ella contava ch’egli avrebbe finito
col mostrare il fondo del suo pensiero: e ciò infatti avvenne: dopo un
momento di silenzio e poiché ella nulla rispondeva, Le Prieux disse,
concludendo:
– E poi io potrò passare sul figlio, tu passerai sulla madre. Ma bisognerà pur sapere che cosa ne pensi Régine.
– Ah! – rispose la madre con un singolare accento dove era tutta
una mescolanza d’ironia e di curiosità – Tu sai che cosa ne pensa
Régine? È vero: ella ha in te una certa confidenza. Che cosa t’ha detto?
Vi fu un nuovo momento di silenzio. La dominatrice, presa dal
desiderio di sapere se un altro passo fosse già stato tentato presso
Hector, aveva toccato quel cuore di sposo e di padre nel posto più
sensibile e doloroso, un posto quasi sconosciuto a lui stesso.
Simile su tal punto a tutti gli uomini per i quali la timidezza risulta non dalle circostanze ma dalla loro persona, al punto che è la natura stessa del loro sentire, Hector si trovava assolutamente sconcertato
davanti alle nature cupe e taciturne com’era quella di Régine. Nello
sguardo di sua figlia fisso su di lui quante volte egli non aveva osservato o piuttosto indovinato un mistero, pensieri e sentimenti che aveva allo stesso tempo desiderio e paura di conoscere, forse perché quei
sentimenti e quei pensieri corrispondevano a cose segrete del suo
proprio cuore, che egli non acconsentiva di confessare a sé stesso?
Sì. Egli sapeva quel che pensava Régine, ma non voleva saperlo.
Egli sapeva che quella tristezza degli occhi di quella graziosa fanciulla veniva da una profonda ed infinita compassione per lui, per la
sua esistenza di forzato della letteratura messo ai ferri – per che cosa
e per chi?
Rispondere ad una tale domanda sarebbe stato condannare qualcuno che egli amava con quella tenerezza passionale che non giudica
neppure di fronte all’evidenza; e ciò che gli rendeva ancora più dolorosa l’incognita di quei pensieri e di quei sentimenti di sua figlia era
precisamente il timore che egli non fosse il solo a sospettarne la natu-
ra. È perciò che quella frase di sua moglie lo aveva fatto trasalire,
onde rispose con un sorriso contratto, provando di fingere una indifferenza che non era affatto nel suo cuore.
– Che cosa mi ha detto? Ma assolutamente nulla… Non creder già
che ella apra il suo cuore con me più che con te. D’altra parte quando
potrebbe ella farmi le sue confidenze? Non la vedo quasi mai sola…
Ma in mancanza di queste ho… – Un impaccio visibile gli faceva
cercar le parole. Egli ripeté: – In mancanza delle sue confidenze ho
alcune impressioni e, poiché ci troviamo su tale discorso, ti dirò che
mi è sembrato di osservare, che se ella guarda qualcuno questi non è
certo Faucherot…
– E chi sarebbe dunque?! – interrogò vivacemente la madre.
– Sarebbe suo cugino Huguenin – rispose Le Prieux, quasi scusandosi della mancanza di confidenza che si nascondeva sotto alla
discrezione da lui mantenuta sopra ad un tale segreto: – Ti ripeto che
è una vera ipotesi gratuita e che Régine non me ne ha mai, mai parlato e Charles neppure… Credi pure che te lo avrei avvertito subito.
– Infatti – disse la signora Le Prieux, alzando per metà le sue belle spalle – Era un’inclinazione da non incoraggiarsi. Tu sai se io sia
una buona parente – ella insisté – e come abbia accolto Charles Huguenin, benché dopo tutto egli non sia che un cugino in secondo grado e che io non abbia più veduto da molti anni suo padre… Ma Charles possiede ben poco… non ha una posizione… Poiché non è certo
una posizione l’aver finito il corso di legge ed essersi fatto iscrivere
al Tribunale di Parigi. Se egli ora sposasse, per poter mantenere sua
moglie sarebbe costretto ad andarsi a stabilire con suo padre in Provenza, a fare il vino, l’olio ed allevare i bachi da seta… E francamente, sai tu figurarti Régine, in una casa di campagna, laggiù, costretta a
soprintendere ai lavori e senza più teatri, senza più visite, senza più
balli? Capisco, capisco… Ella dice sempre di non amare la società…
Anche mia madre lo diceva quand’era vivo il mio povero babbo, ma
allorché perdemmo ogni cosa toccò a me a confortarla. Ora però non
dobbiamo parlare di ciò. Fortunatamente Charles non pensa a Régine, come Régine non pensa a Charles. Ritorniamo ai Faucherot. Che
cosa bisognerà rispondere a Crucè? Ti dico subito che la questione
della dote è già regolata. Non ho nascosto nulla a quell’eccellente
amico e a quella brava signora Faucherot – la quale, ne convengo, ha
il suo lato ridicolo, ma meno di prima; ella ora si vien facendo – ed
ha sempre avuto molto cuore. Ha capito benissimo. Non si può far
tutto nella vita, suo marito e lei hanno fatto i denari, noi le relazioni.
Non è certo colpa tua se non abbiamo nulla da dare a Régine, amico
mio; è la colpa del tuo mestiere. Lo sapevo quando ti ho sposato, ma
mi sono detta di risparmiare a mia figlia quanto più mi fosse possibile le angustie che abbiamo sopportato noi… Ebbene… Eccoci giunti
all’ufficio del giornale… Non aver furia, correggi le tue bozze, aspetterò quanto vuoi.
La carrozza infatti aveva voltato l’angolo della via Drouot, mentre
la generosa Mathilde accordava quel magnanimo permesso a suo marito e gli faceva, con una grande condiscendenza, l’offerta di starlo
ad attendere una trentina di minuti in una vettura molto bene imbottita e molto ben riscaldata. Perché questi, smontando dalla carrozza, e
salendo con le sue scarpe verniciate i gradini sudici delle scale, si ricordò ad un tratto degli occhi bruni di Régine e della tristezza del loro sguardo?
Quale rapporto vi era dunque fra quello sguardo e le parole che
aveva pronunziato sua madre? Perché anche mentre il bravo Cartier –
come egli lo aveva chiamato – gli consegnava le sue bozze, il giornalista vedeva distintamente invece dei fogli di carta scarabocchiati, sui
quali la sua penna tracciava macchinalmente i segni cabalistici delle
correzioni, perché vedeva egli il paesaggio di Provenza, contemplato
da lui una volta sola per dodici ore nel mese di settembre, di passaggio, al ritorno da un congresso della stampa, e la casa di campagna
degli Huguenin riparata contro il maestrale da una fila di cipressi, e
le viti allineate le quali facevano mostra, al di sopra della terra rossa,
delle loro foglie frastagliate e dell’opulenza dei loro pesanti grappoli
d’uva di color violetto, ed un recinto di rosai fioriti vicino a un bosco
di ulivi argentei e gli scogli che separano quel bosco dal Mediterraneo azzurro, cosparso di bianche vele? Quale rapporto aveva quella
visione col letterato il quale andava ora scarabocchiando le poche linee che completavano il suo articolo, con la mano fine e ben tenuta
dove risplendevano due belle pietre? Quella mano non aveva mai
toccato un utensile rustico, se non nella sua più lontana infanzia. Era
forse la nostalgia della terra che assaliva nuovamente lo scrittore conosciuto? Era il provinciale che riappariva nel parigino, dopo uno
spazio di forse più di trent’anni?
Eppure egli presentiva che la felicità di quella figlia che gli somigliava nell’anima, come gli somigliava negli occhi, stava laggiù lontano, molto lontano, molto lontano dai milioni di Faucherot figlio,
lontano da Parigi – lontano ancora da che cosa e da chi? Ma la visione era già svanita. Hector aveva raccolto i fogli corretti delle sue
bozze, li aveva dati a Cartier; aveva abbottonato la sua pelliccia e
sfiorando con la mano l’orlo del cappello, freddamente, dignitosamente, come si addice ad uno dei principi della critica, di fronte ai
semplici cronisti i quali ad ora tarda stavano lì lavorando, egli aveva
lasciato la sala di redazione, senza ascoltare i discorsi che i piccoli
giornalisti, salutati in quel modo, stavano ora scambiando sul conto
del loro superiore.
– Papà Le Prieux – disse uno – è anche lui di coloro che portano il
cappello invitato sulla testa.
– E dire che all’età sua tu sarai forse tanto snob quanto lui – rispose l’altro, ed aggiunse ridendo – ed anche… altrettanto scribacchino.
– Il fatto è ch’egli è così vuoto! Il suo ultimo corriere era abbastanza ridicolo!… c’è da domandarsi come mai abbia potuto riuscire
un tipo di quella forza là!
– Il nuovo metodo per arrivare, di Hector Le Prieux, un volume
Fr. 3,50 – disse scherzando il bravo Cartier – Assioma: si sposa sul
principio una bella donna…
– Che intendete dire con ciò? – domandò l’altro.
– Ma… ciò che intendete voi stesso – rispose Cartier, che intanto
aveva premuto un bottone di campanello e aveva interrotto la sua
staffilata per dire al ragazzo d’ufficio che era accorso: – Avvertite
l’impaginatore che Le Prieux è una colonna e tre quarti… sto rivedendo le bozze… le avrete fra dieci minuti… Noi che non apparteniamo all’aristocrazia della stampa, se ne lasciassimo sfuggir qualcuna…
E colui che doveva tutto a Hector lo snob, a Hector lo scribacchino, a Hector trattato da marito giunto alla mèta traverso alla bellezza
di sua moglie, caricò accuratamente ed accese la sua pipa di schiuma,
poi con la sua aria birichina di buon ragazzo si rimise sulle pagine
che Le Prieux aveva già corrette, per pulirle degli ultimi refusi… Era
quella la maniera di pagare i debiti che aveva contratti col suo protHector. Il segretario di redazione era sincero nelle sue diffamazioni,
e nella compiacenza che metteva nel rendere un tal servizio al vecchio giornalista. Gli era riconoscente e lo invidiava non già per la posizione che occupava nel giornalismo, ma per la vettura di rimessa e
per le sue relazioni col gran mondo – volendo rispettare il suo stile –
e infine per essere il marito della “bella signora Le Prieux”.
IV.
Il giorno seguente a quel colloquio, la seconda parte del quale era
stata la ripetizione della prima, con la sola differenza, che le obiezioni di Hector erano alla fine cadute una ad una, la graziosa e delicata
fanciulla che ne era stata l’oggetto senza saperlo, Régine Le Prieux,
si era come d’abitudine alzata di letto prima delle otto. In famiglia
era da tutti stabilito che non le fosse necessario molto sonno. In verità, quando la giovanetta aveva passato la serata fuori di casa e si destava a quell’ora mattutina, si sentiva molto sfinita e disfatta. Però
non confessava mai la stanchezza che le impallidiva il viso fresco,
che cerchiava i begli occhi bruni, e talvolta le conficcava alle tempia
un dolore spasmodico. Poiché, se non avesse lasciato prender base a
quella leggenda, avrebbe ella potuto sorvegliare da se stessa, come
faceva ogni mattina, i più minuti particolari nel gabinetto da lavoro
di suo padre? Era lei che con le sue mani fini e premurose metteva in
ordine la carta da lettere e le buste nel casellario sullo scrittoio di lui;
era lei che segnava sul calendario la data del giorno e il nome del
mese, era sempre lei che mutava le pennine ai portapenne, che verificava se il block di cui il cronista si serviva per i suoi articoli, contenesse un numero sufficiente di fogli da staccare. E mentre era intenta
a quelle cure minuziose un’emozione inesprimibile le alterava talvolta il volto.
Quando quel pietoso suo compito era finito ella si fermava a
guardare lungamente un ritratto di suo padre confinato là dalla signora Le Prieux, e che rappresentava lo scrittore giovanissimo vestito da
artista, ciò che giustificava quell’esilio fuor del salotto di ricevimento. Un compagno del quartiere Latino l’aveva dipinto in camiciola
rossa, con un fazzoletto di seta intorno al collo, i capelli lunghi, e in
atto di scrivere sulle ginocchia. Quell’abbozzo di pittura aveva la
buona qualità propria alle tele dipinte di getto: era parlante e dava veramente l’idea di quello che era stato il piccolo contadino del Bourbonnais nei suoi primi anni di sincero fervore e di entusiasmo; con la
fronte luminosa e le pupille sfavillanti. Come s’inteneriva Régine paragonando quella lontana immagine di suo padre a quello stesso padre che andava a sedersi su quella poltrona, davanti a quel tavolo
preparato da lei, per dedicarsi ad un lavoro che l’Antigone premurosa
poteva materialmente misurare dalla rapidità con la quale diminuiva
il volume del blocco!
Ella andava allora a prendere nella biblioteca del giornalista tre
volumi, legati con maggiore accuratezza degli altri, e che contenevano le due raccolte di versi, ed il romanzo di Le Prieux, in gran formato: quei Ramoscelli di ginestra, quei Sonetti campestri e quel Rossignolo che la dolce fanciulla era proprio sola a leggere ed ammirare.
Régine non era una bas-bleu e perciò non poteva giudicare quei
deboli poemi e quel romanzo ben poco originale. Ella li sfogliava
con la passione parziale di un essere che ama: e non conosceva nulla
al mondo che le sembrasse più bello – più bello e più attraente. Poiché se ella non possedeva un criterio critico per discernere le insufficienze di quei primi saggi, il suo cuore le faceva sentire, con la lucidità più dolorosa, le mutilazioni che il loro autore aveva, dovuto esercitare su se stesso per divenire l’imprenditore letterario che poi era
divenuto. La silenziosa creatura tanto semplice e così poco esperta,
per quale miracolo d’affetto aveva indovinato il dramma nascosto in
quella vita di artista sconfitto, che egli non diceva neppure a se stesso? Le somiglianze di sensibilità fra un padre ed una figlia producono tali fenomeni di doppia vista morale. Il padre ha ben presente solo
i dispiaceri che minacciano sua figlia. La figlia compiange il padre
per le malinconie ch’egli subisce, senza volerle ammettere, ed è appunto perciò che, durante quelle visite mattutine a quel laboratorio di
prosa, Régine stornava sempre gli occhi da un altro ritratto, quello di
sua madre, posto sullo scrittoio e che, rappresentava veramente la
“bella signora Le Prieux” in un costume di principessa del Rinascimento che con un successo meraviglioso aveva indossato in una festa. La grande fotografia protetta da un vetro e racchiusa in una cornice d’argento cesellato dominava la carta, le penne, il calamaio, la
carta assorbente, tutti quegli umili utensili del lavoro paziente, il quale aveva potuto pagare quel vestito e tanti altri. La giovanetta giudicava forse già sua madre, poiché sembrava avesse orrore di quel ritratto, oppure temeva di giudicarla e, simile a suo padre anche in
questo, non voleva confessarsi certe impressioni oscure e troppo penose che tuttavia palpitavano e vivevano nel fondo del suo essere intimo?
Quella simpatia, il di cui legame nascosto univa così strettamente
Hector Le Prieux a sua figlia, doveva essere molto forte, poiché allo
stesso modo che ella aveva indovinato il segreto di lui, egli senza alcun indizio aveva indovinato il segreto di lei. Se in quel mattino di
gennaio gli fosse stato possibile di seguirla attraverso la corsa vertiginosa del suo pensiero, egli si sarebbe accertato di aver detto la verità sull’inclinazione del cuore di Régine, pronunciando il nome di
Charles Huguenin nella conversazione del giorno innanzi.
Con questa differenza però, ch’egli credeva, come aveva detto a
Mathilde, che la giovanetta semplicemente prediligesse suo cugino
piuttosto che amarlo. Quell’amore, come accade a vent’anni, era nato
da una reazione. Si comincia quasi sempre amando qualcuno contro
qualcun altro o contro qualche altra cosa. La compassione che Régine Le Prieux provava per suo padre, si cambiava in una avversione
istintiva, irresistibile e quasi animale verso l’ambiente di cui il padre
era la vittima. Troppo delicata e scrupolosa per rendere sua madre
responsabile di ciò che ella considerava come un vero disastro del
destino, se la prendeva involontariamente con tutto quel che la madre
amava e che ella invece odiava. Non osando condannarla nella sua
persona ella la condannava nei suoi gusti.
E perciò odiava di quell’odio che non ragiona Parigi, la società,
gl’inviti a pranzo, i balli, le serate, le prime rappresentazioni, i vestiti, il lusso, tutte quelle apparenze infine di cui purtroppo conosceva il
prezzo.
La visione della casa di campagna che, il giorno avanti, aveva così stranamente occupato l’immaginazione del giornalista mentre correggeva le sue bozze, non lasciava più Régine da quella giornata del
mese di settembre in cui le era apparso quell’angolo di campagna
meridionale. Ella si era veduta, col pensiero, in quella casa tranquilla,
vivendo di una vita semplice con qualcuno che l’avrebbe amata sinceramente; e quel cugino Charles, quel giovane timido, molto provinciale, aveva trovato la via del suo cuore per mezzo della sua stessa goffaggine. Nell’innocente familiarità della loro parentela ella si
era compiaciuta di combattere in lui una certa ambizione di
un’esistenza più brillante e che lo spingeva, allievo molto notevole in
altri tempi del suo collegio, oggi laureato alla scuola di diritto, a fare
la sua carriera al Tribunale di Parigi.
E di discorso in discorso, di consiglio in consiglio, il cugino e la
cugina avevano finito per invaghirsi l’uno dell’altro, presi da uno di
quei sentimenti che non hanno bisogno per comunicarsi e per conso-
lidarsi, né di dichiarazioni, né di promesse – sentimento composto di
rispetto entusiasta dalla parte del giovane e di pudore fiducioso dalla
parte della giovane e che aveva invaso le due anime, avvolgendole
come in una stessa atmosfera, senza che però vi fosse stata nessuna
parola troppo decisa, nessuno sguardo troppo ardente, nessuna stretta
di mano troppo vibrante. E, venuto il momento della confessione definitiva, era loro sembrato che da lungo tempo, anzi sempre, essi avessero detto d’amarsi, tanto eran sicuri l’uno del cuore dell’altro.
Quell’inevitabile mandare all’aria la confessione dovuta alle sapienti combinazioni di quei due Machiavelli in gonnella, la signora
Le Prieux e la signora Faucherot e di quel terzo Machiavelli in coda
di rondine, l’astuto Crucè, era avvenuta soltanto una settimana prima.
La cosa si era prodotta nelle condizioni quasi scherzose che permetteva la fraterna ed amichevole famigliarità dei due cugini; e ciò
era avvenuto in un gran ballo dato dal dirHector di una Banca, dove
la signora Le Prieux aveva fatto invitare il giovane che da qualche
tempo era meno selvaggio. La madre accecata, come spesso lo sono i
genitori, dalle sue idee preconcette sul carattere della figlia se ne era
congratulata con lei la sera stessa, e Régine appoggiandosi al braccio
di suo cugino per andare al buffet dopo una controdanza, gli aveva
riferito quell’elogio materno.
– Allora – Charles aveva ad un tratto domandato. credete che io
non le sia antipatico?
– Non lo siete mai stato – Régine aveva risposto vivamente – ma
ora siete addirittura il preferito. Sarò costretta ad implorare la vostra
protezione presso di lei, quando mi troverò in qualche imbarazzo.
– Ed io ve l’accorderò, cugina – aveva aggiunto il giovane, sorridendo ed arrossendo – E questo forse sarebbe il momento di scrivere
a mia madre per chiederle… ciò che desidero tanto di chiederle, e
che poi non oso mai.
– Che cosa? – aveva domandato Régine con un sorriso sulle labbra semiaperte e con un sussulto interno.
Ella aveva ritirato il braccio da lui e si era fermata un istante come per farsi vento. Quell’angolo della sala da ballo con il suo buffet
pronto, vicino al quale essi giungevano, non era affatto il posto adatto per pronunziare certe parole solenni; la giovanetta aspettava quelle
parole. Però da soli a soli, la modestia di lei non le avrebbe permesso
di ascoltarle e Charles non avrebbe avuto il coraggio di proferirle,
mentre lì, coi nervi scossi dal dolce ritmo della musica, protetti ed
allo stesso tempo isolati in mezzo a quelle coppie di vestiti chiari e di
abiti neri che scivolavano, tornavano, giravano a pochi passi da loro,
egli non aveva temuto di dirle:
– Ma non oserò mai di farlo senza che me ne diate il permesso,
cugina mia!… Vorrei, dunque, chiedere a mia madre di scrivere ella
stessa alla vostra, per sapere se può venire a Parigi a fare in persona
un certo passo… Infine, cugina mia, se vi pregassi di cambiare questo vostro nome con un altro ed accettare di essere la signora Huguenin, che rispondereste?
Mentre Charles parlava, Régine poteva osservare che anche lui
tremava alquanto. Un’emozione straordinaria si era impossessata di
lei e, con un fremito nella voce, ella aveva detto:
– Se mio padre e mia madre rispondono: “sì”, io risponderò come
loro… Risparmiatemi qualunque altra domanda – ella aveva soggiunto, ed egli, con un accento soffocato, aveva proseguito:
– Scriverò domani… Fra quattro giorni vostra madre riceverà la
lettera della mia. Quanto mi sembreranno lunghi questi giorni!…
Eppure, cugina mia, sono due anni che io vi amo…
Siccome un’altra persona, che non era altri che il signor Crucè, si
avvicinava a loro, Régine era stata dispensata dal rispondere a quella
frase tanto dolce. Quanta riconoscenza provava per colui che le aveva parlato in quel modo e per la delicatezza con la quale egli era subito scomparso!
Le aveva risparmiato di rispondere, come era stato suo desiderio.
Egli aveva capito di quale turbamento fosse per lei il dover ascoltare
certe parole, che una fanciulla scrupolosa non dovrebbe udire, senza
ripeterle, come di dovere, alla madre.
Come le era riconoscente ancora per non essersi più fatto vedere
in quei quattro giorni in via General Foy!… E benché Régine prevedesse le obiezioni che avrebbe fatto la signora Le Prieux, non dubitava punto che i suoi genitori non le avrebbero concesso la libertà di
rispondere, secondo quello che le dettava il cuore, al passo tentato
dai genitori di Charles. Come anche non dubitava che essi non avrebbero fatto il passo che avrebbe segnato per lei il principio di una
vita nuova. Quella piccola febbre d’amore e di speranza, dall’epoca
di quella conversazione durante il ballo, l’andava innalzando in
un’aria più pura, e, come facilmente si comprende, non andava di-
sgiunta da qualche altra contraddittoria impressione. Ed erano appunto tali impressioni che, in quel mattino di gennaio, rendevano la giovanetta così nervosa avanti al ritratto di suo padre, mentre come
d’abitudine finiva di disporre il tavolo per quel martire del lavoro.
Purtroppo capiva che, partita lei, la solitudine del giornalista sarebbe stata completa, e siccome quello era il sesto giorno dal ballo e
che la lettera della signora Huguenin alla signora Le Prieux doveva
esser giunta:
– Povero e caro papà mio! – diceva a sé stessa impiegando per
parlare di suo padre quel grazioso vezzeggiativo – faccio molto male
a desiderare di lasciarlo. Chi gli sistemerà le carte com’egli vuole,
quando io non sarò più qui? La mamma non saprebbe farlo, e poi non
può alzarsi al mattino così per tempo. Con chi parlerà egli dei suoi
progetti? Chi lo incoraggerà a scrivere, almeno, il libro sulla poesia
del suo paese?
Questo era infatti uno dei progetti accarezzati dallo scrittore.
Quell’ambizione, così umile, era l’ultimo suo sogno d’artista! Non
sperando di poter mai più trovare il tempo da scrivere un’opera
d’immaginazione, né quell’elasticità interna necessaria ai versi ed al
romanzo, aveva cominciato a dedicarsi ad un lavoro minuzioso di erudizione, il quale soddisfaceva, in pari tempo, il suo bisogno d’un
lavoro non mercenario, ed il suo antico gusto sempre persistente per
la letteratura del suo paese.
Egli si era proposto di scrivere uno studio sui poeti della sua provincia: Jean Dupin, Pierre de Nesson, Henri Baude, Jean Robertet,
Biagio De Vigenère, Étienne Bournier, Claude BilIard, Jean de Lingendes… Quei nomi ed altri ancora, che non sono neppure conosciuti dai più feroci bibliofili, gli erano familiari, e per merito suo lo erano anche alla giovanetta che di sua propria mano aveva trascritto tutti
gli estratti di quegli autori, destinati a figurare nel volume. Ella continuava il suo monologo:
– Ma no, finirà quel libro in casa nostra… verrà per soggiornarvi,
nell’estate, quando non vi sono più prime rappresentazioni, invece di
andare a quel benedetto Trouville che costa loro tanto caro. Gli preparerò una camera che dia sulla pineta e chi sa che in quel luogo non
gli torni l’ispirazione? – E lo vedeva seduto presso la finestra aperta.
Il rumore del vento nella pineta, misto al lontano rumore delle onde
sul greto ed al canto acuto delle cicale, riempiva l’immenso spazio.
Régine vedeva la mano di suo padre sul tavolo; e la sua penna che
tracciava alcune linee non finite, che erano versi…
Poi un’altra immagine le si presentava.
– E la mamma come potrà sopportare quell’esilio in campagna? –
la fanciulla diceva a se stessa… – La condurremo a far visita ai vicini. Organizzeremo qualche gita. Charles è tanto buono! Ha tante trovate! Saprà certamente inventare qualche cosa per divertirla. D’altra
parte se papà scrive quel volume, gli frutterà l’Accademia…
Questo desiderio del giornalista di poter indossare alla fine della
sua carriera le palme verdi dell’abito accademico e pronunciare sotto
alla cupola immortale il discorso di prammatica innanzi al pubblico
abituale di quelle solennità parigine era il solo dei sentimenti comuni
fra la signora Le Prieux e sua figlia. Questa in una tale uniformità di
pensieri sopra di tal punto, provava una specie di segreta tranquillità
al rimorso che la invadeva ogni volta che era costretta a riconoscere
l’egoismo di sua madre.
– Dio mio! – ella ancora si diceva – ce lo hanno detto tante volte:
basterebbe che Le Prieux volesse fare un libro e sarebbe subito nominato. Laggiù io o Charles glielo faremmo far questo libro e avremmo insieme anche quella povera cara Fanny…
La “povera cara Fanny” era una vecchia zitellona, una tale Perrin
che aveva dato a Régine le sue prime lezioni di piano, e che era rimasta unita a quella famiglia disimpegnando le funzioni quasi di
donna di compagnia e di accompagnatrice…
Per una modesta retribuzione ella veniva là da Batignolles dove
abitava, una volta per accompagnare la giovanetta in qualche giro,
un’altra per tenerle compagnia nella solitudine del pranzo e della serata, allorquando i genitori di lei erano invitati fuori o andavano al
teatro.
Quella buona e modesta creatura era la sola vera amica di Régine,
nonostante i sagaci sforzi di sua madre per imporle le eleganti amicizie dei ritrovi aristocratici, dei catechismi select e delle riunioni più
in vista. Régine comprendeva tutte queste nobili intimità
nell’incorreggibile senso di antipatia che ella provava per tutto ciò
che era moda e lusso. Ed era anche per fuggir lontano da quelle fatiche di mentita amicizia, che provava un gusto inaudito all’idea di vivere laggiù nella Provenza, fra gente che l’avrebbe amata veramente.
E vi voleva anche quella sfortunata Fanny, quella vecchia zitella dei
sobborghi parigini che ella in mezzo a quel contorno di natura meridionale s’immaginava tutta felice, sebbene d’una alquanto comica
felicità e magari un pochino anche disorientata.
Régine sorrideva innanzi a quel sogno, come la Pierina della favola sorrideva alle speranze della sua tazza di latte, ed era così presa
dentro alla visione di quell’avvenire che non intese entrare suo padre.
Questi si fermò là un sol minuto per contemplarla immersa in quella
immobilità di sogno, prima di venirle incontro.
Ella era veramente un’apparizione adorabile di grazia e di gioventù, in quel piccolo studiolo, dalle mura tappezzate di libri, e che una
finestra, la quale dava sopra un cortile interno; rischiarava in quel
freddo mattino di gennaio, di una luce giallastra, nebbiosa e quasi
impoverita. Régine era già vestita e pettinata, i suoi capelli castani
erano accomodati semplicemente, portava i guanti per proteggere le
mani ed il grembiule di seta grigia, guarnito di spalline per proteggere il vestito; sembrava la fata più deliziosa che abbia mai dato alle
piccole cure domestiche l’incanto della poesia.
Se l’avesse sorpresa così graziosa, così fine, occupandosi di mansioni tanto modeste e con tanta silenziosa sollecitudine solo per suo
amore, quel padre non avrebbe di nuovo pensato alla conversazione
del giorno innanzi, in cui si era trattato di tutto l’avvenire di quella
squisita creatura? E forse che non avrebbe forse ancora provato una
viva impressione di tristezza, quando la signora Le Prieux aveva
pronunciato il nome di Edgard Faucherot? Era dunque quello il marito ch’egli avrebbe dato a sua figlia? E gli venne una forte tentazione
d’interrogarla e di farle dire un “no” per mandar subito all’aria quel
progetto. Ma ricordò la promessa rinnovata il mattino stesso presso il
letto di sua moglie, con la quale aveva fatto la prima colazione – segno di qualche determinazione molto grave, – in cui si era formalmente impegnato di non dire a Régine nemmeno una parola. E mantenne ciò che aveva promesso, ma con una lieve transazione di coscienza; cosa veramente eccezionale per un uomo come lui, di una
lealtà scrupolosa. La giovanetta lo aveva finalmente veduto, e si avvicinò a lui tendendogli la fronte.
