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EDITORIALE
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Paolo Scandaletti
Giornali: tutti sotto tiro
PROFESSIONE
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Ugo Apollonio
La scienza in tv e in edicola. Più lettori ma meno rigore
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Sabrina Speranza
L’Università prepara i comunicatori?
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Maria Luisa Stazio
La canzone napoletana tra mito e passione
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Eugenia Teresa Vitelli
House organ e comunicazione interna: il caso Henkel
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M. C.. D’Ambrosio
Propaganda in radio durante i regimi totalitari
44
Martina Botti
Il mutamento sociale e il caso di pubblicità progresso
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Angela Giudice
Comunicare la salute
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Francesca Mauriello
L’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria
48
Francesco Giudici
Movie marketing: l’approccio di mercato nella Settima Arte
CONVEGNI
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Ilaria Della Corte
ROMA LUISS Cosa fa l’Università per i comunicatori?
E CONGRESSI
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Camilla Rumi
ROMA Tv e minori. L’impegno del Corecom Lazio
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C.R.
ROMA Comunicare la cultura
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Annarita D’Agostino
ROMA LUISS Libertà d’informazione e dovere di cronaca
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Papagna e Costantini
CITTÀ DELLA PIEVE L’incontro delle testate locali
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Francesco Macaro
ROMA UCSI Narrare la professione
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Paolo Scandaletti
Giancarlo Bosetti, Spin
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Ilaria Della Corte
VI Rapporto Ucsi/Censis sulla comunicazione
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Camilla Rumi
Aldo Grasso, La tv del sommerso
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Marica Spalletta
Alberto Lori, Manuale di conversazione
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M.S.
B. Scaramucci, G. Del Pino, Come si documenta la tv
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Valeria Lupo
Cristina Zagaria, Processo all’Università
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C.R.
Natascia Villani, Libertà della ricerca o libertà dalla ricerca?
STORIA E CULTURA
TESI DI LAUREA
LIBRI
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n. 2/2007
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C U LT U R A E R I C E R C A D E L L A C O M U N I C A Z I O N E
Rivista trimestrale
Università Sr. Orsola Benincasa e Ucsi
Anno XIV n. 2
DIRETTORI
Paolo Scandaletti (responsabile)
Lucio D’Alessandro
COMITATO SCIENTIFICO
Francesco M. De Sanctis (Presidente)
Giuseppe Acocella
Ermanno Bocchini
Pasquale Borgomeo
Isabella Bossi Fedrigotti
Enzo Cheli
Massimo Corsale
Piero Craveri
Lucio D’Alessandro
Derrick De Kerckhove
Ornella De Sanctis
Gianpiero Gamaleri
Paolo Mazzoletti
Massimo Milone
Mario Morcellini
Agata Piromallo Gambardella
Emilio Rossi
Paolo Scandaletti
Franco Siddi
REDAZIONE:
ROMA, VIA IN LUCINA 16/A
Rosa Maria Serrao
06/68.80.28.74 fax 06/45.44.96.21
cell. 392/00.19.687
e-mail: [email protected]
NAPOLI: Arturo Lando,
Andrea Pitasi cell. 339/22.65.709
e mail: [email protected]
Proprietà ed Editore: Ucsi
www.ucsi.it
GIUNTA ESECUTIVA
Massimo Milone (Presidente) Angelo
Sferrazza (Vicepresidente), Giorgio Tonelli
(Segretario), Francesco Birocchi (Tesoriere),
P. Pasquale Borgomeo (consulente
ecclesiastico), Maurizio Del Maschio, Paolo
Lambruschi, Andrea Melodia, Antonello
Riccelli, Giuseppe Vecchio
Finito di stampare: giugno 2007
da CSR - Roma, Via di Pietralata 157
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GIORNALI: TUTTI SOTTO TIRO
RESPONSABILITÀ DI GIORNALISTI, PUBBLICITARI, EDITORI
PAOLO SCANDALETTI
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Paolo Scandaletti, giornalista,
insegna etica della comunicazione
all’Università Luiss di Roma e
Storia del giornalismo al Sr
Orsola Benincasa di Napoli.
Dirige questa rivista insieme a
Lucio d’Alessandro
Finalmente è stato messo in discussione il “prodotto”, dopo
tanta promozione acritica. Ha ragione Ceccherini a vantare il
buon risultato ottenuto dall’Osservatorio Giovani Editori che
ha portato il giornale nelle mani di un milione e mezzo di giovani e che si sta estendendo negli atenei. Ora, essendo stato
chiesto ai destinatari un giudizio sul quotidiano italiano, gesto
dovuto e fidelizzante, ne è venuta qualche opportuna indicazione, per gli editori come per i giornalisti.
Paradossalmente, fra i primi a capirlo Cerutti, costruttore di
macchine tipografiche (e presidente dell’editoriale del 24 Ore),
che richiamava il Maritain degli anni ’60: sappiamo di più, ma
comprendiamo di meno. Eccolo, il compito dei giornali: aiutare
i lettori a capire di più, mettendoci più intelligenza, insieme a più
innovazione.
E dunque non inseguire la tv, il Palazzo, il potere e i personaggi, ma stare dentro la società per ascoltarne le voci ed esprimere i bisogni (De Bortoli), radicando le pagine di cronaca nelle
realtà e i problemi dei paesi (Giovanetti, giovane direttore de
L’Adige).
C’è una diffusa sottovalutazione del fatto: non descritto – analizzato per contestualizzarlo ed aiutare a decifrarlo, ma usato per
rovistare fra quel che può esservi dietro, condirlo con indiscrezioni, interpretazioni e polemiche più o meno pretestuose. Così
come si è perduta quella originaria vocazione e mantenere salda
una gerarchia delle notizie, che è espressione di un senso della
vita autentico e profondo, al quale si ancora l’intima credibilità
dei giornali.
Che la via della saggezza sia destinata ad una minoranza l’ha
confermato Feltri, in risposta ad un ragazzo che chiedeva per
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l’appunto ai direttori schierati la possibilità di “Crescere fra le righe”: al costo di un euro, che vorresti? Per la formazione, vai
dalla mamma…Oppure Riffeser, che pensa di risolvere i problemi aumentando il prezzo..
L’informatica ha condotto l’editoria verso un “sistema integrato
dell’informazione”: cartacea al mattino, in dialogo e verifica con
i lettori attraverso il blog e l’interattività; in giornata, con le notizie speciali nel web, lettori paganti e pubblicità montante. E ricavi in crescita per l’editore. A questo proposito, Khan del Wall
Street Journal e Parsons di Time Warner rammentano come i lettori rifuggano dalle novità improvvisate, preferendo di certo i
media con una lunga e consolidata storia alle spalle, il brand che
è innovativo e immette di continuo nuovo valore nel prodotto
‘giornale’; che non cavalca le crisi di un giorno o si fa inquinare
alla pubblicità, nella confusione non perde la bussola e sa mantenere una gerarchia dei fatti e dei valori, cura la precisione e la
prospettiva, tiene all’understatement e alla correttezza con stile.
In Italia siamo arrivati all’”effetto marmellata” (Veltroni): con la
tv che fa politica non si capisce più nulla. Si rincorrono illusioni, quando invece è urgente riportarla dentro la società, magari
con una nuova rete di luoghi e di relazioni. E’ la via che ha scelto Calabrese (Panorama) partendo dai blog (ovvero dall’ascolto)
per identificare ed impostare sezioni di approfondimento e di riflessione.
A Bagnaia il nuovo soggetto protagonista sono stati i 200 ragazzi che spesso hanno messo in croce quelli che stavano sul
palco, i padroni dei giornali e gli operatori. Le domande non tradivano imbarazzo o timore reverenziale, ne incertezze: sapendo
esattamente quello che cercano e manifestandolo con franchezza, hanno offerto a editori e giornalisti di buona volontà il bandolo da afferrare per accreditarsi presso le nuove generazioni,
far loro leggere (e prima ancora, acquistare) il giornale, anche
dopo il liceo e l’università.
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Per arrivare a ciò occorre tuttavia che l’editoria italiana faccia
ammenda del suo peccato originale, degli interessi extraeditoriali che ne hanno minato la credibilità e frenato lo sviluppo. I ‘numeri uno’ americani che sono stati invitati l’hanno detto con elen. 2/2007
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ganza e precisione: il lettore è il solo referente dell’impresa editoriale che voglia campare e fare utili (e senza gli aiuti e sconti
fiscali che consente lo Stato italiano). Non altri soggetti, poteri
o interessi.
Pur avendo nelle loro mani più della metà delle entrate dei quotidiani, curiosamente i pubblicitari non erano presenti, né programmati. Così come non è mai entrata nel discorso la figura del
“garante del lettore”, che in Italia è morta sul nascere; né l’esperienza, positiva in Europa, dei press-council o del revisore in redazione. Sono componenti ingombranti per un sistema abituato
ad adoperare il lettore: ma si dovrà farvi i conti, prima o dopo, se
davvero si sceglierà come interlocutore il cittadino – lettore.
Anche i giornalisti sono stati chiamati in causa, e parecchio. I ragazzi non hanno loro risparmiato nulla, obbligandoli perfino ad
una salutare autocritica: siamo una casta chiusa, non dialoghiamo con i lettori (e nemmeno con gli editori, al di là del contratto, sul prodotto-giornale), non riconosciamo i nostri errori.
L’Ordine va abolito (Fini), come il corso di Scienze della Comunicazione (Latella); il praticantato così diffuso crea troppe
aspettative e quindi disoccupati. Altri hanno sono arrivati a dare dei numeri, sbagliandoli grossolanamente e mostrando superficialità anche nelle cose di casa propria. Ma il punto vero è:
posto che lo si voglia, con chi e dove realizzare la sollecita e corretta gestione deontologica del settore, per le responsabilità dei
giornalisti, dei pubblicitari, dei comunicatori e degli stessi editori, verso il ‘riscoperto’ lettore?
Paolo Scandaletti
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LA SCIENZA IN TV E IN EDICOLA
PIÙ LETTORI MA MENO RIGORE
UGO APOLLONIO
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Ugo Apollonio,
condirettore organizzativo della
Scuola superiore di
giornalismo alla
LUISS Guido
Carli, Roma
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fflitti da un’emorragia di lettori e di
entrate pubblicitarie, i grandi quotidiani americani (New York Times,
Washington Post, Los Angeles Times,
ecc.) continuano a perdere copie,
come è stato dimostrato durante il
Forum mondiale degli editori,
membri della Wan (World association of newspapers), svoltosi a Cape Town in Sud Africa, nei primi
giorni del giugno 2007. Anche i
grandi, ormai storici, network (Abc,
Cbs, Cnn, Fox, Nbc) sono in crisi di
profitti e di organizzazione, aggrediti dall’avanzata dei canali via cavo e
da Internet, che stanno delineando
la nuova società della comunicazione. In questo rapido e crescente mutamento, resistono ancora i maggiori settimanali (Time, News Week, Economist, New Yorker) e la miriade di
pubblicazioni scientifiche e tecniche, come è stato documentato nel
rapporto “State of the News Media
2005” sui vari mezzi di informazione negli Usa, realizzato dal “Project
for Excellence in Journalism” della
Columbia University di New York.
Anche in Italia sta verificandosi un
analogo fenomeno, con i costi dei
quotidiani che crescano il triplo del
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fatturato ed i ricavi pubblicitari in calo (scesi tra il 2000 ed il 2005 dal 58
al 45 per cento del totale) perché la
maggior parte delle risorse è assorbita dalle televisioni e da Internet.
Le vendite nel 2006, per l'esattezza,
sono salite dell'1,9, superando i 5,5
milioni di copie al giorno, quasi
quante si stampavano più di 60 anni
fa, quando la popolazione raggiungeva appena i 40 milioni di abitanti.
Nelle rilevazioni statistiche non si
tiene conto né del numero delle testate, né della tiratura dei quotidiani
appartenenti alla cosiddetta "free
press", che- come in altri stati europei- pesca nel bacino di chi prima
non comprava il giornale. Ormai,
nel nostro Paese ha superato i due
milioni di copie al giorno, distribuite
gratuitamente in varie città. Si devono poi aggiungere oltre 20 pubblicazioni stampate in diverse lingue dagli
stranieri residenti in Italia, con un totale di circa 250 mila copie l'anno.
Crescono, invece i periodici, sia
quelli venduti in edicola, che aumentano in copie ed in nuove testate, sia quelli che vengono diffusi per
posta e ignorati dal grande pubblico, perché rivolti a particolari cate-
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gorie di persone. Basti pensare che
nel campo dell’informazione specialistica, tecnico- scientifica, ed in
quello della formazione professionale, si pubblicano 950 testate (dal
settimanale al quadrimestrale) con
una diffusione annuale di 350 milioni di copie, stampate da 210 editori, raggruppati, dal 1995, nell’Anes, (Associazione nazionale editoria specializzata) che – con i suoi
6800 occupati e con un fatturato
che ha superato un miliardo e 224
milioni di euro nel 2006 - copre l’80
per cento del mercato pubblicitario
delle riviste specializzate, pari a circa 850 milioni di euro.
Le origini della comunicazione
scientifica
Negli Stati Uniti la divulgazione
scientifica e tecnologica nasce con
gli Almanacchi popolari e con i
Pamphlet ispirati al periodico di
Benjamin Franklin Poor Richard Almanach, edito dal 1733 al 1757, ricco
di testi illustrati sugli esperimenti
elettrici ed altri di fisica e di chimica,
con particolare rilevanza per i risultati della ricerca applicata e della tecnica. Lo stesso Franklin fonda in
Filadelfia nel 1743, la prima Associazione Scientifica degli Stati Uniti,
l’ “American Philosophical Society
for promoting useful knowledge”.
Nella seconda parte del secolo
XVIII vengono pubblicati numerosi periodici, in maggioranza basati
su saggi riguardanti i principali fenomeni naturali: American Museum,
American Magazine, Columbian Magazine, Pennsylvanian Magazine, ecc. Successivamente gli argomenti scientifici diventano sempre più popolari,
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grazie soprattutto alla diffusione, in
diversi Stati americani, di riviste che
si occupano di tutte le scoperte e invenzioni: American Journal of Science,
Scientific American, Popular Science
Monthly, Mechanic’s Magazine.
E’ in questo periodo che si pongono decisamente le basi per lo sviluppo del mondo moderno e dell’era industriale. Dopo l’invenzione
della pila di Alessandro Volta
(1745-1827) , in pochi decenni infatti, si definiscono principii e si
costruiscono oggetti determinanti
per i successivi sviluppi delle conoscenze: telegrafo, telefono, generatrici e motori elettrici, trasporto di
energia a distanza, elettromagnetismo ed elettrodinamica.
Il pubblico si appassiona a tutte
queste invenzioni e scoperte che
cambiano il modo di vivere: Louis
Pasteur (1822-1895) descrive il ruolo dei batteri, che chiama “microbi”, nei processi di fermentazione e
individua la causa delle malattie trasmissibili; Charles Darwin (18091882), con la teoria tuttora discussa
in Europa e negli USA dell’ evoluzionismo, modifica il pensiero creazionista che riguarda il passato dell’uomo; il Mondo Occidentale
esplora e colonizza gran parte del
Pianeta; l’industrializzazione e l’urbanesimo sono fenomeni straordinariamente importanti che impongono mutamenti nella vita e nelle
condizioni di lavoro. I dibattiti pubblici coinvolgono le masse. Tutti
sperano in un mondo migliore costruito grazie ai progressi della
scienza. E’ in questo periodo che
anche il “sistema comunicazione
scientifica” rivela tutta la sua imporn. 2/2007
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tanza, in campo economico e sociale, tanto che si arriva, nel 1848, alla
costituzione negli Stati Uniti dell’AAAS (American Association for
Advancement of Science), sul modello di quella inglese, fondata nel
1831, la BAAS (British Association
for Advancement of Science).
La scienza fa ormai parte della vita,
perchè la gente spera di poter risolvere tutti i principali problemi con le
applicazioni tecnologiche, con i prodotti tecnici, come è stato sempre
dimostrato dalle Esposizioni internazionali, (su un tema specifico, che
durano tre mesi e si estendono su di
una superfice non superiore ai 25
ettari) e dalle Esposizioni universali (su
temi generali, che durano sei mesi e
si svolgono in un’area senza limiti di
superfice). La sede di entrambe viene scelta ogni cinque anni fra le varie città che si candidano, dal Bureau
international des expositions (Bei),
costituito nel 1928 e del quale fanno
parte attualmente 95 Paesi.
I periodici scientifici, lo sviluppo
delle testate mediche, le traduzioni
Per quanto riguarda l’Italia, le riviste
di divulgazione scientifica cominciano ad apparire nel 1788 con un
primo periodico, la Biblioteca fisica
d’Europa (per far conoscere al pubblico italiano le principali memorie
degli scienziati d’Oltralpe) e, nel
1792, con il Commercio scientifico
d’Europa e il Regno delle Due Sicilie.
Queste riviste, in poche copie, erano rivolte agli uomini di scienza e al
mondo accademico. La diffusione
di informazione e di aggiornamenti, su argomenti ritenuti di pubblica
utilità, avvenne molti decenni dopo,
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negli anni della Rivoluzione industriale, verso la fine del XIX secolo:
dal 1880, sino all’inizio del 1900,
circolavano una ventina di testate
poi- con la prima guerra mondialeseguì un rallentamento delle pubblicazioni. La ripresa si ebbe durante il
ventennio fascista, con la nascita di
Scienza e tecnica pratica (1924), Natura
(1928), Scienza e vita (1929) e Sapere
(1935). In questo periodo non si
parlava più e soltanto di argomenti
riguardanti l’elettricità, il telefono, il
telegrafo, come era avvenuto negli
anni precedenti, ma l’avanzamento
delle tecnologie, con prodotti e applicazioni della ricerca, interessava il
vasto pubblico ed era incoraggiato
dalla propaganda fascista.
Nel 1934, Guglielmo Marconi,
presidente del Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche), in occasione
del Congresso della Sips (Società
italiana per il progresso delle scienze), inviò un “Messaggio agli scienziati d’Italia” nel quale fra l’altro
scriveva: “Mai come ora la ricerca
scientifica è diventata necessaria per
l’economia, per la vita sociale, per la
difesa del Paese.” Il linguaggio per
annunciare una nuova scoperta o
invenzione era sempre ricco di aggettivi entusiastici: “stupefacenti risultati della ricerca”, “incredibili,
prodigiose conquiste della scienza”,
ecc. Nel 1937 si cominciò a pubblicare un periodico dal titolo Il giornale delle meraviglie. Poi ci fu un’altra
battuta di arresto per la seconda
guerra mondiale e una ripresa, intorno agli anni Cinquanta, con la
nascita di numerose riviste di divulgazione scientifica: Historia Naturalis; L’illustrazione scientifica; La scienza
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illustrata; Natura e vita, ecc.
In questo modo è stata aperta la
strada a numerose iniziative editoriali, con particolare riguardo a quelle che divulgano lo sviluppo delle
scienze biomediche. Solo per fare
qualche esempio, ricorderemo le testate di Minerva Medica (Torino), di
Esi-Stampa Medica (Milano), del Cic
(Roma), trascurando tutte quelle
delle numerosissime Società mediche. In anni più recenti, il settore
editoriale medico scientifico ha avuto un enorme sviluppo con la pubblicazione di qualche centinaio di testate rivolte all’aggiornamento e all’informazione medica. Sono state
anche realizzate le traduzioni delle
più prestigiose riviste scientifiche inglesi e americane (Jama, Lancet, British medical journal, The practitioner, Medical Tribune, Geriatric ecc.) e di “Science
et vie” che da oltre 85 anni riscuote
un grande successo in Francia.
Quasi tutte queste testate, con varia
periodicità, dal bisettimanale al
mensile e al trimestrale, sono inviate
gratuitamente ai medici e a particolari categorie di operatori sanitari,
poichè i costi sono sostenuti dalle
inserzioni pubblicitarie delle società
farmaceutiche (nel nostro Paese ve
ne sono poco più di 300, raggruppate nella Farmindustria) e dalle società che producono apparecchiature sanitarie. Una battuta di arresto si
è avuta per effetto di tangentopoli e
delle incriminazioni, da parte del
pool milanese dei magistrati di “mani pulite”, di numerosi industriali
farmaceutici, che dal 1994 hanno
chiuso i cordoni della borsa. Comunque si deve riconoscere che, per
l’alto contenuto scientifico di gran
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parte degli articoli e dei testi redazionali, tutte queste pubblicazioni
divulgative hanno costituito una
delle principali fonti di aggiornamento professionale per molte categorie di medici specialisti.
Si è calcolato che le circa 400 testate mediche specialistiche, pubblicate da una ventina di editori, avevano
sino al 1993 una diffusione annuale
di oltre 50 milioni di copie, con la
pubblicazione di 8-9 mila articoli
scientifici o informativi e 13-14 mila pagine di testi redazionali o inserzioni pubblicitarie, per un valore di
oltre 50 milioni di euro. Vi hanno
collaborato varie migliaia fra medici, docenti, ricercatori e consulenti
scientifici e sono state impiegate
qualche migliaio di persone, se consideriamo anche gli addetti editoriali e pubblicitari dei periodici specializzati, venduti nelle edicole, come
Salve (Rizzoli), Vitality (Rusconi),
Starbene (Mondadori), ecc.
Vi sono poi altre decine di pubblicazioni a carattere scientifico, specializzate in diversi campi, in minima parte vendute nelle edicole (come Airone, Geodes, Oasis), perchè raggiungono lettori interessati a settori
specifici. (Circa 50 mila copie ciascuna compresi gli abbonamenti).