– Ebbene, mia piccola capinera – disse il padre impiegando quel
grazioso modo di chiamare la figliola, come un’espressione di tenerezza paterna – Eri fra le nuvole? A che cosa o a chi pensavi?
– Ma… a nulla, e a nessuno in particolare – disse Régine arrossendo della sua piccola vergogna, e proseguì: – Come state stamani?
Non avete dovuto far troppo tardi ieri al giornale? Siete soddisfatto
del vostro articolo?
– Abbastanza, ma anche questa volta vi era un grosso errore di
stampa… Cartier si va guastando…
– Ah! – interruppe vivamente Régine – se potessi andare in ufficio e correggere per voi le vostre bozze…
– Ci mancherebbe altro! – rispose allegramente il padre – Ma io
sto perdendo il tempo in chiacchiere mentre oggi ho tanto lavoro da
fare – e mostrando un pacco di giornali che aveva sottomano, disse:
– Li ho trascorsi tutti, mentre mi stavo abbigliando. Ma non vi ho
trovato un soggetto adatto, eppure oggi mi tocca il solito Clavaroche.
Poi scorgendo un pacco di lettere sul tavolo, il suo corriere del
mattino, egli proseguì:
– Fortunatamente ci sarà qualche bravo corrispondente che verrà
in mio aiuto… E tu, mia bella capinera, va dalla mamma che
t’attende. Deve comunicarti qualche cosa di serio… Non dire che te
l’ho detto… Ma rispondendole procura di sapere quello che vuoi.
Non domandarmi nulla… Ricordati solamente di quel bel motto di
Goethe che ti ho citato tanto spesso: «Noi siamo liberi della nostra
prima azione. Non lo siamo però della seconda». A Chevagnes diciamo ciò con un detto molto più semplice… Andiamo, dammi un
bacio, mia cara figlia…
Quantunque la dolce e silenziosa Régine abituata com’era a vivere molto in se stessa e a rendere dolorosa con le proprie riflessioni la
sua sensibilità, non avesse quella leggerezza d’animo tanto naturale
alla sua età, disposta e facile alla speranza, come avrebbe potuto ella
resistere a non abbracciare suo padre con infinita gratitudine, e come
non avrebbe ella interpretato quale una promessa di felicità quella
trasparente allusione a una domanda di matrimonio? Senza dubbio la
lettera della madre di Charles era giunta. I suoi genitori avevano già
preso una risoluzione: ella sarebbe stata ora padrona della risposta. E
l’immaginazione le fece nuovamente sentire per un istante il rumore
del vento nella pineta ed il canto stridente delle cicale; rivide la piccola casa di campagna nella sua atmosfera di pace, da lei tanto desiderata, e si gettò sul cuore di suo padre dicendogli:
– Quanto siete buono, papà mio, quanto vi voglio bene!
– Sarebbe dunque vero ciò che crede sua madre, che Régine sia
veramente disposta al matrimonio con Faucherot? – si domandava
Hector, sedendo avanti al tavolo e cominciando a contare i fogli destinati al suo corriere – Come ha subito capito che si trattava di un
matrimonio, e poi è una fanciulla troppo furba perché non abbia indovinato di quale matrimonio si tratta, a meno che…
E il degno uomo appoggiò la testa sulle mani, in attitudine di meditazione profonda. Per la prima volta, da anni, egli rimaneva così
avanti ai fogli preparati senza pensare affatto al suo lavoro. Tuttavia
egli non osava tradurre quell’“a meno che…” in tutta la sua verità, né
spiegare a sé stesso l’idea espressa a sua moglie, nella conversazione
del giorno innanzi, e che quest’ultima aveva respinto con un’ironia
tanto disprezzante. La potenza dei caratteri forti sui caratteri deboli si
esercita nel dominio del pensiero, prima di esercitarsi nel dominio
della volontà.
L’energia con la quale Mathilde aveva protestato contro l’ipotesi
di un sentimento di Régine per Charles Huguenin suggestionava Le
Prieux, e dubitando della sua intenzione egli mandò un sospiro, aprì
il calamaio e si mise a scrivere dicendo a se stesso:
– Non c’è che una madre che possa conoscere i sentimenti della
propria figlia: aspettiamo che abbiano parlato insieme.
Mentre la carta scricchiolava sotto la sua penna lanciata finalmente a tutta corsa, le due donne parlavano infatti, a pochi passi da lui,
nella camera da letto della signora Le Prieux, separata dal gabinetto
da lavoro di Hector solamente dalla camera di riposo anche più piccola di quello studiolo letterario.
Quella penna infaticabile gli sarebbe certamente caduta dalle mani per lo stupore, se ad un tratto si fossero aperte le mura sottili che li
dividevano ed egli avesse potuto sorprendere, nella sua crudele verità, la conversazione che avveniva fra madre e figlia.
Questa, per la prima volta dopo tanto tempo dall’epoca in cui aveva cominciato a risvegliarsi in lei la compassione per la schiavitù
di suo padre, era entrata nella camera della signora Le Prieux, piena
di fiducia, coll’anima aperta e con una tenerezza fanciullesca dipinta
negli occhi, pronta a piangere di gioia, e con la confessione del suo
amore sincero sulle labbra…
Quel primo slancio era stato subito, non sprezzato, ma quasi arrestato al solo sguardo del despota domestico, da cui dipendeva tutto
l’avvenire del suo cuore.
Al momento in cui Régine entrava nella camera della madre, questa era in letto coricata nuovamente, come faceva ogni giorno per
non alzarsi se non al mattino tardi, dopo il bagno, che ella prendeva
secondo le prescrizioni del medico.
Lo spirito di realismo particolare ai meridionali, così positivi per
tutto ciò che vogliono e che comprendono, le faceva osservare con
un grande rigore le più minute precauzioni del regime che doveva
conservarle la salute, e con la salute la bellezza.
Mille particolarità testimoniavano in quella camera che il culto
della signora Le Prieux per la sua bellezza non riposava mai, sia che
si trovasse di fronte a se stessa, sia che ella recitasse la sua solita parte, anche quando il suo pubblico si componeva solamente del marito,
della figlia e della cameriera. E per il momento dedicato al riposo
dopo il bagno aveva una collezione completa di deliziose vestaglie in
foulard, in surah, in crespo della Cina, in batista, secondo la stagione. Quella mattina ne indossava una di bengalina color rosa vecchio.
Un’acconciatura di merletto le copriva i capelli, che la notte teneva
lentamente intrecciati per averne maggior cura, alcuni ricci artificiali
le incorniciavano la fronte: usava portar quei ricci che toglieva alla
sera prima di abbigliarsi, per risparmiare ai suoi capelli una doppia
ondulazione. La tonalità della camera, con i muri tappezzati di stoffa
di seta gialla a righe, alternativamente opache e lucide, con lo scuro
colore dei mobili di stile impero, col tappeto di un verde tenero, era
stata sapientemente combinata in altri tempi per armonizzare con la
tinta bruna della sua pelle alabastrina.
Ella teneva davanti a sé sopra un piumino di seta gialla, nella gradazione dei colori murali, un grande tavolo mobile dalle zampe corte,
che le serviva per posarvi la cartella della corrispondenza, vicino alla
scatola contenente i più minuti oggetti in tartaruga per la cura delle
mani. Quando Régine entrò per augurarle il buon giorno, ella era occupata a spazzolare col lisciatoio le unghie, lucide come lo smalto e
tagliate sui lati.
Un simpatico e leggero odore d’ambra e di verbena era stato fatto
vaporizzare in quell’ambiente quasi freddo, nonostante la fiamma
che ardeva nel caminetto: ma le finestre, sulle quali la brina aveva
formato alcuni rameggiamenti fantastici, erano state aperte igienicamente per una buona mezz’ora.
Così sorpresa, in quell’occupazione, con quell’abbigliamento, in
quel lusso e fra quei profumi, la “bella signora Le Prieux” avrebbe
dato l’impressione di una inalterabile giovinezza, se le tracce dell’età
impresse malgrado tutte le cure sulle palpebre, intorno alle tempie,
nelle linee della bocca, e nelle pieghe del collo, non avessero reso
tragico quel volto coperto dalla cipria.
Tutto, fino il contrasto cercato fra quei vivi colori della camera e
quel pallore, faceva risaltare la durezza singolare dei suoi lineamenti,
rimasti belli, d’una bellezza quasi truce, e che aumentava ancora lo
splendore delle sue pupille. Ella le fissò subito su Régine, mentre la
bocca che sembrava imperiosamente chiusa al silenzio, si apriva per
scambiare le prime parole sul loro sonno e la loro salute, poi proseguì:
– Mia cara figlia, ho bisogno che tu mi accordi tutta la tua attenzione: io devo avere una conversazione con te, che è della maggiore
importanza.
– Sono pronta ad ascoltarvi, mamma – rispose Régine. Ma la sua
calda speranza di pochi minuti prima si era giù cambiata, al semplice
suono di quella voce, in un timore che sua madre facesse obiezione
al matrimonio col cugino; ella non dubitava neppure che si trattasse
d’altro che di quel matrimonio ed il pensiero di dover lottare per
quell’amore le mise su quel grazioso volto un’espressione di fierezza, mentre proseguiva: – Papà mi ha già avvertito…
– Ah! tuo padre mi ha prevenuta! – disse la signora Le Prieux –
Eppure mi aveva promesso che ti avrei parlato per la prima.
– Ma egli mi ha detto solamente che voi mi aspettavate! – interruppe la giovanetta, arrossendo della sua pietosa bugia, la quale però
non persuase la madre che a metà; e per investigar fino al fondo il
cuore di sua figlia, ebbe nuovamente quello sguardo acuto col quale
aveva interrogato suo marito nella carrozza, quando gli aveva domandato: «Tu sai quel che ne pensa Régine?».
Ella teneva nascosta nella cartella la lettera della signora Huguenin giuntale il giorno innanzi, nella quale le domandava la mano di
Régine per Charles. La signora Le Prieux credette suo dovere di non
parlar affatto di quella lettera a sua figlia: ne avrebbe in seguito parlato a suo marito, allorché il matrimonio con Faucherot fosse stabili-
to. E si scusava di quel doppio silenzio per l’incertezza che vi era nel
passo tentato dalla madre di Charles. E soprattutto se ne scusava,
perché ella aveva la convinzione di rendere Régine felice.
Del resto poteva ella chiamarsi colpevole, se la felicità non poteva
concepirla in altro modo se non giudicando dalla sua stessa natura?
Ed era ella veramente colpevole se non consultava suo marito in
una decisione in cui i veri motivi non potevano e non dovevano essere conosciuti da lui, considerandolo come un uomo chimerico e debole, che lei, sua moglie, aveva dovuto proteggere? Quei veri motivi
li avrebbe ora detti a sua figlia, e tale franchezza era ai suoi occhi
una specie di compenso al silenzio che ella aveva voluto serbare sulla lettera.
– Figlia mia – cominciò dunque, dopo essersi assicurata che le
pupille di Régine rimanevano, come al solito impenetrabili sotto al
suo sguardo – bisogna che io ritorni indietro di parecchi anni col
pensiero: ed ora capirai il perché – quindi dopo una breve pausa ella
proseguì: – Quando sposai tuo padre, tu sai bene che non eravamo
ricchi, e sai pure il perché. Lo saremmo stati se tuo nonno avesse agito come tanti affaristi d’oggigiorno, che dopo ogni fallimento sono
più milionari di prima. Vedi bene che egli era un uomo onestissimo, e
dobbiamo a lui ed a tua nonna di poter tener la fronte alta avanti alla
società. Nella nostra catastrofe non ci siamo approfittati di un centesimo. Tuo padre ed io ci siamo dunque sposati avendo solo quel tanto
che ci permetteva di non morire di fame. Sì, ed abbiamo cominciato
proprio così prima di arrivare a formarci la posizione che godiamo
oggi nel mondo, noi, e per conseguenza anche tu. Ah! ed è giusto anche io ti dica che, da molti anni, non ho avuto altra cura che questa, e
tuo padre per aiutarmi non ha davvero indietreggiato avanti a nessun
lavoro… Credi pure che non è stata cosa tanto facile. La società è
mal prevenuta contro i letterati e lo è anche più contro i giornalisti. È
vero che molte volte sono prevenzioni meritate. Tuo padre è stato un
uomo perfetto. Non ha scritto un solo articolo senza rammentarsi
ch’egli apparteneva alla buona società. Debbo aggiungere che ci
hanno mostrato molta gratitudine. Ti dico tutte queste cose, perché tu
sia sempre riconoscente verso quel pover’uomo che ha lavorato tanto!
Quella donna orgogliosa ed incosciente accompagnò con un sospiro e con un nuovo silenzio quell’elogio tributato al marito lavoratore che ella aveva sfruttato e che continuava a sfruttare senza pietà.
Nell’ascoltar quell’esordio, Régine aveva provato quella strana
impressione di freddo al cuore, che ella conosceva troppo per doverla
subire ogni volta che sua madre manifestava certi sentimenti.
Quell’oscuro malessere aumentava ancora più la solennità, che la signora Le Prieux sembrava voler dare a quel discorso preparatorio.
Quell’evocazione dei ricordi della sua vita a che tendeva mai?
Régine però non volle lasciar senza risposta quell’appello alla
gratitudine filiale, perciò disse:
– So quanto mio padre lavori, e quanta gratitudine io gli debba,
mamma! Vi assicuro che non sono un’ingrata… Ahimè! mi pare anche ch’egli s’affatichi troppo!…
Régine non aveva misurato la portata di quelle parole, che le erano sfuggite involontariamente, perciò ne fu sconcertata. E la fu ancor
maggiormente, nel vedere che sua madre ne prendeva argomento per
passare ad un’altra confidenza molto seria.
– Provo un’immensa gioia di vedere come mi capisci così bene,
figlia mia – disse la madre – ed hai le stesse mie preoccupazioni per
quel pover’uomo. È proprio vero. Fatica troppo per l’età sua… Si
stanca… E faticherebbe anche di più s’egli potesse sapere quello che
ora ti confiderò… Ma prima mi devi giurare, intendi bene, mi devi
giurare, che questo segreto che sto per confidarti morrà con noi…
– Mamma, ve lo prometto – rispose la giovanetta senza aggiungere altro.
Ma se la signora Le Prieux l’avesse nuovamente guardata, col suo
sguardo scrutatore, si sarebbe avveduta che Régine tremava. Perché
tanti preamboli prima di domandarle quello che ella si aspettava, e
che sembravale cosa così facile a dirsi? «Tuo cugino Charles vuole
sposarti, cosa debbo rispondergli?». E invece di quella domanda ecco
che cosa dovette ascoltare Régine:
– Questo segreto, figlia mia, che tuo padre ignora, è che malgrado
il lavoro accanito da parte sua, ed i prodigi d’economia da parte mia,
non ci siamo potuti formare la posizione di cui ti parlavo poco fa,
senza che il nostro bilancio delle spese, non abbia superato da ben
dieci anni, ed ogni anno sempre più, il bilancio delle nostre riscossioni… Tu che conosci il nostro andamento, sai bene che economiz-
ziamo su tutto, sulla tavola, allorché siamo soli, come sui vestiti; e
sai anche quanto io procuri di evitare le mode molto eccentriche, appunto perché i nostri vestiti durino più a lungo: quante volte non li
trasformiamo noi, rinnovandoli in casa per maggior economia? Andiamo dai grandi sarti quando non se ne può fare a meno. Abbiamo
una semplice modista, un negoziuccio di gioie. Non abbiamo cavalli.
Quando si viaggia, tuo padre prende sempre un permesso, e ci serviamo del suo titolo di giornalista per ottenere negli alberghi le maggiori facilitazioni. Io non mi lagno affatto di tutte queste cose, benché
non sia stata punto educata a dovermi occupare di tante miserie. Ma
quello che mi addolora oltremodo si è che, con tante pene che mi sono presa per lui, affinché egli avesse, malgrado la sua professione,
una situazione sociale, e per te, perché come fanciulla tu avessi le relazioni che devi avere, non sono potuta riuscire ad evitare quello di
cui la mia cara mamma mi aveva insegnato ad avere un grande orrore. Ed una parola sola ti spiegherà tutto, tutto, figlia mia: noi siamo
pieni di debiti.
– Debiti? – ripeté Régine colpita nel più vivo del cuore dalla frase
relativa alle spese fatte per lei. Sì, era proprio vero, nessuna spesa era
stata risparmiata sulla sua educazione, sui suoi divertimenti e sulle
sue acconciature. E non pensò più di domandarsi la ragione di quella
confidenza materna. Ella solamente sentì quanto quella donna
l’avesse amata e la voce della delicata fanciulla si abbassò per rispondere: – Debiti? Avete fatto debiti e per causa mia? Ah! mamma
mia, quanto avete ragione di desiderare che papà lo ignori. Ma, come
potremo pagarli senza che egli aggravi il suo lavoro? Dio mio! – ella
aggiunse timidamente – ora che, come dite giustamente, la nostra posizione è formata, non si potrebbe restringere?
– Ed in che cosa? – interruppe la madre – E perché? per perdere
nuovamente quello che ci è costato tanta fatica acquistare? No, figlia
mia, tu non conosci la vita. Sai che a Parigi il restringersi significa il
suicidio sociale. Ho già sperimentato una volta, all’età tua, la facilità
terribile con la quale il mondo abbandona i caduti. Del resto non facciamo esagerazioni… Non si tratta che di qualche ritardo. Dobbiamo
ai nostri fornitori un quarantamila franchi e non più; questa somma
potrebbe essere facilmente pagata, anche col riposo di tuo padre,
se…
– Se… – domandò ansiosamente la giovanetta, e benché ella non
si permettesse di giudicare la madre, non poteva però impedirsi di
conoscerla, perciò capiva al solo accento col quale il “se” era stato
pronunciato che quello era il punto essenziale del loro discorso. Sì, lo
aveva capito dall’accento, alterato in una maniera quasi impercettibile, ma pur tuttavia alterato, dal cambiamento dell’ordine d’idee ed
anche dallo sguardo che, nel timore d’incontrare una resistenza qualunque, si addolciva e diventava quasi supplichevole.
Evidentemente quelle confidenze non erano state che una specie
di prefazione, ma… a che? Régine non poteva stabilire nessuna relazione fra la vita modesta della casa di campagna provenzale, se fosse
divenuta la signora Huguenin, ed il pagamento dei quarantamila
franchi di debiti, somma enorme a parer suo. Ed il cuore le batté fortemente quando ella, tutto ad un tratto, apprese il commento della signora Le Prieux a quel terribile “se”.
– Dio mio! ma è una cosa così facile!… Ma se, essendo così carina, e di un’educazione così fine, tu potessi trovare un bravo giovane,
ricco, enormemente ricco, il quale non si curasse della dote… Se tu
potessi maritarti così bene! che consolazione per il tuo povero papà!
Ed io riceverei il premio dei sacrifici di tutta la mia vita. Che cosa ho
desiderato? Una cosa sola, te lo ripeto, ed è che tu e tuo padre aveste
una vera posizione nel mondo. E tu l’avresti e per sempre… Il resto
si accomoderebbe facilmente… Si potrebbe allora economizzare, pagare i debiti… e tuo padre riposarsi… Ma sicuro… Quando una figlia è unita ai genitori come lo sei tu con noi, si possono accomodare
tante cose… Avremmo le stesse relazioni… Per esempio, se tu ricevessi ogni settimana, io potrei diminuire i pranzi e le mie serate…
poiché le tue cortesie varrebbero per tutte e due… Tu avresti possedimenti in provincia, nella Turenna, almeno suppongo, non troppo
lontano da Parigi. E noi, naturalmente, passeremmo con te due mesi
ogni anno. Papà potrebbe andare e venire, continuando il suo lavoro
e godendo al medesimo tempo di quell’aria pura, e le nostre spese
sarebbero così molto alleviate… È un sogno non è vero? Eppure vi
sono alcuni sogni che possono realizzarsi… Basterebbe che la graziosa Régine avesse incontrato ad un ballo, in un pranzo, od anche in
casa sua, un giovane, il quale avesse potuto apprezzare che tesoro ella è, un giovane che potesse comprendere anche chi siamo noi, e al
quale potremmo portare quel che a lui manca, cioè una vera apparen-
za sociale, e che a te porterebbe ciò che tuo padre ed io con tanto dispiacere non possiamo dare…
– E questo giovane… voi lo conoscete? – domandò Régine – Ditemi il suo nome, mamma, ve ne prego… egli è?
– Questo giovane esiste realmente – rispose la madre – egli è Edgard Faucherot.
– Edgard Faucherot! – esclamo Régine – Ah! ed è per parlarmi
d’Edgard Faucherot, che…
Ella non finì la frase; l’immagine di suo padre le si presentò
d’innanzi alla mente, ed anche il ricordo delle parole ch’egli le aveva
dette lasciandola, una mezz’ora prima, e la commozione che aveva
assaliti tutti e due: ella domandò:
– E mio padre sa che Edgard Faucherot vorrebbe sposarmi?
– Certamente – disse la madre.
– Ed approva questo matrimonio? proseguì Régine.
– E come vorresti ch’egli non l’approvasse? – rispose la signora
Le Prieux, che aggiunse subito: – Eppure il poveretto non sa la verità
sui nostri interessi!
Le gote della giovanetta furono invase da un tal pallore, la sua
voce tradì una tale scossa interna, che la donna implacabile ne rimase
colpita. “La bella signora Le Prieux” non era un mostro, sebbene il
suo prolungato sfruttamento del lavoro del marito a profitto della sua
vana passione di lusso, fosse quasi feroce, ed ora fosse anche quasi
feroce il suo modo di procedere per forzare sua figlia ad un matrimonio crudelmente utilitario. Quella era semplicemente una coscienza
viziata dai germi della corruzione che si respirano nell’atmosfera
mondana – corruzione alla quale la morale corrente bada appena, occupata com’è unicamente dei falli di galanteria. La signora Le Prieux
si credeva una donna onesta, e lo era secondo il senso ordinario della
parola. Ma, in compenso, la società aveva completamente annientato
in lei, per l’abuso quotidiano delle transazioni, quella nobile virtù
della verità intransigente, che non le avrebbe permesso di nascondere
a suo marito ed a sua figlia il passo tentato dalla signora Huguenin.
Ma quando si è abituati, da anni, ad accogliere con gentilezza coloro
che si disprezzano, a fare i complimenti a coloro che si odiano, come
e perché si dovrebbe esitare, per un motivo che si giudica utile al
prossimo, di praticare quell’antica massima, che il fine giustifica i
mezzi? E quando, sempre da anni, si è veduto incessantemente dietro
alle minime azioni della vita il danaro, sempre il danaro, unicamente
e costantemente rispettato, come e perché non dovrebbe riguardarsi
la fortuna come la condizione suprema della felicità?
La società insegna pure alle sensibilità volgari – e, non v’è da ingannarsi, qualunque vanità nasconde un lato grossolano e brutale –
questa triste verità, che cioè: la necessità vince sempre, alla fine, il
sentimento, e che, particolarmente trattandosi di un matrimonio, la
più sicura probabilità di buon accordo sta nell’associazione, non dei
cuori, ma degli interessi. Quindi bisogna tener conto a questa madre,
la quale tanto serenamente si preparava a sacrificar sua figlia, dello
scrupolo che la spinse a domandare alla giovane:
– Ma che cosa hai, Régine? Perché sei tanto pallida e commossa?
– Non è nulla, mamma; – rispose la ragazza – ero così poco preparata alla notizia che mi avete data… che sono rimasta stupefatta;
ecco…
– Rispondi con tutta franchezza – aggiunse la madre – Non ami
alcuno? Se tu amassi qualcuno, sono tua madre ed avresti il dovere di
dirmelo… E se vi fosse un altro matrimonio che ti convenisse di
più…
– Ma no, mamma… – interruppe Régine; e la sua voce divenne
più ferma per dire: – Non vi potrebbe essere un altro matrimonio che
mi convenisse di più… soltanto… – ella aggiunse con un sorriso dove palpitava, malgrado se stessa, la ribellione della gioventù e che
chiedeva ed implorava una dilazione al suo sacrificio, quella dilazione della figlia di Jefte ritirata sulla montagna per piangervi il suo addio alla vita, alle speranze, all’amore, – soltanto… vorrei che mi
concedeste qualche giorno, onde abituarmi alla prospettiva di un
cambiamento così grande, e soprattutto al pensiero di lasciarvi… oggi è martedì. Vorreste accordarmi di attendere fino a sabato per rispondere alla domanda del signor Faucherot?
Ella ebbe la forza di aggiungere:
– Io sono certa che sarà un “sì” ma – proseguì con accento solenne, – voglio rispondere quel sì dopo essermi consultata a fondo con
la mia coscienza.
– Ebbene, attenderemo fino a sabato – rispose la madre, la quale
avrebbe certamente preferito un’adesione immediata, che le avesse
permesso di metter subito in moto Crucè. E quella stessa larva di rimorso, che l’aveva spinta ad interrogar sua figlia, le impedì anche di
rifiutare alla sua vittima quella dilazione di pochi giorni. E nel risponder con tanta condiscendenza, non le parve forse di aver
l’illusione di rispettare la libera volontà di sua figlia?
Almeno così disse a suo marito, allorché Régine uscì dalla sua
camera, ed egli vi entrò mostrando la preoccupazione che l’invadeva;
poiché egli aveva spiato, malgrado il suo lavoro, la fine di quel colloquio ed entrando aveva domandato ansiosamente:
– Ebbene?
– Ebbene… Régine è rimasta tanto turbata… e tanto commossa…
– rispose la madre – molto turbata all’idea di lasciarci… Ed è naturalissimo. Molto commossa dal sentimento che rivela il passo tentato
da Edgard…
Ella chiamava per nome il giovane Faucherot; poiché lo considerava già come suo genero.
– Non ho voluto forzarla. Le ho accordato fino a sabato, per darmi una risposta decisiva. Ma sarà certamente un “sì” me lo ha detto
ella stessa… Ah! amico mio, se sapessi come sono felice!…
V.
Mentre quella madre, che credeva di essersi totalmente sacrificata, dava al marito in quei termini l’annunzio del colloquio con la figlia; che cosa faceva quest’altra più lucida vittima, conoscitrice – ahimè! – delle ambizioni mondane di quella donna terribile? Il lettore
ha veduto come, fin da principio, le doppie rivelazioni che Régine
aveva dovuto subire in pieno sogno di felicità l’avessero quasi atterrita, e come fosse rimasta fremente di compassione nell’apprender la
triste situazione finanziaria nella quale erano andati a piombar i suoi
genitori. Ed ella aveva provato anche un fremito di disillusione, una
disillusione molto vicina alla disperazione, quando la signora Le
Prieux le aveva detto che suo padre desiderava il matrimonio coi milioni di Faucherot figlio. Ed il fremito di Régine si era rinnovato e
l’aveva fatta piegare ed esclamare: «Credo che sarà un “sì”» e non
aveva che manifestato ad alta voce il suo pensiero.
Quella sollecita rinunzia a tutto ciò che la giovanetta riteneva come la sua sola felicità, non sembrerà troppo originale se non a quelli i
quali abbiano dimenticato la loro gioventù e come a quell’età
l’animo sia pronto agli slanci magnanimi. In qualunque circostanza,
Régine avrebbe avuto molta pena nel respingere un appello come
quello che sua madre aveva avuto l’abilità di rivolgerle. La sua resistenza diventava impossibile dal momento che suo padre pure le domandava lo stesso sacrificio; e, come il lettore ben sa, era stato il supremo machiavellismo della signora Le Prieux che le aveva fatto
credere una cosa simile.
Ciò non pertanto si è veduto come la dolce Ifigenia di questa tragedia borghese, senza dare sull’istante un rifiuto, avesse domandato
una breve sosta. Perché? Perché ella, nell’accettare l’idea
d’immolarsi alla volontà di suo padre e di sua madre, non aveva potuto impedire di ricordarsi che sacrificherebbe allo stesso tempo
un’altra persona, e non voleva, non poteva, accettare di compiere
quella immolazione, senza aver prima lanciato contro qualcuno, sotto
un’altra forma, il grido della vera Ifigenia,
Il cielo non ha concesso ai giorni di questa sventurata
La felicità riservata al nostro destino.
Il nostro amore c’ingannava….
Questo pensiero non si era formato nella mente sua con la precisione di un progetto. No. Mentre sua madre le parlava, ella aveva solamente inteso sanguinare e scuotersi una parte del cuore, quella in
cui fioriva ed ingigantiva il sogno della sua vita a fianco di Charles.