Ma spesso accade che questi periodici, ideati come “informazione mista” meno settoriale, non riescono a
diffondersi pur essendo molto eleganti, con carta patinata e bellissimi
fotocolor e scompaiono rapidamente dal mercato, come è successo per
Genius (Mondadori), Fortuna (Peruzzo), e Scienza 85 (Fabbri). Anche numerose riviste, di viva attualità, hanno cessato la loro pubblicazione,
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come Teknos, mensile di “scienza,
salute, ambiente”, diretto da Giulio
Raiola e Sebastiano Fusco e il trimestrale Ricerca e Futuro, rivista del
Consiglio nazionale delle ricerche,
diretta da Isabella Vannutelli e da un
Comitato scientifico di altissimo livello, presieduto da Lucio Bianco.
Altre sono comparse nelle edicole,
per esempio, il settimanale Vivere
sani e belli, dell’editore Universo, con
testi e disegni molto popolari e il
mensile Salute più dell’editore Edimedia. Sono anche da ricordare l’edizione italiana di Technology Review,
pubblicato da Edindustria e diretto
da Alessandro Ovi e Giampiero Jacobelli; Focus, diretta da Sandro
Boeri (650 mila copie) e Focus Junior, diretto da Livio Colombo (200
mila copie); NEWTON oggi, nato
nel gennaio 1998, con la direzione
di Giorgio Rivieccio (120 mila copie). Dopo il 2001 si sono aggiunti
in edicola altri mensili: La Macchina
del Tempo (45 mila copie),diretto da
Paolo Calvani, direttore editoriale
Alessandro Cecchi Paone; National
Geographic (130 mila copie) diretto
da Marina Conti; Geo (280 mila copie) diretto da Fiona Diwan; Quark
(75 mila copie), diretto da Paolo
Magliocco e da un Comitato scientifico, coordinato da Piero Angela,
del quale fanno parte Silvio Garattini, Margherita Hack, Danilo Mainardi, Alberto Oliveiro e Giuliano
Toraldo di Francia.
Molte testate, pur presenti in edicola, sono costrette a significative flessioni nella tiratura e puntano tutto
sugli abbonati che assicurano una
maggiore tranquillità, come è avvenuto dal 1968 per Le Scienze, l’edizio-
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ne italiana di Scientific American, diretta da Enrico Bellone, succeduto a
Felice Ippolito e stampata da Mondadori, assestatasi ormai su circa 60
mila fedeli lettori. (Ma vi sono periodici particolari che superano il milione di copie mensili, come per esempio “Fondamentale”, dell’Associazione
italiana per la ricerca sul cancro, dell’Istituto diretto a Milano sino al
1994 da Umberto Veronesi ed attualmente da Natale Cascinelli).
Le pagine scientifiche nei quotidiani e le rubriche della salute sui rotocalchi
Il “fenomeno” della divulgazione
scientifica nei quotidiani si è cominciato ad avvertire in Italia all’inizio
degli anni ‘60, quando Il Giorno, Il
Corriere della Sera, e La Stampa decisero di dedicare un’intera pagina settimanalmente alle notizie scientifiche
di attualità, con particolare riguardo
ai problemi della salute, alle più diffuse malattie sociali e degenerative,
alla cosmesi e alle cure per il corpo,
nonchè ai grandi dibattiti sulle fonti
energetiche, sull’inquinamento acustico e ambientale, sui trasporti, sulla conquista dello spazio, ecc. Ricercatori, studiosi di varie discipline,
scienziati e premi Nobel firmavano
gli articoli e portavano la loro testimonianza di esperti e competenti,
avvalorando, con la loro riconosciuta autorità accademica, l’importanza
dell’argomento e interessando un
numero sempre più vasto di lettori.
Sull’esempio dei primi quotidiani,
negli anni successivi, altri grandi giornali -Il Messaggero, Il Tempo, Il Giornale,
La Repubblica, Il Mattino, La Gazzetta
del Mezzogiorno, Il Giornale di Sicilia, La
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Gazzetta del Sud, solo per citarne alcuni (vedi elenco nel riquadro)- hanno dedicato ogni settimana un’intera
pagina o più pagine, all’informazione
medica e scientifica. (L’Unità addirittura 6 pagine alla settimana). Molto
spesso le notizie di scienza e di medicina hanno l’onore della prima pagina, oppure occupano grandi spazi
negli interni o in economia o negli
esteri, oppure sono ospitate in inserti e supplementi, come Corriere Salute
diretto da Riccardo Renzi che, secondo i dati della RCS Editori, fa aumentare la diffusione del Corriere della Sera di circa 40 mila copie. Altro
supplemento molto seguito è il settimanale Repubblica Salute, curato da
Gugliemo Pepe.
I redattori che hanno il compito di
seguire le sempre più frequenti notizie di carattere scientifico sono
così costretti, anche se spesso hanno conseguito una laurea scientifica, a formarsi le necessarie competenze in modo autonomo, studiando e approfondendo gli argomenti,
aggiornandosi continuamente e
conservando in archivio (quasi
sempre a casa) i documenti più importanti, le relazioni ufficiali dei
congressi, i dati statistici, ecc. Questo avviene, per esempio, con i redattori e con i collaboratori esterni
di Panorama e de L’Espresso che pubblicano settimanalmente servizi, inserti e dossier scientifici di approfondimento. Ma com’è l’informazione scientifica nel nostro Paese, visto che essenzialmente è basata sull’impegno professionale del
divulgatore autodidatta? Per rispondere a questa domanda quattro
gruppi di scienziati e specialisti di
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diverse discipline (coordinati dall’astronomo Mario Rigutti), iscritti al
COASSI (Comitato delle Associazioni Scientifiche Italiane) che raggruppa numerosi docenti universitari, hanno esaminato 1042 articoli
apparsi nei primi 6 mesi del 1983
sui quotidiani (Corriere della Sera, La
Stampa, Il Tempo, Il Giornale, Paese Sera), sui settimanali (Panorama, L’Espresso, Domenica del Corriere) e su
mensili specializzati (Scienza e Vita
nuova, Scienza ‘83, Scienza Digest,
Scienza 2000, Nuova Scienza ). Le discipline prese in esame sono state
25, divise in Scienze naturali, fisiche, chimiche e matematiche. A parere degli esaminatori, i migliori articoli sono stati pubblicati dai quotidiani (giudicati insufficienti solo il
7%), i peggiori dai settimanali (insufficienti il 39%), mediocri quelli
apparsi sui mensili (insufficienti il
29%). Pessima votazione per capacità descrittiva, esplicativa e chiarezza espositiva è stata assegnata a Panorama; al primo posto per inattendibilità dei dati si è classificata Scienza e Vita e molto carente è stata giudicata la documentazione grafica e
iconografica, sia per i quotidiani,
che per i periodici.
A distanza di circa 24 anni dall’indagine COASSI, la situazione non è
cambiata di molto. Si deve aggiungere che in quasi tutti i rotocalchi vi sono rubriche sulla salute, alcune delle
quali affidate a medici specialisti che
danno consigli o rispondono a domande di argomento sanitario. Ma
molti giornalisti continuano ad occuparsi di divulgazione con disinvoltura e superficialità, altri si improvvisano tali con irresponsabilità e rin. 2/2007
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mangono legati agli imperativi dell’attualità, dell’impaginazione, della
messa in onda, spesso per fare spettacolo e destare meraviglia. Tuttavia
- poiché la comunicazione è una tecnica che si impara - si stanno formando degli ottimi giornalisti scientifici, anche se nell’ambito della stessa redazione dove lavorano non sono bene utilizzati, perchè la loro specializzazione e specificità professionale non sono ancora adeguatamente riconosciute ed apprezzate. E
questo accade anche nel mondo della radiotelevisione pubblica e privata,
come vedremo di seguito.
Il problema della comunicazione
specialistica è largamente noto e discusso, soprattutto nell’ambito delle
categorie interessate. Durante le giornate di Milano Medicina del novembre
‘94 si è svolta una Tavola Rotonda
moderata da Paolo Mieli, tuttora direttore del Corriere della Sera, sui principali temi dell’informazione scientifico-sanitaria, con numerosi esperti e
giornalisti, fra i quali A.Bazzi,
D.Brancati, D.De Stefano, G. Faustini, E. Mentana, L.Zanetti. Alla base
del dibattito, il risultato di un sondaggio su 55 mila medici (l’incontro era
stato promosso dal Corriere Medico)
dal quale emergeva che tre quarti degli intervistati consideravano “allarmistica e semplicistica, tendenziosa e
superficiale” l’informazione medicoscientifica e sanitaria, rivolta al grande pubblico, pur ritenendola molto
utile ai fini della prevenzione e di
una più diffusa cultura.
Si sente, dunque, la necessità di
nuove regole, in un Codice di deontologia professionale, specie per
porre vincoli sicuri nei confini e li-
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miti dei due grandi settori della comunicazione: la Pubblicità e l’Informazione. Ma nello stesso tempo
appare sempre più evidente l’importanza di preparare nelle Scuole
di giornalismo e nelle università
giornalisti specializzati anche nelle
scienze e nelle tecnologie biomediche e, più in generale, nel vasto
campo della divulgazione scientifica, perchè, come ha dichiarato l’astronoma Margherita Hack in “Prima Comunicazione” (Novembre
1999):”Fare divulgazione scientifica attraverso i giornali è per noi un dovere, perchè i ricercatori sono dipendenti pubblici.
Ma il problema è il giornalista. Va tutto
bene se ha una discreta preparazione,
sennò ti fa dire delle castronerie clamorose,
roba che non sta né in cielo né in terra”.
Le trasmissioni scientifiche radiofoniche e televisive
Tra i vari mezzi per diffondere
l’informazione, la televisione è senza
dubbio il più potente dei mass media. Se la radio, sin dalla fine della seconda guerra mondiale, ha fatto sentire ed apprezzare la voce degli
scienziati, cominciando a riscuotere
molta curiosità e vasto interesse per
le scoperte e per le promesse applicative, la televisione è andata ben oltre, potendo mostrare i ricercatori al
lavoro nei laboratori, accanto ad apparecchiature sempre più sofisticate,
descrivendo - per esempio - la struttura del DNA o il volo simulato in
un esperimento di astronautica. Appare, dunque, evidente che un programma televisivo di divulgazione
scientifica può aggiornare il pubblico sull’importanza delle più recenti
scoperte e sui fenomeni naturali, co-
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me nessun altro mezzo di comunicazione, compresa la rete Internet.
Tuttavia -nonostante questa obiettiva verità- nel nostro Paese non esistono ancora organismi permanenti strutturati per gestire questo tipo
di informazione nella stessa televisione pubblica e, tanto meno, in
quella privata. Basti pensare che
l’organigramma dei telegiornali prevede, oltre al vertice direttivo e alle
strutture di supporto amministrative e tecniche, un ben preciso e distinto gruppo di redazioni operative: interni, esteri, cronaca, economia, sport, cultura e spettacolo, ambiente, diritti del cittadino. Ma non
una “redazione scientifica” che, del
resto, hanno soltanto pochi quotidiani e le principali agenzie di stampa (Ansa, Italia, Adn Kronos) .
L’interesse per la comunicazione
radiofonica scientifica si avvertì in
Italia a metà degli anni ‘50 quando
la radio avviò, nella popolare rubrica Classe Unica, un vasto programma per diffondere le nozioni di base “indispensabili alla cultura dell’uomo moderno”, affidando brevi
trasmissioni cicliche a studiosi e a
cattedratici di varie università in tre
grandi settori: Letteratura e Arte;
Storia, Diritto e Attualità; Scienze.
In quest’ultimo campo -come si
può constatare rileggendo le lezioni
radiofoniche raccolte dalla casa editrice Eri Rai nei volumetti di Classe
Unica - furono affrontati moltissimi
temi con un linguaggio preciso e
semplice: Problemi di biologia moderna
e dell’eredità biologica (Giuseppe Montalenti); Corso di fisiologia (Enzo Boeri); Igiene e salute dell’uomo (Lino Businco); Imparare a nutrirsi (Gino Ber-
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gami); Medicina e igiene del lavoro (Enrico Vigliani); I microbi e l’uomo (Giuseppe D’Alessandro); Fattori interni e
ambientali nello sviluppo dell’organismo
umano (Ugo Teodori); Pedagogia e psicologia (Carlo Traversa); Invenzioni
nella storia della civiltà e Progresso della
tecnica (Rinaldo De Benedetti); Il sistema planetario e La fisica atomica (Ginestra Amaldi); Astronomia e astrofisica (Giorgio Abetti); Le grandi conquiste della chimica industriale (Livio Cambi); Geofisica (Maurizio Giorgi);
L’automazione (Gustavo Colonnetti);
Missili e volo spaziale (Cesare Cremona); e decine di altri argomenti
scientifici e tecnologici.
Molto seguiti sono stati alla RAI i
programmi radiofonici di scienza e
medicina , come quello pomeridiano di Luciano Ragno, quello serale
di Luciano Sterpellone ed altri analoghi. Si deve poi aggiungere l’attività quotidiana di informazione
medica nella RAI, svolta da redattori scientifici ben noti, come, solo
per fare due esempi, Emanuela Medi e Vito Pindozzi.
I programmi divulgativi di scienza
nella televisione iniziarono, sin dalle
sue prime trasmissioni, nel novembre 1954, con alcune rubriche di pochi minuti che si proponevano di
diffondere nozioni “in pillole”, come
avveniva con la Piccola Enciclopedia
Scientifica, l’Enciclopedia di Lascia o Raddoppia (Mike Bongiorno), Una risposta
per voi (Alessandro Cutolo). Più impegnative e rigorose erano, invece, le
prime trasmissioni organiche sui fenomeni fisici e chimici, soprattutto
con finalità didattiche, del giornalista
Bruno Ghibaudi e di Enrico Medi,
direttore dell’Istituto nazionale di
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Geofisica, nella rubrica Avventure della Scienza; quelle di medicina, fisiologia e biologia, nella rubrica La Macchina per vivere, curata da Annamaria
Di Giorgio, dell’Università di Torino;
quelle di Giorgio Abetti e Aurelio
Robotti (Viaggi nel Tempo e nello Spazio, Quarta Dimensione).
All’inizio degli anni ‘60, i programmi vennero ampliati e sviluppati anche su argomenti monotematici:
Italia nucleare, Atomo pratico, Finestra
sull’universo, Alle soglie della scienza, a
cura di Giordano Repossi; Storia della bomba atomica (Virgilio Sabel); Conoscere la natura (A.Ancillotto e F.
Armati); Almanacco di storia, scienze e
varia umanità (G.Lisi e G.Salvi); Verso il futuro (E.Sanna e A.Barbato).
Nel gennaio 1966, Giulio Macchi
comincia la sua impegnativa rubrica
- Orizzonti della scienza e della tecnica che avrà sette cicli, sino al 1973,
molto seguiti ed apprezzati, sempre
con l’obiettivo di divulgare, istruire,
informare, intrattenere un vasto
pubblico, mentre le rubriche L’altra
medicina e Medicina oggi, affidate a vari specialisti, collocate in tarda serata, erano corsi di aggiornamento
per medici o altri esperti; Boomerang
di L. Pedrazzi e Planetario di Gian
Luigi Poli, rientravano nei programmi televisivi di attualità culturale, di
circa un’ora l’uno, con tre-quattro
milioni di spettatori per puntata.
Nel 1969 scende in campo Piero
Angela, con Il futuro nello spazio, Destinazione uomo, Scienza e sviluppo tecnologico, Quark: un successo progressivo e strepitoso che, nel 1981 - con
I Viaggi dall’universo al cervello umano,
(sedici puntate) - colloca la scienza
tra i programmi di maggiore ascol-
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to, sino a sette, otto milioni di telespettatori. Questo successo è stato
confermato, dieci anni dopo, con
Quark speciale, Il mondo di Quark,
Viaggio all’interno del corpo umano e Super Quark (insieme con il figlio Alberto, geologo) seguitissimi in prima serata (tutti i cicli televisivi di
Piero Angela sono sempre accolti
con grande entusiasmo ed interesse
dal pubblico e dalla critica, come
del resto i suoi trenta volumi di divulgazione , che hanno superato
due milioni di copie).
Altre rubriche scientifiche di grande risonanza sono state quelle del
documentarista Folco Quilici, dell’etologo Danilo Mainardi e quelle,
ovviamente, riguardanti i problemi
della salute, prima fra tutte Checkup, ideata da Biagio Agnes, curata
da Maria Conti e condotta per molti anni da Luciano Lombardi e da
Annalisa Manduca. Alla fine del
1997 Check -up della Rai era giunta
alla ventesima edizione con circa
600 puntate, spesso con il 90% di
indice di gradimento. Ha segnato
una tappa importante e significativa, nel campo dell’informazione
medica, perchè ha instaurato un utile colloquio settimanale del pubblico presente in studio con i più autorevoli esperti, italiani e spesso
stranieri, nel vasto campo delle
scienze e delle tecnologie biomediche. Le notizie dal mondo della medicina sono sempre molto seguite e
questo lo si deve anche all’attività
divulgativa iniziata da pochi giornalisti dedicatisi a questo settore (come Giorgio Conte e Marcello Morace) che, seguendo i grandi Congressi medici ed intervistando gli
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esperti, hanno cominciato, con i loro servizi di cronaca, a diffondere negli “interni”, cioè nei telegiornali
- le novità e le più recenti acquisizioni mediche.
Poi sono seguite le rubriche fisse
settimanali di divulgazione scientifica e medica come Albedo di Giuseppe Breveglieri sulla Rete 1; Medicina Trentatre di Luciano Onder sulla Rete 2; Elisir di Michele Mirabella; Geo & Geo di Licia Colo’ su Rai
3; La macchina del Tempo di Alessandro Cecchi Paone su Rete quattro;
Big Bang di Jas Gawronski su Canale 5; Sfera di Andrea Monti su La7 e
la rubrica quotidiana di medicina
Vivere meglio, curata da Fabrizio
Trecca prima su Canale 5 e poi sulla Rete 4. Sono almeno una ventina
i programmi medico-scientifici trasmessi dalle reti televisive pubbliche
e private, tutti con notevole indice di
ascolto. C’e da osservare che molte
piccole televisioni locali, negli ultimi
tempi, sono state acquistate da proprietari di case di cura o di istituti di
bellezza, in quasi tutte le regioni d’Italia, per propagandare in maniera
indiretta e spesso scorretta, l’ efficacia terapeutica di apparecchi, sostanze, prodotti e metodiche, inducendo nel pubblico comportamenti pregiudizievoli ed erronei convincimenti su mirabolanti risultati.
Appare sempre più evidente che la
divulgazione scientifica radiofonica
e televisiva è quanto mai utile per il
progresso culturale e civile della
gente, perchè può sopperire alle
grandi lacune del sistema educativo
tradizionale, troppo lento e superato, per il fatto che la scuola d’obbligo e gli stessi corsi universitari non
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possono tenere il passo delle grandi
scoperte scientifiche. Per colmare
questa carenza, largamente sentita,
sono ora interessati grandi editori Mondadori, Rizzoli, Fabbri, la stessa ERI della RAI, ed altri- che, sull’esempio del National Geographic e
della WWF, hanno cominciato a
preparare le prime collane divulgative in videocassette o in CD.
Un vasto programma editoriale per
una piccola enciclopedia delle scienze in VHS, che merita di essere ricordato, è quello avviato, alla fine del
1989, dall’Istituto Luce (direttore
Antonio Manca), e dal Cattid- Centro per le applicazione della televisione e delle tecniche di istruzione a
distanza- (direttrice Maria Amata
Garito), nell’ambito dell’Università
La Sapienza di Roma. Si è voluto
raccogliere, in cassette, l’essenza delle discipline scientifiche, la risposta
tecnologica ai bisogni dell’uomo
(energia, ambiente, telecomunicazioni) ed il futuribile in alcuni campi
strategici (biotecnologie, nuovi materiali, telematica). Le prime videocassette, ad esempio, sono state curate da Antonio Ruberti (robotica),
Francesco Melchiorri (astrofisica),
Giorgio Tecce (biologia), Ugo Montanari (informatica) e Francesco Carassa (telecomunicazioni). Altre iniziative in questo settore sono prese
da vari editori con la diffusione di
CD Rom, come per esempio è stato
fatto da La Stampa che ha raccolto
nel CD Tutto scienze ‘92-’96, a cura di
Pietro Bianucci, i testi degli articoli
pubblicati nel quinquennio e poi negli anni successivi.
Tutto questo determina, chiaramente, l’esigenza di disporre, da
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una parte, di un sempre maggior
numero di giornalisti specializzati e
di tecnici qualificati che possano lavorare insieme con docenti universitari, ricercatori e scienziati; e, dall’altra, di avere una serie di norme
deontologiche ben precise, per poter garantire un’informazione seria,
corretta, affidabile e una “televisione di qualità”, come si augurano in
molti (Arrigo Levi, La Stampa
15.06.2006). Riguardo alla specializzazione dei giornalisti, c’è da osservare che la preparazione e la
qualificazione sono un serio problema, soprattutto per mancanza di
tradizione e di scuole (vedere, in
proposito, il libro di Marcella Cardini Le scuole di giornalismo e la Guida al
giornalismo scientifico di Gino Papuli).
Corsi di giornalismo scientifico e
medico, per 15 - 20 laureati in materie scientifiche, sono stati istituiti,
alla fine degli anni ‘80, in varie Università: Trieste, Milano, Tor Vergata
di Roma e nell’Istituto Negri di
Chieti. Tale esigenza è fortemente
sentita in vari Paesi come, per
esempio, in Francia, dove i tassi di
audience dei programmi scientifici
sono generalmente troppo bassi rispetto agli investimenti necessari
alla loro produzione, e questo li relega in spazi limitati, anche se ciò
non corrisponde alla funzione stessa di servizio pubblico che deve
soddisfare tutti i telespettatori.