Ma la poverina non comprese tutta l’intera verità del martirio, al quale la condannava l’amor filiale, se non quando si fu ritirata, sola, nella sua stanza, aspettando – per una crudele ironia del caso, quel giorno era martedì, ed era il giorno di ricevimento della signora Le
Prieux, – di far toletta, per aiutare sua madre a ricevere le comparse
di quella commedia mondana, dov’ella avrebbe recitata una parte di
lacrime e di sangue.
La giovanetta, dopo aver chiuso a doppia chiave l’uscio della sua
cameretta, si assise a contemplarla, mentre le lacrime le scendevano
gravi sulle gote, senza proferire una parola od un gemito.
Ella dava così un addio alla povera Régine, poco felice, ma sostenuta ancora dalla speranza, la quale da parecchi anni passava le ore
più belle, quelle che poteva conquistar sul mondo, fra le quattro mura
di quella stretta cella, dove trovava il simbolo della contraddizione
sulla quale era basata tutta la vita sua.
Era una camera addobbata da una persona e abitata da un’altra.
La signora Le Prieux fin dalla prima infanzia di sua figlia aveva
voluto abituarla al lusso, come altre madri educano le loro figlie alla
economia. Quell’aberrazione apparente aveva una logica: quella madre fin d’allora era ben decisa a scegliersi un genero ricco, ella aveva
quasi preparato Régine ai centomila franchi di rendita che già le prevedeva: tutto in quella stanza da letto di Régine manifestava il romanzo materno; e le tappezzerie in mussolina rosa a righe azzurre
sopra un fondo pallidissimo che coprivano le mura e le cortine di tela
simile, e i mobili di lacca bianca ornati della stessa stoffa, e i mille
ninnoli in argento cesellato che risplendevano sulla tavola della toletta.
Ma non era stata la madre, era stata Régine che aveva scelto le fotografie sparse per tutta la camera, e che non palesavano davvero la
passione del lusso, ma solo la pietà filiale ed il gusto per le amicizie
umili. Quei ritratti non erano quelli delle amiche eleganti e ricche che
le imponeva la madre: erano quelli dei nonni di Chevagnes, che ella
non aveva mai conosciuti; vi era anche quello di suo padre, al princi-
pio della carriera; quello della madre, fatto prima dei trionfi mondani
e perciò con un vestito molto semplice; e sopra un solo cartone vi erano i ritratti dei cugini Huguenin, il padre e la madre di Charles,
presi avanti alla porta della loro casa di campagna; e Charles stesso
v’appariva in un angolo del gruppo.
In quel museo delle affezioni di Régine era anche una fotografia
della poco aristocratica Fanny Perrin, ma, al contrario, non v’era un
solo oggetto di cotillon, non uno di quei ricordi di feste da ballo, che
alla sua età si conservano tanto piacevolmente.
Nell’angolo della finestra era un piccolo scrittoio di noce antica,
con la sedia analoga, che la signora Le Prieux aveva voluto conservare a guisa di preziosa anticaglia e che era appartenuto a suo marito,
quando era bambino.
Sopra i due ordini della mensola che dominava il tavolo, si vedevano i pochi libri prediletti di Régine; i tre volumi del padre, naturalmente, e accanto ad essi i libri regalati a lei dal babbo, il quale si
era compiaciuto di coltivare in lei i sentimenti di sensibilità tanto uniformi ai suoi; fra i libri classici si ammiravano le tragedie di Racine, e fra i moderni, la Marie di Rizeux, le Stances et Poèmes e le Epreuves di Sully-Prudhommes le Derniéres paroles di Antoine Deschamps. Pochi libri di religione completavano l’ordine superiore
della mensola e nella parte sottostante erano allineati misteriosi volumi un poco alti, con le date stampate semplicemente sul dorso.
Quei volumi misteriosi contenevano gli articoli del giornalista, che la
ingenua idolatria di Régine le aveva fatto ammirare maggiormente, e
che ella stessa aveva tagliati ed incollati su fogli, e fatti legar poi
d’anno in anno. In mezzo a tutte quelle povere cose – fotografie antiche, vecchi mobili di provincia, libri antichi… – quando la sacrificata
fanciulla si trovava là sola, si sentiva veramente misera e abbandonata!
Con quella subitanea sottomissione, prodotta purtroppo
dall’argomento con cui sua madre aveva saputo commuoverla, in
quale inesprimibile abisso di cordoglio ella era andata a piombare ad
un tratto! Sola con sé stessa, come mai arrivò a sentirsi nuovamente
dominata da un dovere, che ella era incapace anche di discutere?
Quando per lunghi anni il principio costante delle sue emozioni era
stato una compassione, ogni giorno più dolorosa, per la schiavitù sotto la quale era oppresso suo padre, come mai poteva ella intravedere
una probabilità qualunque di sollevare quella schiavitù e di respingerla?
Ed ora non era più una probabilità, ma una certezza. Mentre sua
madre le parlava, la somma del debito, che le era stata da lei rivelata,
si era ad un tratto cambiata nel suo pensiero nella riflessione
dell’immenso lavoro che il giornalista avrebbe dovuto intraprendere
per pagarlo. Quante volte non aveva ella fatto quelle stesse riflessioni, quando sua madre la conduceva dalla sarta o dalla modista, e davanti a lei lungamente si ora dibattuto sulla ordinazione di un vestito
o di un cappellino, di cui si sarebbe potuto fare tanto bene a meno?
Che cosa era ora quella somma, che per lei era stata sempre un
rimorso, in confronto dei quarantamila franchi confessati dalla signora Le Prieux, e del numero veramente spaventevole di fogli che suo
padre avrebbe dovuto coprire di scritto per guadagnarli? Nella solitudine della sua camera, Régine contava nuovamente quei fogli, e restava tanto più affranta in quanto che conosceva la scrupolosa probità
di suo padre. Ella sapeva che non appena egli avesse appreso la verità, non avrebbe più avuto pace finché non avesse veduta la ricevuta
dell’ultimo conto.
Ora dipendeva da lei che questo conto venisse saldato. Dove avrebbe ella trovato la forza di esitare anche por un solo istante? Agli
indistruttibili ragionamenti che le aveva fatto sua madre, o che le dimostravano nella futura ricchezza della sua casa un aiuto quasi giornaliero per i suoi genitori, che cosa avrebbe potuto rispondere? Nulla, o forse che il suo cuore era impegnato? Il quesito era tutto basato
dunque o sulla, felicità sua, o su quella dei suoi genitori, e quando
un’anima generosa di vent’anni si trova di fronte ad un simile dilemma, non esita certo per la decisione.
Il rinunziare però ad una tale felicità non significa davvero l’aver
perduto il diritto di piangere e di compiangersi; ed erano appunto le
lacrime di quel suicidio che bagnavano le gote di Régine, nella verginale celletta, dov’ella aveva avuto per compagni della sua solitudine tanti dolci e felici sogni d’avvenire, e dove stava rinchiusa non per
discutere con se stessa, ma per soffrire… Ed ella, pianse, e pianse silenziosamente, per un tempo che non avrebbe saputo davvero misurare ma certo fino a un dato momento in cui le si presentò alla mente
un’idea che la fece ad un tratto balzare dalla seggiola.
Le sue piccole mani delicate asciugarono le lacrime, e rialzando
la testa con un gesto risoluto disse ad alta voce:
– Se non ho il coraggio per me, come potrò infonderne a Charles?
La valorosa ragazza dimenticava ora completamente se stessa. La
pietà e la compassione per gli altri erano l’istinto naturale di quella
graziosa e sensibile fanciulla, la quale, benché giovanissima, aveva
provato una immensa compassione, indovinando e dividendo le tristezze segrete e silenziose di suo padre. Ella ora già non si preoccupava più altro che di Charles.
Si sentiva così sinceramente amata da lui! Ed ella stessa lo riamava con una tenerezza che non era che sacrificio! Quanto soffrirebbe
egli nel saperla divenuta la signora Faucherot: e per sopportar quel
dolore egli non conosceva le imperiose ragioni del suo dovere filiale
che l’avrebbero difesa, e che la difendevano fin dal primo momento!
Régine prese la fotografia nella quale anch’egli era rappresentato
dietro al padre e alla madre in un angolo del gruppo. Benché quella
prova di dilettante, fatta da lei stessa nel suo viaggio in Provenza,
non fosse molto chiara, e che il giovane vi si perdesse nelle ombre in
distanza, la sua figura, i suoi capelli, lo sguardo, il sorriso e un certo
modo di tener la testa da un lato, che gli era molto famigliare, lo rendevano ben riconoscibile.
Régine, in un’allucinazione svanita non appena comparsa, lo vide
così come egli sarebbe stato allorquando si fosse ritirato vicino ai
suoi, col cuore straziato dalla malinconia, mentre ella sarebbe stata la
moglie d’un altro. E di quale altro poi! Quella evocazione fu per lei
così dolorosa che ella posò la fotografia, e prese a camminar su e giù
nella sua stretta prigione, rimuginando quell’unico pensiero in cui
s’assorbivano tutte quante le forze vive dell’esser suo.
Come mai annunciargli la terribile novella, e che cosa dirgli mai?
Sì, che dirgli? Eppure bisognava che ella stessa gli parlasse. Régine
era di una realtà troppo scrupolosa per non comprender ciò; dal momento che accettava l’idea di sposare un altro uomo, dopo la conversazione avuta insieme, ella doveva dare una spiegazione a Charles, e
gliela doveva dare immediatamente. Non lo aveva forse autorizzato
di far fare un passo alla signora Huguenin, per il qual passo appunto
la sua disperazione ora stava aumentando? Aveva una fiducia troppo
grande in sua madre, per immaginare che questa avesse potuto ricever la lettera della madre di Charles e non dirle una parola in propo-
sito, per ciò temeva ora che quella lettera fosse per la strada – dopo
pure averla tanto desiderata! Almeno se la signora Huguenin avesse
esitato, e la lettera non fosse ancora partita, avrebbe ella potuto sperare di giungere in tempo per impedire di scriverla, e risparmiare così
una umiliazione ai genitori di colui che ella amava? Perciò ora necessario parlargli subito. Era lì che tornava a battere il pensiero di
Régine.
Parlargli, ma come? Quella conversazione dov’ella vedrebbe soffrire il suo amico, e soffrire per causa sua, le appariva inevitabile ed
impossibile allo stesso tempo. Quale scusa avrebbe potuto trovare
per giustificare un ritorno sulla parola data, che ella stessa con la severità di coscienza sentimentale dei suoi venti anni avrebbe qualificato come azione mostruosa, se si fosse trattato di una sua amica,
senza pur conoscerne il reale motivo, e bisognava in ogni modo che
quel reale motivo fosse ignorato da tutti e specialmente da Charles?
Quand’anche una solenne promessa non gliela avesse vietato, si rivoltavano in lei e il senso di pietà familiare e tutti i pudori dell’anima
sua, al solo pensiero di metter colui che ella amava in quel doloroso
segreto di famiglia, nel segreto martirio di suo padre, nella maniera
di sentire di sua madre. Ella continuava a non voler punto giudicare
quella maniera di sentire della signora Le Prieux, anche in quel triste
momento, ma non dubitava del modo come Charles ne avrebbe giudicato.
Dio mio! se ella non avesse confessato ciò – ed avrebbe veramente preferito morire – come gli avrebbe spiegato la sua condotta, senza
che egli non la giudicasse assai severamente? Che cosa dirgli? Che
aveva riflettuto e che non l’amava più?
Dopo quel così recente colloquio durante il ballo, e nel quale ella
si era aperta con tanta semplicità, Charles non l’avrebbe certamente
creduta: e poi ella sentiva qualche cosa protestare contro quella calunnia del suo cuore. La giovinezza non ha lo scrupoloso disprezzo
delle proprie emozioni, se non perché ne sente anche l’orgoglio. E un
tal legittimo orgoglio, un tal bisogno di mostrarsi nella verità dei suoi
sentimenti profondi, senza rivelarne l’inconfessabile principio, finì,
dopo una lunga e dolorosa meditazione, con l’ispirare alla romantica
fanciulla il più ingenuo e insieme il più audace dei progetti, il meno
ragionevole e anche il più commovente. Ecco: ella avrebbe visto
Charles il più presto possibile, e lo avrebbe visto da sola a solo; in
quel colloquio si sarebbe rivolta alla sua stima, alla sua fede, al suo
amore; gli avrebbe chiesto di crederla, di credere che ella non gli aveva mentito e che non aveva cambiato, né avrebbe mai cambiato il
suo affetto per lui; e gli avrebbe anche detto che essi dovevano rinunziare al matrimonio sognato per una sacra insuperabile ragione
che ella non poteva rivelare; e lo avrebbe supplicato che, se l’amava,
non avrebbe dovuto cercare d’indagare; avrebbe fatto appello alla fede ch’egli aveva in lei e Charles avrebbe compreso la sofferenza di
quella richiesta e la sua sincerità.
Ella lo avrebbe ben compreso, se quell’appello fosse stato rivolto
a lei. La istantanea rottura di quel misterioso fidanzamento sarebbe
per ambedue un orribile momento: ma almeno ella, lasciandolo, poteva esser sicura che Charles non l’avrebbe disprezzata.
Una donna che ama, anche ingenua e lontana da ogni spirito
d’intrigo, com’era appunto la innocente e pura giovanetta, è sempre
tentata di trovare una scusa ai mezzi che impiega per servire il suo
amore, se pur quei mezzi siano tortuosi come le menzogne dei personaggi da commedia.
Régine non apparteneva ai numero di tali personaggi. Ella era una
di quelle simpatiche fanciulle della vecchia borghesia francese, piene
d’astuzia, ma anche di sincerità; ed aveva un tale orrore innato della
menzogna che, al momento di mettere in azione il suo piano, rimase
esitante d’innanzi ad una di quelle necessità di esecuzione, che sembrerà certo puerile alle adepte del femminismo contemporaneo.
E la causa di tale esitazione fu questa: parlare in casa, da sola a
solo, col proprio cugino era impossibile. Egli stesso non avrebbe mai
domandato di esser ricevuto da Régine nell’assenza della signora Le
Prieux, e al solo pensiero che Charles, molto probabilmente, sarebbe
venuto nel giorno di ricevimento, che ella avrebbe dovuto vederlo,
osservata da sua madre, senza potergli parlare con tutta la franchezza
dell’animo suo, ella si sentiva mancare. Il tempo intanto passava.
Precisamente il mattino seguente, ella doveva andare, accompagnata dalla fedele Fanny Perrin, in via Royale, ad uno dei corsi alla
moda, che la sua educazione elegante la costringeva a seguire. Quando era bel tempo, soleva sovente fare una passeggiata con la compagna prima del ritorno in casa. La prima idea di Régine fu di dare un
convegno al cugino, alle Tuileries od ai Campi Elisi per l’indomani
mattina. Essi si sarebbero incontrati per caso ed avrebbero fatto pochi passi insieme.
Non sarebbe stata quella la prima volta che sarebbe accaduto un
tal fatto. E le sembrava certamente un mezzo molto semplice e molto
sicuro.
Ella andò al suo scrittoio, prese un foglio di carta, ma poi, al momento d’intinger la penna nell’inchiostro, si fermò. Un altro pensiero
le si presentava alla mente: a trattenerla non era la lettera che doveva
scrivere, né il convegno che doveva fissare. Più volte, infatti, la signora Le Prieux l’aveva incaricata di avvertire Charles con qualche
biglietto, sia per un invito cambiato, sia per offrirgli un posto nel loro
palco al teatro. E, d’altra parte, ella aveva tutto il diritto di pensare
che, chiedendo quell’incontro, obbediva ad uno dei più giusti motivi.
E neppure era il pensiero di agire all’insaputa di sua madre a turbarla così. La giustizia interna con la quale, dopo una coraggiosa risoluzione, la coscienza giudica di se stessa, le faceva stabilire quasi
un paragone fra quella mancanza di fiducia ed il sacrificio che ella
s’era imposto per quella madre. No. L’immagine che, in quel primo
momento, le impediva di scrivere il suo generoso ed imprudente biglietto, era quella della signorina Perrin, buona ed eccellente creatura, che sapeva essere così scrupolosamente attaccata al suo dovere. E
Régine sapeva anche che Fanny riponeva in lei una fiducia cieca e
che non le sarebbe mai sorto il dubbio che quell’incontro con Charles
sarebbe avvenuto per caso, né avrebbe fatto nessuna obiezione s’ella
l’avesse lasciata alquanto indietro per poter parlare col cugino, senza
darle alcuna spiegazione.
Per la giovanetta era l’idea di ingannare quell’umile e discreta
amica che le riusciva insopportabile… Ma poi… ma poi l’amore fu il
più forte e, per la prima ed ultima volta nella sua vita, la delicata Régine si abbandonò alla più lieve e anche alla più degna di scusa delle
transazioni di coscienza
Ella disse a se stessa che avrebbe palesato a Fanny Perrin, facendole la proposta di andare alle Tuileries, il convegno con Charles; se
la vecchia signorina non avesse voluto acconsentire, Régine avrebbe
rinunciato di andarvi. E sarebbe sempre stata in tempo di trovare un
altro mezzo: s’ella avesse voluto esser sincera con se stessa, si sarebbe confessata che non correva davvero il rischio dì essere esposta ad
un nuovo sforzo d’immaginazione, era troppo sicura che Fanny
l’adorava e che non avrebbe saputo mai trovato la forza di dirle di
no. Perciò si sentì spinta a riprender la penna ed a scriver finalmente
il biglietto seguente:
Caro cugino,
Vi prego di trovarvi domani mattina, mercoledì, fra le dieci e
mezzo e le undici sulla terrazza delle Tuileries che dà dalla
parte della Senna, vicino alla Orangerie. Se non mi vedrete
giungere alle undici, ciò vorrà dire che un ostacolo mi avrà
impedito di venire. Quando vi avrò parlato, comprenderete
quale ragione potente ha ispirato un tale passo alla vostra
Dev. ma cugina
Régine Le Prieux
Quand’ella ebbe scritto l’indirizzo, volle rileggere quelle righe
tanto fredde, nonostante che fossero state vergate da una mano così
ardente ed aggiunse un poscritto che sottolineò:
«Vi prego anche di non venire oggi in via General Foy»
Poi, chiusa la lettera, volle ella stessa consegnarla al domestico
che stava preparando la tavola per la colazione e gli ordinò d’andar
subito alla posta. Ciò facendo ella era alquanto pallida, poiché infatti
quell’atto le sembrava così lontano da tutto ciò che ella sino ad allora
aveva fatto o aveva pensato di fare. Però, dal momento che ora ella
lo compieva apertamente, francamente, senza nascondersi, a rischio
d’esser sorpresa da suo padre o da sua madre, ella si diceva che correva un tal pericolo per l’onore del suo sentimento. Ciò bastava perché ella non ne avesse vergogna, né paura.
Ed ora bisognava aspettare: ma la calma che l’aveva fatta agire,
ora, minuto per minuto, secondo per secondo, si sarebbe consumata
in quelle ventiquattrore che la separavano da quel colloquio col cugino.
Dapprima, seduta a colazione, ella dovette subir gli sguardi di sua
madre e di suo padre – l’una trionfante e riconoscente, l’altro in
un’attitudine che non poteva se non accrescere lo sconforto della
giovanetta, quasi intenerito, stupefatto, interrogatore…
Fortunatamente egli se ne andò quasi subito, chiamato
dall’obbligo di una ripetizione generale alla quale doveva assistere.
– La quarta in una settimana… – egli gemette, prendendo congedo da sua moglie e da sua figlia.
Anche la signora Le Prieux scomparve per andarsi a preparare per
quel suo famoso giorno, quel “martedì” al quale dovevano essere subordinate l’esistenza sua e di suo marito e di sua figlia. Quella fatica
settimanale non era stata mai gradevole alla giovanetta, che l’aveva
accettata come una consuetudine col buon umore della sua età: ed
essendo religiosa, ella provava anche rimorso quando pensava di trovar penosa una cosa così leggera.
Questa volta lo sfilar delle visite doveva riuscirle – e realmente le
riuscì – fisicamente insopportabile.
– Avrà Charles ricevuto il mio biglietto? si, se egli era in casa…
Dio mio! purché egli non venga oggi! E so l’ha ricevuto che cosa
penserà di me? purché non mi giudichi male!… Egli dovrà indovinare che si tratta di qualche cosa di grave… E se ciò gli facesse pena?
io avrei dovuto spiegargli… ma lo potevo forse? Non so nemmeno se
vi riuscirei con le parole…
Così ella andava parlando in se stessa, mentre con la premura abituale andava eseguendo tutte quelle piccole incombenze che erano
riservate a lei, prima che suonassero quelle famose ore tre, in cui i
saloni si sarebbero riempiti di gente. Régine andava esaminando i
fiori dei vasi e le piante verdi e le carabattole dei tavolini e il fuoco
del caminetto. Sorvegliava la sala da pranzo dove si stavano preparando i rinfreschi.
A fine d’ingrandire il suo appartamento di ricevimento, la signora
Le Prieux aveva immaginato di togliere l’usciale alle porte di
quest’ultima camera che, così spalancate, formavano quasi come un
prolungamento del salone.
Quello cure però troppo materiali non bastavano a far tacere la
voce interna che ricordava alla giovanetta l’avvicinarsi del terribile
convegno e di tutte quelle chiacchiere che avrebbe dovuto ascoltare,
quando nella sala avrebbe affluito l’abituale folla dei visitatori.
Quel “giorno” della moglie d’un semplice giornalista era pure
un’assai curiosa mostra di ciò che è la Parigi d’oggi: e la vista di
quelle tre sale, verso le cinque, provava che se alla signora Le Prieux
mancava l’intelligenza della sensibilità, ella però aveva a un supremo
grado l’istinto sociale, quel dono particolare e indefinibile di saper
coltivar le relazioni. Quel successo, come tutti i successi, era dovuto
a una giusta visione delle cause.
Gli avvenimenti che erano succeduti alla rovina e al suicidio di
suo padre avevano rivelato a quel temperamento di meridionale questa prima e fondamentale verità: che il mondo non dà nulla per nulla
ed aveva subito compreso ciò che la posizione di suo marito le permetteva di dare a quel mondo per il quale ella era pazza.
Ella aveva anche compreso quest’altra verità, che cioè a Parigi e
ai nostri giorni non v’ha un sol centro mondano, ma venti, trenta, e
che le famiglie come la sua, senza appoggio di parentele e senza passato, debbono rassegnarsi a tenere una posizione alquanto eccentrica,
non spingendosi a fondo da nessuna parte e formandosi intorno un
cerchio speciale toccante tutti gli altri gruppi, senza mai provare a
voler essere assolutamente d’alcuno.
Infine ella aveva anche riconosciuto questa terza verità che, cioè,
per le relazioni avviene ciò che avviene per il denaro. Possedere un
napoleone è possedere venti pezzi da una lira: possedere cento lire è
possedere – cinque napoleoni. Vi sono cioè relazioni importanti che
ne comprendono altre dieci, altre venti, e relazioni di second’ordine
che non valgono che per loro stesse… La messa in atto di questi pratici assiomi si vedeva subito dalla composizione stessa di quel salotto, come appunto era in quel martedì che a Régine pareva non dovesse finir mai.
Sopra uno dei divani era seduta la duchessa di Coutay e sua figlia,
la giovane e bella contessa di Bec-Crespin. Ora ciò non avveniva forse perché la moglie del giornalista aveva trovato il mezzo, in virtù
del primo di quei tre principi, di mettere a servizio della vecchia e
passionatamente caritatevole duchessa, l’influenza che Hector aveva
e nel teatro e nella stampa? Così, a mano a mano…
E perché in quello stesso martedì assieme a quelle due rappresentanti della più pura aristocrazia ella aveva la signora Molan, la moglie del celebre romanziere e la signora Fauriel, la moglie del non
meno celebre pastellista? Ciò avveniva perché, in virtù del secondo
principio, ella non aveva mai commesso lo sbaglio di romperla con
un centro che, del resto, in fondo al cuore ella chiamava magari
coll’epiteto di zingaresco.
La signora Le Prieux si era sforzata a rendere dilettevole la sua
casa, facendone un ritrovo in cui gli appartenenti a una società più
stretta si potessero trovare a contatto, sopra un terreno neutro, con il
fiore dell’arte e delle lettere.
E perché, sempre in quel martedì, la contessa Moïse assieme a sua
cugina la baronessa Andermatt si trovavano là sedute, esse che possedevano, ciascuna per suo conto, tanti milioni quanti articoli aveva
scritti Hector in un anno? Non per altro che perché le due belle israelite erano particolarmente grate al giornalista d’avere, fin dal principio della campagna antisemitica, assunto quella posizione di liberale
moderato che ora continuava a mantenere con un disinteresse assoluto. Si comprende per consiglio di chi ciò fosse avvenuto… e voi vi
vedete la perspicacia dell’allievo del vecchio Crucé: le signore di
Coutay e di Bec-Crespin valevano più di dieci relazioni della migliore società; l’amicizia della signora Fauriel era come avere un pied-àterre in quelle due società in cui viveva tutta la giovane Parigi
dell’arte e delle lettere; e la contessa Moïse e la baronessa Andermatt
rappresentavano sicuramente numerosi inviti in tutta l’alta società
ebraica. Che cosa vi ha di meraviglioso nel fatto che una casa, frequentata da tanti pezzi grossi, non si vuoti mai e che, come appunto
in quei martedì, vi passino fra uomini e donne una quarantina di persone? Non era naturale che la creatrice di un tal salotto guardasse con
un senso d’orgoglio, alla luce delle lampade elettriche, tutti quei sorrisi che sotto ai ricchi cappelli allietavano quei volti freschi o sciupati? Ella sapeva sì bene il costo di quei cappelli, come anche ciò che
bisognava dire alle sue visitatrici per spingerle al sorriso. Ella sapeva
il valore d’ognuno di quei vestiari e sapeva anche il modo di accarezzare ognuna di quelle trenta vanità.
Una cosa però v’era che Mathilde non conosceva: la fatica che faceva Régine nel versare tante tazze di tè o di cioccolato e d’offrir tanti pasticcini a tutta quella gente indifferente. Ella non conosceva anche quanto tutti quei discorsi oramai imparati a memoria stancassero
Régine.
Questa, ad esempio, era oramai sazia di ascoltar la duchessa
quando esponeva il piano di una cinquecentesima festa di beneficenza da lei organizzata. La duchessa era una donna enorme, dai linea-
menti da venditrice di mercato, rossa in viso e altera di modi e che
parlava ad alta voce, rompendo ogni sua frase con un “non più” che
sarebbe stato inesplicabile, se non si fosse attribuito in lei il fatto di
aver troppo a lungo questuato per i poveri.
– Questa volta ci occorrerebbe il Palazzo dell’Industria, per un
paio di giorni: non più. Venti lire il biglietto d’ingresso e cinque lire
la visita ai diversi riparti: non più… Di tali riparti ve ne sarebbero
una ventina: non più. E in ognuno di essi, durante questi due giorni,
per una mezz’ora ciascuno, dovrebbero lavorare sotto agli occhi del
pubblico, proprio come lavorassero nel loro studio, o nel loro gabinetto, tutte le celebrità di Parigi: non più… Capite! A otto ore per
giorno, ciò ci rappresenterebbe trentadue mezz’ore per i due giorni. E
noi domanderemo ai trenta e più celebri scrittori… per i poveri essi
non si rifiuteranno… sì, noi domanderemo loro di seder avanti a un
tavolino per trenta soli minuti: non più… e di scrivere tutto ciò che
vorranno; ai maestri di musica, di suonar tutto ciò che loro farà comodo; agli artisti di disegnare tutto ciò che a loro piacerà. I trenta più
celebri avvocati redigeranno una loro memoria o parleranno su tutto
ciò che vorranno per una sola mezz’ora: non più. I medici condurranno i loro allievi e terranno una conferenza su quello che vorranno… Se faremo ciò in maggio, all’epoca in cui è più forte l’affluenza
dei forestieri, potremmo contare su diecimila ingressi: non più. Ciò ci
darebbe duecentomila franchi per i nostri piccoli scrofolosi: e poiché
ogni ingresso potrebbe avere in media una visita a quattro dei nostri
riparti, ciò ci darà ancora altri duecentomila franchi… Domandate al
signor Le Prieux ciò che pensa della mia idea…
Régine era veramente affaticata di dover anche in quel giorno far
le mostre di prestare attenzione a uno dei fantastici progetti in cui era
diffusa tutta l’attività dell’aristocratica signora, mentre la madre sorrideva a certe frasi dietro a cui la suscettibilità di sensitiva della giovanetta scorgeva quell’ingenuo e mortificante concetto che le donne
situate troppo in alto facilmente si formano delle celebrità dell’arte:
esse non scorgono in esse che altrettante bestie curiose da mettere in
mostra.
Così una quantità di altre frasi parevano interessar prodigiosamente la madre, a volerne giudicare dai cenni d’approvazione con
cui ella le accoglieva, che invece quasi riuscivano penose per la suscettibile Régine. Ed erano quelle che si ricambiavano la signora
Moïse e la signora Andermatt con la stessa ingenuità usata poc’anzi
dalla duchessa, senza punto sospettare – poiché esse, del resto, erano
buone e generose – quale ironia rappresentasse in quel centro, ove la
eleganza era un vero sfarzo, la sciocchezza di certe loro frasi alludenti alla cifra d’alcuna spesa.