L’argomento è allo studio, da molti
anni, nell’ambito del CNCA (Conseil National de la Comunication
Audiovisuelle) che, sin dal marzo
1986, ha stabilito, in uno specifico
documento (Avis N.16) norme precise, riguardo alla qualità dei pro-
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grammi scientifici, tecnici e medici
in televisione.
Ha raccomandato, altresì, una serie
di iniziative per offrire al pubblico
regolari trasmissioni tendenti a formare una cultura scientifica popolare, obiettivo questo che rientra in
un ambito più vasto di decisioni del
governo francese, fra le quali la recente realizzazione della Mostra
scientifica permanente nella Citè de
la science, La Villette di Parigi, unica
in Europa per la ricchezza e l’originalità delle opere raccolte. Su questo esempio una Città della Scienza, è
stata inaugurata a Napoli, nell’area
industriale di Bagnoli, nel novembre 2001, sulla base di un ambizioso progetto del fisico Vittorio Silvestrini, tendente a realizzare la diffusione della cultura scientifica, la formazione permanente degli insegnanti, l’orientamento professionale dei giovani e uno stimolo costante per la creazione di nuova imprenditorialità, come del resto avviene nel Museo della Scienza di Londra e all’Exploratorium di San Francisco. Un altro grande progetto per
la realizzazione a Torino di un Centro per la divulgazione della Scienza è
stato varato nel giugno 2001 articolato su 3 filoni principali: l’informatica e le telecomunicazioni, la nuova
biologia e le biotecnologie, la meccanica e lo spazio. Sono seguite poi
le Mostre della scienza di Genova,
di Roma e, annualmente, a livello
nazionale, la “Settimana della scienza”, promosse e sostenute dal Ministero dell’università e della ricerca .
Ugo Apollonio
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L’UNIVERSITÀ PREPARA I COMUNICATORI
UNA INDAGINE RIVELA: TROPPI INTERESSI
E SQUILIBRI A DANNO DELLA QUALITÀ
SABRINA SPERANZA
Con il progetto di ricerca Le professioni della comunicazione in Italia e in Europa si è compiuta
una ricognizione analitica e diffusa sui momenti essenziali che scandiscono i percorsi curriculari dei comunicatori relativamente alla formazione, nonché all’accesso e all’esercizio della professione, mirando a fare emergere problematiche e criticità. La ricerca offre una radiografia aggiornata della situazione universitaria e professionale italiana e di alcune significative esperienze europee, ponendo le premesse per un dibattito aperto tra accademici e professionisti, dirigenti pubblici e privati, leader e aggregazioni sociali, aziende e istituzioni, cittadinanza attiva. Il progetto e la direzione della ricerca sono di Massimo Baldini e
Paolo Scandaletti. I ricercatori appartengono alle università Luiss Guido Carli, Lumsa e “La Sapienza” di Roma, “Suor Orsola Benincasa” di Napoli e “Gabriele d’Annunzio” di Chieti-Pescara.
Dal primo volume anticipiamo parte del saggio critico di Sabrina Speranza.
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Università: un cantiere
aperto dal 1997
l cantiere apre alla riforma
con la legge 15 maggio
1997, n. 127 (Autonomia didattica e innovazione dei corsi di
studio di livello universitario e
post universitario); l’università si dà,
cioè, un criterio organizzativo con
cui poter consentire e gestire un
cambiamento che ha come obiettivo principale il miglioramento qualitativo dell’istruzione universitaria e delle
condizioni complessive di funzionamento
dell’università italiana. L’avvio del
processo di miglioramento è segnato dalla Nota di indirizzo sull’autonomia didattica (o avviso preventivo di interpretazione) inviata il 16 giugno 1998 dal ministro Luigi Ber-
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linguer a tutti gli atenei per riportare sinteticamente gli obiettivi della
riforma e per indicare le innovazioni implicate immediatamente percorribili.
L’introduzione dell’autonomia didattica negli atenei, intesa come autogoverno, responsabilizzazione, apertura alla domanda di formazione e di innovazione dei contesti sociali e produttivi, ha determinato la rivisitazione del ciclo di formazione universitaria (I e II livello), la riarticolazione dell’offerta formativa sulla
base della possibilità di progettare,
autonomamente, corsi di studio
con specifici ordinamenti didattici
(denominazioni, attività e obiettivi
formativi, crediti, modalità della
prova finale per conseguimento
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Sabrina Speranza, è
docente di Teorie e
tecniche della comunicazione pubblica
all’Università di
Chieti-Pescara e docente di Comunicazione moda all’Università di Urbino.
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del titolo). In particolare, «per
rafforzare la sintonia tra formazione acquisita all’università e aspettative del mondo del lavoro, per costruire uno spazio europeo dell’istruzione superiore finalizzato alla
mobilità internazionale degli studenti, la libera circolazione dei
professionisti e per favorire il riconoscimento internazionale dei titoli di studio», la riforma universitaria si è prefissata di ridefinire la
struttura del sistema formativo e
dei titoli accademici, suddividendola in livelli (o gradi) di approfondimento teorico-culturale e di specializzazione professionale.
Con il decreto MURST n. 509 del
3 novembre 1999, concernente la
nuova architettura del sistema degli ordinamenti didattici, prende
corpo l’autonomia degli atenei, e si
inizia a progettare ed organizzare
corsi di studio meno vincolati dalle tabelle ministeriali. La nuova offerta formativa si caratterizza per
l’articolazione dei corsi secondo il
modello del 3+2 (3 anni di laurea
di I livello o triennale + 2 anni di
laurea di II livello o specialistica). Le
università rilasciano, quindi, titoli
di primo livello (tre anni (L), orientata all’acquisizione di metodi e
contenuti scientifici generali e di
specifiche conoscenze professionali); di
secondo livello, o specialistica,
(due anni (LS), per una formazione più avanzata e per l’esercizio di attività di elevata qualificazione in ambiti
specifici).
Le università cominciano a ragionare, più che in passato, come
aziende: moltiplicano l’offerta, organizzano il prodotto, adottano
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politiche di localizzazione dell’offerta e politiche di naming per aumentare l’attrattività dei corsi, investono in pubblicità. Giornate dell’orientamento, stand informativi, nuove
guide dello studente, opuscoli e brochure
illustrano percorsi e facoltà per
aiutare concretamente i futuri studenti nella scelta del percorso universitario.
E nel 2001/2002, con l’attuazione
della riordino dei percorsi formativi, inizia la fase di inedita espansione.
Aumenta considerevolmente l’impegno finanziario rivolto al sistema
universitario (es. la spesa pubblica,
che copre l’università per il 70%,
ammontava a 8.500 milioni di euro
nel 1994 e quasi 15.000 milioni di
euro nel 2003); diventa più significativo è l’intervento delle università in aiuto agli studenti (47% rispetto al 4,2% erogato precedentemente dagli enti per il diritto allo
studio); Il 41,4% dei progetti di ricerca presentati, soprattutto progetti
di rilevante interesse nazionale
(PRIN) sono finanziati.
Cresce, a partire dal 1999/2000, il
numero dei docenti di ruolo in quanto la legge n. 210/1998, introducendo il cambiamento delle modalità di accesso ai ruoli della docenza universitaria e concedendo agli
atenei l’autonomia nel bandire i
concorsi, ha permesso di ridurne i
tempi di espletamento (la finanziaria del 2003 ha però bloccato le assunzioni); cresce il numero dei docenti a contratto (rappresentano il
33% delle 83.000 unità che compongono complessivamente il personale docente).
Aumentano il numero e la diversi-
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ficazione dei corsi (quasi un corso
su 5 è di nuova istituzione, 5.131
corsi nel 2003/2004, quasi 5.400
nel 2005/2006); cresce il numero
delle facoltà, da 510 a 548.
Aumentano le sedi universitarie, negli
ultimi 2 anni sono nate 13 università (9 università telematiche, 4
università tradizionali non statali);
si diffondono le sedi universitarie decentrate (i comuni in cui sono presenti sedi didattiche erano già 237
nel 2003, sono attualmente 253).
I giovani studenti, e la novità dei
meno giovani, manifestano, anche
rispetto agli altri paesi europei, una
notevole propensione agli studi accademici (es. nel 2003/2004, su 340.000
iscritti, il 55% ha 19 anni, il 21% ha
compiuto 21 anni e il 10% è ultraventunenne, quota quest’ultima che è
stata via via in particolare aumento); più matura e consapevole sembra la scelta degli studenti i quali affrontano, attraverso test di selezione
in ingresso (anche non obbligatori
ma di solo orientamento), la valutazione delle proprie capacità e
competenze prima di iscriversi ad
un corso di laurea (negli ultimi 2
anni, su 250-300.000 matricole, il
55/60% ha avuto a che fare con
un test per l’ammissione); diminuisce quindi la quota di coloro che
abbandonano gli studi e degli studenti fuori corso mentre cresce il
numero dei laureati (175.000 nel
2001, 234.000 nel 2003).
Il settore della formazione post lauream riscuote molto successo in
tutte le sue componenti: a 3 anni
dall’attuazione della riforma si
contano 149.000 iscritti (in 23.309
hanno scelto un master nel
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2003/04, in 26.207 nel 2004/05).
Nel frattempo, il decreto MIUR n.
270/2004 (pubblicato nella GU n.
266, 12 novembre) modifica notevolmente, e sostituisce (art. 13,
comma 1), il DM n. 509/1999.
Nuove versioni e riformulazioni di
articoli, eliminazioni ed integrazioni di commi presentano nel complesso significative differenze che
incidono soprattutto sul potere di
iniziativa delle università in merito
a modifiche e attivazioni di classi e
corsi di studio (art. 4 e art. 9) e che
sottolineano la centralità di ministro, nucleo di valutazione, CUN
(Consiglio universitario nazionale)
e CRUI (Conferenza dei rettori
delle università italiane). Dalla generale tendenza del DM n. 270 a
ridimensionare propositi e autonomie delle università emergono alcune novità riguardanti per esempio la laurea di secondo livello. Le
novità da considerare sono:
- la sostituzione della laurea specialistica (LS) con la laurea magistrale
(LM), quindi tutte le volte che nel
DM n. 509 si faceva riferimento alla laurea specialistica, automaticamente nel DM n. 270 ci si riferisce
alla laurea magistrale;
- la versione totalmente nuova del
comma 5 (art. 3, Titoli e corsi di studio) riferita più esplicitamente alle
conoscenze professionali, all’inserimento
nel mondo del lavoro e all’osservanza
delle disposizioni di legge e dell’UE;
- l’integrazione del comma 2 (art.
6, Requisiti di ammissione ai corsi di
studio) con una parte finale che evidenzia la possibilità, per le università, di stabilire i criteri di accesso, i
requisiti curriculari e di consentire
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l’iscrizione anche ad anno accademico iniziato, purchè in tempo utile per la partecipazione ai corsi nel
rispetto delle norme fissate nei rispettivi regolamenti;
- una maggiore individuazione della
laurea magistrale come percorso formativo specifico di 120 crediti,
non più presentato come un tratto
dei 300 crediti complessivi di cui si
parlava nel DM n. 509 (comma 2,
art. 7, Conseguimento dei titoli di studio);
- la chiarificazione delle qualifiche
accademiche che competono ad
ogni livello formativo, e cioè la
qualifica di dottore per la laurea di
primo livello, di dottore magistrale
per la laurea di secondo livello
(specialistica o magistrale) e di dottore di ricerca per il dottorato di ricerca.
Differenze più o meno significative a parte, il sistema del cosiddetto
“3+2” è sostanzialmente confermato e ci si può riferire ancora all’attuale assetto dell’offerta formativa specialistica. C’è stato un momento in cui si è temuto il cambiamento per tutto un settore dell’offerta formativa ormai in corso.
Non si capiva bene, per esempio,
se si poteva parlare ancora di lauree
specialistiche o in che termini farlo
delle lauree magistrali (LM). In sostanza, il DM n. 270 ha stabilito
solo una diversa denominazione: la
laurea di secondo livello, precedentemente nota come specialistica, è ridenominata laurea magistrale.
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Le storture
Da quanto si è letto per tutto lo
scorso anno, sui quotidiani e negli
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approfondimenti settimanali, l’università versa in uno stato di crisi
permanente, in quanto non sembra costituire, per il governo del
paese, una delle grandi e decisive
questioni nazionali per la costruzione del futuro. Sembra vivere solo il dramma del cambiamento, il
caos.
In una lettera firmata a Eugenio
Scalfari, l’università è così raccontata: «vivo da anni una condizione
da docente universitario precario,
fatta di corsi e moduli assegnati all’ultimo momento, assenza cronica
di fondi e programmazione, affollamento di aule e di corsi, strumenti didattici inesistenti o antiquati, studenti eroici nel loro tentativo di sopravvivere in un mondo
impazzito che reagisce offrendo
una moltitudine sempre più caotica di corsi di laurea fantasiosi e
master dai nomi altisonanti».
È vera, intanto, la moltiplicazione
scriteriata di atenei. In 2 anni ne sono nati 13:
- 9 telematici (“Guglielmo Marconi”, Tel.M.A., Uninettuno, “Leonardo da Vinci”, “Italian University Line”, “Universitas Mercatorum”, UNISU, “Giustino Fortunato”, “E-Campus”);
- 4 non statali (Università degli
Studi di Scienze gastronomiche di
Pollenzo, Università “Francesco
Ranieri” di Villa San Giovanni,
Università Kore di Enna, Università Europea di Roma).
Il boom demografico delle sedi
universitarie caratterizza, in realtà,
gli ultimi 10 anni. Nascono, infatti,
nel 1996 la Libera Università “Vita
Salute San Raffaele” di Milano; nel
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1998 l’Università degli Studi “Insubria” di Varese-Como, l’Università
“Magna Graecia” di Catanzaro, l’Istituto di Scienze Motorie di Roma, l’Università degli Studi di Foggia; nel 2000 l’Università della Valle d’Aosta, la LUM “Jean Monnet”.
Attualmente il sistema dell’istruzione superiore italiano conta 93
unità: statali (56 atenei, 2 atenei per
stranieri, 3 politecnici, 3 scuole superiori); non statali (18 atenei, 9 atenei telematici, 2 consorzi interuniversitari).
La moltiplicazione risulta scriteriata
perché alcune sono nate per accontentare qualche politico, perché stava
per partire una Università delle
scienze umane (UNISU) collegata
all’istituto per la preparazione agli
esami Universitalia, perché spesso
sono università generaliste che
non aggiungono niente all’offerta
già esistente, perché molti web atenei non hanno ancora un sito Internet.
Fra lauree e diplomi di vecchio ordinamento, lauree triennali, lauree
specialistiche e a ciclo unico, si
contano in tutto 5.396 corsi, 3.000
dei quali sono di nuova istituzione,
prodotto di un aumento del 35%
dell’offerta formativa in 6 anni di
applicazione della riforma 3+2 degli ordinamenti (nel vecchio ordinamento i corsi erano 2.500).
Le lauree triennali, 182 nel
2000/01, sono diventate: 2.799 nel
2001/02; 2.812 nel 2003/04; 2.773
nel 2005/06; 2.785 nel 2006/07.
Le lauree specialistiche, 533 nel
2001/2002, sono diventate: 1.427
nel 2003/04; 2.082 nel 2004/05;
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2.231 nel 2005/06; 2.361 nel
2006/07.
Il 54% dei laureati di primo livello
e il 90% dei laureati regolari in età
canonica proseguono la formazione universitaria: 1.796.270 studenti
(in corso e fuori corso) nelle università statali, 110.312 studenti nelle università non statali. E alcuni
sono solitari frequentatori di mini-facoltà: su quasi 5.400 corsi, 323 non
arrivano a 15 iscritti, 37 quelli con
un solo iscritto, e pesano comunque sulla distribuzione dei finanziamenti.
Una dinamica che presenta alcuni
vizi: il 10% dei corsi triennali, a ciclo unico (ad esclusione di quelli a
numero chiuso) si sovrappone alla
specializzazione prevista dalle lauree magistrali, sono cioè corsi di
nicchia (es. Tecniche del territorio, Conservazione e valorizzazione delle biodiversità) che lo scorso anno, infatti,
non hanno superato i 20 iscritti; si
varano corsi con stessi insegnamenti in sedi vicine per concorrenza territoriale; si varano corsi che
non intrecciano la domanda di formazione e hanno pochi contatti
con le richieste del mondo del lavoro. La proliferazione dei corsi
non è solo il prodotto di una concorrenza territoriale spietata, di
un’ipertrofia accademica che complica
la scelta alle matricole, è anche passione per la specializzazione. Si trovano corsi dai titoli più disparati: impegnativi (Promozione della lingua e
della cultura italiana nel mondo), evocativi (Gestione del verde), ultramoderni (Tecnologie del packaging), arcaizzanti (Tecnologie del legno), criptici (Divulgatore ambientale), iperspen. 2/2007
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cialistici (Scienze vivaistiche) e poetici
(Scienze del fiore).
Con la moltiplicazione dei corsi di
studio e l’avvento delle lauree
triennali, anche le segreterie studenti incorrono in gravissimi affanni. Troppi corsi e lauree ingolfano le procedure. La segreteria
della facoltà di Lettere dell’università di Firenze per esempio, nell’impossibilità di certificare gli esami e alle prese con l’emergenza
della sessione estiva di laurea
2005/2006, ha dovuto chiedere
agli studenti una dichiarazione sostitutiva di certificazione e/o di atto di notorietà, ai sensi del DPR 28 dicembre
2000, n. 445. In definitiva, libretti
fai-da-te per risolvere il caos, in attesa dell’arrivo di risorse umane e
tecnologiche adeguate.
Latifondi e giardini della formazione, disseminazioni, profusioni e affanni a parte, l’aspetto più discutibile delle applicazioni della riforma
è la preparazione degli studenti.
L’esplosione del numero dei docenti e degli atenei ha fatalmente
abbassato il livello medio degli insegnanti. Come si chiedono Rizzo
e Stella, «valeva la pena di incoraggiare la moltiplicazione di pani, pesci e cattedre […] visto che come
nel calcio e nella lirica non ci sono
abbastanza Totti e abbastanza Pavarotti per tutti gli stadi e tutti i
teatri e occorre dunque ricorrere
sempre più spesso a brocchi e ronzini?». E anche quando stadi e teatri accademici hanno cercato fuori
- nelle docenze a contratto di professionisti di qualità - i Totti e i Pavarotti che non aveva, non li ha
sempre riconosciuti. L’università-
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azienda non si è mai posta il problema di dover considerare il mercato e di organizzarsi adeguatamente per poterseli permettere:
per un seminario professionalizzante prevede circa 150 euro di
rimborso spese; per un docente
professionista a contratto per un
insegnamento da 4 crediti (32 ore
di lezione in un semestre, un anno
di impegno per esami ed eventuali
tesi) prevede 2.000 euro lordi. E
così finisce per ricorrere a brocchi e
ronzini di emergenza: presa dal
problema della trasformazione dei
propri feudi in clan e leader, dalla
moltiplicazione dei re da corteggiare
(aziende, fondazioni, regioni),
dall’assegnazione di decine e decine di
poltrone per cooptazione concertata in
tutto il paese, non si accorge della
delusione, e dell’esodo, dei docenti
professionali di qualità.
La conseguente riduzione della
qualità della preparazione degli
studenti sembra essere un effetto
“atteso” del cambiamento del sistema, e quindi non proprio allarmante. «È evidente - spiegava inoltre qualche tempo fa il rettore del
Politecnico di Milano, Giulio Ballio - che il laureato con il corso
triennale avrà una qualità e una
preparazione inferiori a quella di
chi ha ottenuto il diploma universitario con corsi di quattro o cinque
anni. Ma il percorso formativo del
3+2 abbasserà anche la qualità del
laureato al termine del secondo ciclo e quindi la qualità globale del
percorso formativo. Per non parlare di flessibilità e ibridazioni: […]
un bravo laureato in geologia potrà
iscriversi alla laurea magistrale di
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ingegneria ambientale. Ma sarà un
bravo ingegnere?». Infatti, la maggiore individuazione della laurea
specialistica come ciclo indipendente dalla triennale (DM n.
270/2004) da una parte consente
importanti flessibilità (il sistema
aziendale apprezza la trasversalità di
competenze e metodologie) dall’altra
permette ibridazioni di percorso (gli
ordini professionali apprezzerebbero invece la continuità dei percorsi) che possono richiedere ulteriori integrazioni.
E per questo ci sono i master universitari (2.054 le proposte per il
2006/2007, con un aumento rispetto allo scorso anno del 24,3%)
e non universitari, statali e non statali, di centri di istruzione superiore privati. Sono tanti - oltre 900
quelli presentati dal Career Book di
Repubblica in collaborazione con
Censis e Somedia - da non poter
essere quantificati con precisione.
L’a.a. 2004/2005 ha contato
13.615 iscritti a master universitari
di primo livello e 12.592 iscritti a
master universitari di secondo livello.
Le lauree rischiano però di essere
solo punti di partenza. Ed è ciò cui
fanno pensare i master universitari
di secondo livello: ancora, dopo la
laurea specialistica? Ancora integrazioni per quei lavori in cerca di una
laurea che non c’è o, spesso, solo di
un diploma perché le imprese non
possono proporre contratti adeguati a titoli superiori. Secondo i
dati di Unioncamere, il 38,8% delle motivazioni delle difficoltà di reperimento delle risorse e delle assunzioni da parte delle imprese ri-
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guarda la mancanza di qualifiche formative richieste e il 36,4% riguarda
il tipo di profilo professionale raro. Ciò
segnala che la moltiplicazione dell’offerta formativa solo in apparenza ha fronteggiato in modo
adeguato le esigenze evolutive del
mercato del lavoro e delle professioni.