– Sì – diceva la signora Andermatt, dopo aver raccontato i particolari di un’amichevole separazione avvenuta in una coppia che la
toccava assai da vicino – Salomone, mio marito, è arrivato a provare
a Saki, il marito della donna separata, ch’egli deve condursi da vero
gentleman. Sta bene che non vadano d’accordo, ma ad Ester non si
può rimproverar nulla. Ella è la madre dei suoi due figli… Ed egli è
obbligato a far sì che ella viva decorosamente… Saki si è convinto di
ciò… E sapete quanto gli passa?
– Ricco com’è, – interruppe la signora Moïse – poiché egli ha almeno cinquanta milioni…
– Ebbene – continuò la signora Andermatt – sessantamila franchi
di rendita, cinquemila lire al mese… Quanto ella prima spendeva in
biancherie. Come farà a vivere?
Sicuro, come avrebbe fatto a vivere la baronessa Ester Wismar?
Era ciò che si domandavano con una inarrivabile serietà, e visibilmente impietosite, quelle cinque persone che stavano ascoltando una
tale rivelazione sull’ammanco di cortesia che mostrava il gran banchiere Saki Wismar.
Régine avrebbe certo trovato assai comico quel senso di compassione, se una delle cinque persone che stavano ascoltando non fosse
stata la moglie di suo padre e se ella non avesse saputo quello che già
sapeva su l’importo delle loro spese mensili… Ma essa non ebbe il
tempo di abbandonarsi ad alcuna penosa riflessione, poiché la colpì
una frase che la signora Molan, a cui si era avvicinata per domandare
se avesse voluto una seconda tazza di tè, rivolgeva alla sua intima
amica, la signora Fauriel.
– Guarda, Lorenza, ecco la “miopetta” che arriva e la duchessa se
ne va con la contessa…
– Maria, Maria… tu ti vuoi fare sgridar da Régine – aveva risposto la signora Fauriel – sai che ella ha un debole per la signora Faucherot.
Infatti era la madre d’Edgard che arrivava, la quale quasi per giustificare la lieve canzonatura dell’arguta Lorenza Fauriel, si aprì un
passaggio senza a nulla badare, traverso ai gruppi che empivano del
loro cicaleccio la sala, per arrivare fino al posto dov’era Régine.
L’abbracciò e la povera giovanetta si intese come agghiacciar da quel
bacio.
Ella aveva troppa astuzia per non rendersi conto che la signora
Fauriel era rimasta alquanto contrariata che ella avesse inteso il poco
spiritoso epigramma dell’amica sua. E perché ciò, se non perché il
progetto del suo matrimonio con Edgard era già conosciuto e commentato? Inoltre la madre d’Edgard esternava in quella precipitosa
tenerezza a suo riguardo una specie di presa di possesso e quell’idea
le faceva correr nelle vene il fremito d’una gazzella presa negli artigli d’un leone – se pure è permesso un tal paragone, a riguardo di
una persona così poco leonina, come lo era l’antica venditrice della
casa Hardy Faucherot, Seterie e Velluti.
La commerciante, per ben sei volte milionaria, era una donna di
statura piuttosto piccola, sui quarantacinque anni di età, rimasta sottile e d’aspetto ancor giovanile. Esaminandola attentamente, ella possedeva tutti i lineamenti che avrebbero dovuto far di lei una signora
elegante: piedi piccoli, mani affilate, una vita sottile, un volto regolare, grandi occhi bruni e sopracciglia ben disegnate, denti bianchi e
regolarissimi. Ella era vestita all’ultima moda e la volpe azzurra che
portava al collo sarebbe stata degna d’una principessa reale. Ma
spiegate questo mistero: sopra tutta la sua persona era come sparso
un velo di una assoluta e irrimediabile volgarità. Ella si poteva dire
l’esatto contrapposto della duchessa, tanto per l’andata quanto per
tutto ciò che le avrebbe dovuto dare un aspetto non volgare. Durante
quel secondo in cui esse s’incontrarono sul limitare del salotto, si sarebbe potuto afferrare quel contrasto di condizioni esteriori, solo paragonando la larga vita della signora de Coutay e la sottile persona
della signora Faucherot, l’ammirabile pellicceria di questa e il vecchio ermellino dell’altra ingiallito e passato di moda. Pure, anche in
quel secondo, tutti avrebbero saputo riconoscere, chi era la duchessa
e chi la borghese. Da che cosa? Dalla scioltezza della prima o dalla
freddezza della seconda?
A quella specie di bonomia imponente e a quella gaiezza dell’una
o alla troppo visibile arroganza dell’altra? Chi potrà mai definire
questo insieme di piccole cose che distinguono la “razza”? Queste
piccole cose altro non sono, senza dubbio, se non la trasparenza di
segreti e imponderabili elementi nascosti nel più profondo dell’esser
nostro, i quali ci vietano o ci comandano la nostra diversa maniera di
pensare.
Colei che la signora Molan aveva chiamato col grazioso soprannome di “miopetta” dava una prova di ciò, con le parole da lei rivolte
a Régine, dopo quella prima effusione di affetto.
– Non era forse la duchessa De Coutay che è uscita adesso? Ed io
che desideravo tanto di fare la sua conoscenza! Perché non me ne avete prevenuta? è una vera iattura! Un intralcio di vetture mi ha impedito di venir prima. Figuratevi: ho detto al mio cocchiere di prendere per le vie secondarie… Non c’è cosa più noiosa d’una pariglia
da diecimila franchi: si sta sempre in timore per i cavalli… oh! voi
davvero avete ragione di non usare che cavalli d’affitto… Così se ne
può fare di strada!…
E la madre d’Edgard continuava su quel tono, senza accorgersi
dell’aria di motteggio a cui le sue sciocche parole avevano fatto piegar le labbra delle due parigine alle quali rivolgeva il discorso, né
della tristezza che quelle stesse sue sciocche parole avevano fatto dilagar nelle pupille di colei che ella aveva scelto a sua futura nuora.
Régine si provò all’interromperla. .
– Tè, o cioccolato? Con questo freddo bisogna bere qualche cosa
di caldo…
– Che cosa ha preso la duchessa? chiese la signora Faucherot.
E, dopo che Régine le ebbe risposto; ella aggiunse:
– Prenderò anch’io il tè come lei… Ditemi, viene spesso a vedervi? Ah! se lo avessi saputo!… Ed io che era così contenta d’aver
comperato quei cavalli dalla signora De Caudale… Lo sapete? sono i
suoi: li aveva messi in vendita al Tattersall. M’ero messa in capo
d’averli a qualunque costo… E proprio oggi mi hanno fatto venire
così in ritardo…
VI.
Il gentile e sottile Sully-Prudhomme, uno dei poeti che Hector Le
Prieux aveva insegnato ad amare a sua figlia, ha scritto questa riga di
un così alto significato sotto a tanta semplicità di parole: «e le ore arrivano tutte», formula profonda in cui è racchiuso il doppio dolore
dell’attesa: quello della durata del tempo e quello della sua rapidità.
Régine aveva conosciuto il primo di questi supplizi durante le
lunghe ore di quel famoso “martedì” e di tutto lo strascico che vi
tenne dietro. Assieme con la mamma aveva dovuto pranzar fuor di
casa e comparire in due ricevimenti. Tornata finalmente a casa sua e
libera di restar sola con se stessa, ella cominciò a conoscere l’altra
sofferenza, quella di saper brevi e numerati i momenti che ancora la
separavano dal convegno fissato. Ancora dodici ore, undici, dieci,
nove… avrebbero suonato le undici del mattino ed ella si sarebbe
trovata di fronte a suo cugino.
Che cosa gli avrebbe detto? Coricata dentro al suo lettuccio, spenta ogni luce, ella ascoltava il batter dell’orologio riempir la camera di
quella implacabile sonorità, che è come l’invincibile passo del tempo, e si sforzava di pronunciar nel pensiero quelle frasi che
l’indomani avrebbe dette in quel penoso convegno.
Più ella ne cercava le parole e più si trovava impotente a mettervi
tutto ciò che voleva tutto il suo amore, ed era un addio – tutta la sua
fedeltà, ed era una rottura – tutto il suo dolore, mentre il suo dovere
assoluto era quello di nascondere l’immane sacrificio! Dopo aver
molto pregato, si addormentò, assai tardi d’un sonno febbrile dal
quale poi si risvegliò più calma.
La necessità d’agire, tendendole i nervi, le rese momentaneamente, come accade, una notevole forza. Voleva dare la sua solita occhiata mattinale allo studio di suo padre, presto e in fretta, per non doversi incontrare con lui. Tremava al solo pensiero di parlargli e temeva
di non esser padrona di sé stessa e di tradirsi prima che l’irreparabile
fosse compiuto.
E infatti ella eseguì così rapidamente la sua quotidiana rivista che,
quando Le Prieux, alquanto prima del solito, andò a sedersi alla sua
scrivania non ve la trovò più.
Oh! i malintesi di cuore fra un padre e sua figlia quando pure ambedue non hanno l’un per l’altra che rispetto, devozione e ammirazio-
ne! Lo scrittore s’era affrettato ad entrar nel suo studio con la speranza
di sorprendervi la figlia, come gli accadeva e di provocare, senza averne l’aria, una spiegazione su quel matrimonio con Faucherot che continuava a turbarlo. Il sovrano ascendente che sua moglie esercitava su
di lui gli aveva impedito il giorno avanti di prendere in disparte Régine
e d’interrogarla. Aveva pensato che la giovanetta stessa avrebbe desiderato un tale colloquio e fu per lui un vero sconforto quando, entrando nel suo studio, vide il tavolino da lavoro sistemato, la carta preparata, le penne messe in ordine, il fuoco acceso, ma non più la presenza
della dolce fata che aveva presieduto a tutti quei preparativi.
Egli pensò:
– Perché Régine non ha voluto che noi parlassimo di questo matrimonio?
Mentre quel padre si rivolgeva una domanda alla quale non sapeva rispondere e non osava andar nulla a chiedere a sua figlia per timore di causarle un dolore, Régine diceva a sé stessa:
– Il babbo ora lavora tranquillamente. Egli è contento. Se sapesse
a qual prezzo!… Facciamo ch’egli non lo sappia mai!
Ella certo era molto sincera dicendo così. Pure quell’idea
dell’incoscienza paterna le riusciva così penosa, che provò una sensazione di straordinario sollievo, la prima dolce sensazione – dopo il
funesto colloquio della mattina antecedente – nel veder comparire
verso le nove e mezzo il volto così brutto, ma anche così affezionato
di Fanny Perrin.
La vecchia signorina era di figura grassa e tozza, con una testa assai grossa; le labbra prominenti e il naso schiacciato le davano
un’idea di fisionomia canina su cui però brillavano due occhi azzurri
d’una freschezza o d’una soavità deliziosa. Il suo pallido colorito,
ingiallito anche dal cattivo nutrimento, era reso anche più sciupato
dallo scoloramento dei capelli rimasti biondi, ma d’un biondo assai
slavato.
Oltre a ciò, Fanny da molti anni non indossava che gli abiti smessi di qualche sua più ricca protettrice ed i suoi vestiti erano così vistosi o ridicoli come quelli dei parenti poveri. La stoffa era insieme
lussuosa e sciupata, il taglio ricercato e fuor di moda, le guarnizioni
complicate e insufficienti. Lo stesso era per i cappelli e per le calzature.
Siccome però aveva spirito, una volta disse:
– Io veramente non avrò di nuovo e di fatto appositamente per me
che la cassa da morto…
La miseria d’una tale esistenza era concentrata meno nelle privazioni che nei doni. L’insolenza con la quale la maggior parte delle
volte sì fan dei doni a questo genere di persone, le costringe spesso
ad essere ingrate, per modo che esse provano una riconoscenza infinita quando trovano un benefattore delicato, che possono ringraziar
sinceramente non solo con le labbra, ma col cuore.
Era questo il segreto dell’esaltato affetto, che la povera signorina
Perrill aveva votata a Régine. Benché non le appartenesse per alcun
grado di parentela, quell’affetto però le dava, per le cose che interessavano la giovanetta, quel potere di doppia vista solo privilegio delle
madri molto tenere. E quella stessa mattina ella ne fornì una prova
commovente, poiché non appena ebbe osservato il pallore e gli occhi
stanchi della sua giovane amica, invece d’interrogarla sulla sua salute
le domandò:
– Che avete, Régine? Vi è accaduto qualche cosa di grave, molto
grave. Non me lo negate. Lo so, lo sento…
– È vero – rispose la giovanetta commossa fino alle lacrime per
quella intuizione della sua compagna di passeggio, ed aggiunse: –
Non m’interrogate. Ciò che posso dirvi, ve lo dirò… tanto più che mi
aspetto da voi un servigio, un gran servigio. Ma voglio che comprendiate bene che non mi offenderò se credete di non dovermelo rendere.
– Sono tranquilla – disse la signorina Perrin – La graziosa Régine
che cosa può domandarmi, che non vada bene?
Poi, vedendo che la giovanetta taceva, proseguì con un accento
timidamente inquisitore, come chi vuol prevenire una confidenza dolorosa e vorrebbe farsi perdonare la profetica previsione:
– Questa cosa grave, Régine, confessatelo, è che vi si vuol maritare!
– Sì, è che mi si vuol maritare – rispose Régine quasi a bassa voce.
– E con una persona che voi non amate? – azzardò di domandare
Fanny.
– Sì, con una persona che non amo – ripeté Régine.
Ora Fanny tacque. Ella aveva da gran tempo indovinato il sentimento di Régine per il cugino, senza farvi mai la più piccola allusione, e non avrebbe certamente osato di essere la prima a parlarne.
Dal cauto suo Régine, già si pentiva d’aver detto troppo. Prese la
mano della sua umile amica e con accento supplichevole disse:
– Mi sono espressa male, Fanny. Non crediate già che alcuno mi
voglia forzare a questo matrimonio. Me ne è stato parlato e sono io
che ho trovato ragionevole di non oppormivi. Ciò d’altronde non ha
nulla a vedere con la domanda che debbo farvi. Ho bisogno… – e
mise in questa parola, che sottolineò ripetendola, tutta l’energia dolorosa di un appello supremo: – ho bisogno di parlare con una persona
per pochi minuti da sola a solo. Ho scritto a questa persona di trovarsi sulla terrazza delle Tuileries, all’uscita dalla lezione… Se mi dite
che non mi volete accompagnare, non vi andrò. In quanto alla ragione che mi obbliga a questo passo, risparmiatemi qualunque interrogazione in proposito, ve ne scongiuro, se mi volete bene… Solamente siate sicura che vi stimo troppo per associarvi ad alcunché di male.
– Cara Régine! – interruppe vivamente, la vecchia zitella – lo so –
e senza rispondere direttamente alla domanda della giovanetta aggiunse: – andiamo, bisogna affrettarci. Saremo in ritardo per la lezione… Fortunatamente questa mattina si cammina così bene…
Vi era, in quest’ultima frase accompagnata da uno sguardo commosso, tutta la finezza femminile di cui è capace una zitella di cinquantacinque anni e che non vuol dire un “sì” formale avanti a una
domanda troppo evidentemente legata ad una storia d’amore; ma che
cionondimeno dice “sì” e si sente sbalordita di una complicità!… Infatti, quando due ore più tardi le due amiche, allorché la lezione fu
finita, si trovarono sul marciapiede della via Reale, e che senza nessun’altra spiegazione fra loro, come di tacito accordo, si diressero
verso la piazza della Concordia ed il cancello delle Tuileries, quella a
cui batteva più fortemente il cuore non era Régine. Durante i cinque
minuti che esse misero a percorrere quella breve distanza, venti volte
uno scrupolo fu sul punto di impossessarsi di Fanny Perrin e di fargli
dimenticare la sua promessa: ma un solo sguardo dato a Régine e
l’espressione insieme di fervore e di sofferenza, a cui era atteggiato
quel nobile volto, fermavano ogni obiezione nella sua coscienza e
sulle sue labbra.
Così, senza ricambiare una sola parola, le due donne arrivarono
sulla terrazza dell’Orangerie, dove scorsero con un’eguale emozione,
sebbene essa fosse di differente natura, la figura di Charles Huguenin
che le attendeva: e quell’angolo della tanto poco ideale Parigi, in
quella mattina d’inverno fredda e nebbiosa, era veramente un ambiente ideale per un addio, come quello incontro al quale Régine si
recava.
Sulla limpida piazza della Concordia le divinità marine delle due
grandi fontane si dirizzavano in un rivestimento di ghiaccio brillante.
L’obelisco fra esse sembrava color di rosa e l’arco di trionfo, lontano,
si annegava in una fredda vaporosità. Un sole pallido saliva sul cielo
senza nubi, su cui pareva disteso un gran velo di gelo. Non una foglia
sugli alberi.
Ai piedi della terrazza, nel bacino delle Tuileries, si stendeva uno
strato di ghiaccio solcato in mille sensi dall’opera dei pattini; tre giovanetti nel gran silenzio del giardino vuoto facevano risuonare, su
quel limpido specchio, le lame d’acciaio delle loro calzature. E nel
centro del bacino lo sgorgare dell’acqua emetteva una specie di sordo
singulto.
Tra i fusti affilati e robusti dei castagni giovani e vecchi, anche le
figure marmoree sembravano in quel giorno immobilizzate dal freddo. In alcuni punti, fra i boschetti dei viali, alcune chiazze d’acqua
lucevano come frammenti di metallo spezzato e caduti sopra il cupo
strato della sabbia. Un immenso rumore, che era il fremito dell’intera
città, avvolgeva la terrazza deserta.
Oltre le due donne ed il giovanotto che le stava attendendo, altri
là non v’era che una vecchia signora, una straniera, avvolta in una
pelliccia di martora, intenta a far correre dietro ad una palla due enormi cani dal lungo pelo fulvo, che abbaiavano selvaggiamente.
Oh! qual paesaggio di melanconici saluti! Ma Charles Huguenin
era un innamorato, e per un innamorato che sa di essere amato non
v’è altro paesaggio melanconico se non quello in cui manca l’oggetto
del suo amore.
Non appena aveva veduto comparir Régine sul marciapiede della
piazza, flessuosa e svelta nella sua giacchetta d’astrakan, l’aria per
lui era diventata calda, il cielo velato si era empito di luce,
quell’orizzonte di rami nudi e di acque ghiacciate s’era adornato dei
giocondi colori della primavera. Egli vedeva avvicinarsi la sua deli-
ziosa fidanzata – era tanto tempo che si augurava di darle quel nome,
senza pure osar di sperarlo! – vedeva avvicinare colei che, coi suoi
consigli e la dolce e suadente influenza, aveva impedito che egli si
lasciasse accalappiare dalla fittizia vita parigina e aveva riscaldato in
lui l’amore del paese nativo e il senso d’una vita semplice e vera.
Ella ben presto sarebbe stata sua moglie, ed egli l’avrebbe condotta
lontano, laggiù nella casa paterna, chiara in mezzo al nero dei cipressi:
e quel volto idolatrato la cui pallida mitezza alcune volte lo tormentava, si sarebbe empito, colorito, indorato all’aria balsamica del mezzogiorno.
Il giorno avanti, leggendo il biglietto di sua cugina Charles aveva
avuto un movimento di sorpresa e d’inquietudine, ma non era durato
a lungo.
La sua natura possedeva uno dei simpatici caratteri propri dei meridionali, quel carattere complesso e contraddittorio, in cui il duro
realismo può essere implacabile – come abbiamo veduto nella signora Le Prieux – e in cui anche la dolce sensibilità può essere tanto
gentile – ed era questo il caso di Charles.
L’erede degli Huguenin, di quei vecchi vignaioli provenzali così
assolutamente e profondamente attaccati alla loro terra, possedeva
quella pazienza ottimista in cui entra la pigrizia di un clima troppo
dolce, ma entra un poco anche di quella euritmia di cui i mediterranei, soprattutto i vecchi Elleni, avevano fatto una virtù. Egli aveva
detto a se stesso:
– La cugina Mathilde fa sorgere qualche difficoltà, e la mia povera Régine se la esagera…
E aveva teneramente sorriso all’idea delle immaginazioni infantili
che egli attribuiva alla sua fidanzata. Come avrebbe potuto dubitare
per un solo minuto del successo finale avendo per sé, prima e soprattutto, l’amore di Régine, poi la simpatia di Le Prieux, di cui era sicuro, finalmente la parentela con la signora Le Prieux, la quale non
permetteva che le obiezioni di questa fossero gravi? Charles era un
giovane di spirito, come lo indicava la distinzione spontanea dei suoi
modi, l’estrema delicatezza dei lineamenti, il sorriso prudente delle
labbra, la vivacità e la dolcezza degli occhi neri, dei grandi occhi
d’arabo, sopra un colorito bruno quasi d’ambra, – tutti quei segni di
un temperamento nervoso, d’una delicatezza istintiva non impedivano però che nei quattro anni ch’egli aveva trascorso al quartiere Lati-
no, non avesse serbato le vedute di un provinciale nella visione di
certe cose di Parigi. La vera situazione dei suoi cugini Le Prieux, per
esempio, gli sfuggiva assolutamente. Certo li considerava come persone ricche, dividendo la solita opinione borghese sui fantastici guadagni dei giornalisti, senza d’altronde essersi mai domandato quale
sarebbe o non sarebbe stata la dote di Régine, né se ne avesse una.
Anche lui era figlio unico e garantito di una vasta indipendenza,
se si fosse deciso a vivere nelle possessioni paterne – in quella bella
terra di vigneti e di oliveti, distesa a poche leghe da Martignes, sulle
rive del golfo di Fos – non credendo che il danaro avrebbe rappresentato una parte importante in quel matrimonio, come non lo rappresentava nel suo cuore. Non aveva molto riflettuto sulle anomalie che
un giovane parigino avrebbe veduto nelle relazioni mondane dei genitori di sua cugina. La società – senz’altro – gli rappresentava, come
alla maggior parte dei giovani della sua casta, qualche cosa
d’indeterminato, d’indefinito, una specie di luogo vago ove gli “arrivisti” di cui egli non faceva parte, si abbandonavano a sapienti intrighi matrimoniali, o d’altro genere, mentre i semplici, come lui, vi
subivano fatiche terribili, frivole insieme e necessarie, quando il caso
voleva che essi vi avessero a vivere in mezzo.
I coniugi Le Prieux erano per Charles Huguenin gente di società
come i suoi genitori erano proprietari di campagna, per una conformazione originaria che egli ammetteva senza punto caratterizzarne le
condizioni o le cause. Era così e bastava.
Con un tal genere d’idee nel cervello poteva egli pur sospettare le
realtà, contro le quali fin dal giorno avanti Régine si era andata dibattendo e i motivi dell’inattesa decisione che ella era venuta ora a comunicargli? Povera e romantica Régine, che non sospettava neppure
lei quale mai interpretazione rischiava con quel suo passo di sollevare nell’animo ignaro del giovanotto!
Ma intanto si erano avvicinati.
Charles – diciamolo ad onor suo – andava malamente balbettando
qualche parola destinata a dimostrare dinanzi all’amica di Fanny la
combinazione d’un incontro inatteso: ma Régine lo aveva subito interrotto per risparmiargli quella piccola menzogna e per risparmiare
alla sua compagna l’equivoco d’una falsa situazione.
– Non dite ciò, Charles… la signorina Fanny sa che io vi ho chiesto di venire qui… Ella ha molta stima di me e mi ama abbastanza
per comprendere che se ho voluto avere un convegno con voi, è perché non potevo più farne a meno… Ella ha avuto fiducia in me. Non
è vero, Fanny?
– È vero… – rispose la Perrin, facendo cenno ai due giovani
d’avviarsi avanti di qualche passo. E l’umile vecchia zitella in quel
gesto che avrebbe potuto essere assai servile aveva messo tanta seria
commozione e tanta dignità anche, e l’accento con cui aveva parlato
Régine era stato così solenne, che Charles indovinò ciò che non aveva saputo leggere fra le righe del biglietto. Quell’appuntamento che,
dopo il suo segreto fidanzamento, gli era apparso così maturale, era
invece d’una eccezionale gravità. Il suo nobile volto cessò
d’esprimere la tenera gaiezza di poco prima e domandò:
Ma che cosa accade, cugina mia? Mi sembrate così turbata e
sconvolta… Avete detto che dovevate avere questo colloquio con me,
come se vi costasse una qualche pena… Pure la nostra ultima conversazione e la lettera di mia madre…
– Vostra madre ha scritto? – interruppe Régine con una vivacità
che sconcertò Charles.
– E perché mi domandate ciò in questa maniera? – egli rispose –
Ah! Régine, avete dunque dimenticato tutto ciò che ci siamo detti
l’altra sera e tutto quello che voi mi avete promesso di sperare? Avete
potuto dubitare che io non mantenessi la mia promessa, e così presto
poi? La sera stessa io scrissi a mia madre ed ella mi ha risposto a volta di posta con la gioia che le dava il pensiero d’aver voi per sua figlia e con una tenerezza, vi assicuro, che voi ne sarete commossa…
Con lo stesso corriere è partita la sua lettera diretta a vostra madre: la
quale deve averla ricevuta, al più tardi lunedì… Quando io ho avuto
il vostro biglietto ho pensato che la signora Le Prieux facesse qualche obiezione e che voleste rendermene avvertito… Ma che cosa avete ora?
Mentre egli parlava, un pallore di morte aveva invaso le gote di
Régine: ella aveva provato un dolore di un’acutezza spasmodica apprendendo, così ad un tratto, che sua madre aveva già ricevuto quella
lettera in cui le si chiedeva la sua mano. Ed ella non le aveva detto
nulla! Non l’aveva nemmeno voluta lasciar libera di scegliere fra la
felicità e il sacrificio! La durezza di cuore di sua madre di cui senza
mai confessarlo ella aveva sempre tanto sofferto, una volta di più ap-
pariva all’anima sua con un aumento di dolore per la constatazione
della doppiezza di lei!
Tuttavia riuscì a dominarsi, e cercando di sgusciar sopra a quella
dolorosa questione, ella rispose:
– Non mi sento troppo bene stamani… E sono rimasta assai turbata quando mi avete parlato della signora Huguenin e della sua bontà a
mio riguardo… – poi risoluta ed implorante allo stesso tempo, ella
continuò: – Sentite, Charles… credete che io sia capace di mentire?
– Voi! – egli rispose ancora più stupefatto – so bene di non avervi
mai inteso dire una sola parola che non fosse la stessa verità.
– Grazie – rispose Régine – ripetetemelo: ciò mi fa tanto bene.
Ripetete che voi mi credete e mi crederete sempre…
– Credo… vi crederò sempre… – ripeté dolcemente il giovanotto,
fatto in quieto dalla visibile esaltazione di sua cugina – ma si può sapere perché…
– Perché? – ella interruppe – perché io ho bisogno di sentirmi ripetere che voi mi credete. Senza di ciò non avrei mai la forza di parlarvi, come ora vi parlo… come ora vi debbo parlare – insisté, quasi
strappandosi le parole dal più profondo del cuore – Sentite, Charles… se io vi ho dato questo appuntamento stamani, a rischio di farmi malamente giudicare da voi, è stato perché non ho voluto che sapeste da altri una cosa che non vi farà certo, credetelo, dolore maggiore di quello che già ha causato a me. Lasciatemi finire, cugino –
ella continuò, poiché vide un gesto che Charles aveva fatto per interromperla – io stessa ho voluto dirvi questa cosa per potervi ripetere
anche che, quando l’altra sera io vi diceva di dividere pienamente i
vostri sentimenti, io non mentivo… e non vi ho ingannato… sì,
Charles: portare il vostro nome, dedicarvi la mia vita, essere vostra
moglie, vivere laggiù, con voi… era e sarebbe sempre per me la felicità più completa… Vi prego di credermi…
E ripetendo per la quarta volta quell’invocazione, in cui si riassumeva tutta l’anima sua, la sua voce si era fatta più penetrante, come se ella avesse sperato di comunicare al giovanotto che, fatto pallido, la stava ascoltando, il fervore alla grande rinunzia, che ella sentiva di possedere.
– E vi prego ancora di credermi, quando io vi dirò che debbo rinunziare a questa mia felicità per una ragione alla quale non posso
sottrarmi, che non posso nemmeno svelarvi e sulla quale voi non dovete interrogarmi…
Mai, come allora, quel grazioso visino sempre tanto composto e
tanto chiuso dal delicato pudore dei suoi sentimenti, aveva lasciato
trasparire il fuoco ardente dei suoi intimi affetti. Mai quei dolci occhi
bruni erano stati rischiarati da una più intensa fiamma e le note soffocate, che passavano nel suo accento, accusavano la viva emozione
di quel cuore, di cui Charles, pur sotto la pelliccia d’astrakan, indovinava i battiti, tanto il suo seno verginale le si sollevava in un palpito di tenerezza.
In tutt’altro momento Charles avrebbe avuto compassione di quel
turbamento doloroso, ma egli stesso era in preda ad una sorpresa
troppo crudele e troppo violenta per commuoversi, e quando Régine
tacque, quella sorpresa scoppiò in un grido di rivolta quasi brutale:
– Non mi sembra possibile di avervi ben compreso. Vediamo – e
passandosi la mano sulla fronte, come per ritrovar la coscienza del
suo pensiero, esclamò: – E pure è vero. Non sogno, essendo desto;
Régine, siete qui vicino a me… e mi dite di non volermi più sposare?
– Non posso più – interruppe la giovane con un fil di voce che il
cugino, trasportato com’era dal vortice della passione, intese appena.
– E volete – proseguì Charles – che io accetti questa vostra risoluzione senza neppure provarmi di sapere com’è che vi è venuta, chi
ve l’ha ispirata e perché avete fatto questo cambiamento?
– Non ho cambiato – interruppe la giovane nuovamente.
– Mi dite che l’altra sera foste veramente sincera con me – continuò l’amante ferito, senza badare a quelle parole – e che oggi nutrite
gli stessi sentimenti… Se è vero, che cosa c’è allora? Che cosa è avvenuto? Non si toglie così ad una persona tutta la gioia della vita, tutta la speranza, senza che questa abbia il diritto di difendere quella felicità e quella speranza… No, Régine, non è possibile… Perché voi
abbiate tenuto un tale linguaggio con me, dopo la nostra conversazione di mercoledì, bisogna, ve lo ripeto ancora, che sia accaduta
qualche cosa, e qualche cosa di molto grave… Ma che? Dio mio! Ma
che cosa? Vostro padre o vostra madre si oppongono forse a questo
matrimonio? No… dal momento che non vi hanno detto d’aver ricevuto la lettera di mamma… A meno che, voi non siate stata prima a
parlarne con loro? Ve ne scongiuro, Régine, è questa la ragione?
– No – ella ebbe la forza di rispondere.
– Allora – insistette nuovamente il cugino se l’ostacolo non viene
dai vostri genitori, non può certamente venire che da voi… È dunque
un’idea che vi ha preso, e vi ha spinto a ritornare sopra alla vostra
decisione… Non può essere altrimenti. .
Se l’innocente Régine avesse avuto una qualche conoscenza del
cuore dell’uomo, ella avrebbe indovinato che quella frase rivelava
l’indietreggiare avanti ad un certo pensiero, e l’improvvisa apparizione della gelosia:
– Ebbene – egli esclamò supplichevole qualunque sia la vostra idea ditemela, o Régine… Vi credo… Come credo che voi mi amiate
quanto io vi amo… Non si tratta solamente della mia felicità, ma della felicità di ambedue… non la esponete così per una chimera, poiché
sono sicuro che non è che una chimera la vostra. Ditemi la ragione…
La discuteremo insieme. Se è un segreto, spero che mi crediate capace dì saperlo mantenere, giacché vi appartiene, e quando mi avrete
parlato, rimarrete stupita voi stessa che tutto si possa dissipare come
un cattivo sogno. Suvvia, anche voi abbiate un poco di fiducia in me,
parlate.
– Ah! – gemette la giovane con un accento di sofferenza, che questa volta colpì il cuore di Charles – Se avessi potuto, non avrei forse
parlato subito? Vi ho chiesto di credermi, – proseguì Régine congiungendo le mani tremanti – speravo che mi avreste creduto. Ora ve
lo chiedo nuovamente: credetemi, credete… che se sono venuta per
dirvi che il nostro matrimonio è impossibile, è perché lo è veramente;
e se non vi dico la ragione è perché non posso dir di più… No! – ella
ripeté con una forza quasi selvaggia – Non posso!
Nelle conversazioni come questa, impegnate con tutta la forza
dell’anima, vi sono momenti in cui una delle due volontà si sostiene
con un vigore talmente infrangibile che la discussione si ferma ad un
tratto. Quando Régine ebbe pronunziato quel suo ultimo “non posso”
Charles si sentì scoraggiato, e si trovò davanti all’inevitabile. I due
giovani fecero alcuni passi in silenzio, Régine sfinita dall’energia che
aveva spiegata, Charles turbato di urtarsi, per la prima volta in vita
sua, contro quell’impenetrabilità del cuore della donna, la peggiore
delle torture in amore. La guardava provando certe emozioni che avrebbe giurato di non dover mai provare vicino a lei, emozioni irritanti fino ad essere odiose. Il giovane onesto e semplice non sapeva a
quali irresistibili frenesie trasporta lo slancio acuto della passione
un’anima maschile improvvisamente alienata da se stessa, per
l’eccesso del dolore impotente.
Egli la guardava e le dolci pupille brune della giovanetta, l’ideale
nobiltà del profilo, la grazia delle gote minute, le sottili linee della
bocca fremente con le labbra un poco rigonfie, la morbidezza dei capelli castani, la delicata personcina, tutto quell’incanto di giovinezza,
che lo inteneriva abitualmente, ora sollevava in lui un desiderio crudele di batterla, d’infrangerla; tanto l’invincibile resistenza che emanava da lei, lo esasperava. Quale era la misteriosa ragione di quella
rottura, tanto potente da far ad un tratto cambiare quella fragile creatura ch’egli aveva veduto qualche sera avanti così piena d’abbandono
e tutta data a lui? Sul principio aveva creduto trattarsi persino di un
qualche scrupolo di religione.
Benché Régine fosse equilibrata e circospetta, e la pietà non si
fosse mai esaltata in lei fino alla devozione, chi sa se ella non avesse,
nel fervore dei suoi quindici anni, fatto qualche voto, di cui si fosse
rammentata ad un tratto? Ma no. Non avrebbe allora dovuto confessare una tale ragione, e quel terrore evidente… Charles continuava
ad osservarla, quando lo spaventoso sospetto, che in un lampo gli si
era presentato alla mente e ch’egli aveva scacciato, cominciò ad assediarlo nuovamente: “Se ella ne amasse un’altro?” Sospetto insensato, poiché ella aveva detto il contrario, e tutto in lei manifestava la
verità: le parole, la voce, lo sguardo; – sospetto abominevole, poiché
se Régine avesse amato un altro, il suo atteggiamento col cugino,
l’altra sera e ora, sarebbe stata la più scellerata delle civetterie; e
quando mai ella le aveva dato il diritto di crederla anche solamente
capace di un triste sentimento? Ohimè! i pensieri insensati e abominevoli sono quelli che per istinto la gelosia ridesta in noi, e la funesta
ebbrezza di tal sentimento non ci permette di riconoscerne la falsità e
l’ingiustizia. Questa in Charles Huguenin era la scusa per aver potuto, anche un sol momento, malamente pensare dell’adorabile fanciulla, che su quella terrazza camminava allora a suo fianco.
La ghiaia ghiacciata strideva sotto ai loro piedi. Il fischio dei rimorchiatori arrivava fino a loro volando sulla riva della Senna, che
scorreva vicina e verde fra le muraglie di pietra, e al giovanotto quei
rumori non parevano diversi dal suono delle parole che gli uscivano
dalla bocca. Era egli veramente che parlava a Régine? alla sua cara
Régine che fino a quel momento aveva circondato d’un amore pieno
di rispetto, d’idolatria e di pietà?
– Sta bene – disse Charles – rispetterò la vostra volontà. Non cercherò di sapere la ragione che v’induce a spezzare il mio cuore. Vi è
pertanto una domanda che ho il diritto di rivolgervi, ed alla quale è
vostro dovere di rispondere… Ditemi che non vi riprendete la parola
datami per sposare un altro… Ditemelo… e m’inchinerò… Lascerò
questa sera stessa Parigi e non sentirete mai più parlare di me. Ma
ditemelo. Voglio saperlo!
Vide che Régine si faceva pallida e tremava sempre di più, ma
continuava a tacere; ed allora il suo delirio crebbe per quello che indovinava in quel silenzio; e perciò proseguì con un accento più aspro
e più duro:
– È dunque vero, dal momento che non osate dirmi di no? È proprio vero?
– Non posso rispondere – mormorò ella con una voce che sembrava un soffio, tanto era soffocante l’emozione che provava.
– Non rispondere, sarebbe rispondere – esclamò Charles – Dunque sposate un altro!… – ed egli ripeté ancora: – Un’altro! – poi, tutto il furore della gelosia gli scoppiò negli occhi, e non misurò più le
parole: – Ma è un’infamia ciò che mi avete fatto! È un abominio!
Meritavo forse di essere trattato così? L’altra sera, quando vi ho parlato, sarebbe stato tanto naturale di dirmi subito la verità! E prima vi
eravate avveduta che io vi amavo. Perché mi avete lasciato credere
che dividevate il mio sentimento? Perché or ora avete provato di
farmelo credere ancora? Ah! È una cosa abominevole! abominevole!
– Charles! – interruppe la giovane supplicando – Tacete, mi fate
troppo male… per pietà… voi non sapete… Avete promesso di credermi…
– Ah! – rispose – Come volete che io vi creda ora?
– Non mi credete più? – domandò Régine fermandosi, come se
non le fosse stato possibile di continuare a camminare.
– No – rispose il cugino bruscamente. Ma egli aveva appena proferito quel terribile monosillabo, che già si sentiva invadere dal rimorso della sua bestemmia, constatando l’alterazione dei lineamenti
di Régine. Le palpebre della giovinetta batterono nervosamente, la
bocca si dischiuse cercando di respirare l’aria che le veniva a manca-
re, si appoggiò ad un albero per non cadere, come se le cose le girassero d’intorno.
Charles si avvicinò per sostenerla, ma ella lo respinse con un gesto. Il sangue era tornato ad affluirle sul volto. Aveva aperto nuovamente gli occhi, e l’indignazione di veder la sua sincerità cosi sconosciuta, apparì nel suo bello sguardo che ella fissò sul cugino con una
strana energia.
Quindi, invece di parlare, voltò bruscamente la spalle al giovane,
e si mise a correre come persona che fugge da una cosa insopportabile, verso la signorina Perrin che stava a pochi passi da loro, chiamandola con voce ferma;
– Fanny, Fanny, bisogna tornare in casa. Ne abbiamo appena il
tempo. Presto, presto!
Charles non provò a parlarle e a trattenerla di più, né a seguirla.
Non salutò nemmeno le due donne. Régine e la signora Perrin avevano già svoltato l’angolo del fabbricato dell’Orangerie ed egli stava
ancora vicino all’albero dove si era appoggiata la giovanetta, quasi
ipnotizzato dallo spavento di ciò che era accaduto. Stava ascoltando
gli abbaiamenti dei due cani dal lungo pelo fulvo che giocavano con
la vecchia signora straniera, i quali si erano allontanati verso l’altro
angolo ed ora a grandi salti si avvicinavano nuovamente… Egli
guardava attraverso i rami spogliati i pattinatori che andavano e venivano sul bacino ghiacciato, le statue grigie profilanti le loro linee,
la piazza della Concordia ondeggiante di vetture, l’obelisco che innalzava la sua guglia rosea fra le fontane, vicino agli dei corazzati di
ghiaccio risplendente e la figurina scura di Régine andarsene lontano
lontano… Tutti quei minuti particolari del luogo, nel quale si era
svolta la scena di rottura fra sua cugina e lui, erano veramente reali e
veri!
La verità delle parole che avevano scambiate fra loro, si realizzò
bruscamente nel suo spirito, – e soprattutto di quelle che egli aveva
pronunziate – ed allorché Régine scomparve completamente, egli
cadde sopra un banco gemendo:
– Infelice! ella non potrà più perdonarmi!
Charles aveva già smesso di dubitare di lei… Ed era molto peggio!
VII.
I rimorsi di Charles Huguenin non lo ingannavano: la fuga di sua
cugina lontano da lui, in quel momento, non era una di quelle discordie amorose e d’innamorati che al primo nuovo incontro, faranno ritornare una pace deliziosa.
No, il sentimento sollevato in Régine per quella mancanza di fiducia in lei era di quelli che precipitano un cuore giovane alle più estreme risoluzioni. È l’incanto ed è il pericolo delle sensibilità ventenni, quando avviene il primo urto con la vita, che predispone il loro
intero naturale a risoluzioni intransigenti e troppo facilmente irrevocabili. La stessa mancanza d’esperienza che dà loro un tal fervore
verso l’Ideale le rende anche incapaci, in quello slancio di felicità, di
formarsi un quadro esatto delle prime disillusioni. Non essendo ancora state abituate alle più piccole prove, esse sognano un assolutismo
nelle emozioni che non è di questo mondo, ed il constatarlo le dispera. Il lettore si ricorderà che Régine incamminandosi a quel convegno con l’anima esaltata, anche nell’angoscia che l’invadeva, spinta
da quell’idea che, facendo appello all’amore di suo cugino, avrebbe
potuto compiere quello che desiderava come un suo imperioso dovere di figlia, tacendo pertanto la ragione di quella sua determinazione,
non dubitava punto di non essere creduta da lui. Il risultato di quel
colloquio era stato che Charles aveva detto di non credere alle sue
parole. E ad un tratto le veniva tolta l’unica consolazione che ella avrebbe potuto avere nel suo mortale sacrificio.
Le sembrava allo stesso tempo di aver trovato in colui che ella
amava tanto uno sconosciuto che la spaventava. Quale sguardo
d’odio Régine aveva sorpreso negli occhi di Charles, che fremito di
crudeltà sulla bocca, che accento di cattiveria nella sua voce! E ciò
che finiva col turbarla più di quel disinganno e di quel terrore, era
quel riscuotersi d’indignazione irrefrenabile al contatto d’una iniquità troppo dura. Quel fremito di rivolta s’ingigantiva in lei, riflettendo
all’accaduto, mentre camminava al fianco della dolce Fanny Perrin,
con un passo sempre più rapido e più febbrile, un vero passo di fuga,
per allontanarsi da quella terrazza dov’ella aveva ascoltato quelle parole, l’ingiusta brutalità delle quali risuonava ancora al suo orecchio.
Quel “no” le era entrato ad un tratto, come una freccia nel fondo del
cuore, squarciandole la piaga. Ella andava letteralmente allucinata
dal dolore, non potendo sopportare questo pensiero: «Egli non mi
crede più», non vedendo né le strade, né le persone che le passavano
vicino, né la sua compagna silenziosa che non osava interrogarla, e
fu per lei come il destarsi da un attacco di sonnambulismo allorché,
giunte in via Delaborde e sul punto di entrare in via General-Foy, la
timida Fanny si decise finalmente a parlarle.
– Non v’interrogo, Régine… Non ne ho il diritto; pertanto prima
di lasciarvi vorrei farvi due domande… Vi ho dato prova, non è vero,
di quanto io vi ami e vi stimi?
– Cara Fanny, – rispose la giovanetta, stringendo la mano della
sua amica con una riconoscenza, che incoraggiò questa a continuare.
– Dal momento che lo sentite, dovete essere sicura, molto sicura,
che vi parlo nel vostro interesse, e per il meglio di ciò che ho capito.
Anche prima di oggi avevo capito molte cose… La prima domanda è
che mi dovete promettere di aspettare ancora, prima di decidervi per
questo matrimonio che vi si vuol far fare. La seconda….
– La seconda? – interrogò Régine.
– La seconda… – e la povera compagna di passeggio, si fece di
porpora per finire la sua frase – è di non essere ingiusta con vostro
cugino…
Le due donne erano giunte davanti alla porta della casa dove abitavano i Le Prieux, senza che Régine avesse dato una risposta né
all’una nè all’altra delle preghiere della sua umile amica.
Quell’allusione a Charles le aveva strappato un gesto che ella aveva
subito arrestato. Quando furono ambedue giunte sul pianerottolo
dell’appartamento, e prima di suonare, Régine disse con una voce
fremente per il turbamento interno:
– Perdonatemi, Fanny, se non vi ho risposto subito… Per la prima
domanda non posso promettervi nulla… Riguardo alla seconda, non
sapete quanto vi sbagliate sul conto mio, e su quello di… – il nome
di Charles le stava sulle labbra tremanti ma non le fu possibile di articolarlo – No – insistette – non sono io l’ingiusta… – e ripeté ancora
– Non sono io l’ingiusta… – quindi fece cenno alla sua confidente di
non continuare quel discorso, mentre premeva col dito il bottone del
campanello – Grazie di quello che avete fatto per me… – e
l’abbracciò al momento in cui la porta si apriva, dicendole a bassa
voce, ma con un tono che indicava una risoluzione molto ferma:
– Addio… bisogna che vi lasci… Sarà meglio così…
Un ultimo sguardo per rivolgere ancora un ringraziamento al
grande affetto che le aveva dimostrato Fanny ed una suprema preghiera di abbandonarla al suo destino, e già Régine era sparita
nell’anticamera. La porta era chiusa e la povera Perrin cominciava a
discendere la sontuosa scala di quella casa, una scala silenziosa, ricoperta di un tappeto rosso, con una balaustra in legno scolpito, vetri,
piante, ed un atmosfera tiepida riscaldata dai caloriferi, tutto quello
che poteva dare un’impressione di palazzo privato il quale faceva
parte del programma mondano di una “bella signora Le Prieux”.
Tutte queste diverse sontuosità s’imponevano ordinariamente alla
maestra di piano che subiva, a modo suo, il prestigio del lusso degli
altri. Ma preoccupata com’era in quel momento dalla scena di cui era
stata testimone, non pensava affatto di paragonare mentalmente la
fredda scala del suo quinto piano a Batignolles, coi soffici gradini
dove i suoi piedi si riposavano rispettosamente, anzi quasi con venerazione. Ed andava mentalmente dicendo a se stessa:
– A chi avranno pensato di dare in sposa Régine?
E riandava ai diversi giovani che frequentavano abitualmente il
salotto Le Prieux e che ella conosceva sia per i racconti della giovanetta, sia per aver più o meno compiuto la funzione di compagna di
passeggio, e di maestra, in quella società. Però l’immagine di Charles
si dipingeva nel suo pensiero fra venti altre, e finiva, per anteporsi a
tutte. Lo rivedeva, come lo aveva veduto pochi momenti prima sulla
terrazza in riva al bacino, andare incontro a Régine, col volto raggiante e commosso, gli occhi limpidi; poi, alla fine del colloquio, col
profilo irritato, le pupille dure, il gesto minaccioso; ed andava pensando: «Divisi? quei due bei giovani fatti così bene l’uno per l’altra?
Egli l’ama, ella lo ama… È troppo evidente… Ah! se il signor Le
Prieux potesse solamente supporre i sentimenti di sua figlia! È un
uomo tanto buono, lui… Farei male se gli dicessi la verità?»
E già un vago progetto si abbozzava nell’immaginazione della
vecchia signorina, – tanto romantica, malgrado la sua bruttezza,
quanto avrebbe potuto esserlo Régine stessa – il progetto insensato di
prevenire il padre di lei. Sì, e s’ella fosse andata dal brav’uomo per
dirgli che, impedendo il matrimonio di Régine con Charles Huguenin, faceva l’infelicità della figlia, avrebbe ella tradita la confidenza
che le aveva fatto così sinceramente la giovanetta? Prevenirlo? Ma
come e quando, affinché ciò non avvenisse troppo tardi?
Tutte le donne, per quanto siano semplici e poco femminili, hanno
tutte un’intuizione infallibile, quasi un istinto, quando si tratta di
un’avventura amorosa. La signorina Perrin non sapeva né il nome di
Edgard Faucherot, né le parole scambiate fra Régine e sua madre, né
il passo tentato dalla signora Huguenin. Ella ignorava anche i dati
segreti di quel dramma di famiglia, e le combinazioni della signora
Faucherot, e i debiti della signora Le Prieux, e le intromissioni di
Crucè.
Pertanto indovinava, fino al punto da provarne un’ansietà quasi
insopportabile, che non erano solamente contati i giorni, ma le ore, i
minuti… Ed era purtroppo vero: in quello stesso momento in cui ella
stava ferma sul marciapiede, osservando le finestre della casa Le
Prieux, coi vetri a piccoli quadri nello stile in uso all’epoca Luigi
XVI, in quella stessa casa, in una sala rischiarata da una di quelle finestre coperte da tendine di seta e merletto, si stava per compiere un
fatto quasi irrimediabile; e quell’ambiente era quella stessa camera
da letto in stile impero, col tappeto di color verde tenero, le tappezzerie di seta gialla, dove il giorno innanzi Régine era stata iniziata al
mistero di ciò che costavano le apparenze nelle quali aveva trascorso
la sua giovinezza.
Appena chiusa la porta e prima di entrar nella camera sua per levarsi il cappello e posar la giacchetta, la sventurata fanciulla aveva
domandato dove fosse sua madre.
Il groom aveva risposto: – La signora è in camera sua.
Ed ella vi si era diretta senz’altro.
La signora Le Prieux, vestita già per la consueta uscita pomeridiana – esse dovevano recarsi insieme a una delle tante esposizioni
parigine – era seduta alla scrivania intenta a scriver qualche lettera. Il
suo vestiario era di una stoffa pesante, d’un colore grigio argenteo,
guarnito di velluto ricamato a grandi fiori e ornato di chinchilla. Il
perfetto accomodamento di quell’abbigliamento le dava quasi un’aria
d’uniforme e di parata, allo stesso tempo che l’ordine e la complicazione degli oggetti allineati sulla scrivania attestavano la quantità
della corrispondenza e la necessità di una donna che, in materia di
saper vivere, non ha mai commesso il più leggero errore.
Quante “impressioni di dolorosa condoglianza” quanti “sensi di
commossa simpatia” e quanti “affettuosi complimenti” ella aveva
tracciato col suo grande carattere, pur così banale nella sua aristocra-
tica altezza, sopra a fogli del formato e del colore imposto dalla moda!
In fondo a quante risposte ad inviti ricevuti, ella aveva segnato
quella firma di “Duret Le Prieux” da lei adottata ad imitazione delle
abitatrici del Faubourg Saint-Germain, che amano unire la propria
nobiltà a quella del marito!
Nel vedere sua madre così, come l’aveva sempre conosciuta, continuando ad osservare le pratiche più minute della costumanza mondana, col rigore automatico di una macchina che sia caricata e senza
supporre nulla delle catastrofi morali che si venivano compiendo intorno a lei, Régine provò nuovamente quell’impressione di freddo al
cuore che aveva provato tante volte – ma più forte, poiché ora conosceva l’esistenza della lettera inviata dalla madre di Charles…
Che cosa era quel brivido della sua sensibilità offesa, in confronto
allo spaventoso dolore da cui ancora si sentiva sconvolta, e che in
quella breve mezz’ora fra le Tuileries e via General Foy aveva provocato in lei una vera crisi di delirio interno? Con qual altro nome si
sarebbe potuta chiamare quella frenesia di dolore che, in quei trenta
minuti, le aveva fatto abbracciar la folle risoluzione – che Fanny Perrin aveva purtroppo indovinato – di finirla subito e per sempre con
quel crudele e ingiusto Charles e di porre fra loro una barriera insormontabile? È sempre l’ispirazione del capriccio o della disperazione
che dà la spinta violenta alla volontà ed accade tanto di frequente
nella gioventù, all’età in cui l’energia della passione è più intensa ed
intatta, e l’anima devìa quando ad un tratto si urta in certi ostacoli.
Ahimè! e spesso, anche troppo spesso, ciò accade e per sempre. Una
tal barriera insormontabile la cattiva sorte di Régine aveva voluto che
ella avesse levata innanzi a sé. Bastava che invece di attendere il sabato, come era stato convenuto, avesse accettato subito il progetto di
matrimonio con Edgard Faucherot.
Ciò che caratterizza l’azione ispirata dal capriccio è la rapidità
con la quale ci adoperiamo a metterla in esecuzione con l’energia che
abbiamo disponibile, come se si fosse sicuri di ritrovarla poi ai nostri
ordini.
Più tardi, infatti, e passato il primo momento di sofferenze acute e
d’indignazione, Régine avrebbe potuto trovare la forza di pronunziare la frase che ella allora disse subito alla madre?
– Mamma, ho riflettuto alla nostra conversazione di ieri, e fin da
oggi posso darvi la mia risposta decisiva. Se il signor Edgard Faucherot chiede la mia mano di sposa l’accetterò…
Parlando, ella aveva la voce irregolare e metallica, gli occhi le
brillavano di uno splendore doloroso ed il bruciore. delle sue gote
maggiormente rivelava la febbre interna che la invadeva. Tutti quegli
indizi, e di più la sollecitudine di quel voltafaccia in una risoluzione
così grave, avrebbero dovuto illuminare la signora Le Prieux, tanto
più che ella avrebbe dovuto travedere nella lettera della madre di
Charles il romanzo dei due giovani. Ma, da una parte, ella era troppo
persuasa di assicurare la felicità di sua figlia per sentire il più piccolo
rimorso; e dall’altra aveva fin troppo senso pratico per cercar la ragione di un consenso che non sperava né pronto né facile.
Non era dunque maggior prudenza di profittar subito di quella disposizione favorevole da qualunque parte venisse? E chi lo sa? La
contentezza di quella donna pazzamente mondana all’idea del successo sociale che le rappresentava quel matrimonio con Faucherot,
era tanto grande, che forse vi fu tanta inscoscienza quanta poteva averne una creatura così autoritaria, nel movimento di commozione e
di affetto col quale ella chiuse nelle sue braccia Régine, dicendo:
– Ah! figlia mia! non mi aspettavo meno da te e tengo molto a dichiararlo, ora che ti sei liberamente decisa, e che non rischio
d’influenzarti: non potevi far di più per darmi una prova del tuo affetto per me… e nulla neppure che fosse più ragionevole… Mi benedirai un giorno di averti proposto un tal matrimonio. Non è da oggi
che ci penso, sai? Ma andiamo a dar la notizia a tuo padre. Quanto
sarà felice il povero e caro uomo!
E prendendo Régine per la mano, la trascinò fino allo stretto gabinetto del giornalista, il quale proprio in quel momento finiva – ed
era mezzodì – di mettere i numeri alle cartelle del suo terzo ed ultimo
articolo di quel mattino. La tensione del lavoro gli aveva solcato la
fronte di rughe, gonfiato ed arrossato gli occhi ed accentuato ancor
più la piega della bocca. Per la pressione delle mani sulle quali egli
aveva appoggiato la testa per meditare, i capelli si erano spettinati e
sembravano più grigi del solito.
Quel povero operaio della letteratura, sorpreso in quel momento,
dimostrava dieci anni di più. Benché allora Régine fosse nello stato
di semi-insensibilità, il quale accompagna sempre il compimento di
talune risoluzioni che sono veri suicidi morali, quella visione della
vecchiaia anticipata di suo padre la commosse nel più vivo del cuore,
e ancor più lo sguardo col quale il padre accolse l’annunzio del suo
prossimo fidanzamento. Ma l’una e l’altra impressione la confermarono sempre più nella sua funesta volontà.
– Amico mio – disse la signora Le Prieux con quell’insieme di solennità e di famigliarità che le era abituale – vi presento la futura signora di Edgard Faucherot – e ad un gesto di suo marito insistette: –
Ma… sì: Régine mi ha dato ora la sua risposta. Accetta, e dal momento che ella accetta abbiamo pensato, anzi ella ha pensato, che la
cosa più ragionevole è di farlo subito sapere all’eccellente amico che
si è incaricato di portare l’ambasciata… Scrivo subito a Crucè.
– Régine accetta? – ripeté lo scrittore, e nel pronunziar tali parole
con voce tremante d’emozione egli guardò Régine. Questa vide negli
occhi del pover’uomo quella espressione d’infinito stupore e di compassione che aveva già osservato il giorno innanzi e che l’aveva tanto
turbata. Le era sembrato di leggervi il rimorso del sacrificio richiesto.
Ella voltò gli occhi, ed il padre attribuì mentalmente quel visibile
impaccio di sua figlia ad una specie di vergogna. Non conoscendo
nulla della conversazione che le due donne avevano avuto insieme,
come non avrebbe egli creduto che Régine acconsentisse ad un matrimonio ricco, semplicemente perché era un matrimonio ricco?
Qualche cosa lo fece protestar pertanto contro una ipotesi che
contrariava a tal punto tutte le sue idee su di lei. Poi, vedendo la signora Le Prieux d’innanzi a sé raggiante ed emanar da lei un’autorità
tanto imperiosa, quell’uomo così debole trovò appena il coraggio di
rispondere:
– Ma, è ella ben sicura di aver riflettuto abbastanza? Régine, non
desideri pensarci su ancora?
– Ci ho già pensato su abbastanza – disse Régine – ed ho riflettuto.
– Davvero non desideri attendere ancora qualche giorno? – insistette il padre,
– Gliel’ho consigliato – disse la signora Le Prieux, la quale proseguì poi rivolgendosi alla figlia – Tuo padre ha ragione. Saremmo
ancora più tranquilli se tu accettassi di attendere qualche altro giorno.
La donna astuta era troppo sicura della risposta di Régine, la quale scosse la testa e replicò con fermezza;
– Per quale scopo? Non lo avete detto voi stessa, mamma? più
presto sarà e meglio sarà.