Il punto è che si istituiscono master per l’aggiornamento di formula e di contenuti, ma anche per l’introito economico che sono in grado di
muovere (iscrizioni, finanziamenti
dell’UE, di enti pubblici o privati,
di aziende del settore di riferimento).
Qualità, livelli di preparazione, miglioramento delle funzioni sono
ancora gli obiettivi principali sulle
carte della riforma. Gli studenti potrebbero essere preparati meglio
anche dall’attuale sistema se si evitasse, fra le altre storture, la quotidiana divaricazione dei docenti fra
le attività più disparate, parallele e
contemporanee, di corsi triennali e
specialistici, master e numero di
studenti ingestibile dal punto di vista della cura che si deve avere per
la loro formazione. L’inchiesta
promossa dal settore education di
Confindustria e sottoscritto da 16
associazioni imprenditoriali nell’ambito del piano d’azione per l’università, ha sottolineato fra gli indicatori che spiegano l’eccellenza e
l’efficienza delle università (meritocrazia nella scelta dei docenti e
degli studenti, borse di studio, internazionalizzazione degli iscritti,
concentrazione dei finanziamenti
sulle più avanzate nella didattica e
nella ricerca, incentivi per gli inven. 2/2007
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stimenti privati) il rapporto docenti-studenti. Ogni docente universitario italiano ha in media 24 studenti (Princeton uno ogni cinque),
per non parlare degli squilibri fra
facoltà (Agraria dell’università di
Bari 3,3 studenti per docente, Psicologia dell’università di Napoli 130
studenti per docente). Del resto la
Nota di indirizzo del 1998 aveva
confidato nella piena e maggiore flessibilità dell’utilizzazione dei docenti (per
qualsiasi numero di studenti e senza legarsi troppo alla materia di insegnamento) per il raggiungimento
degli indicati obiettivi. Forse questo è uno dei pochi aspetti della
riforma del quale non si può lamentare la mancata corrispondenza fra principio e applicazione.
Sarà anche per questo che l’università, esausta, perde posti nelle classifiche internazionali: la prima università italiana è al 125° posto della classifica del Times Higher Education Supplement ed al 97° della graduatoria elaborata dall’università di
Jao Tong di Shangai. Anche per
quello che non le è destinato: solo
l’1% del PIL è destinato all’istruzione superiore (negli Usa il 2,6%);
lo 0,2% del PIL è investito dai privati (negli Usa l’1,4%). E tutto è
lentamente mobile: l’81% degli
studenti sceglie la facoltà più per la
vicinanza al paese natale che per la qualità dell’insegnamento. Sarà anche per
le logiche di reclutamento. Il ministro Fabio Mussi ha recentemente
definito i concorsi universitari una
Torre di Babele. Concorsi nazionali
con commissari eletti, con commissari eletti e sorteggiati, con
commissari eletti su una lista di
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sorteggiati, concorsi locali con un
idoneo, con due idonei e italiche raccomandazioni rendono tutto più
complicato.
Infine, il finanziamento competitivo
previsto dall’ex ministro Moratti
(cioè togliere delle quote dal finanziamento ordinario per destinarle,
come premio, ad atenei più meritevoli) ha messo a rischio la sopravvivenza di quelli risultati come
“meno meritevoli” secondo la valutazione di organismi (Comitato
nazionale di valutazione del sistema universitario e Comitato di indirizzo per la valutazione e la ricerca), non sempre liberi dalle pressioni del ministero e del mondo
accademico). Il criterio del finanziamento premiale non ha garantito la
sopravvivenza dell’esistente (mortificando anche le migliori volontà
a farcela nonostante tutto), ma
non ha neanche premiato molto,
visto che la quota meritocratica del
finanziamento ordinario non è mai
stata più del 2-3%. La tempesta di
riforme non si è mai tradotta in aumento delle risorse. Le risorse sono state costanti o decrescenti. Secondo Carlo Rizzuto, fino al 2003
membro del Comitato italiano per
la valutazione della ricerca, alla ricerca pubblica (universitaria e non)
manca un ulteriore strumento di discussione e di crescita. La tempesta
riformatrice ha sciolto i Comitati
nazionali per la ricerca universitaria, che negli anni Ottanta assicuravano un forma di autogoverno efficace della ricerca, più autonoma
quindi, meno burocratizzata e più
in grado di coordinare CNR, università e ministero e di superare,
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nel rispettare e risolvere gli impegni, le difficoltà logistiche ed organizzative legate ad una singola università. Sciolti i Comitati, prosegue
Rizzuto, «l’unico modo di coordinamento efficace rimasto è quello
implementato dai raggruppamenti
disciplinari per i concorsi universitari, ma con un core business molto
diverso da quello di assicurare la
competitività internazionale, più
mirato alla cooptazione dei più fedeli».
Il cantiere in fase di contromisure
«Le storture ci sono e sono innegabili - lo ha detto chiaramente il
sottosegretario all’università Luciano Modica - ma ci sono anche gli
strumenti per contenerle. Una
contromisura è che i dati più sono
pubblici e accessibili, più si sviluppa il dibattito, anche sui giornali,
sulle caratteristiche dei corsi». Una
contromisura significativa è stata
attivata dalla stessa università nel
2003/2004. Nel cantiere aperto
della riforma, dopo incertezze e
particolarismi, ha introdotto l’obbligo di rispettare i requisiti minimi
per disincentivare, contenere e razionalizzare le iniziative. Pungolata
dai disincentivi economici, l’università valuta i corsi in base a quanto sono in grado di sostenere la numerosità degli iscritti, i docenti destinabili e le strutture (biblioteche, aule
informatiche). I requisiti minimi
concorrono anche a determinare
una quota dei finanziamenti universitari che, dall’anno scorso, non
sono più derogabili (se non dalle
università non statali e da quelle
nuove). «Si tratta di un indicatore
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di qualità estremamente interessante ma finora poco pubblicizzato», ha precisato il sottosegretario.
«Occorre spulciare fra gli allegati
dei decreti con cui il ministero assegna i fondi agli atenei. L’ultimo
decreto reso disponibile su Internet è quello del 2004, e mostra che
solo 15 atenei avevano rispettato i
requisiti minimi in tutti i loro corsi. Negli altri casi la percentuale si
abbassa fino a scendere sotto il
60%».
Proprio perché il Comitato nazionale di valutazione del sistema universitario e del Comitato di indirizzo per la valutazione e la ricerca
non sono sempre liberi dalle pressioni del ministero e del mondo
accademico, il ministro Mussi si è
proposto di istituire un’agenzia di
valutazione indipendente che, come
soggetto terzo, si assuma interamente la responsabilità della valutazione e di separare drasticamente il Fondo ordinario, che garantisce l’esistente, dalle quote destinate alla qualità.
Le procedure di riconoscimento di
nuovi atenei, soprattutto di quelli
multimediali, sono ferme da maggio
2006 anche per imposizione al ministro da parte del Presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano.
Per quanto riguarda i concorsi, il ministero conta di assumere da 1.000
ai 2.000 studiosi per un decennio.
Mussi si è rivolto all’Accademia dei
Lincei perché si adotti la nomination, cioè il reclutamento dei ricercatori sulla base di una lettera di
presentazione sigillata, con la quale gli autorevoli scienziati illustrano
i meriti degli aspiranti professori
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universitari, gli atenei scelgono e
una commissione nazionale designata prende in esame le scelte degli atenei e stabilisce i vincitori.
Il 4 luglio 2006, il ministro Mussi
ha annunciato alla commissione
cultura della Camera i seguenti
obiettivi per disincentivare gli eccessi ed innovare:
- riforma dei concorsi;
- riduzione della frammentazione e
della proliferazione dei corsi;
- nascita dell’agenzia per la valutazione; una legge di riordino degli
enti di ricerca;
- inserimento di un crescente numero di dottori di ricerca nelle imprese e nelle pubbliche amministrazioni;
- istituzione di una conferenza nazionale sulla condizione giovanile;
- vantaggi per le imprese che investono in ricerca e innovazione;
- nessun taglio ai fondi stanziati
per le università non statali.
Il 4 agosto 2006 sono stati firmati
i decreti sulle nuove classi di laurea
triennale e magistrale per contenere convenzioni, proliferazione di
corsi eccessivamente specializzanti
e parcellizzazione delle attività formative al loro interno. I decreti
MIUR Disciplina delle classi di laurea
triennale e Disciplina corsi di laurea
magistrale, attuativi del DM
270/2004, concludono l’odissea
legislativa, iniziata con il precedente Governo, nel marzo 2007 e introducono le seguenti principali
novità:
- riordinano le lauree triennali in
43 classi (prima 42) e riducono le
104 classi di laurea magistrale a 94;
- stabiliscono l’impossibilità di isti-
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tuire due distinti corsi di laurea o di
laurea magistrale afferenti ad una
medesima classe se non si differenziano per almeno 40 crediti
(lauree) e 30 crediti (lauree magistrali);
- fissano il numero massimo degli
esami o valutazioni di profitto, 20
esami per la triennale, 12 per la
magistrale, 30 per la magistrale a
ciclo unico di 5 anni, 36 per la magistrale di 6 anni;
- vincolano l’attivazione di nuovi
corsi di laurea alla condizione di
garantire che la metà degli insegnamenti, 90 crediti nella triennale e
60 nella magistrale, sia tenuta da
docenti di ruolo;
- limitano le possibilità di riconoscimento di conoscenze e abilità al
numero massimo di 60 (triennale)
e 40 crediti (magistrale).
Tutte le università statali e non statali, comprese le università telematiche, possono modificare i vigenti regolamenti didattici di ateneo a
decorrere dall’anno accademico
2008/2009, devono farlo entro
l’anno accademico 2009/2010.
Il decreto MIUR n. 215/2006 incoraggia invece, tra gli obiettivi da
raggiungere nel triennio 2007/09,
la selezione per l’ammissione ai
corsi. Ci si propone, infatti, di definire test per la valutazione della preparazione iniziale degli studenti. Regolarmente presenti nelle facoltà a
numero chiuso (es. in quelle di area
medica, di ingegneria), orientative in
molte altre facoltà (da Economia a
Psicologia a Scienze della comunicazione), le selezioni servono alle università per accogliere i migliori nei
corsi a numero chiuso, per capire il
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grado medio di preparazione assicurato
dalla scuola superiore, per capire, da
studenti, se la scelta maturata è quella
giusta. In particolare, la selezione
per i corsi a numero “chiuso” o
“programmato” permette alle università di «adeguare il numero dei
laureati alle effettive esigenze del
mondo del lavoro nei vari settori
professionali, contenere il fenomeno dell’abbandono degli studi e il
numero degli studenti fuori corso».
Ad ogni modo, i laureati italiani restano, nel frattempo, poco appetibili: il 38% dopo 3 anni dalla laurea
non ha un lavoro, perché l’università non insegna quello di cui si ha
bisogno nel mondo del lavoro. I
media non impegnano più molte
parole per dire apertamente che, in
quanto sistema di predestinati, per figli
di papà, non può occuparsi di dare
contenuti alla gente normale.
Il timore è che l’eventuale competizione meritocratica provocata
dalla liberalizzazione dell’università trasformi anche il panorama
degli interessi delle università private. Le rispettive esigenze e gli
obiettivi sembrano però coincidere: sistema di finanziamento trasparente, fondi-premio ed incentivi agli atenei migliori e reclutamento autonomo dei docenti sono anche gli ingredienti della ricetta di
Confindustria per atenei più competitivi.
Il dibattito autunnale scorso ha riportato, inoltre, più di un appello
sulla necessità di contromisure
tanto improrogabili quanto logiche. Al convegno italo-britannico
di Pontignano, il ministro degli interni Giuliano Amato ha indicato
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nella selezione dell’eccellenza, delle disparità, una delle vie da seguire per
competere a livello europeo: «non
tutte le università potranno avere
ciò che vogliono […] ed è impossibile avere centri di eccellenza
dappertutto».
Concentrarsi sulle eccezioni non potrebbe significare non innalzare mai
la qualità dell’intero sistema, e quindi
non voler cambiare? Il governatore
Mario Draghi ha ricordato la leva
del merito per valutare tutte le realtà
universitarie: piuttosto che lamentare l’insufficienza dei fondi pubblici che si cambino le regole, premiando il merito di università, docenti e ricercatori. Una rivoluzione, è
stato commentato, che farebbe
coincidere forma e sostanza, che ci farebbe tornare normali: «scopriremmo che ci sono università che meritano più risorse e altre che meritano di essere chiuse […], che ci
sono docenti che meritano di essere premiati e altri che meritano di
essere mandati a casa. Scopriremmo soprattutto che i primi ad essere contrari a tornare normali sono
tanti docenti e ricercatori». Il vicepresidente di Confindustria Gianfelice Rocca ha detto che le università devono cambiare la governance,
non basarsi più su logiche assembleari; devono concepirsi come intraprese culturali ed essere il prodotto di scelte politiche coraggiose.
Per il momento, più che culturali gli
atenei sono semplicemente intraprese e, più che meritocratica, la
competizione è al ribasso: a chi rende più facile la laurea (abbuoni di
crediti, verifiche approssimative,
forme di tutoraggio per agevolare,
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sconti sulle tasse). Per non parlare
del marketing delle lauree honoris
causa per lusingare e attirare un personaggio, soprattutto da parte delle
università più piccole in cerca di
pubblicità e di iscritti (100 titoli assegnati in soli sei mesi). La rarefazione del finanziamento pubblico
ha spinto gli atenei alla ricerca di
fonti alternative. Stipulare convenzioni, convertire cioè le esperienze
professionali in crediti formativi, e
alleggerire il carico didattico, è un
esempio di fonte alternativa di finanziamento. Il 33% degli atenei
ha attivato convenzioni con ministeri (interni, difesa, economia),
ordini professionali (Ordine dei
giornalisti) e collegi (Collegio dei
ragionieri), il 13% conta di farlo.
La decisione di valutare tutti come
prassi, la radicalizzazione del ragionamento dell’università in termini
di azienda con presidi manager e politiche del prezzo sono tutti aspetti e
conseguenze di una fibrillazione del
fare che «sta scardinando la fede
pubblica nell’imparzialità dell’istituzione universitaria e il principio
della parità di impegno didattico
per il conseguimento di titoli di
studio con identico valore legale».
Non si tratta solo di polemiche,
ma di indagini documentate che
hanno riscontrato superficialità
nella valutazione in merito alle
convenzioni. Una delle inchieste
sollevate dalla trasmissione televisiva Report (maggio 2006) ha
coinvolto direttamente il MIUR
spingendolo definitivamente alla
rivisitazione degli sconti. L’esperienza non può valere più di 60
crediti nella laurea di primo livello,
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non più di 40 crediti nella laurea di
secondo livello. Intanto i laureati
privilegiati, già oltre il 10% del totale, sono in crescita e «contribuiscono a “drogare” le statistiche ufficiali dei laureati in corso (e connessi finanziamenti) e il preteso
successo della riforma del 3+2».
Presa dalla rincorsa alle iscrizioni,
l’università rimanda il problema
della disoccupazione. Forse non si
preoccupa abbastanza di contribuire a far risultare il paese maglia
nera più o meno consapevole nel giro
d’Europa dell’occupazione. Entro il
2010, secondo quanto stabilito a
Lisbona, il tasso di occupazione
generale deve raggiungere il 70%
(oggi 58,2%), l’occupazione femminile il 60% (oggi 45%), l’occupazione degli over 55 il 50% (oggi
30%), per non parlare dell’occupazione giovanile tra i 15 e i 24, un
giovane su quattro è occupato
mentre la media OCSE è del 42%.
La contromisura più dirompente
sta dunque per giungere dai riscontri da parte degli studenti “regolari”. Nel frattempo, a fronte di
“corsie preferenziali” vs valore legale del titolo, “disparità” vs società
dell’integrazione e della conoscenza, “corsi attraenti” vs mercato del
lavoro, essi possono aver maturato
(per vissuto e per informazione)
una maggiore consapevolezza per
fare richieste ineludibili di garanzie,
di competenze serie, di strumenti, di trasparenza, di uniformità di condizioni.
Se gli studenti imparano a chiedere
di più, come consumatori e investitori
informati del bene università, possono
diventare una forza rilevante di riconfigurazione del sistema. Guarderebbero
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gli indirizzi di studio con occhio critico, considerando gli sbocchi professionali non solo del momento; sarebbero più
propensi agli spostamenti per cercare saperi utili e di qualità nelle
migliori università italiane e non
nei mille atenei dietro casa.
Le università italiane devono migliorare anche per gli studenti stranieri. Più di 2 milioni di universitari studiano in atenei fuori dei loro
paesi d’origine, il 10% sceglie la
Francia e la Germania, l’11% il Regno Unito e solo il 2% l’Italia. Sono 38.000 gli studenti stranieri che
frequentano l’università italiana, il
24,5% è albanese. Sta crescendo il
numero di studenti cinesi: sono
circa 800 per l’a.a. 2006/2007; il
patrimonio culturale, la creatività,
gli accordi e le borse di studio erogate dal governo italiano stimolano sempre di più il loro interesse.
Ci sono, inoltre, borse di studio offerte da atenei (Perugia Stranieri,
Siena, Trento, Milano Cattolica) ed
altri istituti italiani (Mib School of
Management di Trieste) e una università italo-cinese a Shanghai
inaugurata nel 2006, nata dall’unione tra Luiss, Bocconi, politecnici di
Milano e Torino e le università
Tongji e Fudan di Shanghai. Ad
ogni modo, «sono pochi - secondo
Carlo Secchi - i laureati stranieri
delle università italiane che hanno
conquistato posizioni di rilievo nel
mondo». Mentre in Germania,
Francia e Inghilterra ci sono politiche per accogliere studenti, programmi di inserimento nel tessuto
sociale e produttivo, in Italia c’è
scarsa attenzione sull’internazionalizzazione dell’università e non si fa
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altro che ostacolarli (corsi di lingua inglese irrilevanti, burocrazia, ministero).
I corsi di lingua inglese sono irrilevanti:
secondo l’indagine avviata dalla
CRUI sull’offerta formativa di corsi di I e II livello, dottorati, master
e winter/summer school interamente
erogati in inglese, sono solo 35 le
università italiane che offrono un
corso erogato interamente in inglese, e che quindi forniscono uno
strumento utile e aggiornato agli
studenti stranieri che decidono di
studiare nel nostro paese. Sono
evidentemente gli atenei che comprendono, e scelgono di considerare, quanto contribuire alla formazione delle classi dirigenti dei paesi dai quali gli studenti provengono sia il modo
migliore per costruire con loro relazioni solide e positive, anche come
futuri interlocutori del mondo imprenditoriale italiano.
Ma questo è possibile se burocrazia e ministero non impediscono la vera autonomia degli atenei. Secondo
Secchi, il ruolo del ministero è invece antistorico, anticulturale e antidemocratico perché, piuttosto che occuparsi di valutazione, di attivazione di un sistema di accreditamento
che faccia emergere le eccellenze,
«contribuisce all’appiattimento
non lasciando libere le università di
selezionare i propri iscritti, di investire come ritengono più opportuno e di costruire la propria reputazione anche fuori dell’Italia».
Sabrina Speranza
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LA CANZONE NAPOLETANA
TRA MITO E PASSIONE
MARIALUISA STAZIO
L’
Marialuisa Stazio
insegna Sociologia
dei processi culturali
all'Università di
Cassino. Dal 2005
è impegnata nel
progetto di radio
d'ateneo del Suor
Orsola Benincasa,
con i tirocini Radio
Days. Laboratori
per un progetto di
radio universitaria.
DESK
universo espressivo della canzone
napoletana sembra avere ben poco
a che vedere con gli attuali scenari
catastrofici. Oggi l’immagine di
Napoli sembra non poter più circolare nel mondo con le note ed i
versi del Vesuvio. Ma quello de la
canzone (al singolare, come si addice a un “concetto puro”, che sta
prima dell’esperienza) è, per i napoletani, un mito e una passione
“resistente”. Che sia una passione
lo dimostrano le iniziative che ancora attualmente la promuovono,
dall’Archivio sonoro della canzone
napoletana; alla mostra La festa di
Piedigrotta e la canzone napoletana; all’annuncio della preparazione, per
il 2007, del grande ritorno di Piedigrotta: «culto e celebrazioni religiose, canzone napoletana, carri,
sfilate e spettacoli pirotecnici».
Che sia un mito è riscontrabile nelle forme della narrazione. Come
spiega il titolo di un libro recente –
L’Eredità di Partenope. Il cammino del
canto napoletano dagli antichi rapsodi ai
moderni neomelodici – la canzone è una
forma originaria della napoletanità
che, non a caso, si embrica con la
festa di Piedigrotta «cominciata al
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tempo dei Romani e finita 30 anni
fa».
Ma – come queste brevi note in
una pubblicazione tedesca dimostrano – la canzone è un mito corollario del mito Napoli per i non napoletani. Di esso non si trovano
tracce in uno degli archetipi della
cultura occidentale moderna, il
Grand Tour, il leggendario «viaggio
in Italia» di Goethe e Stendhal, di
Mozart e Byron, per secoli l’itinerario di formazione per eccellenza
delle élites e degli intellettuali europei. Qui la Musica era altra: il San
Carlo, la leggenda di Pergolesi. Il
mito extranapoletano della canzone ha una fondazione tardo ottocentesca. Si è formato attraverso il
cammino europeo (e poi extraeuropeo) dei suoi autori e, soprattutto dei suoi interpreti. Francesco
Paolo Tosti a Londra, Enrico Caruso a New York ma, anche, un
numero imprecisato di artisti e posteggiatori che – in tournée organizzate o al seguito delle rotte dell’emigrazione – sciamarono in Europa
e nel Mondo. Dove – al mito della
città gentile, Paradiso dove tutti «vivono in una specie di inebriata di-
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menticanza di sé» senza pensare
«ad altro che godere» – si intreccia
quello della città canora.
Siamo abituati a valutare le idee in
relazione alla loro verità o falsità, e
i miti vengono comunemente definiti falsi. Essi, invece, vanno considerati non tanto dalla loro capacità
di riflettere la realtà ma, piuttosto,
da quella di vivere – sopra, contro,
nonostante – ciò che può essere
giudicato reale. Un mito è vivo se
continua a dare significato alla vita
umana, a rappresentare una parte
importante della mentalità collettiva e a rendere socialmente ed intellettualmente tollerabile ciò che
altrimenti sarebbe considerato incoerente. La canzone napoletana è
uno dei master myth – dei miti matrice – della Napoli post-unitaria.
Esso racconta di una produzione
dialettale, strettamente correlata al
genius loci, indivisibile dal luogo in
cui vede la luce. Manifestazioni naturale, dalle radici antichissime, da
sempre esistente – originaria, oltre
che originale – che manifesta l’essenza di un paese dove istinto e
sentimento di un popolo, genio e
poesia dei suoi cantori, il miracolo
ogni giorno rinnovato di una natura di abbagliante bellezza, permettono ai prodotti artistici, nati da
così fortunate coincidenze, dal sereno coesistere di condizioni tanto
favorevoli, di penetrare e avvincere
i cuori di tutto il mondo, in una
sorta di «colonialismo» che sancisce definitivamente il primato del
luogo dove tanta bellezza poetica
ha trovato i natali. I napoletani, allora, non possono, né devono più,
misurarsi con la nuova situazione
politica, né con la contraddittoria
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realtà di una antica capitale Nobilissima e stracciona: tutto il mondo rende omaggio all’incalcolabile superiorità del genio dell’arte sul talento
dell’industria e degli affari, tutta la
città è affratellata dall’amore per la
canzone e dalla capacità di rivelarla.
È una storia che, nelle sue forme
più sofisticate, vaccina se stessa,
ammettendo mancanze, collisioni,
irregolarità e divari che, alla fine,
vengono comunque e inevitabilmente superati: la canzone nuova, di
anno in anno, avvince e ammalia
tutti i cuori.
Vi sono molti modi per controbattere alla «parola depoliticizzata» dei
miti. Se, secondo la lezione di Roland Barthes – «il mondo entra nel
linguaggio come un rapporto dialettico di attività, di atti umani: esce
dal mito come un quadro armonioso di essenze»; se, grazie ad esso, si opera «un gioco di prestigio
che ha rovesciato il reale, lo ha
vuotato di storia e lo ha riempito
di natura» – si può ricostruire la
storia evaporata e riempire il «vuoto
mitico» che le si è sostituito.
Nel corso della sua lunga storia di
locus amoenus letterario e giornalistico la canzone napoletana è stata
dichiarata – come ogni essere mitico che si rispetti – non solo immortale, ma anche talmente antica da
potersi definire nata con la città
stessa. Ma, anche all’interno di
questo racconto senza tempo, si
può individuare un momento –
che storicamente corrisponde a
quello in cui si incominciò a formalizzare la scrittura della storia
stessa – in cui si intravede un cambiamento del prodotto, dei suoi
modi di produzione, diffusione e
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consumo: in cui la canzone si fa, si
dice, si racconta non solo molto
più che in precedenza, ma anche in
modo diverso. Abbiamo (con qualche inevitabile arbitrio, pur su basi
documentarie) identificato questa
cesura nell’anno 1880, quando
Giuseppe Turco e Luigi Denza
presentano al mondo, dallo Stabia’s Hall di Castellammare, l’indimenticata Funiculì Funiculà.
La novità più immediatamente visibile è nella figura sociale degli autori dei testi in rima: Giuseppe
Turco, Roberto Bracco, Salvatore
Di Giacomo. Tutti homines novi della cultura, non solo e non tanto
perché agli inizi della carriera, ma
soprattutto in quanto incarnano
una nuova figura sociale di letterato: di estrazione borghese o, più
spesso, piccolo borghese, dotati di
un capitale culturale che sopravanza di molto quello monetario, costretti a guadagnarsi la vita in stretto contatto con il mondo del giornalismo, dell’editoria e dell’industria culturale.
In collaborazione con professionisti della musica (per i quali il rapporto di lavoro “mercenario” rientra già nella tradizione), come – ad
esempio – Denza (sotto contratto
con Ricordi) e Costa, queste nuove
figure di autori aprono rapporti di
collaborazione con editori e cominciano a presentare canzoni sulle pagine di quotidiani e periodici.
L’incontro di professionisti della
penna e del pentagramma con un
genere eccezionalmente gradito e
appropriato al pubblico cui si destinava, con le possibilità in espansione offerte dal medium della
stampa e con l’interesse di case
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editrici decise a sfruttarlo, diede vita ad una quantità, qualità e varietà
di pubblicazioni destinate a divulgare e a parlare de la canzone, quale
mai si era vista prima.
Esse hanno di nuovo le tirature –
che superano frequentemente le
decine di migliaia di copie – la grafica, la periodicità, le destinazioni.
E sono caratterizzate dalla costante tensione ad ottimizzare i rapporti fra qualità e prezzo, non solo
in iniziative di carattere dichiaratamente «economico» e «popolare»
ma, anche, controbilanciando la
grande ricchezza nei contenuti e
nelle vesti grafiche con la larghezza delle tirature, fino a prezzi di
mercato estremamente accessibili.
Il loro esistere presupponeva, evidentemente, investimenti rilevanti
e tecnologie relativamente complesse, e rimanda immediatamente
ad organizzazioni di una certa articolazione, capaci di garantirsi economicità di gestione coprendo,
sfruttando, condizionando larghe
fasce di mercato. E, di fatto, l’opera di diffusione della canzone che
l’editoria napoletana fu capace di
portare avanti fu veramente imponente, non solo relativamente alla
quantità, qualità, varietà dei mezzi
impiegati, ma soprattutto per l’intelligente utilizzazione di strutture
economiche, sociali e culturali innervate al territorio. Tutto ciò diede ai messaggi una forza d’impatto
e di penetrazione impensabili per i
tempi e per i media allora disponibili.
La diffusione del prodotto canoro
e la creazione del suo mito sono
affidate anche stampa quotidiana e
periodica, con la quale il mondo
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della canzone era strettamente legato da più fili, visto che molti degli autori di testi erano anche (anzi,
spesso soprattutto) giornalisti, e
che editori musicali e stampa cittadina trovavano reciproca convenienza nella diffusione di questo
prodotto di largo consumo, apprezzato, amato, seguito con passione dai lettori al pari, se non meglio, di un feuilleton.
Per rendere accessibile e desiderabile un prodotto ad una larga massa di persone, non basta che ad esso si dedichi una organizzazione
editoriale capace di produrlo e
diffonderlo in grandi quantità.
Specialmente in una società pesantemente segnata dall’analfabetismo, dove la circolazione culturale
è prevalentemente orale. A far
ascoltare le canzoni provvedeva –
com’è noto – il teatro di varietà, legato al mondo della produzione da
accordi fra editori, musicisti, autori di testi, e impresari, proprietari e
divi del café-chantant. La diffusione internazionale era affidata alle
tournée europee di cantanti e musicisti napoletani, alla volta degli alberghi e dei locali di Londra, Parigi, Berlino, Amburgo e delle Esposizioni Universali.
Ma, nel campo della diffusione
orale, non è da trascurare anche il
ruolo di una miriade di teatri, teatrini, baracche, casotti, ristoranti,
bar e caffé che tutti, dal più popolare al più signorile – negli intervalli di una farsa di Scarpetta o di
una operetta, dell’opera dei pupi e dei
drammoni di Federico Stella, fra
un piatto di spaghetti e uno spumone – proponevano canzoni. Senza
contare, poi, i pianini e i cantori gi-
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rovaghi che circolavano ininterrottamente per le strade della città o le
prestazioni di posteggiatori e gavottisti, che allietavano le serate all’aperto, le giornate agli stabilimenti balneari, le feste private dei napoletani. Tutti costoro – seppur
poco controllabili dall’industria
editoriale – ne dipendevano riguardo la quantità, la qualità, i tempi di
uscita, lancio, distribuzione e promozione delle canzoni.
Una tale organizzazione editoriale
rimanda immediatamente a nuove
condizioni di lavoro per gli intellettuali che producevano i testi letterari e musicali: produzione con
tempi e ritmi fissati, standard di
prodotto da mantenere, economia
nei modi e nei tempi di lavoro, capacità di confermare gli stereotipi
con il massimo dell’innovazione.
Questa organizzazione editoriale
dovrà, perciò, formare “creatori”
capaci di ottemperare alle sue esigenze. Già nei pochi anni che vanno dal 1880 al 1914, si profilano
così almeno due “generazioni” di
autori. La prima è quella dei Di
Giacomo, Bracco, Denza, Costa,
Valente: operatori forti di una pratica professionale giornalistica e di
corsi di studi abbastanza regolari,
inseriti – spesso con ruolo attivo e
protagonista – nei cambiamenti
culturali e produttivi in atto nel
paese. Radicati in una “culturamosaico” di melodramma e Salonmusik, letteratura di viaggio e bozzettismo, poesia colta in lingua e in
dialetto e forme popolaresche dialettali, essi posero le basi degli stereotipi e dei topoi della nuova canzone, e del discorso giornalistico su di
essa.
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Saranno sostituiti o affiancati –
nell’arco di una decina d’anni – da
una nuova generazione di “poeti”
e musicisti, la cui cultura specifica
sarà unicamente e praticamente canzonettistica, totalmente interna alla
logica editoriale e ad essa funzionale.
Dove però l’editoria musicale e
l’industria culturale napoletane
mostrano tutta la loro spregiudicatezza è nella reinvenzione di una festa tradizionale: Piedigrotta.
Che, in breve tempo, aggiornò una
storia di stratificazioni e sincretismi (fra culti solari, riti di passaggio, liturgia cattolica, dispiegamenti di potenza regale, espressioni subalterne e parate del potere) trasformandosi nel più veloce ed efficace momento di diffusione trasversale di decine e decine, centinaia e centinaia, di canzonette
composte per i concorsi, indetti
dalle molte case editrici napoletane, dalle loro riviste, dalla stampa
quotidiana e periodica, dai grandi
magazzini, dai grandi alberghi, dai
teatri e dagli stabilimenti balneari.
I concorsi mettevano in competizione canzoni ed autori; le canzoni
che risultavano vincitrici – le prime
tre classificate, e una serie più o
meno lunga di altre ritenute meritevoli – venivano presentate al
pubblico qualche giorno prima
della festa, nelle audizioni: lunghe
passerelle di divi del teatro e del
café-chantant.
Ma il lavoro di preparazione della
Piedigrotta cominciava già nella
primavera precedente, cosicché nel
mese di agosto erano in vendita gli
Album di decine di case editrici diverse, le quali inoltre provvedevan. 2/2007
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no inoltre a far distribuire le copielle
con i testi delle canzoni, affittavano legioni di pianini, assoldavano
cantanti e musicisti per dare concerti nei luoghi pubblici, nelle redazioni dei giornali, nei teatri e nei
caffé. Nello stesso tempo, quotidiani e settimanali stampavano
canzoni nuove, pubblicavano i
profili degli autori (comprensivi di
successi passati, presenti e futuri,
illustrati da ritratti fotografici o al
tratto), storie della canzone napoletana dalle origini ai giorni nostri,
panegirici ispirati al «genio» e alla
«naturale musicalità» partenopee.
Il tutto culminava, nella notte fra il
7 e l’8 settembre – quando treni
speciali riversavano in città frotte
di gitanti curiosi, quando ancora i
turisti affollavano le terrazze di
caffé e alberghi e la città era riscaldata dall’atmosfera estiva – in concerti pubblici in Villa o in Piazza
Plebiscito, mentre orchestre itineranti, capeggiate e dirette dagli autori delle canzoni, percorrevano
ininterrottamente le più importanti strade cittadine, fermandosi nelle redazioni e nei caffé, e venivano
distribuiti a tappeto i quotidiani
che sostenevano questa o quella
canzone, questo o quell’autore, fra
lo scorazzare di pianini che suonavano incessantemente i motivi dell’anno.
Piedigrotta era, dunque, il momento in cui tutto il complesso sistema
produttivo della canzone entrava
massicciamente in azione, in cui le
sinergie fra diversi settori economici napoletani acquistavano evidenza. Essa, infatti, non era soltanto – come da quell’epoca cominciò
a venir chiamata – la festa delle can-
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zoni. Era la festa di un nuovo modo di produrre e di consumare, di
usare il territorio, i linguaggi e le risorse sociali cittadine. Era, anche,
un momento di potenziamento
dell’offerta turistica della città, delle sue strutture ricettive e di servizi, di spettacolo e divertimento e
offriva opportunità pubblicitarie
per le industrie e i commerci: nascevano così le canzoni-réclame, il
finanziamento pubblicitario di copielle, spartiti, album, cartoline musicali e manifestazioni canore, l’organizzazione di carri e sfilate da
parte di singoli commercianti e
produttori.
In tali iniziative è possibile ravvisare le tracce non solo della tanto
proclamata vocazione turistica napoletana, ma anche della propensione e della volontà della imprenditoria cittadina a difendere e incrementare – aggiornandola – questa risorsa economica tradizionale.
E gli sforzi per trasformare il tradizionale turismo intellettuale e di
lusso in un moderno turismo di
massa sembrano, infine, essere stati premiati, almeno a giudicare dalle testimonianze fornite in merito
dai giornali cittadini: Il Mattino nel
1909 (6 sett.) riporta la notizia della presenza di oltre 500.000 persone giunte in una città che, evidentemente, era preparata ad accoglierle ed attrezzata a riceverle.
Ma, ancora secondo Barthes, per
«misurare lo svuotamento del reale
operato dal mito», bisogna mettersi dal punto di vista del «linguaggio
oggetto»: dalla parte di chi è detto.
La narrazione mitica della canzone
riguarda innanzitutto l’identità e l’alterità napoletane. Fonda il noi con-
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tro il loro: i piemontesi, gli italiani, i
romani, i milanesi…
Ma, se ci stacchiamo dal panorama
piatto delle differenze, ed osserviamo l’organizzazione verticale delle
strutture, non possiamo fare a meno di osservare quanto sia frastagliato e diseguale il panorama del
noi napoletano. A cominciare dalle
disuguaglianze e ai conflitti che attraversano il versante produttivo; o
una forza lavoro intellettuale contrassegnata da squilibri di fama,
prestigio, potere, danaro. Ma, soprattutto, non possiamo non vedere il protagonista muto di questa narrazione: il popolo «cantato» dai poeti della canzone e dai suoi mitografi. Il popolo che canta ma, per noi
posteri, è condannato al silenzio
dalla qualità delle fonti: scritte, e
elaborate secondo regole e codici a
lui totalmente estranei. Una impossibilità di dirsi, riconoscersi, di fissare processi riflessivi, ancora in
pieno Novecento, che denuncia gli
squilibri violenti della società e della storia che il mito della canzone
depura e pacifica.
Ma, infine, è anche utile domandarsi cosa mantenga vivi i miti, oltre
che demistificarli. Essi, ad esempio, coinvolgono l’autorità di narratori che, con narrazioni ingannevolmente semplici, si avvalgono
anche del campo denso, “geneticamente manipolato” e iterativo dei
media, che amplificano, facilitano
ed adattano a diversi pubblici i racconti. Salvatore Di Giacomo – per
soggettive capacità e influenza letteraria – può essere indicato come
il campione di questa compagine. I
suoi numerosi scritti in materia e
l’attenzione alla sua immagine
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pubblica (certamente inusuale fra i
suoi colleghi canzonettisti), testimoniano di un costante sforzo
di presa di distanza personale dall’universo della merce-canzone, nonché di sintesi (e non di rado di invenzione) di una storia e di una immagine della canzone capace di
giustificarla come prodotto poetico e colto. Gli autori delle canzoni,
in special modo a quelli della «prima generazione», soffrivano non
poco le nuove condizioni lavorative, sempre più lontane dall’ideale e
dalla figura tradizionale di uomo di
lettere e di cultura. Nel difficile
passaggio da forme di produzione
artistica e letteraria tradizionali a
forme sempre più legate a necessità e principi estranei al lavoro
stesso, si trovavano nella scomoda
posizione di dover concedere e negare insieme la loro paternità alle
canzonette. Non potevano privare
(almeno i più famosi) gli editori di
una firma di sicuro richiamo, ma
neanche legarsi a un prodotto di
cui all’epoca era chiarissimo il carattere di merce, pena la esclusione
dalla condizione di artisti, e l’immissione in quella, più umile, di
produttori. Diverse saranno le strategie individuali e collettive. Ma la
valorizzazione della canzone come
forma d’arte (innervata nello spirito
del popolo, grazie alle scorie della
poetica romantica), e l’ostinata
azione di occultamento dell’industria culturale e delle forme di lavoro che presupponeva e utilizzava, videro convergere tutti gli sforzi autoriflessivi dell’industria culturale napoletana.
Guardando a un tempo più vicino,
a proposito della perdurante longen. 2/2007
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vità del mito, è impossibile dimenticare come le Piedigrotte, le canzoni, i Festival, con tutti i loro divi
e le loro mitologie, abbiano rappresentato una parte importante,
sostanziale della politica di un personaggio come Achille Lauro, che
del meridionalismo revanchista e
oppositivo è stato per anni l’incontrastato paladino.
L’utilizzazione laurina della canzone, della tradizione, dello spettacolo e della festa napoletane ci sembra
avere due anime: una razionale, l’altra emotiva. Il lato razionale dell’opzione in favore di una tradizione
melodica che ha tanta parte nell’immaginario internazionale è in
qualche modo rivolto verso l’esterno
della città stessa, ai «forestieri e
stranieri in visita» e a quelli che si
spera di attirare. Quello emotivo
guarda verso l’interno, e affonda le
sue radici nella appartenenza del sindaco-padrone alla cultura e all’immaginario popolari, nel suo innegabile talento di sentire, eccitare,
conquistare, ed eventualmente volgere a suo vantaggio, quelle «ragioni del cuore» che la ragione non
conosce ma riconosce istintivamente e, altrettanto istintivamente,
inserisce nei suoi piani. Ha fini di
consenso, e consenso ottiene. Ma è
indicativo come – rievocando quel
periodo – si spendano pochissime
parole sul come e perché sia possibile
ottenere cose come voti, potere,
sostegno politico, utilizzando
carri, luminarie, canzoni, fuochi
artificiali. Il fenomeno Lauro e la sua
prodigiosa ascesa vengono analizzati
e spiegati in relazione alle politiche
nazionali e agli interessi economici
cittadini ma, quando si arriva al
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problema del consenso, di quel popolo che crede, sostiene, vota Lauro
– e che, ancora oggi, lo ricorda con
rispetto – ci si appella al panem et circenses o, più napoletanamente, al feste, farina e forca di borbonica memoria. Si ricorre alla sua “naturale”
propensione a farsi abbindolare, a
cedere il suo potere sovrano in
cambio di soddisfazioni effimere e
illusorie. L’osservazione del come e
perché i napoletani abbiano scelto
Lauro – con la sua trivialità, con le
sue Piedigrotte, con la sua ipotesi
di sviluppo turistico fatta di Casinò
e gruppi folkloristici – non entra,
fra gli anni ‘50 e ’70, nei “salotti
buoni” della cultura e della politica
napoletane, se non per un ripudio
frettoloso, talvolta imbarazzato.
E, anche in questa rimozione, ci
sembra di poter individuare due
aspetti – uno culturale, l’altro, ancora una volta, emotivo – enucleabili
ambedue nell’elisione del tema
canzoni dal discorso pubblico del
napoletano colto. Le categorie in cui
possono essere comprese le canzoni
sono essenzialmente due: cultura
popolare e industria culturale. Popolari, almeno nel senso che Gramsci attribuiva al termine, perché
«dal popolo adottate» in quanto
qualcosa in esse, o ad esse attinente, era conforme «alla sua maniera
di pensare e sentire». Industriali perché nate esclusivamente da esigenze discografiche, e “persino” da
autori non napoletani, come sono
sovente accusate di essere.
Ciò che fa escludere le canzoni
dalle indagini sulla cultura popolare è, in parte, quanto Gramsci aggiunge citando la distinzione formulata da Ermolao Rubieri sul
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canto popolare. Il loro «modo di
concepire il mondo e la vita» non è
«in contrasto con la società ufficiale». Sono una forma di “resistenza
culturale” che non si manifesta in
opposizione alle intenzioni di chi
quella “resistenza” utilizza e promuove. Inoltre, la cultura popolare
napoletana è «impura», doppiamente impura quella legata alle
canzoni, alle Piedigrotte, ai Festival, vicina com’è ai valori della
merce, del mercato, del consumo,
del denaro, dell’industria. Il popolo
napoletano non è “puro”. E non è
nemmeno proletariato in un’epoca
in cui – come scrive Pasolini –
«l’alternativa è monopolizzata dalla
«coscienza di classe» proletaria
(che detesta i sottoproletariati e
quindi, borghesemente, le «culture
popolari» verso cui non ha mai
espresso una politica decente)».
Le resistenze/ritardi culturali, con i
quali la passione per i Festival, per
le Piedigrotte, per le sceneggiate si
identificano e si sovrappongono,
sono perfettamente coerenti con la
storia e la natura dei discendenti
degli antichi lazzaroni napoletani.
O, nei casi migliori, sono residui del
passato nel moderno, «formazioni
mentali ritardatarie», consentiti anche dalla scarsa efficacia delle forme egemoniche di cultura, che «invitano a verificarne le pretese di
egemonia e di verità, di coerenza e
di forza espansiva e unificatrice».