Mai padre e figlia che si amano teneramente, scambiarono un bacio più freddo di quello col quale Hector Le Prieux e Régine suggellarono quella specie di patto, ordinariamente così commovente,
quando una figlia informata di una domanda di matrimonio risponde
ai suoi genitori che ella acconsente. E mai pranzo di famiglia fatto in
circostanze che debbono essere così felici, fu più taciturno, più penoso, più carico di malessere indefinibile come quello che ebbe luogo
in casa Le Prieux. Mai, da quando egli andava trascinando il peso di
tutte le sue ambizioni calpestate, del suo ideale ingannato, del suo
destino mancato, il giornalista si era inteso l’anima più pesante di
quel giorno, dopo quella mesta colazione, nel varcar la soglia della
porta di casa, davanti alla quale era ferma la carrozza della signora
Le Prieux.
Il marito andava sempre a piedi od in carrozzella ad una delle tante commissioni di festa di beneficenza, di cui le relazioni di sua moglie lo facevano incessantemente membro o presidente. Quella volta
si trattava di una rappresentazione da organizzarsi per le vittime del
terremoto nelle isole Ioniche.
Ah! in alcuni momenti, e quei momenti si moltiplicavano di mano
in mano che la vita si andava inoltrando – quanto lo sposo invidiato
della “bella signora Le Prieux”, il cronista dai guadagni desiderati,
quel servile manifattore di prosa si trovava incapace di compiangere
le altrui miserie fuorché le sue, tanto l’esistenza gli sembrava lamentevole e mal riuscita!
L’immagine della moglie e della figlia gli rendeva abitualmente
l’energia necessaria. In quel momento, nel pensare ad ambedue, provava uno strano dolore. L’una, sua moglie, dopo quella conversazione avuta all’uscir dal teatro, le era apparsa tanto poco somigliante
all’immagine ch’egli voleva formarsi di lei, e ch’egli riusciva a farsene! Vi riusciva, ma simile in tal caso a tutti quelli che amano e che
non vogliono giudicare la persona amata, per uno sforzo di cui, malgrado tutto, egli era ben cosciente.
Nel fondo del suo pensiero egli conservava un posto oscuro dove
non guardava mai. Nel silenzio, in quel posto, si accumulavano le
prove del feroce egoismo di Mathilde, ch’egli non confessava a se
stesso e che le suscettibilità della sua tenerezza registravano, a dispetto di quell’accecamento sistematico.
Egli l’amava certamente, tanto passionatamente quanto in altri
tempi. Ai suoi occhi ella era sempre colei che aveva conosciuto tanto
infelice all’indomani della catastrofe paterna, l’orfana che non gli era
mai sembrato di aver in compenso ricolmato abbastanza di benessere, di lusso, di eleganza e, per quanto aveva potuto, anche di fasto.
Ma tutte le indulgenze, tutte le compiacenze di quella passione,
che vent’anni di matrimonio non erano riusciti a indebolire, non impedivano che egli avesse crudelmente sofferto degli orribili difetti
morali della sua compagna, benché non volesse consentire a riconoscerli. E per la prima volta dopo vent’anni quel riconoscimento gli
s’imponeva, poiché per la prima volta un sentimento uguale a quello
ch’egli portava a sua moglie entrava in lizza. Ciò che il marito non
aveva mai osato por suo conto, il padre l’avrebbe osato per conto
della figlia.
Che dico? Egli era già sul punto di osarlo. Hector non aveva mai
giudicato sua moglie: egli giudicava la madre di sua figlia.
Dal momento in cui ella aveva pronunziato il nome d’Edgard
Faucherot, Hector invano si dibatteva contro questa indiscutibile evidenza: no, una madre che amasse sua figlia non la maritava così! Ella
non poteva accettare ad un tratto, e con un senso di gioia, l’idea
d’abbandonare una creatura come Régine, un vero fiore di delicatezza e di pietà, a un giovane mediocre come quel Faucherot, volgare
nella intelligenza e nella sensibilità, con la sola scusa ch’egli era un
uomo ricco.
Era vero però che la signora Le Prieux avrebbe potuto portare a
sua discolpa il consenso della stessa Régine. Ed era qui che il padre
si ribellava e s’imponeva al marito. Quantunque quel consenso fosse
certo ed egli avesse inteso Régine pronunziar con voce netta e ferma
la frase fatale: «Ho ben riflettuto» la qual frase escludeva ogni idea
di sorpresa e di tirannia, pure in lui qualche cosa protestava invincibilmente.
Le sue relazioni con la figlia, fin dalla più tenera infanzia di essa,
erano state esattamente il contrario di quelle che l’univano a sua moglie. Egli aveva sempre trovato Régine trasparente come un’urna di
cristallo. Pensando a lei egli non aveva mai provato
quell’impressione di segreta costrizione, che tanto spesso provava
quando era di fronte all’altra. Il punto misterioso del carattere di sua
figlia per lui era limpidissimo.
In quei dolci e tristi occhi bruni egli aveva letto la compassione
per la sua esistenza di lavoratore, la conoscenza dei suoi notevoli disinganni, il dolore delle sue sacrificate ambizioni d’artista, e un’altra
cosa ancora… Egli non avrebbe voluto leggere quest’altra cosa, pure
aveva dovuto leggere anche quella condanna dell’egoismo materno.
Il padre non ammetteva che un cuore giovanotto, così fine e così
ardente, avesse di primo acchito accettato l’idea così odiosa a
vent’anni, un brutale matrimonio di danaro, non giustificato dalla
apparenza di alcun romantico pretesto.
Dietro a quella sommissione di sua figlia egli travedeva un enigma di cui gli sfuggivano i termini. Presentiva che sua moglie non le
aveva detto tutta la verità, che fra lei e Régine fossero corse parole
che egli non sapeva.
Un dramma clandestino si svolgeva intorno a lui, i cui elementi
gli sfuggivano, e tale impressione gli riusciva doppiamente penosa.
Prima di tutto vi si trovava, implicava la felicità futura della sua Régine: poi, ammettendo lo svolgersi di quel segreto dramma nella sua
famiglia, era come ammettere in sua moglie la doppiezza della sposa
e la durezza della madre.
Come dunque continuare a sostenere quel l’intima menzogna di
cui aveva bisogno il suo amore? Hector era uscito di casa, tormentato
da questi pensieri, lungo il marciapiedi di sinistra, verso la chiesa di
S. Agostino, quando, dalla via di Lisbona, vide una donna precipitarsi ad incontrarlo quasi correndo, e con grande stupore riconobbe in
lei la compagna di passeggio di sua figlia: Fanny Perrin. La vecchia
signorina, fin da quando aveva lasciato Régine, era rimasta ferma in
quel posto, non decidendosi né a salire su nell’appartamento dove
avrebbe domandato del signor Le Prieux, né ad andarsene. Ella aveva
lasciato trascorrere i minuti, dimenticando l’ora della colazione e,
cosa che era una distrazione ancora più straordinaria, in una persona
così puntuale e così povera, l’ora della lezione di piano che doveva
dare ai Batignolles. Stava attendendo l’uscita di Le Prieux, senza aver ancora potuto decidere ciò che gli avrebbe detto.
Ma lo aspettava col cuore palpitante, la gola stretta, quasi forzata
a quella azione da una forza estranea alla sua volontà e con un grande rimorso di tradire, parlando, le confidenze di Régine, ma com-
prendendo pure l’impossibilità di lasciar compiere il matrimonio che
questa le aveva annunziato. Voleva almeno che il padre sapesse la
verità. E come? In quali termini?
Per la povera creatura che aveva trascorso la sua esistenza così
tristemente calma, in mezzo a occupazioni tanto ristrette e regolate,
quelle poche ore contenevano più avvenimenti di quelli che aveva
passato fino allora. Ella aveva accettato di accompagnare una sua allieva ad un convegno. Era depositaria di un segreto dal quale dipendeva il destino di quell’allieva, che amava fino al punto di essersi decisa a quella transazione con la sua coscienza professionale, ed ora si
preparava a rivelare quel segreto! Ed i lineamenti marcati del suo
volto semplice si erano alterati per l’emozione, al momento in cui
ella si era accostata al padre di Régine.
Le sue labbra grosse, da cui solitamente spirava quel sorriso di
comune amabilità di un essere inferiore esposto sempre ai rabuffi,
esprimevano in quel momento una vera angoscia: le parole vi si affollavano quasi incoerenti in una mescolanza di frasi che tradivano il
parlare abituale del suo umile mestiere, e di supplichevoli esclamazioni che svelavano la sua ansia interna e lo scrupolo di mancare alla
promessa fatta a Régine.
Ma il suo appassionato desiderio di salvarla la spingeva a tutto.
– Signor Le Prieux – ella disse – scuserete la libertà che mi prendo… Ho assolutamente bisogno di parlarvi… Io sono una poveretta,
signor Le Prieux, e so che non avrei dovuto far questo passo…
Poi aggiunse quasi a prevenire ogni domanda:
– Non mi interrompete, perché non potrei rispondervi… non lo
dovrei. Non dovrei nemmeno essere qui… Ma si tratta della signorina Régine, che è stata sempre tanto buona con me e che io amo tanto… C’è una cosa, signor Le Prieux, che bisogna che voi sappiate…
Bisogna!… – ella ripeté – Se Régine farà quel matrimonio che voi le
volete far fare, ella ne morrà di dolore, poiché ella ama qualcuno…
Non mi domandate il nome – ella riprese con un nuovo cambiamento
di voce – non ve lo dirò mai. Ma voi non dovete forzarla a maritarsi
contro il suo cuore. Vi ripeto che ella ne morrebbe di dolore… Oh!
Dio mio! Ecco le signore… Forse esse mi vedranno… Signor Le
Prieux, vi prego, fate che Régine non sappia mai che io vi ho parlato… mai… mai…
E lasciando il suo interlocutore letteralmente paralizzato di sorpresa all’angolo del marciapiede, ella fuggì senza voltarsi per la via
di Lisbona, come una persona che avesse allora commesso una qualche abominevole azione. Ella aveva veduto mettersi in moto il coupé
rimasto fin allora immobile innanzi al portone ed avanzar nella sua
direzione: e prima che il padre di Régine che a quella sua frase: “Ecco la signora” si era rivoltato, fosse tornato interamente padrone di se
stesso, la vettura gli passava davanti.
Il cavallo procedeva al passo. Le Prieux vide che il coupé era
vuoto e chiamò il cocchiere che si fermò per rispondere alla sua domanda:
– Le signore usciranno fra mezz’ora… La signora mi ha dato una
lettera da portare al signor Crucè.
– Io vado appunto da quella parte – disse Hector che, piegandosi,
aveva veduto la lettera nella cassetta anteriore. Aprì lo sportello e
prese la lettera, poi si volse nuovamente al cocchiere: – Potete tornare indietro. Direte alla signora che mi sono incaricato io stesso di
consegnar la lettera.
Quelle due brevi scene, l’arrivo della signorina Perrin, il suo discorso e la sua fuga da una parte: dall’altra l’arrivo della carrozza, la
sua fermata e la presa del biglietto destinato a Crucè erano state così
rapide e s’erano succedute in una tale inattesa maniera, che a Hector
Le Prieux poteva sembrare d’aver sognato se non si fosse poi ritrovato fermo all’angolo formato dalla via General-Foy e dalla via di Lisbona, con quella lettera di sua moglie stretta in una mano.
Afferrandola, così come aveva fatto, nella cassetta del coupé e dicendo ciò che infatti aveva detto al cocchiere egli – uomo sempre
pIeno di riflessione – aveva obbedito al movimento più impulsivo ed
anche più irragionevole. Egli sapeva benissimo ciò che conteneva
quella busta di cui andava guardando la soprascritta con una specie
d’abbellimento. «Al Signor Crucè – 96 rue La Boetie – (urgente)».
Mathilde s’era chiusa in camera insieme con lui, appena finita la
colazione, per scrivere quelle parole. Perché dunque ora aveva intercettato la lettera? E perché con un passo sollecito aveva preso per la
via di Lisbona e poi per il viale Maleserbes con la speranza che
Fanny Perrin l’avesse aspettato e che fosse quindi nuovamente comparsa per tornare a parlargli? E che cosa avrebbe potuto dirgli che egli già non sapesse?
Le poche parole che ella aveva pronunziato corrispondevano intimamente ai suoi propri sentimenti e il loro accento era stato troppo
evidentemente sincero, perché egli potesse sospettar della verità. E il
nome, che la vecchia zitella aveva dichiarato di non poter svelare, era
tanto difficile ad esser compreso da quel padre, perché questi potesse
aver bisogno d’un supplemento di confidenza? Come se la signorina
Fanny Perrin fosse arrivata fino in fondo alla sua confessione, egli
sapeva che l’uomo amato da Régine altri non era che Charles Huguenin.
Ma tutte le passioni si rassomigliano per questo carattere doppio e
contraddittorio: la certezza nell’intuizione e la smania frenetica di
ottener la prova positiva di ciò, di cui pure non si ha alcun dubbio.
Quando egli si fu ben convinto che l’istitutrice non sarebbe più
tornata, Hector chiamò una carrozzella, diede al vetturino un indirizzo che non era quello di Crucè, né quello del posto ove si riuniva il
Comitato che egli avrebbe dovuto presiedere. Egli si faceva invece
condurre in via d’Arras, alla casa abitata da Charles Huguenin.
La lettera della signora Le Prieux era già stata ridotta in cinquanta
pezzi, quasi con rabbia e il vento ne, aveva sparsi i brandelli profumati sotto ai piedi dei passanti, sotto agli zoccoli dei cavalli, fra la
polvere del selciato, dietro la vettura in cui era seduto Hector, in preda alle più violente emozioni che egli da anni avesse mai provate.
– No – egli si diceva, mentre la carrozzella discendeva per il viale
Haussmann per proseguire verso la Senna per la via Auber, il viale
dell’Opera e la piazza del Carrosello – no, ella non si mariterà affatto
suo malgrado: ella non sarà mai la signora Faucherot. Non lo voglio… non lo voglio…
E in quel sobbalzo di risolutezza, contro chi mai si tendevano le
più intime resistenze dell’esser suo? E il suo monologo interno continuava, in un’idea appresso all’altra, con quella logica involontaria
che scompiglia ogni partito preso e alcune volte anche ogni nostro
affetto. .
– Io lo sapevo che non sarebbe stato possibile che ella sposasse
quel Faucherot, se non per forza… Per forza? ella dunque si è creduta forzata… Ma dà chi o da che? Noi l’abbiamo pur lasciata libera di
rispondere. Poco fa noi le abbiamo suggerito anche d’aspettare – e
ripetendo a se stesso quel menzognero pronome, contro qual pensiero
mai il padre cercava di difendersi? Ed è invece a una straniera che
ella ha confessato tutta sé stessa? non sa dunque che la sua felicità è
ciò che forma ogni nostra cura e che noi non viviamo che per lei?
pure io le avevo parlato, quando ella ha dovuto recarsi dalla madre a
parlar di questo matrimonio. Ed ella mi ha compreso o almeno ha
mostrato di comprendermi. Ancora mi par di sentirla: “Quanto siete
buono e quanto vi amo!” E poi? perché questo silenzio e questa diffidenza? è una cosa inconcepibile… Forse ha creduto che la persona
che la chiedeva in isposa fosse Charles, e, vedendo d’essersi ingannata, ella ha avuto un accesso di dolore… chi sa? di disperazione…Avrà forse pensato che suo cugino non l’amasse…
E allora prese anche a farsi qualche obiezione.
– Ma è veramente Charles l’uomo che ella ama? Ah! ora lo saprò,
ma come? Avrei dovuto cercar piuttosto di rintracciare la signorina
Perrin, farla parlare, strappare il segreto di Régine… Che cosa dirò
ora a questo giovanotto? E se Régine non lo amasse? e se egli, da sua
parte, non avesse mai pensato a sua cugina? In ogni modo io non voglio che questo matrimonio si faccia. Non lo voglio!
Al momento in cui Le Prieux si stava così ripetendo, e questa volta a voce alta, la carrozza passava per quella stretta e lunga via dei
Santi Padri, una delle rare arterie di Parigi che non abbia cambiato da
trent’anni, fuor che nel punto ove è tagliata dal boulevard SaintGermaine, Il lavoro di cui il giornalista ora sovraccarico non permettendogli di far altro che quelle corse le quali riuscivano strettamente
utili, egli assai raramente si era recato da quelle parti che erano associate a tutti i lontani ricordi del suo esodo da Chevagnes a Parigi. A
quell’epoca egli era disceso in una piccola casina mobiliata in via
delle Belle Arti – o ingenuità d’un adolescente in cerca di gloria! – a
cagion del nome della strada ed anche di quello della casa che si
chiamava “albergo Michelangelo”.
Per qual segreta spinta della sua malata sensibilità, la vista del
quartiere ove egli aveva portato a passeggio le cadute ambizioni della
sua giovinezza, fece sorgere nel padre di Régine il bisogno irresistibile di riveder quella via delle Belle Arti? E qual rapporto vi era fra
l’asilo dei suoi vent’anni e il passo che egli era sul punto di fare per
salvare da un detestabile matrimonio i venti anni di sua figlia?
Vedendo ad un tratto le straordinarie difficoltà di quel passo, voleva egli prima ponderarne meglio le particolarità e prender tempo
per riflettere? Oppure, temendo, al suo ritorno in casa, di dover so-
stenere una lotta formidabile, chiedeva ora un aumento di energia al
fantasma del Le Prieux di un tempo, appassionatamente amante
dell’ideale e dell’arte, e profondamente ed assolutamente estraneo
alle miserie delle transazioni sociali? O forse, cosa ancor più naturale, le emozioni provate in quelle quarantotto ore a riguardo di sua figlia, avevano finito col dare ad idee che egli da tanto tempo rifiutava
di confessare a se stesso, una certa forma acuta? ed un morboso desiderio ora lo dominava, di constatare donde egli si era mosso, dove
egli voleva arrivare e da chi era spinto a ciò?
E giunto alla via Jacob batté febbrilmente al vetro della sua carrozza perché questa si fermasse, e invece di proseguire in direzione
della via di Arras, discese, pagò il cocchiere e s’incamminò à piedi
verso la sua antica abitazione.
Hector si trovava in uno di quegli speciali momenti, durante i
quali la somiglianza o piuttosto l’identità fra il nostro destino ed il
destino di coloro da cui siamo nati, o che sono nati da noi, risveglia
nel fondo del nostro essere un sentimento intenso e quasi invadente
della specie. Provando un dolore nelle stesse circostanze che ha provato nostro padre, oppure vedendo un nostro figlio sul punto di ricevere un colpo che noi stessi abbiamo avuto, la profonda unità del
sangue si rivela in noi, e ci turba stranamente il cuore. Applicata al
passato, a coloro dai quali abbiamo ereditato e virtù e debolezze, tale
impressione si riduce a una specie di malinconia quasi religiosa, che
perdona tutti gli errori e ringrazia di tutti i benefici.
Rivolta verso l’avvenire, verso coloro cui abbiamo trasmesso
quell’anima della famiglia, che in noi non è che un passaggio, tale
impressione si trasforma in un profondo e pungente desiderio di diminuire e risparmiar loro, se è in nostro potere, lo angosce ereditarie.
Ciò ci procura ore indescrivibili nelle quali non sappiamo se si tratti
di noi, di nostro padre o della nostra creatura.
Ed è così che lungo i marciapiedi di quelle vecchie strade parigine, davanti al prospetto, sempre medesimo, della sua abitazione di
studente, evocando le immagini della lontana giovinezza, Hector non
avrebbe potuto dire se pensava a se stesso od a sua figlia, tanto percepiva con una evidenza quasi insospettabile l’analogia della sua sorte con quella che ora aspettava Régine. Che cosa gli diceva la facciata di quell’”albergo Michelangelo” davanti alla quale egli stava ora
immobile, se non che in quel luogo, in altri tempi, in una delle came-
re di quella povera casa mobiliata, – la seconda camera al terzo piano, contando da destra – vi era stato un giovane di una sensibilità uguale a quella di Régine, capace, come lei, delle emozioni più esaltate e più delicate?
A quel giovane non era stato possibile di mantenere contro la vita,
l’ideale dell’arte che era stato il romanzo della sua gioventù, come
Régine, dal primo incontro, si trovava incapace di mantenere l’ideale
d’amore che era il romanzo della giovinezza di lei. Quale elemento
di debolezza si nascondeva nella intimità delle loro indoli, perché
ambedue fossero tanto delicati nel loro modo di sentire e tanto impotenti a poter modellar l’esistenza a seconda del loro cuore? Ma quella
debolezza era realmente in loro? Non avevano dovuto lottare semplicemente contro una volontà più forte della loro? No. Il giovane venuto da Chevagnes per conquistar la gloria scrivendo capolavori, – sotto il tetto del misero “hotel Michelangelo” non era un debole. Era
senza dubbio un ingenuo, il quale non misurava la spaventosa distanza che lo separava dal suo sogno, ma Hector se ne rendeva conto dopo parecchi anni; egli era anche un paziente, un accanito lavoratore,
che avrebbe realizzato, se non interamente, almeno in parte, quel sogno, se…
E una figura di donna appariva, una donna dagli occhi neri che
dardeggiavano di dispotismo, dalla bocca piena di fierezza che aveva
una piega implacabile di dominio, la cui bellezza di dea comandava
il rispetto. Era veramente lei che gli aveva fatto fallire il suo destino?
Era dunque lei che con la sua imperiosa autorità costringeva Régine
a piegare anche davanti al suo desiderio? Quella doppia visione fu
talmente dolorosa per l’artista sconfitto, per il padre agitato, che la
respinse con tutte le forze del suo antico amore, sempre vivo, per
quella donna così appassionatamente obbedita e servita da tanti anni;
e dirigendosi nuovamente nella via di Arras egli andò ragionando:
– La colpa non è della mia povera Mathilde. Ha ella mai saputo
che io desiderava fare un’altra vita? Ed io le ho mai detto una parola
su ciò? Ella ha un’anima così sincera così retta e così pronta al sacrificio! La poverina ha certamente creduto che tutto fosse per il meglio, come crede che tutto sia per il meglio nel matrimonio con Faucherot. La colpa è del mio silenzio, della mia timidezza, che mi hanno sempre impedito di farmi conoscere, anche con lei, nella completa
verità delle mie aspirazioni… Régine mi somiglia anche in ciò …
Nemmeno a me ha potuto dire che amava un altro. Se avessi saputo
quello che so ora, quando l’altra sera abbiamo parlato con sua madre
del progetto Faucherot! Ma non sapevo nulla, se non per intuizione… Ah! bisogna che io ottenga un qualche fatto positivo, una confessione… Mathilde allora sarà la prima a non voler questo matrimonio per il quale provo un orrore istintivo… Mio Dio! Purché Charles
sia in casa!… Ma è proprio Charles che ella ama? Eh! come non potrebbe esser lui? Di tutti i giovani che riceviamo è il solo che lo meriti… Quanto sarebbero felici laggiù!…
Hector, pronunziando tali parole, entrava nel giardino del Lussemburgo; egli aveva trascorso la via delle Belle Arti e le vie della
Senna e di Tournon assorto nei suoi pensieri e lasciando che i suoi
passi seguissero macchinalmente la strada che in altri tempi aveva
seguito tanto spesso, allorché si sentiva in preda all’incosciente nostalgia dei querceti di Chevagnes, e si recava ai giardini del Lussemburgo per cercarvi la sensazione della natura, ammirarvi gli alberi, e
sognare. Oltrepassò il cancello aperto, vicino al museo, e si trovò subito all’estremità di quel viale di vecchi platani dove si vede il monumento del patetico e possente Eugenio Dalacroix. Quei begli alberi, i suoi preferiti di un tempo, innalzavano i loro enormi rami spogliati sul cielo ghiacciato di quel pomeriggio. E come se al contatto
di quei muti testimoni della sua giovinezza, il poeta morto giovane si
ridestasse in lui, il giornalista cominciò a pensare con un indicibile
intenerimento alla fuga ininterrotta del tempo, a quell’avvicendarsi
delle stagioni estive ed invernali, delle foglie e degli uomini. Alcuni
versi di Sainte-Beuve da lunga tempo dimenticati, e di cui era stato
entusiasta, gli vennero nuovamente alla memoria e sulle labbra:
Simonide l’ha detto, dopo l’antico Omero:
Le generazioni, nella loro fretta effimera,
Sono uguali, ahimè! alle foglie dei boschi
Che inverdiscono un’ora, ed ingialliscono poi,
Il vento le rapisce, ed altre, freschissime.
Son pronte a rimpiazzarle, presto anch’esse morte.
Egli l’aveva recitata in quel posto, quell’elegia divina del più dimenticato fra i grandi lirici francesi, quando egli stesso era nel fior
della vita, in quell’età delle fresche speranze e dei raggianti comin-
ciamenti in cui ora si trovavano Régine e Charles, età così breve,
speranze così presto passate, e cominciamenti così presto finiti!
Che almeno quei ragazzi avessero dovuto a lui di non perdere,
senza averne goduto, quel momento della loro gioventù e del loro
amore! Poiché era veramente Charles l’uomo amato da Régine. Ora
il padre non ne aveva più alcun dubbio. Si ricordava ancora una volta
lo sguardo del giovane fisso sulla figlia, l’agitazione di lei allorché
egli doveva venire in casa e cento altre particolarità ch’egli aveva
riassunto in una sola parola quando aveva detto a sua moglie, parlando dei rapporti dei due cugini: «Ho le mie impressioni».
A quel ricordo, tutto il sangue gli affluì con un movimento più rapido, come se l’idea di quell’amore dei giovani, l’una per l’altro, lo
avesse riscaldato comunicandogli la sua fiamma. Riprese a camminare nella direzione di via Arras, con passo divenuto nuovamente più
vivace e sollecito, col cuore palpitante quando domandò al portiere
se il signor Huguenin era in casa. Egli vi era. L’emozione del padre
aumentò ancora, mentre saliva la scala, tanto che fu obbligato di
fermarsi, prima di suonare, davanti alla porta sulla quale era fissata
da quattro chiodi la modesta carta di visita di “Charles Huguenin,
avvocato”… Egli suonò finalmente, intese alcuni passi avvicinarsi
alla porta che si aprì. Vide apparire Charles, il quale riconoscendolo,
si appoggiò contro il muro, pallido, balbettante ed oppresso, ciò che
per Hector fu una confessione.
– Voi, signor Le Prieux… voi! Ah! quanto vi ringrazio di essere
venuto!…
E pronunciando la parola “grazie” il giovane era ancora oppresso
dai pensieri che si succedevano in lui, dopo la crudele conversazione
con Régine. Passata la prima crisi di disperazione che lo aveva gettato gemente sulla panchina della terrazza delle Tuileries egli aveva ricuperata l’energia di quell’amore che si sa diviso, malgrado qualunque difficoltà. Egli si era rialzato dicendo:
– Io l’amo! ella mi ama! Non posso perderla così!
Ed era precipitosamente tornato in via Arras quasi sperando di
trovarvi una lettera di lei. Speranza insensata che provava fino a qual
punto egli fosse, anche dopo il rifiuto, sicuro del cuore di sua cugina!
Non aveva però trovato nessun messaggio. E per questa disillusione
aveva pianto, solo, chiuso nel suo piccolo alloggio di studente; quin-
di asciugando coraggiosamente le lacrime, aveva cominciato a riflettere domandandosi quale passo avrebbe potuto tentare.
Le passioni dei meridionali di pura razza, come era Charles, sono
sempre accompagnate da una lucidità nell’ardore, che rammenta la
chiarezza bruciante dei loro orizzonti ed anche l’eredità latina. Charles nel suo dolore aveva provato la necessità di veder chiaro e si era
forzato nella presente situazione di trar fuori ciò che era indiscutibile.
La prima cosa, la più evidente, come il lettore ha veduto, per
quell’istinto di conservazione che posseggono le nostri passioni, al
pari delle creature, era che Régine l’amava. La seconda, e non meno
evidente, era che un ostacolo era sorto. Charles poteva comprendere
anche che lo era da circa quarantotto ore.
Quell’ostacolo non esisteva la sera in cui egli e la cugina si erano
tacitamente fidanzati. L’accesso quasi di follia, che due ore prima gli
aveva strappato, sotto gli alberi delle Tuileries, l’insulto ingiusto contro la sincerità di Régine si era già dissipato.
Credeva che ella fosse stata sincera impegnandosi e sincera anche
domandandogli, con quella sua supplicazione passionale, che non
cercasse d’indovinare la natura del misterioso impedimento davanti
al quale la giovane tremava di spavento. Questo era un terzo fatto
positivo. Ed un quarto era che si trattava di un matrimonio con un
altro. Charles non dubitava punto che quel progetto di matrimonio
datasse da quegli ultimi giorni.
Senza di ciò Régine al ballo non sarebbe stata con lui quella che
era stata. D’altra parte, che i genitori di lei fossero implicati strettamente in quell’improvviso progetto di matrimonio, Charles lo deduceva da questo quinto fatto: la signora Le Prieux non aveva parlato a
Régine della lettera della signora Huguenin.
Sul momento, trasportato dal furore della gelosia, non aveva dato
a quel particolare la sua vera importanza. Ora comprendeva il silenzio della madre verso Régine; poiché significava la volontà, molto
ben ponderata, di non mettere la giovane in condizione di scegliere
fra l’unione col cugino e l’altra unione… con chi? e presentata ed
appoggiata da quali argomentazioni?