E se le canzoni – intese come parte di una cultura popolare – sfuggono alle categorie interpretative del
periodo, non si può dire che queste
siano in grado di affrontarle come
manifestazioni industriali. Le canzoni – i meccanismi e la qualità del
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loro potere fascinatorio, gli apparati cui fa capo la loro forza espansiva – non vengono affrontate
neppure in questa qualità di fenomeni comunicativi, di prodotti, sia
pure innervati, linguisticamente e
produttivamente, in modi di distribuzione e consumo, modelli e modalità tradizionali. Alla cultura –
così come alla politica – manca un
discorso specifico sulla produzione culturale in età industriale: né
l’una, né l’altra hanno chiari i terreni di gioco e di conflitto che l’industria culturale offre loro. In
quanto espressioni dell’industria
editoriale e discografica, le canzoni
del Festival napoletano sono accomunate a quelle di Sanremo – e alla nascente televisione – nella categoria dì volgari idiozie, accusate,
con incongruenza e patente incomprensione della loro storia e
natura, di tradimento della tradizione
(colta/digiacomiana e/o popolare/folklorica) dalla quale provengono, e liquidate frettolosamente
da una intellettualità offesa in tutti
i suoi valori e arroccata nella difesa
di una qualità e di una organizzazione del lavoro intellettuale lontanissime dai valori della produzione.
Un ulteriore motivo di elisione è
esattamente speculare all’interesse
che il Comandante Lauro ripone in
esse: le canzoni vengono rifiutate
innanzitutto come segmento-simbolo di una politica di immagine
che assume versi e musiche come
ambasciatori nel mondo, avendo
tra i suoi fini dichiarati la promozione turistica della città.
Le opposizioni del periodo accusano il Comandante di tradire l’avvenin. 2/2007
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re industriale della città per l’avventura-turismo. Identificano trasformazione e sviluppo con la
grande industria, quella che produce una classe operaia di fabbrica. E
non sono in grado di riconoscere
la qualità “industriale” – economica e produttiva, ma anche portatrice di nuova organizzazione del lavoro, di nuovi modi di produzione,
di nuove figure sociali – dell’industria della cultura e del turismo. Sicuramente i progetti laurini non
sono quanto di meglio si potesse
auspicare per la città, la qualità della loro proposta culturale è scadente, volgare e arretrato quello che
promuovono. Ma quello che è indicativo è che il terreno che offrono
non venga mai accettato come
campo di possibile scontro, ma
soltanto sdegnosamente liquidato
da una politica e da una cultura totalmente chiuse a modelli di sviluppo che non siano quelli dell’interventismo statale e dell’industrializzazione accelerata, e ad ogni
«analisi del significato e della praticabilità politica dei consumi di
massa». Fin qui le categorie interpretative e i bagagli culturali responsabili dell’assenza dell’oggetto-canzone (con i suoi annessi e
connessi) dai possibili campi dì indagine e di discussione “seria”. Esse sono ormai al centro di un complesso sistema di connotazioni negative: perché “adottate” da un popolo lazzarone, perché contaminate
dalla merce e dall’industria, perché
legate alla cultura di massa, e soprattutto perché parte della politica populistica dell’avversario politico.
Ma la cultura napoletana – quella
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che riconosce la sua genealogia politica e culturale e i suoi referenti
nella parte più nobile della cultura
europea, quella che non accetta e
combatte il degrado in cui la plebe
decaduta e corrotta e i suoi corruttori politici e culturali hanno trascinato la città, quella per cui la miseria materiale e morale dei concittadini rappresenta quotidianamente una pena e una sconfitta – rifiuta di accettare il terreno dì scontro
proposto dall’avversario, da quella
parte della città in cui non si riconosce, e non vuole riconoscersi, anche
per l’oscuro sentimento che praticare il terreno dell’altro sia un modo
di cedere al suo potere. Atteggiamento di rimozione che rivela il
magma di un senso di appartenenza diverso da quello storico dei
partiti e dei movimenti o dei capitali culturali e sociali. Qui si proiettano lo sbigottimento e le lacerazioni di chi in qualche modo si riconosce – sia pur deformato – nello
specchio che l’altro gli porge, coglie
con paura il fascino dei suoi argomenti, e si sente debole rispetto alla forza e alla libertà di chi può
usare – come fantastiche armi da
guerra – ragioni che egli ha paura
di scoprire nelle profondità della
sua zona oscura. La canzone è ancora
un simbolo della città, che richiama
ad origini comuni tutte le sue parti:
quelle che la assumono fra i misteri
gloriosi e quelle per le quali rappresenta un mistero doloroso della passione napoletana.
Come ogni simbolo è ambivalente.
Ambivalenti sono le reazioni e i
sentimenti che ispira: i colti napoletani amano le canzoni, e le cantano, e se ne commuovono. Ma an-
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che se ne vergognano, e tentano di
prenderne le distanze, e vivono il
proprio amore come una diminuzione. E’ un rapporto, quello con
le canzoni, sorprendentemente simile a quello con la città. Perché,
così irrimediabilmente locali, parlano all’appartenenza e all’identità; rappresentano, per la parte più colta,
nobile, progressista, europea della
città, l’incontro con la propria «coscienza infelice», che mette a confronto la «sede del progresso storico» – «là dove si elaborano i valori
che contano per tutti », «dove si
realizzano i successi individuali misurati su quei valori», «dove si fabbricano i nuovi beni che soppiantano gli antichi», «dove sta chi ha il
potere» – con la consapevolezza
rabbiosa della propria marginalità
storica, col sentimento di vivere in
un luogo dove «qualsiasi sforzo arriverà solo a sistemare la miseria,
ad ammobiliare l’inferno», ma anche con la volontà di resistere a un
processo percepito, in qualche modo, imposto dall’esterno e rispetto
al quale «l’esaltazione di un tradizionalismo generico ma profondo
veniva spontanea».
Una «coscienza infelice» nella quale si riconoscono angosciosamente
componenti e radici comuni con
l’altra Napoli, quella che esplode
nelle manifestazioni “deteriori”.
Ogni colto napoletano, da quando
nella città si è fatta strada la coscienza del processo che la condannava alla marginalità storica,
sperimenta la frantumazione della
propria fisionomia storico-sociale
sotto la spinta di sollecitazioni diversissime a seconda del piano sul
quale si muove. Avanzatissimi i
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quadri teorico-critici di riferimento, in linea con le più evolute esperienze europee dalle quali riceve, e
alle quali spessissimo offre, contributi. Sviluppata la creatività, la capacità di connettere saperi e
proiettarli in realizzazioni. Certamente problematici i problemi del
ruolo, dello status, della posizione
sociale legati al lavoro intellettuale.
Assolutamente mancato il raccordo tra progettualità intellettuale e
realtà politico-amministrativa. Sicuramente disperante la coscienza
che – altrove – i propri sforzi sarebbero non solo meglio ricompensati, ma utili. Mentre qui arriveranno
al massimo ad «ammobiliare l’inferno». Per ogni colto napoletano, la
propria appartenenza a Napoli è
una passione: se ne gode e la si subisce, la si fugge e la si cerca. E parlare delle passioni è più che difficile. É doloroso.
Venendo ad oggi – ed alla riproposizione dei temi canzone e Piedigrotta da parte delle attuali amministrazioni locali – rovesciando
l’affermazione di Barthes, se il mito della canzone è tuttora politicamente significante, è perché, evidentemente, è ancora «fatto per
noi». Un ulteriore aspetto del mito
è fondato nei valori e nei desideri che
vi confluiscono: esso è, anche, prepolitico. Le amministrazioni stanno
riscoprendo – attrezzate, ormai,
sia pure imperfettamente, a riconoscere la valenza economica, organizzativa, propulsiva delle industrie legate alla cultura e al turismo
– il valore di immagine legato all’armamentario piedigrottesco e canoro. E cercano di catturare, con la
canzone, una visione ancora unitan. 2/2007
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ria e pacificata della città. Un simbolo che leghi le sue diverse anime,
contro i diabolici scenari proposti
dalla cronaca e dalla società. Ma,
probabilmente, riconoscono anche
un bisogno profondo di appartenenza, di identità positiva, di rispecchiamento nella faccia “buona” dei riti
solari della Piedigrotta e del mito
della sirena Partenope, perfida incantatrice ma, soprattutto, capace
di canto ammaliante.
Ma il mito è insidioso, e non è facile operare con i simboli. La continua oscillazione fra primo e secondo sistema semiologico del mito, la capacità di tenere insieme la faccia notturna e quella diurna del
simbolo, ne rendono difficile la
pratica per chi deve operare – intellettualmente, politicamente, demiurgicamente – nella società. Che
è sempre divisa, e in alcuni casi più
drammaticamente che in altri.
C’è un episodio di cronaca che ha
suscitato scalpore, pur essendo –
per esigenze di cronaca – già dimenticato dai giornali. Sono le
espressioni dalle rappresentanze
politiche locali in occasione dei funerali di Mario Merola, re della
sceneggiata napoletana e di una
canzone che rappresentava «un
mondo infimo scritto dai ceti alti»,
«una cultura ponte», esponente
promiscuo di una città che, come lui,
«non ha mai nascosto le frequentazioni con la famiglia mafiosa dei
Zaza, né quelle con il giudice Falcone». Considerate unanimemente
dai giornali una concessione alla
faccia lazzara della città, quanto
meno inopportuna in un momento di grande offensiva camorristica
e di tutte le culture resistenti alla le-
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galità e alla “normalità”, esse rivelano la difficoltà – di più, l’impossibilità – a praticare un terreno, ancora avvolto dalle nebbie di una rimozione troppo a lungo coltivata
ma, anche, alieno agli strumenti
per «agire le cose».
Malauguratamente lo sguardo politico/culturale è ancora volto all’indietro. Lo dimostra l’incomprensione di un fenomeno come quello
dei neomelodici – la faccia diabolica
della canzone, che rifiuta gli scenari di integrazione dell’armonia perduta della napoletanità.
I neomelodici – con i loro seguaci,
e le organizzazioni produttive, le
reti di distribuzione e promozione,
le occasioni di esibizione dal vivo –
disegnano una mappa frastagliata
da fratture radicate in una povertà
relativa, in una radicale alterità culturale, in una contiguità con la microdelinquenza e la malavita organizzata, che nessun mito può più
ricomporre. E che essi stessi – lungi dal nascondere – esaltano nei
comportamenti e nelle produzioni
canore.
I discendenti degli antichi lazzaroni
non si fanno più cantare, ma cantano e, cantando, agiscono la propria
descrizione. Hanno taciuto nella
fase della scrittura ma, addestrati
dalla fruizione dei prodotti e dei
media di massa, hanno trovato con
il digitale la possibilità di apparati
più “leggeri” di quelli delle industrie culturali del passato, quando i
protagonisti produttivi erano grandi aziende nazionali e internazionali (Ricordi, Polyphon Musikwerke, e poi, nel secondo periodo un ente come la RAI). Quello
dei neomelodici, anche perché de-
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dicato a un pubblico locale e ristretto, è un sistema produttivo semiindipendente, che consente libertà
di espressione impensabili per le
autocensure di un grande apparato. È anche questa nuova possibilità di dirsi, riconoscersi, fissare processi riflessivi, con linguaggi vicini
all’oralità e alle forme canore e
spettacolari consuete, a porre davanti ai nostri occhi l’evidenza di
una frattura che non si può – non
si deve – ricomporre. Il mito della
canzone è «adatto» ai nostri desideri, non alla nostra quotidianità.
Qui è tempo di scelte: di distinzioni, di critica, di azione civile, di coraggio.
Per troppo tempo, probabilmente,
a Napoli ci siamo preoccupati di
segnare le differenze e edulcorare
le disparità tra noi e loro (i piemontesi, gli italiani, i romani, i milanesi…), distogliendo lo sguardo (perché affascinati dalle somiglianze, incuranti delle sperequazioni, impotenti o conniventi con il sistema
economico e culturale dell’illegalità) dai divari economici, culturali,
sociali, che sono tra noi.
Maria Luisa Stazio
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A cura di Marica
Spalletta, Università Luiss Guido
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House organ e comunicazione interna: il caso Henkel
di Eugenia Teresa Vitelli
Università Suor Orsola Benincasa, Napoli
Relatore Prof.ssa Maddalena della Volpe
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a tesi è il risultato di una ricerca condotta in azienda, con lo scopo di
individuare le tecniche comunicative messe in pratica, alla luce dei modelli teorici analizzati durante il percorso di studi. La ricerca si è svolta
presso la Henkel Italia, nella sede centrale di Milano.
Henkel S.P.A. è un grande gruppo industriale a carattere multinazionale, il
cui quartier generale ha sede a Dusseldorf, ed è presente in 125 paesi nel
mondo con oltre 10.000 prodotti. Oggi conta 52.000 dipendenti nel mondo e 1.600 in Italia. Nasce nel 1876 ad opera di un giovane imprenditore
amante delle scienze naturali, Fritz Henkel, che ideò e commercializzò un
prodotto chimico di detergenza che portò l’azienda al successo: il sapone
per bucato Universalwaschmittel, a base di silicato, che poi diventa nel 1907 il
famoso Persil, il cui nome deriva dalle iniziali dei suoi componenti: perborato e silicato. In pochi anni, l’azienda si impone a livello mondiale e, tra il
1929 e il 1930, approda in Italia, dove oggi è presente con nove stabilimenti
produttivi, tutti forniti di certificazioni di qualità ISO e di certificazioni ambientali, in linea con i principi di Sviluppo Sostenibile e Responsabilità Sociale a cui si ispira il Gruppo. Il fatturato 2006 nel mondo ammonta a
12.740 milioni di euro, mentre il fatturato 2005 registrato in Italia è pari a
734 milioni di euro. Per l’anno 2007 è previsto un incremento del fatturato
del 3 – 4%. I prodotti Henkel sono classificabili in tre settori di attività: cura della casa, cura del corpo, adesivi al consumo e tecnologie. Ricordiamo
brands come Dixan, Bio Presto, Perlana, Vernel, Bref, Neutromed, Taft, Testanera, Pritt, Pattex, Superattak e numerosi altri, oltre a molteplici prodotti destinati al mercato B2B. Tra i competitors del Gruppo vi sono importanti multinazionali, come Procter&Gamble, Unilever, Reckitt-Benckiser, Bolton
Group. La Vision dell’azienda è incentrata su un forte cooperazione all’interno del gruppo: “La coesione dà forza e insieme è possibile raggiungere gli obiettivi prefissati”. Il pay off della nuova identità Henkel “Henkel, a brand like a
friend” racchiude il motto aziendale, che si presenta come una promessa, un
impegno dell’azienda a ripagare la fiducia che milioni di consumatori ripongono nei suoi prodotti, che sono “marchi amici”, perché accompagnano il consumatore nella vita quotidiana. Tale principio è ripreso nella Mission dell’azienda: “Marchi di qualità e tecnologie avanzate che rendono più facile, piacevole e bella la vita delle persone ”. Henkel dà grande importanza alla comunicazione organizzativa, quindi sia a quella interna, sia a quella esterna. In
particolar modo, la comunicazione interna è gestita attraverso il Piano di comunicazione, documento che analizza ed esplicita i bisogni comunicativi dell’azienda e li veicola tramite i mezzi di comunicazione più adeguati. Questi
possono essere on line, come la rete Intranet aziendale, cartacei, come l’House organ e face to face come meeting e convention. In Henkel una posizione
di rilievo è occupata da “Henkel Life”, il giornale aziendale. Il suo scopo è
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creare condivisione e senso di appartenenza, facilitare i processi di socializzazione interni all’azienda e informare il personale aziendale. “Henkel Life” nasce nel 2001 in Germania e poi si diffonde in tutti gli altri paesi. Oggi in Italia è presente in formato “magazine”, composto da 20 pagine, ed è
pratico, maneggevole e graficamente attraente. È creato da un comitato di
redazione interno e esce con cadenza bimestrale.
Le modalità di distribuzione variano in base alla sede: ad esempio a Milano
è messo direttamente sulle scrivanie dei dipendenti, oppure viene collocato
negli spazi comuni. Il budget previsto per la sua realizzazione è di 65.000
euro, ma ne vengono usati solo 37.000 circa. In Italia vengono stampate e
distribuite 2.200 copie per ogni numero edito. I contenuti sono vari: rispettano alcune linee guida provenienti da Dusseldorf soprattutto per le
notizie internazionali e vi sono anche informazioni di carattere nazionale.
Ogni articolo ha lo scopo di far conoscere al personale cosa accade nell’universo Henkel, al fine di creare coesione, conoscenza e coinvolgimento. La
forza di “Henkel Life” consiste nell’essere l’unico strumento di comunicazione che raggiunge tutta la popolazione aziendale, mentre la principale criticità è rappresentata da un’attrattività ancora scarsa, che può implicare addirittura una perdita di lettori. Perché un’azienda abbia successo è fondamentale che il personale sia unito e condivida i valori dell’azienda, li senta
come suoi, perché oggi le imprese si pongono non solo come realtà lavorative, ma anche come nuclei di interazione inter-soggettiva. Sul lavoro, infatti, nascono sempre più spesso forti legami umani e il nuovo management, detto appunto illuminato, deve mirare al benessere dei dipendenti,
offrendo loro uno stato di serenità e di tranquillità che favorisca la produttività. Sempre più spesso, oggi, alla dizione di Customer satisfaction, si aggiunge e si sovrappone quella di Employee satisfaction.
Propaganda in radio durante i regimi totalitari
di Marina Concetta D’Ambrosio
Università UNISOB, Napoli
Relatore Prof. Paolo Scandaletti
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o scopo della ricerca è stato quello di analizzare la propaganda radiofonica messa in atto durante i tre regimi totalitari che hanno maggiormente segnato la storia del Novecento; il fascismo, il nazismo e la dittatura comunista di Stalin. La breve introduzione che apre la tesi si sofferma sull’importanza che ha avuto la comunicazione politica nei secoli: dall’oratoria nell’antica Grecia, quando il messaggio politico veniva veicolato
nel ristretto contesto del “faccia a faccia”, sino allo sviluppo del mezzo radiofonico nei primi anni Venti del Novecento, momento in cui la modalità
di trasmissione del messaggio politico e della comunicazione in generale subiscono un cambiamento epocale. La ricerca si suddivide in quattro capitoli: Nel primo capitolo si analizza la società di massa: infatti sono state
proprio le caratteristiche psicologiche e strutturali della società del XX secolo ad essere la “conditio sine qua non” non sarebbe stata possibile l’in-
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staurazione dei governi dittatoriali. Si esamina il significato di due concetti chiave della ricerca: totalitarismo e propaganda, che hanno avuto interessanti variazioni semantiche sia ad un livello diacronico sia ad un livello
storico-critico. Il secondo capitolo è incentrato sulla figura di Benito Mussolini, sul movimento fascista, sulle tecniche messe in atto per garantire da
un lato la diffusione del mezzo radiofonico in Italia e dall’altro l’organizzazione del consenso sociale con ogni mezzo a disposizione: giornali, manifesti, cinema, radio. Il terzo capitolo è dedicato alle tecniche di propaganda messe in atto durante il nazismo ed alla spietata ed efficientissima macchina di consenso sociale attuata da Joseph Goebbels, ministro della propaganda tedesca. Quest’uomo, proprio grazie alle sue abilità, è riuscito a
creare attorno alla figura di Adolf Hitler un aurea divina, ed è a giusta ragione considerato come il più grande talento propagandista del secolo scorso. Nel quarto capitolo viene analizzata la figura di Stalin; il dittatore comunista che, come Mussolini ed Hitler, comprese l’importanza di un’efficiente propaganda politica al fine garantire stabilità al proprio potere. Le
conclusioni della ricerca si soffermano sullo sviluppo della radio dopo il
crollo dei regimi totalitari e su come questo medium sia riuscito a reinventarsi e ad essere, ancora oggi, il secondo mezzo di comunicazione per diffusione dopo la televisione.
Il mutamento sociale e il caso di Pubblicità Progresso
di Martina Botti
Università UNISOB, Napoli
Relatore Prof. Davide Borrelli
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no degli argomenti centrali del dibattito sociologico attuale è il passaggio delle società a industrializzazione avanzata a una nuova era, definita genericamente come postindustriale, in cui la razionalità strumentale
viene messa in ombra da nuovi sistemi di valori.
In questo contesto, il fenomeno della pubblicità sociale, e soprattutto le tematiche cui essa si è dedicata da quando è nata, possono essere un fondamentale strumento per ripercorrere i mutamenti di valori e le nuove priorità che si sono diffuse in tutte le società avanzate dalla fine degli anni ’60
fino ad oggi. E’ proprio dalla fine degli anni ’60, infatti, che inizia il declino dei valori di tipo materialista, legati all’importanza data alla sicurezza
economica, al consumo materiale ed alla produttività, ed iniziano invece ad
emergere nuove priorità, di tipo postmaterialista, che si orientano maggiormente verso la qualità della vita, verso elementi più intangibili come la libertà, l’ecologia, la salute e la crescita personale.
Questa attenzione a fattori più immateriali nasce da una serie di processi
socio-culturali diversi, come il benessere economico che inizia ad essere dato per scontato, l’aumento dei livelli medi di istruzione della popolazione,
nonché l’avvento dei new media che iniziano a demassificare la società rendendola più complessa ed esigente.
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Proprio per questo, specialmente in Italia, in quel periodo prende avvio la
diffusione di un clima di antagonismo che inizia a circondare la pubblicità
commerciale, accusata di arretratezza rispetto al nuovo clima socio-culturale che andava formandosi.
Diventa ormai evidente il contrasto tra la maturazione del consumatore e
l’arretratezza delle tematiche affrontate dal mondo pubblicitario, ed emerge dunque l’esigenza, soprattutto da parte del numeroso ceto di pubblicitari, di ridare valore e dignità alla pubblicità, facendola distaccare dai suoi
obiettivi esclusivamente consumistici per renderla invece uno strumento al
servizio del benessere collettivo. E’ così che nel 1970 nasce l’ Istituto “Pubblicità Progresso”, fondazione volontaristica senza fini di lucro nella quale
molti protagonisti del mondo della comunicazione contribuiscono alla realizzazione di campagne di tipo non commerciale ma sociale.
Il caso di Pubblicità Progresso, con le numerose campagne da essa realizzate, rappresenta una finestra sul percorso che i valori e i bisogni della società hanno affrontato dagli anni ’70 fino ad oggi: già all’inizio della sua attività essa affronta tematiche sociali scottanti, come il diritto alla libertà di
parola, in un momento in cui il processo di democratizzazione della società
iniziava a diventare evidente. Anche la tematica ecologista viene più volte
trattata, seguendo l’attenzione ad uno stile di vita più sano e tranquillo che
la società incominciava a preferire a quello consumistico e caotico legato alla società industriale. Valori come la solidarietà ed il rispetto per la vita umana emergono in campagne a favore della donazione del sangue, o contro il
fumo, ma all’impegno sociale si affianca, a partire dagli anni ’80, l’attenzione che la società dedica alla crescita personale, e che Pubblicità Progresso appoggia con campagne a favore della crescita personale, spiegando
l’importanza di mantenersi continuamente aggiornati, istruiti, di coltivare
interessi che stimolino la fantasia, l’intelligenza e la curiosità della persona.
Il fenomeno della pubblicità sociale, dunque, anche se in termini quantitativi rappresenta ancora una piccola parte di quella prodotta complessivamente nel nostro paese, sta assumendo una sempre maggiore rilevanza socio-culturale, in quanto va di pari passo con l’evoluzione dei bisogni e delle problematiche sociali, e rappresenta uno specchio dei problemi, dei valori, e delle esigenze dell’era postmoderna, che può aiutarci a comprendere
con maggior chiarezza l’evoluzione della nostra epoca rispetto al passato.
“Comunicare la salute: le campagne istituzionali per la promozione degli stili di vita salutari”
di Angela Giudice
Università Luiss Guido Carli, Roma
Relatore: Prof.ssa Franca Faccioli
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umerose ed autorevoli ricerche ci suggeriscono che oggi l’ambiente ed
i comportamenti individuali rappresentano importanti cause di malat-
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tia e di morte, talvolta più dei fattori di tipo biologico e sanitario. Secondo
i dati dell’OMS in Europa e in Italia, infatti, l’86% dei decessi, il 77% della perdita di anni di vita in buona salute ed il 75% delle spese sanitarie, sono causati da alcune patologie strettamente connesse ad errati stili di vita –
fumo di tabacco, obesità e sovrappeso, scarso consumo di frutta e verdura,
sedentarietà, abuso di alcol. Si tratta quindi di costi sanitari (60 miliardi di
euro per il nostro Sistema Sanitario Nazionale) e sociali (mortalità, morbilità, perdita di produttività, invalidità, violenza) affatto trascurabili, che si ripercuotono sull’intera collettività, e che hanno obbligato i governi nazionali e sovranazionali ad intervenire, attraverso programmi finalizzati a sviluppare abilità e competenze dei singoli affinché diventino soggetti attivi
nella tutela della propria salute.
Il Ministero della Salute e le Regioni si presentano come i due soggetti che,
oltre ad amministrare la sanità pubblica, sono obbligati a svolgere una funzione educativa nei confronti della società civile. La modalità principale con
cui essi hanno cercato e cercano di portare all’attenzione della collettività
determinate problematiche connesse alla salute, e di sensibilizzarla in merito alle stesse, è l’attivazione di campagne di comunicazione, espressamente
previste nei Piani Sanitari Nazionali e Regionali (per quelle poche Regioni
che prevedono iniziative di questo tipo). Esse rientrano in quell’ambito della comunicazione istituzionale definito sociale, proprio perché finalizzato
ad aumentare il livello di consapevolezza e conoscenza dei cittadini relativamente a problemi di interesse generale, anche nella prospettiva di modificarne comportamenti e/o atteggiamenti. Si tratta di un compito sicuramente non facile, avendo a che fare con pratiche fortemente radicate nelle
abitudini individuali e sociali, e rivolgendosi in molti casi ad interlocutori
che traggono piacere da condotte a rischio, hanno un ottimismo irrealistico sulla propria salute, sono scettici circa l’efficacia delle raccomandazioni
comunicate. Nonostante tali difficoltà, si prova comunque ad entrare nella
sfera privata dei comportamenti e delle scelte per introdurvi uno spunto di
riflessione piuttosto che una costrizione, utilizzando i sempre più sofisticati strumenti della comunicazione pubblicitaria.
Le campagne di comunicazione per la promozione degli stili di vita salutari realizzate negli ultimi anni, mostrano chiaramente il tentativo del soggetto pubblico di farsi emittente di una comunicazione meno “istituzionale”
rispetto al passato, capace di porsi in concorrenza con la molteplicità di voci presenti sull’affollato mercato della comunicazione.
Pur nella sostanziale diversità d’approccio ai problemi – più generalista da
parte del Ministero e più improntato alla pubblica utilità da parte delle Regioni – che si traduce in una maggiore originalità e creatività dei messaggi
proposti in ambito regionale, si possono tracciare delle linee guida comuni:
predilezione dei mass media per richiamare l’attenzione della totalità della
popolazione su un certo tema, e della comunicazione diretta ed interattiva
per valorizzare il contesto d’appartenenza e fornire soluzioni più concrete
ai problemi; utilizzo di un linguaggio semplice, comprensibile ed amichevole, pur senza nascondere la drammaticità di certe situazioni; scelta di ton. 2/2007
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ni non allarmanti ma pacati, e di un clima propositivo ed armonioso, anche
nella rappresentazione di situazioni complesse.
Data la rilevanza dei temi trattati e le difficoltà suddette, appare evidente la
necessità di migliorare e valorizzare ulteriormente queste iniziative in futuro, ricercando modalità espressive sempre più efficaci, proseguendo le campagne in modo costante nel tempo, coinvolgendo il maggior numero di interlocutori possibile.
L’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria
di Francesca Mauriello
Università Luiss Guido Carli, Roma
Relatore: Prof. Paolo Scandaletti
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uando una campagna pubblicitaria fa scalpore è facile che venga ricordata. Ma quando il Giurì dell’Autodisciplina la blocca, perché ingannevole, indecente, o comunque in qualche modo scorretta, forse alla decisione non si dà il dovuto rilievo. Eppure l’Istituto dell’Autodisciplina
Pubblicitaria esamina ogni giorno moltissimi messaggi per verificarne la rispondenza al codice.
Ecco perché ho scelto una tesi su questo tema. Perché, tra le forme di comunicazione, la pubblicità è certamente quella più invasiva, e per questo deve essere corretta. E se gli organi che la controllano esistono, la collettività
deve conoscerli ed imparare ad attivarli.
Ma chi li ha creati questi organi? Gli stessi pubblicitari, ben consapevoli che
una comunicazione irresponsabile nuoce in primo luogo a se stessa, in
quanto tradisce la fiducia dei consumatori e ne esce screditata. Così, si sono dati delle regole, con tanto di meccanismi capaci di farle rispettare.
In Italia opera l’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria e in Inghilterra
l’Advertising Standards Authority (ASA). In linea generale il loro funzionamento è simile, ma l’ordinamento autodisciplinare inglese appare più articolato. La competenza dell’ASA è più vasta, andando ad includere anche
il controllo sulla disponibilità dei beni, sulla ricezione di posta indesiderata
ed alcune questioni concernenti il rispetto della privacy; gli organi sono in
numero maggiore: il CAP (Commettee of Advertising Practice), che redige ed aggiorna periodicamente il Codice e l’ASA, che di fatto giudica le vertenze. Ognuno di essi è diviso in due sezioni, (una per la pubblicità trasmessa dalle emittenti radiofoniche e televisive ed una per le altre forme di
advertising) e le decisioni dell’ASA possono essere riesaminate dall’Independent Reviewer.
I tempi di decisione sono più lunghi (fino a 12 settimane, contro i 35 giorni dell’IAP), ma il regime sanzionatorio è più completo, con l’ASA che può
imporre un controllo preventivo obbligatorio dei messaggi di chi ha violato ripetutamente il codice. E delle differenze si riscontrano anche nelle pronunce, per le quali l’Authority inglese è sembrata più tollerante, lasciando
correre a volte alcuni aspetti in nome di “un’evoluzione della società” che
porta con sé una modifica dei principi etici su cui essa si regge.
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Un settore di particolare interesse è quello dei prodotti farmaceutici ed
estetici, per il quale sono stati stabiliti principi fondamentali. Così, un farmaco non può passare per cosmetico e viceversa; i testimonials non possono suggerire idee errate circa il funzionamento del prodotto, e le modalità di presentazione, così come il contesto in cui l’oggetto si inserisce, devono essere studiati con attenzione. Ma in tantissimi altri ambiti gli istituti
autodisciplinari hanno fatto un buon lavoro, dimostrando che l’autodisciplina è la strada giusta da percorrere nel controllo dell’advertising. Gli organi ci sono e funzionano, il resto ora spetta a noi. Noi cittadini-consumatori che abbiamo il diritto di assistere a campagne pubblicitarie rispettose
dei principi etici ed il dovere di agire affinché ciò sia possibile; che dobbiamo diffondere una cultura della comunicazione responsabile e segnalare
sempre di più le campagne scorrette, nella consapevolezza che una cittadinanza attiva rappresenta il vero motore del sistema.
Movie Marketing: l’approccio di mercato nella Settima Arte
di Francesco Giudici
Università Luiss Guido Carli, Roma
Relatore: prof. Dario E. Viganò
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’idea che un film ben fatto non abbia bisogno di essere promosso sul
mercato perché si è convinti che abbia le qualità intrinseche per promuoversi da solo è tanto sbagliata quanto assurda. Il cinema è comunicazione che a sua volta deve essere comunicata ed il marketing per la Settima
Arte assolve a una funzione di primo piano.
Tradizionalmente identificato con la comunicazione, la promozione e la
vendita di quei beni che materialmente vengono consumati, il marketing cinematografico ha come oggetto un prodotto immateriale ed impossibile da
standardizzare, il cui consumo è altrettanto immateriale, il film. Hollywood
ha fatto di questo strumento la propria carta vincente, la conditio sine qua non
del successo delle proprie pellicole: non a caso il marketing incide sempre
di più sui budget di realizzazione dei prodotti filmici targati USA, facendoli lievitare dai 32 milioni di dollari del 1989 ai quasi 90 milioni del 2002.
Il settore artistico e culturale ha sempre guardato con diffidenza al marketing ed in genere a tutto ciò che facesse riferimento ad un approccio economico alla cultura. Nel cinema europeo, ed italiano in particolare, il fenomeno non è mai stato in controtendenza. Questo atteggiamento era dovuto a svariate ragioni, tra cui la paura di una “mercificazione dell’arte” o di
uno svilimento della creatività per assecondare gli umori di un pubblico
estremamente volubile. Oggi però le imprese operanti nel settore culturale,
e cinematografico nello specifico, devono far fronte all’incremento dell’offerta di beni e servizi per il tempo libero, al bombardamento mediatico che
quotidianamente affolla la vista dei consumatori e alla trasformazione della cultura in un fattore di differenziazione degli stili di vita che contribuisce
alla costruzione delle identità individuali.
Il marketing è oggi l’elemento in grado di fare la differenza, lo strumento
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per mezzo del quale i messaggi promozionali dei prodotti filmici possono
riuscire a catturare l’attenzione dei potenziali spettatori cinematografici e ad
imporsi ad essa. Naturalmente un’efficace campagna di marketing e comunicazione non può evitare l’insuccesso di un prodotto che lo spettatore sanziona come mediocre o che comunque non risponde alle sue aspettative. In
tal senso Lukk, uno dei più noti cultori della materia, afferma che “se una
brillante campagna di marketing non può salvare un pessimo film, un buon
film può perdersi nella massa se non adeguatamente supportato da una
campagna di marketing”.
Una caratteristica dell’attuale mercato consiste nella sproporzione tra film
prodotti e film distribuiti e tra le pellicole che arrivano nelle sale e quelle
che conseguono un significativo successo di pubblico e, quindi, un incasso
soddisfacente al box office.
Quello poc’anzi illustrato rappresenta il vero punto focale del lavoro svolto, sintetizzato perfettamente dalla citazione di Lukk. Il marketing rappresenta oggi più che mai uno strumento assolutamente indispensabile per gli
operatori del comparto distributivo nazionale e, a maggior ragione, internazionale: per quanto sia difficile pensare una strategia di marketing vincente senza un buon prodotto, è senz’altro impossibile che si affermi un prodotto filmico valido privo di una opportuna strategia di marketing.
Le performances economiche di un film, il suo esito al botteghino, sono
estremamente imprevedibili, e ciò per l’imponderabilità dei gusti e delle
preferenze dei consumatori filmici che rendono aleatorio e privo di solide
basi qualsiasi piano strategico. In tal senso, ogni film è una vicenda a sé,
proprio come la storia che racconta. La prospettiva teorica della Resourcebased View (RBV), presa in esame nell’opera, ha permesso di porre l’accento sul rapporto, dialettico e conflittuale, fra distribuzione ed esercizio in
relazione allo snodo strategico costituito dalla sala e sulle molteplici e diverse politiche distributive implementate dagli operatori italiani. Il mirino è
stato inoltre puntato sul contributo che le cosiddette “4P” del marketing
mix offrono per il conseguimento del successo nel settore cinema e al ruolo giocato dalle tre fondamentali leve della promotional campaign di un
prodotto filmico: advertising, publicity e promotion. Attraverso riferimenti alla realtà cinematografica italiana ed internazionale si è discusso dei selling-elements di un film e dei fattori impiegati per incrementarne la visibilità, superare gli ostacoli della semiosfera ed imporsi all’attenzione dei consumatori/spettatori cinematografici. I case studies sui quali l’autore ha avuto modo di cimentarsi in occasione dell’esperienza diretta svolta presso l’Istituto LUCE, i film Love+Hate e La Guerra dei Fiori Rossi, hanno offerto una
valida base di riferimento al fine di assodare l’imprescindibilità di talune strategie promozionali nell’assai imprevedibile settore cinematografico, corroborando il ruolo strategico del marketing e della comunicazione nel far sì che un prodotto filmico consegua performances economiche apprezzabili.
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a cura di Camilla
Rumi, dottoranda
Università Lumsa,
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Roma Luiss - Cosa fa l’università per i comunicatori?
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fficacia personale. Capacità di lavorare in team, di organizzare e risolvere problemi, di valutare e di misurare. Ma anche contenuti, deontologia e professionalità. E’ questo il profilo ideale dei comunicatori. Gli atenei italiani sono in grado di garantire loro una formazione che risponda
alle esigenze del mercato del lavoro e ai bisogni della cittadinanza?
Tali interrogativi rappresentano il primum movens de Le professioni della comunicazione in Italia. Offerta formativa, associazioni, mercato, progetto di ricerca
promosso dalla Fondazione Antonveneta e dall’Università Luiss Guido
Carli di Roma e diretto da Massimo Baldini, Preside della Facoltà di Scienze politiche della Luiss Guido Carli e Paolo Scandaletti, docente di Etica
della Comunicazione dell’ateneo romano.
I direttori della ricerca aprono i lavori del Convegno “Cosa fa l’università per
preparare i comunicatori? Formazione, dati, storture”, organizzato dalla Luiss
Guido Carli il 15 giugno 2007, in occasione della presentazione del primo
volume dell’analisi “trilogica” relativa alle professioni della comunicazione, pubblicata ne I Quaderni di Desk. Emergono alcuni dati preoccupanti,
risultato dell’attento lavoro di analisi che ha coinvolto un team di ricercatori provenienti dalla Luiss Guido Carli, dalla Lumsa e da“La Sapienza,”
di Roma, dall’Università “Suor Orsola Benincasa” di Napoli e dall’Ateneo
“Gabriele D’Annunzio” di Chieti- Pescara. Come hanno sintetizzato Massimo Baldini e Paolo Scandaletti, “ad una crescita ipertrofica delle sedi
universitarie si aggiunge un’altrettanto incontrollata proliferazione tumorale di corsi frutto in primis dell’autoreferenzialità del corpo accademico”.
Una conferma arriva dall’intervento di Alberto Abruzzese, direttore dell’Istituto di Comunicazione IULM di Milano, che sottolinea i ritardi nella
realizzazione del Processo di Bologna, finalizzato alla convergenza culturale dei Paesi partecipanti. A ciò si somma un’offerta formativa spesso inadeguata, incapace di fornire agli studenti i contenuti didattici e gli insegnamenti pratici propedeutici all’incontro tra domanda ed offerta nel mercato del lavoro. E i giornalisti? L’informazione italiana è caratterizzata da
una serie di criticità, che spesso passano in secondo piano per un privilegio accordato dalla società italiana agli aspetti meramente formali. Appare urgente un’inversione di tendenza che parta da un severo contesto competitivo, destinato a far emergere la competenza. Lo pensa Dario Antiseri, direttore del dipartimento di Scienze storiche e socio-politiche della
Luiss che ha segnalato una serie di storture nella formazione dei comunicatori: assenza di contenuti, programmi inadatti allo sviluppo di capacità
di argomentazione, pedissequa applicazione della formula 3+2. Furio
Garbagnati, presidente di Assorel (Associazione Italiana delle agenzie di
Relazioni Pubbliche), ha rimarcato il ruolo di primo piano che il settore
delle Relazioni Pubbliche ha guadagnato nel vasto panorama della comunicazione italiana: “una disciplina a tutti gli effetti, per la quale sono indispensabili abilità specifiche e professionalità adeguatamente formate”. Ma
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non bisogna abbassare il livello di guardia nei confronti dei percorsi scarsamente professionalizzanti, che rispondono esclusivamente a logiche
commerciali. Anche la formazione post- laurea sul campo - spiega Garbagnati - è spesso oggetto di una errata valutazione: “gli stagiaires non dovrebbero mai essere considerati una riserva di manodopera a basso costo,
ma una preziosa fonte di turnover di capitale umano per le imprese”. Condivide quest’opinione anche Marco Mele, giornalista de “Il Sole 24 ore”,
convinto sostenitore della necessità di una formazione universitaria per gli
aspiranti giornalisti e comunicatori, che si è detto decisamente contrario al
sottoutilizzo del potenziale creativo dei neo-laureati, spesso costretti a lavorare in un contesto che sfiora il mobbing. Secondo Franco Siddi, Presidente della FNSI (Federazione Nazionale della Stampa), lo spettro del
precariato, uno dei problemi del nostro tempo, è un ostacolo le cui caratteristiche devono essere delineate con precisione, attraverso ricerche come Le professioni della Comunicazione. Giampiero Vecchiato, vicepresidente
Ferpi (Federazione Italiana Relazioni Pubbliche), ha preso spunto dai desideri di chi studia per diventare comunicatore: uno degli argomenti più significativi per gli aspiranti comunicatori è l’etica, che, pertanto, dovrebbe
diventare un tema “di posizionamento”nelle strategie di marketing dell’offerta formativa. E allora – ha suggerito Marco Mele – “perché non potenziare gli insegnamenti di etica e deontologia professionale all’interno
dei corsi di laurea diretti a formare i comunicatori e i giornalisti di domani?” (Ilaria Della Corte)
Roma - Tv e Minori: l’impegno del Corecom Lazio
“La Tv può fare violenza psicologica sui minori, per questo occorre coniugare le esigenze del mercato con i valori dell’infanzia”. Questo ha affermato Massimo Pineschi, presidente del Consiglio Regionale del Lazio, al convegno “Tv, Minori, Corecom. Un triangolo virtuoso”, svoltosi a Roma
presso la Sala Tevere della Regione. Un’iniziativa volta a sottolineare l’attenzione crescente del Corecom (Comitato Regionale per le Comunicazioni) del Lazio verso una problematica che, ormai da diversi anni, sembra essere sempre più sentita dall’intera società civile.
Dal 1° gennaio 2004 il Corecom svolge, infatti, su incarico dell’Autorità per
le Garanzie nelle Comunicazioni, una costante verifica del rispetto dei diritti dei minori nelle trasmissioni televisive a diffusione regionale. A seguito dell’approvazione dell’Accordo-quadro tra Agcom e Conferenza delle
Regioni, ben quattordici Corecom (tra cui quello del Lazio, presieduto da
Angelo Gallippi) assolvono funzioni delegate in materia di comunicazione,
comprensive appunto di quell’attività di verifica sull’emittenza locale per la
tutela dei minori. A tal proposito Maria Pia Caruso, responsabile dei rapporti Agcom-Corecom, ha spiegato come l’Autorità non fornisca linee guida e criteri operativi statici, ma parametri di valutazione molto elastici da attuare sulla base di un costante confronto con le emittenti, il pubblico e gli
esperti della materia. Un impegno, quello del Corecom, estremamente im-
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portante ed oneroso che, pur avendo già dato ottimi risultati, potrebbe essere migliorato, come sottolineato da Mario Michelangeli, assessore alla Tutela dei Consumatori della Regione Lazio, dal contributo di segnalazioni e
suggerimenti da parte dei cittadini. “La tutela dei minori in Tv è un problema di cultura, di responsabilità, di matura libertà - ha affermato Samuele Ciambriello, componente del Comitato Tv e Minori del Ministero delle
Comunicazioni - e, dunque, le sono essenziali l’approfondimento conoscitivo e la sensibilizzazione con i suoi percorsi persuasivi-dissuasivi, anche attraverso la concretizzazione della società e delle sue articolazioni”.