A questo punto l’immaginazione di Charles si fermava. Egli si
rendeva conto che la signora Le Prieux aveva trovato il mezzo di
convincere Régine terrorizzandola. Non poteva indovinare le ragioni
appartenenti alla storia intima di quella famiglia di “non classés” (per
servirei della parola felicemente trovata da uno dei più generosi storici della difficoltosa vita di Parigi). Durante quelle prime ore di appassionata meditazione, egli aveva indefinitamente girato e rigirato
intorno a quell’enigma, ed era giunto solamente à riconoscete, in
quel mistero, anche un altro mistero. Perché i genitori di Régine non
avevano almeno avuto la delicatezza di dare, a lui, Charles, una spiegazione, ora che per mezzo della lettera di sua madre erano al giorno
dei suoi sentimenti e delle sue speranze?
Egli era a questo punto della sua impotente analisi, allorché il
suono del campanello tirato dal visitatore gli fece balzar il cuore nel
petto. Aprì con la folle speranza, che gli giungesse un messaggio di
Régine. E il trovarsi davanti ad Hector Le Prieux gli strappò quel
“grazie” incomprensibile per il nuovo venuto. Ma quello che fu purtroppo evidente per il padre, dopo il discorso della signorina Perrin e
le sue proprie riflessioni, fu il fatto che doveva aver cagionato il turbamento in cui vedeva Charles. Quella manifestazione dell’amore
del giovane per sua figlia corrispondeva così bene col suo segreto
desiderio, ch’egli ebbe nel tono della voce una grande indulgenza ed
una immensa tenerezza nel dirgli:
– Andiamo, Charles, calmatevi. Fatevi coraggio. Non mi dovete
ringraziare. Compio semplicemente il mio dovere di padre. Dio mio!
in quale stato vi trovo!… Povero giovane!…
Infatti Charles nello stupore di quelle parole e di
quell’attéggiamento, così inatteso per lui, aveva scoppiato in singulti,
gettandosi nelle braccia di Le Prieux e ripetendo queste parole:
– Oh! sì, grazie, cugino mio, grazie, quanto siete buono!… quanto
siete buono!…
Hector si sentì commosso nel più profondo del cuore per
quell’esplosione di disperazione. Ma egli aveva un interesse troppo
essenziale di voler conoscere la verità sulle relazioni dei due giovani,
per non provarsi a volere strappare la confessione della disperazione
di Charles.
Egli aveva trascinato Charles fuori dell’anticamera, nel piccolo
gabinetto da studio, il quale serviva anche da salotto all’avvocato
senza cause, incerto ancora del luogo dove si sarebbe definitivamente
stabilito, asilo grazioso di sogni, dove Le Prieux non era stato che
una volta, ma quella sola visita era bastata a conquistare la simpatia
dello scrittore verso il giovanotto: tanto quell’ambiente – con la noce
tarlata dei suoi mobili provinciali, con la scelta delle stampe sulle pareti, rappresentanti tutte qualche bel monumento di Arles, Nimes, o
Aigues Mortes, col perfetto ordine dei libri, tutti evidentemente letti
e allineati nella biblioteca, e delle carte sul tavolo; e con l’orizzonte
fatto dagli alberi del Lussemburgo che si vedevano dietro lo stretto
balcone – emanava un’atmosfera di giovinezza raccolta e romantica.
Vi si respirava quasi un profumo di poesia del territorio nativo conservata a Parigi, malgrado le tentazioni contrarie.
Quella camera era l’immagine fedele del piccolo dramma morale
che si era svolto intorno a quel giovane, di viso fra la nostalgia della
sua Provenza e l’attrazione della vita parigina, ed era quell’aspetto
delle cose che lo circondavano che aveva risvegliato un tempo in
Hector l’idea che Charles fosse veramente per Régine il marito desiderato.
Forse vi era il ricordo di quell’impressione già lontana,
nell’insistenza affettuosa con la quale egli volle costringerlo a rivelar
l’intero segreto dei suoi sentimenti.
– No, non sono buono – replicò Hector – e, vi ripeto, che non bisogna ringraziarmi, sono semplicemente un padre che fa il suo dovere. Ma dovete anche voi fare il vostro e rispondere al mio passo con
una assoluta sincerità. Vediamo, parlatemi col cuore aperto e liberamente, ditemi tutto.
– Ma – rispose Charles – che posso dirvi che non abbia già detto
alla signora Le Prieux, ed a voi, la lettera di mia madre? Quando vi
ho veduto ho subito capito che venivate per ripetermi ciò che ho già
saputo da mia cugina, cioè che questo matrimonio è impossibile. Dovevo, purtroppo, comprenderlo subito dal momento che non mi avete
avvertito appena ricevuta quella lettera… Eppure, signor Le Prieux,
vi giuro che avrei fatto qualunque cosa per render felice Régine. Le
avrei dedicato tutta la mia vita. Sono una persona che valgo ben poco, ma quel poco che valgo lo avrei dato a lei senza riserva e mia
madre, ne sono sicuro, vi ha anche detto nella sua lettera che ella e
mio padre pensano come me.
Se la rivelazione del silenzio serbato dalla signora Le Prieux sul
passo della signora Huguenin aveva turbato Régine, che era pure stata avvertita di quella domanda di matrimonio, quale impressione dolorosa doveva arrecare al cuore del padre che nulla supponeva di una
tale notizia? Egli intravide in un lampo di luce tutta la verità. Ma,
come era possibile che sua moglie fosse stata così poco franca con
lui e che poche sere avanti gli avesse risposto in quel modo, se realmente quella lettera era stata spedita e ricevuta? Ma, sì; ora si spiegava il perché di quell’impercettibile agitazione che ella aveva dimostrato nel domandargli: «Hanno detto qualche cosa anche a voi?».
D’altronde l’accento del giovane non ammetteva alcun dubbio ed il
padre di Régine lo comprese così bene, che volse gli occhi affinché il
suo interlocutore non potesse leggervi il dolore che provava per quella scoperta.
Volle però interrogarlo e gli rivolse una di quelle domande suggestive, come si fa in alcune conversazioni, quando non si ha la forza di
manifestare interamente il proprio pensiero.
– Mi dite di essere stato avvertito da Régine che era sorta
un’improvvisa difficoltà? Era ella dunque al corrente del passo tentato da vostra madre?
– Ah! signor Le Prieux, – esclamò il giovane – ve ne supplico,
non la giudicate male, e non mi giudicate male… Mia cugina non ha
nulla da rimproverarsi. Ve ne dò la mia parola d’onore. Non le avevo
mai detto nulla dei miei sentimenti, mai, fino alla settimana scorsa, è
vero, quando le ho domandato ciò che ella avrebbe risposto se mia
madre avesse scritto ciò che ha scritto. Lo so. Non ho agito rettamente. Avrei dovuto per prima cosa, rivolgermi a voi ed alla Signora Le
Prieux. È naturale però che non abbia potuto vivere nell’incertezza,
amandola quanto l’amo, e che mi sia provato a conoscere almeno
quello che ella ne pensava.
– Ed ella vi ha autorizzato a farci scrivere la lettera? – domandò il
padre.
– Ho capito che non me lo vietava.
Le Prieux arrestò per un istante il suo interrogatorio dove ogni parola proiettava una crudele luce sopra alcuni incidenti degli ultimi
giorni ed accresceva l’ombra di altri.
L’attitudine di Régine a suo riguardo, mentre egli si accingeva a
parlare con la signora Le Prieux, che poco prima gli era sembrata una
cosa così incomprensibile, gli si chiariva ora dinanzi agli occhi. Ella
aveva creduto evidentemente che sua madre l’avesse chiamata per
parlarle della lettera della signora Huguenin.
La conversazione fra le due donne, invece, gli si rendeva ancora
più enigmatica, vista l’intesa che – ora gli appariva chiaro – c’era
stata fra Régine ed il cugino. Come e perché aveva ella, in tali condizioni, cambiato ad un tratto la sua volontà? Régine dunque aveva veduto Charles in quell’intervallo, oppure gli aveva scritto? Avendo
dovuto scoprire in sua moglie una così completa mancanza di sincerità, Hector trasalì all’idea che sua figlia potesse accordare segreti
convegni, oppure tenere una corrispondenza clandestina.
Questo pensiero gli divenne talmente insopportabile che afferrò
con violenza il braccio del giovane, esclamando:
– Charles, non mi dite tutta la verità, e non sta bene… No, non mi
confessate tutto – insistette ancora – Non m’interrompete… Convenite di essere stato d’accordo con Régine per l’invio della lettera di
vostra madre? Ciò significa che ella accettava quel progetto di matrimonio con voi. Ne convenite? Convenite anche che ella vi ha avvertito che quel progetto diventava impossibile? Dunque ella vi ha
parlato, oppure vi ha scritto. L’avete veduta? Dove? Come? E volete
farmi credere che non vi sia nulla da rimproverare né a voi né a lei?
– Ebbene… vi dirò tutto – rispose il giovane con uno sforzo sovrumano – per lei e per me. Almeno voi non sospetterete più di lei –
continuò con accento alterato, dove fremeva il rimorso
dell’ingiustizia commessa da lui stesso – Sì, questa mattina ho veduto mia cugina alle Tuileries con una terza persona. Vi dò però parola
d’onore che è stata questa la prima volta che abbiamo avuto un convegno. E la prova della mia verità eccola.
Egli trasse fuori dal portafoglio una lettera di Régine che lesse a
Le Prieux.
– Mia cugina aveva desiderato parlarmi. Ora comprendo che lo ha
fatto per compassione, affinché io non apprendessi brutalmente da
altri il disastro della mia più cara speranza. E quello che ci siamo detti in quel colloquio posso ripetervelo senza nessuna difficoltà, quando ciò possa servire ad impedire che anche voi siate ingiusto con lei.
Charles cominciò a raccontare alla rinfusa gli incidenti di quel doloroso convegno della mattina: l’impressione che gli aveva arrecato
il biglietto di Régine, il giunger di lei e come dal suo pallore egli avesse indovinato la gravità del passo che ella stava per compiere: le
parole che Régine aveva pronunziato e quelle ch’egli aveva risposto;
il suo furore di gelosia e tutto il resto.
Il padre sta va ascoltando il racconto di quegli episodi semplici e
commoventi, tenendo in mano la lettera di sua figlia. Ne osservava la
calligrafia, riconoscendovi l’agitazione di lei, con una pietà appassionata per la dolce e delicata fanciulla che aveva tracciato quei caratteri e riempito quel foglio in un momento di disperazione. Egli si
spiegava ora quella specie di lucentezza febbrile degli occhi di lei al
ritorno da quel crudele convegno e la fermezza della voce con la quale aveva rifiutato la dilazione offertale dai genitori, e si spiegava anche il passo della povera Fanny Perrin, la quale era certamente stata
la terza persona indicata da Charles, il testimonio innocente di
quell’innocente convegno fra i due cugini. E, in mezzo a quei pensieri, un punto rimaneva sempre più incomprensibile: quale era la ragione che aveva indotto Régine ad accettare il matrimonio con Faucherot, mentre era libera della scelta?
Ahimè! il padre sapeva purtroppo da qual parte cercare la chiave
di quell’enigma. Ma l’onore gli imponeva di trovarla da solo.
Non doveva associare a quell’inchiesta – alla fine della quale indovinava, suo malgrado, le poche scrupolose macchinazioni e la parte equivoca che vi aveva recitato sua moglie, – colui, che fin da quel
momento egli considerava come suo genero? Non appena finita la
confessione del giovane, egli si era alzato, passeggiando in lungo e in
largo, in un silenzio che il giovane non osava turbare.
Benché anche Charles trovasse inesplicabile l’atteggiamento di
Régine, constatando però quanto il padre fosse a lui favorevole col
suo tatto naturale, reso ancor più delicato dall’amore, egli comprendeva che bisognava rispettar quel silenzio… Il suo cuore batté fortemente, allorché Le Prieux si fermò ad un tratto dinanzi a lui, guardandolo lungamente, e gli disse con la solennità nel volto e nel gesto
di una persona che ha preso un partito, e che detta ad un altro una decisione irrevocabile.
– Mi avete risposto da uomo onesto e lealmente, Charles, ed io farò lo stesso… Voi amate Régine e la meritate… Ella vi ama, e non
dipenderà che da lei di diventare vostra moglie, capite? Non dipenderà che da lei. È vero che in questi ultimi giorni è stato trattato un altro
matrimonio. Non posso però credere che questo sia stato l’ostacolo al
quale ha voluto alludere mia figlia. Ci deve essere un malinteso che
non arrivo a spiegarmi. Lo chiarirò. Vi ripeto che ella sarà vostra
moglie, quando lo vorrà. Fin da oggi avete il mio consenso. Poco fa
ho creduto alla vostra parola d’onore e ciò mi dà il diritto di esigere
che me la diate nuovamente. Esigo che mi promettiate di non provare
a rivederla prima che io ve ne abbia autorizzato… Vi è una grande
saggezza in quel vecchio pregiudizio francese, e voi stesso lo state
provando, il quale vuole che i giovani non si maritino che con
l’intromissione dei genitori. Se aveste obbedito a tale pregiudizio, se
in questi ultimi giorni foste venuto da me prima di rivolgervi a lei, le
avreste risparmiato un’emozione affatto inutile e non l’avreste offesa
in un modo forse irreparabile. Régine è di una sensibilità molto forte
e profonda ed il vostro dubbio le avrà arrecato un male orribile. Lasciate a me la cura di lenire il suo dolore e poiché vi è un altro malinteso da far dissipare mi proverò a dissiparlo… Ho dunque la vostra
parola d’onore che non farete nulla, senza che io ve ne abbia dato il
permesso.
– L’avete – rispose il giovane, che in uno slancio di riconoscenza
prese nelle sue le mani del suo interlocutore.
– E mi obbedirete in tutto?
– E vi obbedirò in tutto; ah! signor Le Prieux, vi amavo già tanto,
ma ora…
– Ora – interruppe il padre, il quale temeva visibilmente di commuoversi, – comincerete con il mantenere la vostra parola, scrivendo
una lettera a Régine, perché vi perdoni ciò che le avete detto questa
mattina… Vi stupisce? Ma ho il mio piano… ho il mio piano… Andiamo… – proseguì con una specie di tenera ironia, che gli uomini i
quali si vanno invecchiando usano volentieri verso i giovani sugli
amori dei quali sorridono, invidiandoli segretamente – Debbo dettarvi questa lettera? Scrivete tutto quello che vorrete. Io la consegnerò a
mia figlia, senza leggerla. Siete contento?
VIII.
«Ho il mio piano…» e con questo parole ripetute per la terza volta Hector Le Prieux salutò l’innamorato di sua figlia, portando seco
la lettera ch’egli aveva fatto scrivere a Charles ed anche il biglietto di
Régine, dicendo:
– Ve lo restituirò domani tenendovi al corrente di tutto. Per oggi
mi serve…
Bisogna credere che quel biglietto toccasse nel suo cuore una corda molto profonda, poiché Charles Huguenin, il quale andò sul balcone per vederlo partire, poté osservare ch’egli si inoltrava nuovamente sotto gli alberi spogliati del Lussemburgo, col foglietto di carta in mano. Camminava sillabando ad una ad una le parole di quel
caro scritto, ingolfato nei pensieri che quella contemplazione risvegliava in lui, al punto che non si avvide del posto dov’era, se non al
momento di oltrepassare il cancello di fronte alla via Soufflot: aveva
traversato l’intero giardino come sognando. Riconobbe il marciapiede che in altri tempi egli aveva passato tante volte, la stazione
d’omnibus, ed i negozi, alcuni dei quali cambiati ed altri no. Al principio della sua carriera letteraria egli soleva leggere i giornali in uno
dei caffè vicini all’Odéon; vi si diresse senza rendersene conto, come
se nei momenti di grande sgomento interno i movimenti in noi si effettuassero da loro stessi.
Per caso quel posto era rimasto sempre il medesimo. Ornato un
tempo da pittori che avevano in tal modo pagato il loro conto, esso
aveva nello sfondo quattro quadri: uno rappresentante Venere
nell’atto di uscir dalle acque; l’altro l’agonia di un cervo in una landa; il terzo Pierrot che ammira ]a luna; il quarto una ragazza del
quartiere Latino; l’aria di bohème di quella taverna affumicata, faceva minor contrasto col delicato romanzo di Régine e del cugino che
con le abitudini di alta ricercatezza nella toletta in cui la “bella signora Le Prieux” faceva vivere Hector. Ma per quest’ultimo
l’irradiazione della propria giovinezza illuminava quel convegno di
studenti. Prese posto ad una tavola situata in un angolo libero in quel
momento, senza neppure osservare l’attenzione che destava nei frequentatori d’ambo i sessi di quel caffè, tutti negligentemente vestiti,
la presenza di un uomo di cinquant’anni passati, elegante ed accurato
come un presidente di Consiglio d’amministrazione, col nastrino di
cavaliere della Legion d’onore all’occhiello e che chiedeva
l’occorrente per scrivere. Scrisse così con mano rapida e risoluta, su
quel foglio d’occasione, una lettera di due pagine che finì con una
firma indecisa e quasi aggressiva. Era un biglietto per Crucè, ch’egli
ebbe cura di far subito recapitare da un fattorino.
È necessario di dire che quelle poche linee, a nome suo e di sua
moglie, rompevano qualunque trattativa di matrimonio col Faucherot? Toltosi il pensiero di questa prima parte del suo piano, Hector
guardò l’orologio, sapeva che tornando in via General Foy a
quell’ora non avrebbe trovato né la moglie, né la figlia. Pensò,
com’era solito, dì passare al giornale per parlar col redattore capo riguardo alla cronaca dell’indomani. Ma la sola idea del più piccolo
contatto con la sua vita quotidiana prima di aver affrontato le due
scene alle quali si andava preparando, gli era odiosa.
Il ricordo delle suo abitudini giovanili traversò nuovamente il suo
pensiero:
– Perché non lavorare qui come usavo fare in altri tempi?.
Pregò il giovane di fornirgli la carta, una penna con pennini nuovi
e di riempire il calamaio; prendendo intanto uno dei giornali insudiciati e trascinati ancora sul marmo di una tavola vicina cercò nei “fatti varii” se non trovasse un argomento per il suo articolo.
La sua attenzione fu richiamata dall’avventura abbastanza volgare
di una demimondaine, la quale muoveva lite al sarto per la cifra fantastica a cui era stata quotata l’eleganza della signorina: 3750 lire per
un vestito! Egli cominciò a scrivere, con la stessa risolutezza di poco
prima, le riflessioni suscitate in lui da quell’enorme prezzo del lusso.
Suonavano le sei ed egli scriveva ancora avanti al tavolo il dodicesimo foglio. La cronaca dell’indomani era finita. La rilesse, con
singolare fierezza e malinconia. Per la prima volta, dopo tanti anni,
egli aveva scritto un brano di cui non aveva alcuna segreta vergogna.
Ed era perché lo aveva scritto per piacere a se stesso e non per dovere, così come aveva sognato in altri tempi di scrivere versi e romanzi,
quando trent’anni prima veniva a parlare od a scarabocchiare in quel
modesto caffè. Quell’impressione che andava così completamente
d’accordo col rimanente di quella giornata, avrebbe ancor più rinforzato Le Prieux nel suo desiderio di risparmiare alla figlia il dolore di
un destino sbagliato, se i suoi nervi non fossero stati tesi a quel punto
in cui tutto l’essere non è che volontà ed energia.
Anche la sovreccitazione di tutta la sua persona gli aveva reso il
tempo insopportabile ed egli aveva procurato d’ingannarlo scrivendo.
Per uno di quei fenomeni d’automatismo professionale, che sono
propri di tutti i mestieri e che, fra parentesi, provano quanto ciò che
ci dà da vivere diventi realmente una seconda natura, l’istinto in noi
di una vera specie sociale, quella critica contro il lusso e la sua
schiavitù non aveva avuto altro risultato che quello di far passare due
ore al giornalista. Doveva agire su lui in due modi: – prima per autosuggestione, come accade ai letterati tanto facilmente attossicati dalle
proprie frasi, poi per il ricordo dei fatti e delle cifre alle quali aveva
pensato.
– Le sei – disse a sé stesso varcando la soglia del caffè – Troverò
una carrozza davanti all’Odéon. Alle sei e venti rientrerò in casa…
Sarà forse l’ora in cui esse tornano dalla passeggiata… Avrò il tempo
di parlare a Régine prima del pranzo. La poverina non deve trascorrere la giornata con quel gran dispiacere nel cuore. Quanto sarà felice
di avere la lettera di Charles! Fanny Perrin aveva ragione. Se si fosse
combinato l’altro matrimonio, mia figlia sarebbe morta… Ma come
vi si sarà decisa? Ecco ciò che finalmente saprò…
Egli fermò una carrozza vuota e vi salì.
La domanda che gli tornava sempre alla mente fin dal giorno innanzi, ora riprendeva ad assediarlo:
– Sì – diceva egli – che cosa le avrà detto Mathilde per vincere la
resistenza di lei, che ella non ha voluto ripetere a Charles? Quale sarà
quella ragione misteriosa che la terrorizza così? Ma sua madre stessa
perché tiene tanto a questo matrimonio con Faucherot? Quella gente
non ha a proprio vantaggio che il denaro… Il denaro! Il denaro! No,
Mathilde non è amante del denaro. Ella è così generosa! Ma è pur vero che nella vita tanto assurda che noi meniamo, ne occorre tanto,
quasi tanto quanto per l’esistenza di quell’infelice sulla quale ho
scritto l’articolo… Tremila e settecento lire un vestito!… Mathilde
non si è certamente mai permessa di tali pazzie, ma ha un bell’essere
una donna di casa impagabile ed accorta, i grandi sarti sono sempre i
grandi sarti e da quando Régine frequenta la società, le spese sono
duplicate.
Le Prieux, simile in quel punto a tutti i capi di casa, non sapeva
che pressappoco le particolarità delle spese di abbigliamento di sua
moglie e della figlia.
Per una invincibile associazione di idee egli domandò improvvisamente a sé stesso:
– Quali potranno essere le spese esatte?
E ad un tratto, attraverso quel calcolo mentale, gli apparve avanti
allo spirito una ipotesi inattesa, che egli si provò di allontanare invano:
– Dio mio, purché Mathilde non sia stata trascinata a fare i debiti… cosa che non avrebbe avuto coraggio di confessarmi. Purché ella
non abbia contratto qualche obbligo con la signora Faucherot… E
purché questa non sia la ragione per cui vuole un tale matrimonio ed
anche la ragione del consenso di Régine… No, sarebbe una cosa
troppo orribile… Ma non è… Non può essere…
Si potrà facilmente osservare come quella specie di lavoro incosciente che si andava compiendo in quello spirito sotto l’influenza di
sentimenti intensi, che è poi la loro vita segreta e profonda, avesse
condotto quel marito, di natura così poco inquisitrice, vicino alla verità. Egli “bruciava” come dicono così graziosamente i fanciulli che
giuocano a mosca cieca. Quell’intuito gli rendeva ancor più dolorosa
l’esecuzione del piano di cui aveva parlato a Charles, il quale si riduceva a questo: consegnare la lettera del giovane a Régine e alla prima
emozione di lei strapparle una confessione e un consenso. Non rimarrebbe che vincere le obiezioni della moglie. Ed è perciò che aveva voluto la lettera della ragazza.
Anche dopo tanti indizi che l’accusavano, egli non dubitava, e
non voleva dubitare, di Mathilde; avanti ad una prova così indiscutibile come quella dell’inclinazione della loro figlia, ella non si sarebbe ostinata certamente in un progetto di cui non aveva potuto supporre la ferocia. La ragione misteriosa che Régine aveva rifiutato di rivelare si sarebbe riconosciuta essere un malinteso, come le aveva
detto lui stesso.
Benché Hector procurasse d’imprimersi una tale idea nella mente
con tutta la forza del suo amore per la moglie, quell’uomo, così perspicace malgrado il suo cuore, non poteva arrivare a scacciare
un’altra idea che sembrava uscita dal più fortuito loro ravvicinamento: e quando egli introdusse nella serratura della porta del suo appartamento la chiavetta d’oro – regalo della moglie, ciò s’intende – che
portava alla catena dell’orologio come un elegante ciondolo,
quest’altra idea l’assediò di nuovo in un modo singolarmente doloro-
so. Come gli sarebbe venuta senza di ciò, in quelle circostanze e in
quel momento alla mente l’immagine d’uno dei grandi editori parigini, veduto da pochi giorni ad una prima rappresentazione? E il quale
gli aveva detto:
– Io fondo una rivista. Le Prieux, perché non scrivete per me i vostri ricordi? Mi darete poi il volume. Faremo un doppio affare. . acconsentite?
– I miei ricordi? – aveva risposto il giornalista – Ma non ho mai
avuto il tempo di vivere… Dove avrei trovato quello d’aver dei ricordi?
Perché sul pianerottolo dell’appartamento egli si era rammentato
di quella conversazione, se non perché stava già cercando il mezzo di
aumentare ancor più le rendite di quell’anno?
Vedeva la possibilità di un nuovo impegno, dopo tanti altri? Quale
deficit pensava egli dunque di ricolmare? Tuttavia appena entrato
nell’anticamera, un incontro inaspettato venne a distoglierlo da quei
pensieri. Vide il soprabito ed il bastone di un visitatore posati sul tavolo, e il groom, che faceva le veci di servitore d’anticamera, rispose
alla sua domanda, che il signor Crucè era in salotto con la signora.
– E vi è anche la signorina? – domandò Le Prieux.
– La signorina è nella sua stanza – rispose il ragazzo – Non è uscita quest’oggi. Non sta bene…
Crucè in casa loro a quell’ora! senza alcun dubbio Mathilde era
stata avvertita del domestico colpo di stato, col quale Hector aveva
sostituito la sua lettera di rottura a quella di consenso ch’egli si era
preso l’incarico di portare; e in quali condizioni! La spiegazione fra
marito e moglie era resa inevitabile e doveva aver luogo all’istante.
Le Prieux non esitò punto. Bisognava ch’egli, prima d’ogni altro,
vedesse Régine e che da quella parte avesse pieni poteri per agire.
Perciò disse al groom:
– Non vale la pena di disturbar la signora. Non le dite nulla che
sono tornato. Ed andò a bussare alla porta della camera di sua figlia.
Quel “Chi è?” pronunciato da una voce così debole ch’egli poté appena sentire, lo commosse fino alle lacrime, perché il padre presentì
il languore e la stanchezza di quella povera fanciulla, e lo fu ancora
più allorché, aperta la porta della stanza, si trovò in una totale oscurità.
Con la scusa di essere minacciata da una forte nevralgia, Régine
si era coricata, con le imposte socchiuse, le tende abbassate, in quelle
tenebre volontarie in cui tutte le donne hanno l’istinto di nascondersi;
di seppellirsi, quando esse soffrono di una sofferenza qualunque;
come se anche la luce fosse in quel momento per loro una delle brutalità della vita. E quando ella ebbe voltato la chiave della lampada
elettrica, sotto quella forte luce bianca che fa risaltare più crudamente i segni del volto, ella mostrò al padre una fisonomia talmente alterata dal dolore, che il poveretto ebbe quasi paura, per un istante,
dell’impressione di gioia che avrebbe provato poi. Ma si era già appoggiata col gomito sui cuscini ricamati del lettuccio come all’epoca
in cui, bambina di dieci anni, egli veniva a sorprenderla ed abbracciarla, prima di andare al teatro; e con una grazia infantile e quella
sollecitudine per gli altri; manifestazione deliziosa, atteggiamento
innato in quella natura tenera e delicata, ella disse:
– Non bisogna preoccuparsi per me, caro babbo. Ho avuto freddo
nell’andare alla lezione… Col caldo del letto, guarirò. E domani mattina è il giorno della vostra grande cronaca, potrò alzarmi, per prepararvi tutto come ho fatto sempre…
– Ti potrai riposare – e cavando di tasca i fogli che aveva scarabocchiati sul tavolo del caffè disse: – La mia cronaca è pronta. Il
babbo non avrà dunque più bisogno di voi, signorina, e per una volta
agirete a vostro bell’agio… E poi – proseguì dopo un minuto di silenzio, e con un’intonazione che si studiava di rendere faceta, ma in
cui palpitava il turbamento interno – e poi, una persona mi ha consegnato una lettera per voi… – Egli aprì allora il portafogli per prendervi il biglietto di Charles.
– Una persona? – rispose Régine allorché ebbe nelle mani la busta; ma non appena riconosciuta la calligrafia, un’onda di sangue le
affluì al volto; cominciò a tremare con un movimento convulso ed
agitato, mentre il padre l’andava riconfortando.
– Leggi quella lettera, figlia mia adorata, non aver più alcun timore. Fidati di me… Se mi sono preso l’incarico di una tale missione
devi comprendere che Charles mi ha detto tutto, e che approvo tutto… Bisogna dissipare i malintesi, mia bella capinera, leggi la tua
lettera… e non parlare prima di averla letta. Ti amo tanto, figlia mia,
figlietta mia!… – E nuovamente ebbe quello sforzo di allegria
nell’indulgenza che vuol risparmiare l’emozione eccessiva in
un’anima troppo giovane, troppo sensibile… – Se non leggi la tua
lettera sarò io che la leggerò ad alta voce.
Mentre Le Prieux parlava, un’onda di sangue aveva nuovamente
invaso la fronte e le gote di Régine, e colorito il collo delicato e sottile che le usciva dalla batista morbida della camicia da notte, avendo
avvolto lato intorno alla nuca la lunga treccia disfatta. Le maniche
ondeggianti facevano vedere le braccia di lei alquanto magre e bianche, colla, trasparenza delle vene delicatamente azzurrine. La coperta
di seta trapuntata era appena sollevata dalla persona, che appariva
sottile e snella, troppo delicata quasi per la sua età, e il padre che la
guardava aprir la busta con le mani tremanti si sentiva più commosso
ancora dalla visione della gracilità della sua creatura.
Dinnanzi a lei provava quella specie di compassione senza pari
che rende un padre ed una madre gli schiavi appassionati delle più
piccole volontà di una fanciulla, la delicatezza della quale sembra
tanto esposta ad ogni colpo. Vorrebbero allora, a prezzo della propria
vita, risparmiarle la più piccola sofferenza, il più piccolo urto. Lo
spettacolo di un dispiacere inflitto a quell’organismo debole è un dolore quasi fisico che colpisce loro stessi nel punto più profondo. Ed è
perciò che vedendo il volto di Régine nello scorrere la lettera nella
quale Charles le domandava perdono, ad un tratto disfarsi ed impallidire, chiudersi gli occhi, la testa caderle sul cuscino e venir meno
per impressione troppo forte, Le Prieux fu colto da un indicibile spavento, che lo fece balzare ad afferrar la figliola fra le braccia, a stringer le mani di lei e baciarla dicendole:
– Régine, ritorna in te… Régine, Régine, sono un bruto, un inetto!
Io che credevo di vederti felice, di vederti sorridente! Figlia mia! Figlia mia!… Sorridimi!… La gioia ti ha fatto male… Ah! apri gli occhi, mi sorridi… Grazie. Ma come hai potuto serbare un tale segreto
nel tuo povero cuore? L’altra mattina quando tua madre ti ha parlato,
perché non ci hai detto: «Amo Charles e Charles m’ama!». Finalmente ti senti meglio? è passato? Sorridimi ancora una volta… Egli
domanda la tua mano, sai? Lo sposerai; perché scuoti la testa così?
– Perché non lo sposerò – rispose Régine, e anche nel soffocamento della voce disfatta dall’emozione il padre riscontrò
quell’accento di singolare fermezza che l’aveva tanto colpito, quando
aveva rifiutato la dilazione che le veniva offerta.
– Non lo sposerai? – ripeté Hector – Ma perché?.
– Perché ho riflettuto… – rispose Régine con voce più sicura… –
e non credo che saremmo felici insieme.
– No, figliola mia – interruppe dolorosamente Le Prieux, mettendole una mano sulle labbra – non cominciar nuovamente a tentar
d’ingannarmi… Ora che io so tutto, non ti è più possibile… Sì, io so
della conversazione che avesti con lui al ballo, so ciò che ti ha detto
tuo cugino e quello che tu gli hai risposto… E avresti tu parlato in tal
modo se non avessi prima riflettuto e se non avessi creduto che tu saresti stata felice con lui e che tu lo avresti reso felice? Quando tu mi
hai baciato prima di andar da tua madre, ieri mattina, io ora so ciò
che tu pensavi. E vuoi ora che te lo ripeta? Tu pensavi che tua madre
ti avrebbe parlato di questo progetto di matrimonio con Charles e ne
eri contenta, assai contenta. Non lo puoi negare, lo allora lessi nei
tuoi occhi, ma non avevo ben compreso. Ora comprendo benissimo.
Eppure in quel momento tu avevi ben riflettuto, non è vero? Poi so
che hai scritto a tuo cugino, ieri, e so anche che questa mattina vi siete veduti. Non arrossire, amore mio, non tremare. Se tu potessi leggere nel mio cuore non altro vi troveresti se non il rimorso di non aver
saputo io leggere nel tuo… Ma ora per me il tuo cuore è trasparente.
La ragione che ti vieta di sposare colui che tu ami, questa ragione che
Charles ha implorato che tu gli palesassi e che non hai voluto confessare, io anche la so. Questa ragione siamo noi… è la nostra situazione… Tu hai detto a te stessa: «Sposando Edgard Faucherot sarò ricca, e mio padre lavorerà di meno». Confessami ora che tu hai detto
così. Tu sei come tua madre. Ti preoccupi di vedermi lavorar tanto…
Ma se il lavoro è la mia vita… Sono un vecchio cavallo che trotterà
fino alla fine, e se mi riposassi morirei… Ciò che mi occorre non è di
scriver meno; è di poter dire a me stesso seduto avanti al tavolino:
«La mia piccola capinera è felice». Riguardo poi ai nostri debiti…
Pronunciando quelle parole, per lui terribili, egli spiava la fisionomia della figlia, poiché se ella non fosse scattatoùa negando, ciò
significava che essi avevano realmente debiti. Ella trasalì, ma di sorpresa e senza osare di rispondere un “no”; il padre continuò immaginando, per convincere sua figlia, una di quelle furberie che non saranno certo ascritte nel libro dei peccati.
– Riguardo poi ai nostri debiti, non avrò neppure bisogno di aumentare il mio lavoro per pagarli. In questi ultimi tempi ho avuto una
richiesta di acquisto delle mie fattorie di Chevagnes… Erano da pa-
recchi anni ipotecate per il loro intero valore! Non mi serviranno più,
ora che avrò una campagna dove ritirarmi quando sarò vecchio, vicino a te, laggiù in Provenza. Perché è con un “sì” che mi risponderai,
sposerai tuo cugino… Vediamo, se te lo faccio domandar da tua madre?
– Ah! – gemette Régine – La mamma non consentirebbe mai ad
un tale matrimonio.
– Ma se vi acconsentisse, ti ripeto, se te lo domandasse lei stessa?
Sarebbe un sì o un no, allora, rispondi?
– Sarebbe un sì – disse la giovanetta a voce così bassa che quella
confessione del sentimento da lei provato verso il cugino e della rinunzia all’immenso sacrificio le sfuggì meno come una parola che
come un sospiro e abbracciando il collo del padre nascose il volto,
arrossendo questa volta di pudore e di gioia allo stesso tempo, sulla
spalla dello scrittore invecchiato, quella spalla che era un poco più
alta dell’altra a causa dell’immenso lavoro.
Come quella stretta somigliava poco al freddo bacio del mattino,
a quello che aveva sigillato il consenso di Régine al matrimonio col
giovane Faucherot, quando il padre non era lungi dal credere al più
triste calcolo di vanità nella figlia e Régine al più triste accecamento
del padre se non al più egoistico abbandono! In quel momento, stretti
l’una nelle braccia dell’altro, gustavano quell’assoluta comunione di
due anime nella tenerezza felice – quell’assoluta fusione che l’amore
con le sue gelosie ed i turbamenti della sensualità, conosce tanto raramente, che l’amicizia anche conosce raramente, ed è la poesia della
vita di famiglia, il premio dei suoi penosi doveri borghesi, delle malinconie deprimenti e delle sue ristrettezze e delle sue mediocrità.
Un’apparizione facile ad essere prevista – ma come vi avrebbero
potuto mai pensare Régine ed il padre? – strappò bruscamente ambedue all’ineffabile dolcezza di quel perfetto accordo e risvegliò nel
padre un’energia ed una presenza di spirito che non aveva mai avuto
prima e che non doveva aver mai più, per proprio conto.
La signora Le Prieux era entrata nella camera.
Hector conosceva troppo tutte le espressioni di quel bel volto altero, che aveva tanto amato e che amava tuttora, per ingannarsi un solo
secondo, soprattutto sapendo che Mathilde aveva allora ricevuto
Crucè. Ella giungeva irritata fino all’indignazione. Che suo marito
avesse osato quello che aveva osato, che avesse intercettato la lettera
di lei, una lettera pienamente combinata fra loro, per sostituirne
un’altra, scritta da lui con espressioni esattamente contrarie, era
un’azione talmente esorbitante, che ella poteva appena credervi!
Lo scoppio di quell’indignazione era quasi sospeso dallo stupore.
Già non attribuiva più la responsabilità di quell’audacia ad Hector.
Lo sguardo col quale avvolse subito la figlia manifestava che, nel suo
pensiero, ella considerava quest’ultima come la vera colpevole. Ma
la sua bocca piena di fierezza non ebbe il tempo d’interrogare le sue
due vittime, fino a quel giorno così mute e così completamente docili
al comando del suo egoismo.
Non aveva fatto due passi nella camera che Le Prieux si era slanciato, con un’esaltazione che ella non aveva mai conosciuto in lui su
quella fisionomia, ordinariamente tanto calma, mentre le diceva con
una voce parimente dominatrice ed affettuosa, dove Mathilde sentì,
con sua maggior sorpresa, un’aria di autorità che non ammetteva replica:
– Venivo ora a prenderti, Mathilde, per condurti da questa nostra
figlia che non ha avuto fiducia in noi, non ha voluto capire che non
desideriamo che la sua felicità e che se gli abbiamo parlato di quel
progetto di matrimonio con Faucherot è perché credevamo il suo
cuore libero… Ella mi confessa ora che non lo è, che ama suo cugino
Charles e che ne è riamata!… E quell’altro fanciullone di Charles
che non ha osato di venire a parlare a te ed a me, per dirci: «Io amo
Régine!». Si può immaginare una sciocchezza simile? Se non avessi
veduto Charles oggi, se non avessi strappato a lui prima, quindi a lei,
una tale confessione, non avremmo saputo nulla. Capisci che ci avrebbe trattati in questo modo, a noi, suoi genitori, e si sarebbe maritata contro suo genio? Andiamo, Régine, bacia tua madre e domandaci perdono ad ambedue di aver dubitato di noi, quando noi stessi,
questa mattina ti abbiamo supplicato di prendere ancora qualche altro
giorno per riflettere prima di rispondere. Vedi bene che noi volevano
lasciarti libera, che eri l’assoluta padrona della scelta… È vero, Mathilde?
– Régine è sempre stata libera – rispose la madre, letteralmente
soffocata da ciò che ascoltava – E se veramente ella ama suo cugino,
non comprendo…
– Se ella ama suo cugino? – interruppe il padre aggiungendo con
forza particolare con gli occhi fissi sugli occhi di lei – Sì ella ama
Charles e lo sposerà.
Quindi, vedendo che Mathilde si accingeva a interromperlo:
– Per fortuna non abbiamo ancora risposto alla cugina Huguenin.
Poiché Régine non sa che ci ha scritto per scrutare il nostro pensiero.
La povera signora è una provinciale. Ha creduto di dover usare tante
precauzioni e noi non avremmo mai potuto supporre che ella ci scriveva d’accordo con suo figlio. Non è vero, Mathilde? Abbiamo creduto che seguisse una sua idea! Ah! quanto avevi ragione d’insistere
per parlarne a Régine e quanto sono stato sciocco di averlo impedito!
Ma ora il male è riparato…
A quella menzione della lettera della madre di Charles il turbamento della signora Le Prieux fu tale che ella non trovò la forza di
replicare. Hector conosceva l’esistenza di quella lettera e la sua dissimulazione! Ma come? E le perdonava quella finzione? Faceva anche di più: cercava d’impedire che Régine potesse indovinarla! Nello
stupore e nella confusione sempre più crescente, là signora Le Prieux
non ebbe più forza di resistere alla mano di suo marito che l’attirava
presso il letto di Régine, continuando:
– E sai perché questa cattiva figlia ci nascondeva il suo sentimento? Perché si faceva un dovere di diventare ricca, per me, per evitarmi di aumentare il mio lavoro. La colpa è tua, amica mia. Sì, è tua.
Tu le hai dato l’esempio. Perché hai temuto di dirmi quello che hai
detto a lei, cioè che avevamo qualche piccolo conto da pagare? Tu
pure temi che io debba lavorare troppo… Confessalo. Ma che cosa è
ciò al confronto di vedere infelice la nostra cara figlia? Non me lo
sarei perdonato mai…
Il povero operaio della penna pensava veramente a quello che stava dicendo, oppure era una seconda menzogna, più generosa della
prima, per finire di salvare il prestigio della madre agli occhi di sua
figlia, annientando così l’obiezione più forte che Mathilde avesse potuto immaginare contro il matrimonio con Charles? L’amore ha tali
accecamenti ed ha anche tali delicatezze nella lucidità, e tali indulgenze nella certezza. Qualunque fosse il motivo al quale obbediva
Hector, le sue parole supponevano una preghiera estrema rivolta alla
generosità, che avrebbe commosso fino alle lacrime un’altra persona
che non fosse stata Mathilde. Ma l’orgoglio di quella donna era reso
ancor più implacabile dalla strana depravazione di coscienza che le
faceva creder sempre, in qualunque circostanza, che ella avesse operato per il bene e l’interesse della figlia e del marito. Ciò che ella intravide ad un tratto nel discorso di questi, fu che Régine aveva mancato alla parola data.
Come mai la moglie abituata a vedere nello scrittore il marito più
credulone ed indulgente, avrebbe potuto indovinare il lavoro
d’induzione e di diplomazia che lo aveva condotto a scoprire la verità? La sua ribellione di madre contro quello che credeva il tradimento di sua figlia, ebbe quell’ingenuità nella violenza che è la sola scusa di quelle anime rapaci. L’eccesso della loro violenza sarebbe troppo inumano, se non fosse fino ad un certo punto, ingenuo e irresponsabile. E poi, la “bella signora Le Prieux” provava una spaventosa
umiliazione nel vedersi colta in flagrante delitto d’inganno da un
uomo che ella aveva sempre conosciuto ipnotizzato d’idolatria davanti a lei. Vi era un conforto, in quell’impressione penosa,
nell’attitudine di alterigia indignata che ella aveva il diritto di assumere non solo di fronte ad un altro, ma anche davanti a lui.
L’istinto del suo feroce amor proprio s’impossessò subito di quella rivincita. Non appena Hector ebbe cessato di parlare, Mathilde ritirò la mano, e scostandosi dal letto della figlia disse:
– Ed io non perdonerò mai a Régine di averti rivelato ciò che volevo nasconderti… Ebbene! sì, è vero. Volevo celarti alcuni imbarazzi della nostra situazione. Ne avevo tutto il diritto, più che il diritto, il
dovere… È vero che avevo veduto e che vedo tuttora – ed ella accentuò queste parole – nel matrimonio con Edgard Faucherot la sistemazione più saggia e più conforme alla sua e alla nostra posizione. Eppure se ella avesse parlato con me, come ha fatto con te – e la gelosia
segreta che ella aveva sempre provato per la preferenza che Régine
dimostrava al padre, fremeva in queste poche parole – l’avrei lasciata
decidersi in ciò che ella crede essere il suo sentimento… Non era necessario usare tanta doppiezza…
– Mamma! – supplicò Régine, congiungendo le mani.
– Non ha davvero meritato che tu parlassi in questi termini. – disse il padre – Non mi ha detto nulla: sono io che ho indovinato tutto…
– Ella ha fatto in modo che tu indovinassi – ripreso la madre – ed
è anche peggio… Ti ripeto che non le perdonerò mai una cosa simile… D’altronde – ella aggiunse con grande amarezza – tu sei il padre
ed il capo di casa. Vuoi tu che ella, sposi il cugino? Lo sposerà, Andrà a vivere in provincia, lontano da Parigi, ristrettamente, borghesemente, in fondo al mondo. Ed allora sarà veramente infelice, e
l’unica cosa che io abbia il diritto di esigere da lei e da te è che non
veniate poi a lamentarvi con me di questa disgrazia… Avrò tentato
tutto per impedirla…
Si diresse verso la porta, gettando alla figlia ed al marito quella
maledizione, pronunciata in nome di quel struggle for high life divenuto per lei una specie di dogma, una religione. Non voltò neppure la
testa ad un secondo richiamo di Régine implorante nuovamente:
– Mamma, non partite così… lascia che io ti spieghi – e allorché
la signora Le Prieux chiuse la porta, la giovanetta si gettò nelle braccia del padre gemendo; – Ah! La mamma non mi vuol più bene! non
mi ama più!…
– Non dir mal una cosa simile, figlia mia! – esclamò Le Prieux
con un accento di vera disperazione, non lo dir mai, e non lo pensar
mai… È appunto perché tua madre ti ama molto, che ha avuto quel
movimento appassionato, riguardo al tuo matrimonio… ma passerà.
Ora parlerò con lei. Le darò spiegazione di tutto. Si persuaderà. E se
non si persuade, vedi pure che in gran parte è colpa tua. Ma sì! Tu mi
somigli, povera Régine: non sai manifestarti. Tutto ciò che ha fatto
tua madre in questa circostanza, ella lo ha fatto, come sempre, per il
nostro bene. Ha per noi l’ambizione, che avrebbe voluto si fosse avuta per lei. Vedi, si può chieder tutto ad una persona, fuorché di cambiare il modo di apprezzare la vita. Era nata una gran signora, e noi
due siamo, in fondo in fondo, contadini. Non siamo gente di qui. Ella
non può comprender ciò… E sopra tutto non le serbar rancore a causa mia, come talvolta te ne ho veduto tentata, figlia mia. Poco fa ti ho
detto la verità. Pochi articoli di più o di meno da dover scrivere, che
cosa importa? Lo so. Tu sogni sempre che io pubblichi qualche volume, che mi accinga a comporre nuovamente versi, un romanzo…
Troppo tardi, troppo tardi. Se anche fossi libero, se avessi a mia disposizione tutto il tempo immaginabile, non potrei più… Ti ho fatto
troppo comprendere che ciò mi rattristava. È vero. In questi ultimi
anni sono stato spesso triste. Ho avuto l’aria di un uomo che ha fallito la via. Mi hai creduto troppo, cara Régine, quand’io mi lamentavo.
E sei stata tentata di darne la colpa a tua madre. Non dir di no… Ma,
guardami – e prendendo le mani di Régine la forzò di guardarlo, le-
almente, fissamente, le pupille nelle pupille e tutte le fierezze di
un’anima generosa, nella quale la coscienza di quello che ha voluto
si esalta, rischiararono il volto di quel grande innamorato – Puoi leggermi nel fondo del cuore, figlia mia. Sono sincero con te, come lo
sarei davanti alla morte. No non ho fallito la mia via. Quando, a
vent’anni, ho desiderato di essere un poeta, che cosa intendeva con
questo? Di avere bei sogni e di realizzarli. Ebbene… ho realizzato il
più bel sogno che si potesse realizzare, poiché ho sposato la donna
che amavo, ed ella è stata felice per merito mio: ho te, figlia mia…
La felicità di tua madre; ecco la mia opera…
Quindi, come se avesse avuto paura della propria emozione e di
quello che aveva cominciato a dire su se stesso, scosse la testa, e con
un sorriso tremante, aggiunse in tono famigliare d’ironia professionale:
– Non la mia opera intera. Non è che il primo volume, vi è il secondo: la felicità tua… Aiutami a scrivervi: “pronto per la stampa”. E
poi dimmi, se in tutte le letterature, tu conosci molti libri che valgano
questi due volumi?
IX.
Sono ormai circa tre anni che quel secondo volume delle Opere
complete di Hector Le Prieux – per continuare l’innocente e tecnica
facezia del vecchio operaio della letteratura – è stato stampato sotto
la forma di pubblicazioni di matrimonio della signorina Régine Maria-Teresa Le Prieux con il signor Charles Fozio-Huguenin, e sono
circa due anni che la nascita di una bimba, battezzata sotto
l’invocazione di santa Mathilde, è venuta ad invitare la madre di Régine a riconciliarsi con quella coppia d’innamorati, dimoranti laggiù
in riva al mare color di zaffiro, sotto il chiaro cielo del mezzogiorno,
fra gli olivi ed i pini di Aleppo, fra la povera Fanny Perrin ed i genitori Hugneuin, nella casa ereditaria che un fitto bosco di cipressi antichi, dove odorano le rose, difende dal maestrale.
Ma bisogna credere – ed è ciò che scusa la “bella signora Le
Prieux” – che quella intelligenza della sensibilità altrui, della quale il
marito e la figlia hanno tanto sofferto, costituisca realmente, in alcune nature, un’infermità ribelle a qualunque esperienza. Bisogna credere anche – ed è la condanna di quel brillante e fittizio centro mondano, di cui quella donna era l’incarnazione, – che quell’esistenza col
suo eccitamento per la vanità e l’ossessione del lusso del vicino non
è solamente feconda di ridicolaggini. Finisce col ridursi in un vizio di
cuore, che s’inaridisce e s’appassisce, come accade per il colorito più
splendido al regime quotidiano dei pranzi in città e delle uscite serali.
La prova è che la madre di Régine ha mantenuto la sua parola.
Per una di quelle anomalie di coscienza che si debbono verificare,
rinunziando a spiegarle, ella non perdona alla figlia una felicità che
continua a considerare come una abominevole ingratitudine. In quella specie di campagna sociale, intrapresa per con qui stare e mantenere quello che ella chiama “una posizione nel mondo”, Mathilde pensa
a Régine coi sentimenti che provò Napoleone quando vide i Sassoni
girare sul campo di battaglia di Lipsia.
[Durante la battaglia di Lipsia (16-18 ottobre 1813) vari reparti dell’esercito napoleonico disertarono. In particolare i Sassoni, partiti per un assalto congiunto, si
girarono ed iniziarono a sparare contro i commilitoni francesi. NdE]
. Ma ella non è, come l’imperatore, di quelle volontà che si arrendono, e la, vedrete, se voi stesso siete schiavo delle servitù sociali,
continuare a subirne sola le più piccole esigenze, soddisfarne le più
minute usanze, senza scopo, ora che non si tratta più della sistemazione di sua figlia, senza speranza, solo per l’onore.
Questa mattina il suo nome appariva nelle “notizie mondane” di
diversi giornali dello “snobismo” fra le donatrici in un matrimonio
come quello che ella avrebbe desiderato per Régine: «Signore e signora Hector Le Prieux: Scatola in cristallo e oro…». Ed appariva
ieri sotto la stessa rubrica ed allo stesso posto di quelle stesse gazzette fra i convitati di un «elegantissimo pranzo in casa della signora di
Bonnivet nel suo bel palazzo di via d’Artois. La scala di legno scolpito (una meraviglia) il salotto e la sala da pranzo (altra meraviglia)
adorni di fiori e di piante verdi, i servi incipriati in livrea, secondo il
costume francese…».
Quello stesso nome l’avete veduto ieri l’altro, sempre negli stessi
giornali ed allo stesso posto, nel resoconto di un concerto dato a beneficio di un’opera alla quale tanto s’interessa quell’eccellente duchessa di Coutay, dopo la formula consueta: Si notavano nel pubblico… E l’altra sera, se avete assistito alla prima rappresentazione, al
Teatro Francese, del dramma in versi di Renato Vincy, di
quell’Annibale discusso con tanta passione, avrete veduto la stessa
signora Le Prieux troneggiare nel palco di destra che, da anni, è concesso al celebre articolista. Seduta avanti, con la giovane contessa
Bec Crespin, maggiormente accomodata, stretta, lucente e flessuosa,
infine più che mai “la bella signora Le Prieux”.
E se il caso vi avesse permesso di ascoltare i discorsi che si scambiavano, in un palco di faccia al suo, dai Molan e dai Fauriel venuti
per essere annoverati fra le “personalità parigine” avreste inteso giudicare da quella gente artificiosa e astuta, per la bocca di due graziose donnine e da due scaltri artisti, loro mariti, l’eroico lavoro di quella veterana del battaglione sacro.
– La signora Le Prieux è meravigliosa – diceva Lorenza Fauriel –
non l’ho mai veduta più bella di questa sera, la signora di Bec Crespin sembra che sia più anziana di lei… In ogni modo vi sono mariti
molto fortunati: quel Le Prieux è volgare e senza talento!… Sposa la
Venere di Milo, ed è una donna onesta che non ha mai fatto parlare di
sé…
– E che saprà con ciò trovare il modo di farlo entrare
all’Accademia – disse Maria Molan – Non è vero, Jacques?
– Certamente – rispose il romanziere drammaturgo – l’altro giorno mi ha fatto una quantità di domande sulle mie intenzioni, ma con
un’abilità che mi dimostra che egli vi pensa. Ed è appunto perciò che
ha pubblicato ora quella meschinità che chiama i suoi Ricordi. Ci voleva almeno un volume perché il lavoro della sua energica metà avesse l’ombra dell’ombra di un pretesto. Ella è capace di trovargli
una quindicina di voti ed è abbastanza. In ogni modo è una brava signora, ed è un peccato che sia handicapée in quel modo lì.
– È vero però che ella è meravigliosamente bella – disse a sua
volta Fauriel – a meno che non sia un gemere destinato a piacere alle
clienti del gran mondo.
Ed egli col suo occhio di pittore andava analizzando attraverso il
binocolo la signora Le Prieux:
– Che forma di testa! Che attaccatura di collo! Che bella linea di
sopraccigli! Come è ben fatta!… A sessant’anni, a settanta, se non si
darà il belletto, sarà ancora magnifica… È nel sangue: anche sua figlia era così carina! Che cosa è avvenuto di lei?
– Ella è sempre nel Mezzogiorno – rispose Lorenza Fauriel – sposa al cuginetto che vedevamo qualche volta in casa loro, un matrimonio assurdo e che ha procurato un immenso dispiacere alla madre.
– Un capriccio che la scioccherella rimpiangerà molto.
Quest’autunno ella ha passato qualche giorno a Parigi. L’ho incontrata, sempre molto carina. Ma si vede bene che non è più vestita secondo il gusto della signora Le Prieux…
– Régine è stata a Parigi qualche giorno? Non mi avevi detto nulla! – esclamò la signora Molan – E non è venuta a vedermi! Ma ciò
non è certamente gentile da parte sua.
– E neanche me è venuta a salutare! – disse la signora Fauriel –
Oh! non è davvero il cuore che in lei abbonda! Non sono neppure sicura che ella ami sua madre. Se l’amasse, non si sarebbe forse maritata qui, nella nostra società? E una madre come quella che ha tanti
meriti!
– La figlia sarà stata invidiosa di lei – concluse Jacques Molan
con un’aria indifferente. Quello scrittore di tutte le imitazioni, quel
tipo completo dell’”arrivista” e del “profittante” che, noi abbiamo
successivamente conosciuto noi suoi romanzi e nelle sue commedie,
naturalista prima, psicologo poi, preoccupato delle mondanità e
dell’erotismo, quindi delle questioni sociali, sembra aver definitiva-
mente adottato quel tono d’ironia superiore che verifica tranquillamente l’infamia della natura umana. Egli non stette ad insistere sulla
sua osservazione, come se fosse stata cosa solita; poi avendo guardato nuovamente nel palco della signora Le Prieux disse:
– Si sa infine a chi somiglia la piccina… Signore, badiamo: il
dramma deve essere molto bello in questo momento, poiché vedo
quella bestia di Le Prieux che finge di essere altrove e di non ascoltare…
Infatti, il marito della “bella signora Le Prieux” è realmente altrove; qualificato così giustamente di bestia da uno dei maestri della
scuola dell’osservazione, lui stesso tanto magnanimo, delicato ed indulgente per l’ingegno altrui! Egli è parecchie centinaia di chilometri
lungi dal palco dove trionfa sua moglie, e da quello dove si stanno
scambiando quei discorsi fra quei due tristi mercanti d’arte e le loro
mogli, lontano molte leghe dalla scena dove gli attori recitano senza
anima, davanti ad un pubblico annoiato, i versi così sapientemente
composti dal più famoso dei fabbricatori di rime del giorno d’oggi.
Il critico è seduto, col pensiero, nel piccolo salotto della casa di
campagna, guardando il sorriso di Régine, che giunge fino a lui attraverso lo spazio, così dolce e così tenero, un poco triste per la loro
separazione, ma tanto riconoscente! Quella visione basta perché circoli nelle vene del vecchio giornalista un’inesprimibile felicità tanto
più che ha verificato all’ingresso di sua moglie nella sala, che ella
ottiene sempre un gran successo di bellezza, per la quale è tanto avida. Gli occhi socchiusi, egli dimentica le cronache innumerevoli che
ha dovuto ancora moltiplicare per pagare i debiti, – rimangono ora
solo diciottomila franchi da pagare – dimentica l’infinità di articoli…
malevoli coi quali è stato accolto il suo modesto volume di Ricordi –
dimentica la poltrona sotto la cupola ed il calcolo dei voti accademici, al quale Mathilde si era nuovamente abbandonata nella carrozza
che li conduceva al teatro o dimentica le stanchezze davanti alla pagina inutile e la nostalgia inguaribile dell’arte tradita. Egli dimentica
tutto, per assaporare la voluttà profonda di sentire felici, ciascuna a
suo modo, le due sole creature ch’egli abbia mai amato, e di sentirle
rese felici da lui. No, egli non ha fallito la via. Ha avuto ragione di
dire alla figlia che ha realizzato il suo ideale. È venuto a Parigi, come
diceva, per essere un poeta. E chi mai potrebbe esserlo se non lui?