La tavola rotonda, composta da docenti universitari, membri di istituzioni
ed associazioni attive nel settore, ha originato un proficuo confronto di opinioni ed esperienze, ripercorrendo ciò che, fino a questo momento, si è fatto a livello di studi e di proposte sul tema della tutela dei minori in Tv. Tutti i relatori hanno concordato sulla necessità di un innalzamento del livello
qualitativo delle trasmissioni televisive a diffusione nazionale e regionale, anche al di fuori della cosiddetta “fascia protetta”, e sull’esigenza di individuare un nuovo criterio di valutazione per la costituzione dei palinsesti televisivi che sostituisca quello della misurazione degli ascolti. Rientra in questo tipo di convinzioni l’iniziativa intrapresa dal Corecom Lazio, il “Bollino Qualità”, presentata durante il convegno da Domitilla Baldoni, presidente della
Commissione Servizi e Prodotti Corecom. Le televisioni, le radio e le testate regionali che si sono distinte per la qualità della programmazione riceveranno, il prossimo 21 giugno presso la Casa del Cinema di Roma, la “Coccarda Blu”, uno speciale riconoscimento attribuito da un’apposita commissione composta da giornalisti, magistrati, giuristi, psicologi, artisti e, naturalmente, da alcuni componenti del Corecom Lazio. “Occorre sensibilizzare le
emittenti private al problema del rapporto Tv e minori - ha sostenuto Maria Luisa Sangiorgio, presidente della Conferenza Nazionale Corecom - e
dall’altra considerare il minore non solo un oggetto di tutela, ma un soggetto portatore di diritti che può trovare nella Tv uno strumento che gli offre
una programmazione adeguata”. In accordo con le parole di Maria Luisa
Sangiorgio, anche quelle di Giulia Rodano, assessore alla Cultura, Spettacolo e Sport della Regione Lazio, di Luca Borgomeo, presidente dell’Aiart (Associazione Spettatori Onlus), di Gianni Biondi, direttore del Servizio di Psicologia Pediatrica dell’Ospedale Bambino Gesù, e di Laura Sturlese, presidente del Centro Studi Minori e Media. Mario Morcellini, preside della Facoltà di Scienze della Comunicazione all’Università La Sapienza di Roma, e
Vincenzo Zeno-Zencovich, docente di Diritto della comunicazione all’Università Roma Tre, hanno invece rilevato, rispettivamente da un punto di vista sociologico e giuridico, come la Tv, ed in generale tutto il sistema dei media, in quanto protagonista della scena di socializzazione dei minori, debba
attuare efficaci processi di autoplisciplina dei propri operatori, così come le
istituzioni attraverso appositi codici di autoregolamentazione.
Concludendo il convegno Giancarlo Innocenzi, commissario Agcom, ha
sottolineato con soddisfazione come si inizino finalmente a cogliere i risuln. 2/2007
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tati concreti dell’intensa attività dei Comitati regionali in funzione dello sviluppo di uno spirito critico e di una reale consapevolezza nell’uso del mezzo televisivo. Il dibattito ha, infatti, ricordato come la televisione possa essere non soltanto una baby sitter elettronica o una cattiva maestra per gli
spettatori più giovani, ma anche un importante strumento di crescita culturale, civile e morale. (Camilla Rumi)
Roma - Comunicare la cultura
“La cultura, in quanto bene collettivo, dovrebbe essere fruita dal maggior
numero di persone possibile. Spesso, tuttavia, essa resta relegata alla conoscenza di pochi, prerogativa di élite e di classi privilegiate. Per uscire da tale ‘stato di letargo’, la cultura, intesa nelle sue più varie accezioni, necessita
pertanto di essere divulgata attraverso l’utilizzo delle tecniche e degli strumenti più evoluti della comunicazione”. Questo lo scopo emerso dal convegno “Comunicare la cultura”, tenutosi lo scorso 11 maggio presso l’Aula Magna della Libera Università Maria SS. Assunta (Lumsa) di Roma.
Al dibattito moderato da Massimiliano Tonelli, direttore della rivista culturale “Exibart”, sono intervenuti docenti universitari, esperti di comunicazione
e professionisti operanti nei diversi settori della cultura, con l’intento di capire come quest’ultima, nella veste di bisogno, riflessione, svago, crescita, socialità e divertimento, possa essere diffusa presso l’intero corpo sociale, senza alcuna distinzione. “La comunicazione – ha dichiarato Gennaro Iasevoli,
direttore del Master in Marketing e organizzazione degli eventi presso la
Lumsa – deve saper chiamare in causa istituzioni e mercati diversi, conoscere le esigenze dei consumatori, avere la capacità di identificare e creare partnership, interpretando bene i tempi in uno scenario in continua evoluzione”.
Coinvolgere il cittadino nella fruizione dell’evento culturale rappresenta,
quindi, un’operazione complessa, soprattutto a fronte di una frammentazione del tessuto sociale che fa sì che nel Paese esistano per lo più mercati settorializzati. Madel Crasta, segretario generale del Consorzio BAICR, ha sottolineato infatti come le imprese debbano uscire da una logica esclusivamente commerciale e realizzare progetti di convergenza, se sono davvero intenzionate a sfatare un’idea di cultura come di un benessere riservato a pochi.
Della stessa opinione Mario De Simoni, direttore dell’area gestione operativa del PalaExpo, il quale ha evidenziato come le aziende operanti nell’ambito culturale non abbiano solo il dovere di comunicare dove e quando si realizzeranno gli eventi, ma anche il perché si offrono e i benefici che arrecano.
Molteplici sono, infatti, i momenti in cui una cultura comunica, talvolta anche in maniera implicita, attraverso gli allestimenti espositivi, il merchandising, la didattica, i servizi tecnologici, i rapporti con i media, la pubblicità, il
valore della marca e dell’impresa sponsor.
Particolarmente interessanti anche le testimonianze di Stefania Esther La
Sala, responsabile comunicazione del Dipartimento Politiche Culturali del
Comune di Roma, e di Kristina Herrmann Fiore, direttore della Galleria
Borghese, i cui interventi hanno cercato di chiarire come si debba operare
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per contribuire alla valorizzazione del patrimonio storico-culturale del nostro Paese. Tale obiettivo diventa possibile soltanto attraverso l’attuazione
di politiche aperte e flessibili, una pianificazione degli eventi culturali in sintonia con le strategie comunicative, da applicare in maniera concreta, affidabile e tempestiva, e soprattutto considerando i cittadini come soggetti
portatori di interessi e di attese e la cultura non come un costo, ma bensì
come un ricavo.
Il dibattito è stato concluso dall’intervento della Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia della Lumsa, Maria Grazia Bianco, che ha sottolineato come
sia necessario battersi per l’affermazione di un sapere che sia funzionale alla
crescita dell’uomo, e da quello di Fabio Severino, curatore del volume “Comunicare la cultura”, il quale ha sostenuto come tale operazione potrà diventare realmente efficace solo nel momento in cui si attuerà un radicale cambiamento di prospettiva: dovrà infatti essere la cultura stessa a proporsi e sottoporsi, attraverso diverse tecniche e strumenti comunicativi, ai gusti e agli interessi dell’intera collettività. (C. R.)
Roma Luiss -“Libertà d’informazione e dovere di cronaca”
Incontro con Marco Travaglio
Perché ha deciso di diventare giornalista? E, soprattutto, perché un giornalista libero?
Perché fin da bambino volevo fare questo, il giornalista. Mi chiedi: perché libero? Il vero giornalista è libero, se no che giornalista è?
Con questo scambio di battute è cominciato l’incontro fra Marco Travaglio
e gli studenti della Luiss-Guido Carli, tenutosi il 24 aprile scorso nella sede
dell’università romana. Affrontando il tema della libertà d’informazione e
del dovere di cronaca, Travaglio ha raccontato le sue esperienze e la sua visione del giornalismo italiano, fra mete ideali da inseguire e difficoltà reali
da affrontare.
Il problema principale, in Italia, è la “scomparsa dei fatti”, ossia la mancanza cronica di informazioni complete, veritiere e corrette. Questa patologia, che investe tutti i settori della società italiana, è frutto della scarsa diligenza professionale dei giornalisti e del predominio di interessi privati sul
valore pubblico dell’informazione. Le distorsioni del sistema hanno favorito la diffusione di vere e proprie tecniche di manipolazione dei fatti, che rischiano di diventare parte delle routine produttive della notizia.
Il modo più comune di manipolare la realtà è ignorare completamente il
fatto, rimuovendolo dall’agenda setting. Più sottile è il “modello Porta a Porta”: i fatti più importanti, ma “scomodi”, sono occultati ingigantendo altri
eventi “normali”.
I “falsi indipendenti” si nascondono dietro inutili dibattiti d’opinione per
“salvare la faccia e la poltrona”, mentre i protagonisti dei fatti scomodi evitano sempre di prendere posizione di fronte alle accuse. Infine, si manipolano i fatti anche cambiando nome alle cose: è così che le guerre diventano
“missioni di pace” e i corrotti di Tangentopoli le “vittime” del sistema. Il
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vero giornalista, invece, deve disturbare il potere, perché, ha concluso Travaglio, soltanto in questo modo realizza pienamente il suo ruolo di watchdog delle istituzioni democratiche e della società civile. (Annarita D’Agostino)
Citta’ della Pieve - L’incontro delle testate locali
Da Ravenna a Bari, da Sondrio a Bologna, da Trento a Napoli, passando
per tanti centri “minori” della profonda provincia italiana, oltre 50 sono
stati i giornali (circa 140.000 copie complessive per uscita distribuite in 15
diverse province di 7 regioni) presenti a “Cronache italiane”. Tra quest,i periodici con struttura editoriale consolidata, fogli volontaristici, militanti, settimanali diocesani…
Hanno portato a Città della Pieve una testimonianza in “presa diretta” sullo stato di salute della comunicazione (e non solo) nel nostro Paese. Una risorsa indispensabile per la democrazia e il rafforzamento delle
identità locali, la stampa periodica “di prossimità” avrà un futuro
solo se riuscirà ad unire le proprie forze, facendo particolare
attenzione alle nuove (ma ormai attualissime) tecnologie, per
affrontare le sfide quotidiane: è questo il quadro, e l’indicazione di
massima, emerso dalla tre giorni di dibattiti e incontri di “Cronache
italiane”, primo forum nazionale della stampa periodica locale,
organizzato dal 15 al 17 giugno a Città della Pieve dal periodico Primapagina, dall’associazioneVocinrete in collaborazione con il Comune pievese e
con il patrocinio della Provincia di Perugia. Un mondo vasto e variegato,
quello della piccola editoria periodica locale, che si è ritrovato nella città del
Perugino per discutere e confrontarsi sullo stato di salute, e sulle prospettive di sopravvivenza e sviluppo future, di una fetta così
importante della stampa nazionale (da un recente studio infatti
risulta che siano oltre 1.500 le testate locali di informazione
registrate). Tre giorni di dibattiti e incontri che non sono stati,
però, una semplice occasione di discussione e confronto, ma che sono
serviti anche per gettare le basi di un progetto di collaborazione
(che verrà definito e presentato ufficialmente nelle prossime
settimane) tra realtà giornalistiche geograficamente lontane ma
accomunate dalle medesime problematiche organizzative di fondo.
Il Forum, che ha trovato l’attenzione di Mediacoop (il network delle testate cooperative), di alcuni parlamentari come gli on. Ezio Locatelli e Ali Rashid di Rifondazione, Marina Sereni dei Ds e dello stresso Presidente della
Camera, on. Bertinotti, ha visto la partecipazione di docenti universitari
(Roberto Segatori dell’Università di Perugia, Paolo Scandaletti della Luiss di
Roma), di amministratori locali, di giornalisti e personaggi della tv come
Luca Cardinalini (Rai e Il Manifesto) e Enrico Vaime (La 7) protagonisti di
divertentissime interviste in piazza, una sul “calcio visto da sotto” e una sul
linguaggio con cui i media raccontano l’Italia.
Toccanti e serissimi invece i contributi di Massimo Pumilia giornalista napoletano costretto a chiudere il suo giornale in seguito alle minacce e alle
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violenze della camorra e Raffaele Baldoni, fratello di Enzo Baldoni, il freelance ucciso in Iraq nel 2004. Cronache Italiane, dopo questa prima edizione resta un “cantiere aperto” nel senso che diventerà un appuntamento annuale e proporrà iniziative specifiche tra una edizione e l’altra.
Città della Pieve, la città del Perugino, al confine tra Umbria e Toscana, si
candida, con questo evento, a diventare la capitale di questo strano, variegato e complesso arcipelago dell’informazione.
Tanto per cominciare, la Biblioteca comunale, capofila delle biblioteche del
comprensorio del Trasimeno, ospiterà infatti una sezione dedicata alla
stampa locale di tutta Italia, a cominciare proprio dalle testate che hanno
partecipato al Forum.
Tra i periodici presenti: Questo Trentino, di Trento, La Voce della Valchiavenna di Chiavenna (So), Dialogo in Valle di Condove (Cn),Servizi
e Società di Milano, Il Piccolo (Faenza), Sabato Sera e Sette Sere di Imola, Qui Magazine di Ravenna, Il Picchio Rosso di Budrio (Bo), Il Galletto e In Mugello di Borgo San Lorenzo (Fi), Toscana Oggi (Fi), L’Attenzione di Firenze, L’Araldo Poliziano (Montepulciano), Primapagina
di Chiusi (Si), Metisse di Siena, Centritalia di Chianciano T. (Si), Montepiesi di Sarteano (Si), Il Vitellozzo di San Casciano Bagni (Si).
Lungolago, Attraverso e Atipico di Castiglione del Lago (Pg), Il Poggio
di Città della Pieve (Pg), Il Progresso di Monteoleone d’Orvieto (Tr),
L’Altrapagina di Città di Castello (Pg), La Tramontana, Risonanze, Micropolis, Fuori Guida, Tutto Perugia, La Voce, Artico, di Perugia, Tutto Gubbio di Gubbio (Pg), Iesi e la sua Valle di Iesi (An), Il Progresso
di Fabriano (An), Carta di Roma, Il Granchio di Nettuno (Roma), La
Città di Sulmona (Aq), il Golfo di Ischia, La Voce della Campania di
Napoli, Patto Magazine di Lucera (Fg), In Città di Giovinazzo (Ba),
Quindici di Molfetta (Ba), Eventi e Commenti di Corato (Ba).
Le testate Varieventuali di Ivrea, La Piazza Grande di Fossano (Cn),
Dialogo di Modica (Rg), hanno inviato materiali e copie del giornale; le testate Amiata Storia e Territorio di Arcidosso (Gr), Tam Tam di Todi, Il
bene Comune di Campobasso, La Riviera di Catanzaro, La Voce di Carpi (Mo), L’ora del Salento di Lecce, La Città di Orvieto, Alea Edizioni
di Milano, Il Giornale di Scicli di Scicli (Rg), pur non essendo fisicamente presenti hanno comunque aderito al Forum dichiarandosi disponibili a
partecipare attivamente. (Marzia Papagna e Filippo Costantini)
Roma Ucsi - Narrare la professione
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accontare è il modo più efficace di far conoscere a qualcuno ciò che si
è visto o sentito. Ai tempi degli aedi omerici, d’altronde, questo era il
sistema più usato per ricordare alle nuove generazioni non solo i fasti mitici della propria stirpe, ma anche e soprattutto le storie del proprio passato,
al fine di ‘formare’ in qualche modo chi avrebbe avuto in mano il futuro.
Venendo ai giorni nostri, tuttora i moderni cronisti sanno fare bene il proprio mestiere se e quando sono in grado di raccontare – con dovizia di parn. 2/2007
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ticolari e capacità di trasmetterne il senso – suoni, immagini, significati degli eventi, così come informazioni, emozioni, stati d’animo delle persone.
Anche per questo motivo, nell’ambito delle iniziative di formazione e servizio che l’Unione Cattolica della Stampa Italiana del Lazio ha realizzato e
realizza da anni, si è deciso di riproporre per la terza edizione il ciclo di appuntamenti dal titolo “Narrare la professione”, quest’anno con il sottotitolo: “Il giornalismo raccontato da chi lo fa”.
Raccontare, appunto. In questo caso, raccontare è spiegare e in un certo
senso far vivere ad altri, attraverso la propria esperienza professionale, un
mestiere unico, difficile, che ha subìto nel tempo innumerevoli cambiamenti ed evoluzioni – ed è tuttora in fase di ulteriori sviluppi – e che, forse proprio per questo, suscita nell’immaginario collettivo pensieri e giudizi
contrastanti. C’è, infatti, chi non sopporta la categoria dei giornalisti, o ancora chi ritiene il loro un mestiere non utile alla società; ma c’è anche chi
non riesce a saltare due appuntamenti informativi della sera consecutivamente, o chi invece resta affascinato dalla capacità che i cronisti hanno di
trasmettere dati, immagini, parole del mondo in cui viviamo e di come tutto ciò, talora, possa servire a starci dentro meglio.
Tra coloro che provano queste seconde sensazioni, ovviamente, c’è anche
una folta schiera di studenti universitari che hanno scelto di seguire un corso di studi che li avvicini a questa professione e fornisca loro i cosiddetti
“attrezzi del mestiere”, abituandoli alle situazioni che troveranno poi nelle
redazioni di periodici, telegiornali, uffici stampa e quant’altro esiste oggi nel
mondo dell’informazione e della comunicazione.
A loro, ma non solo, è stata dunque indirizzata l’iniziativa “Narrare la professione”, con la quale l’UCSI Lazio si propone di dare spazio e voce di volta in volta a un giornalista di fama nazionale affinché racconti qual è stata
la sua esperienza nel campo dell’informazione, dagli esordi fino al momento presente. Le figure scelte hanno differenti attitudini giornalistiche e provengono da esperienze professionali variegate, al fine di garantire e, anzi, in
qualche modo favorire la conoscenza del più ampio spettro possibile di
“giornalismi” oggi presenti. Gli incontri di “Narrare la professione”, tuttavia, si sono spesso rivelati occasioni uniche nelle quali parlare dell’evoluzione del mestiere di giornalista dalla penna alla tastiera del pc, dalla cabina
telefonica al telefono cellulare, dal giornale cartaceo – tuttora, per la verità,
discretamente diffuso – al giornale on-line sul web, senza però mai dimenticare che l’informazione è fatta di capacità di scrittura e di contenuti.
Quest’anno, poi, il ciclo di appuntamenti è divenuto “itinerante”, poiché è
stata fatta la scelta di tenere i diversi incontri in differenti atenei della Capitale. Questo, nelle intenzioni, al fine di facilitare la partecipazione e l’interscambio tra i praticanti delle diverse scuole di giornalismo romane. A conti fatti, le aspettative non sono state tradite e sono stati numerosi i giovani
che hanno seguito gli appuntamenti 2007.
Ma “Narrare la professione”, in questo terzo anno, è stata anche un’opportunità imperdibile per analizzare nello specifico, grazie alla presenza di ospi-
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ti con grande esperienza, alcuni eventi-chiave del nostro recente passato; un
modo ‘giornalisticamente’ produttivo di riflettere sull’attualità e come le
molteplici sensibilità degli “addetti ai lavori” l’hanno recepita e raccontata,
rendendola disponibile in molti differenti ‘tagli’ al grande pubblico.
Una delle caratteristiche degli incontri che più è piaciuta fin dalla prima edizione, comunque, resta lo spazio riservato alle domande dei partecipanti; in
questo modo, a chi è presente è possibile, ad esempio, chiedere al conduttore di un telegiornale nazionale o al caporedattore di una importante testata giornalistica radiofonica il criterio utilizzato nella comunicazione di
una notizia o di un avvenimento; o, ancora, la filosofia di fondo che guida
un’azienda editoriale di un certo tipo piuttosto che di un altro. Senza dimenticare alcuni utili flashback nella storia dell’informazione e dei mezzi di
comunicazione di massa del nostro Paese.
Venendo ai dati concreti dei quattro appuntamenti di quest’anno, meritano
di essere ricordati gli ospiti che hanno reso possibile l’edizione 2007 di
“Narrare la professione”: il primo a “raccontarsi” è stato Jean Leonard
Touadì, giornalista e assessore all’Università e ai giovani del Comune di Roma, che ha parlato il 21 febbraio presso la sede di via Principe Amedeo dell’Università “La Sapienza” di Roma; il 7 marzo è stata invece la volta di Roberta Gisotti, giornalista della Radio Vaticana, e di Nicoletta Berardi, autrice tv, presso l’Università Pontificia Salesiana; un intenso dibattito è scaturito nel corso della relazione di David Sassoli, conduttore e vice-direttore del
TG1, che ha richiamato oltre 50 giovani nell’Aula Pizzardo dell’università
LUMSA il 28 marzo; altrettanto intenso è stato l’appuntamento di chiusura, il 23 marzo, che si è svolto nella sede del periodico dei gesuiti “Civiltà
Cattolica” e ha avuto come ospite il direttore del TG1, Gianni Riotta.
“Narrare la professione” è però, per l’UCSI, anche un investimento a lungo termine sui giovani: grazie a questi incontri, infatti, molti aspiranti giornalisti imparano a conoscere l’Associazione e le persone che ne fanno parte, nonché i suoi obiettivi e le motivazioni per cui agisce, comprendono
l’importanza di avere qualcuno con cui confrontarsi sui problemi che il lavoro nell’ambito del complicato mondo dell’informazione pone e iniziano
a non pensare più di essere gli unici a dover affrontare difficoltà che invece tutti condividono, scoprendo l’importanza dell’avere un luogo all’interno del quale poter porre e porsi domande, un posto nel quale continuare
una riflessione culturale che non può finire con la discussione della tesi.
Soprattutto, grazie a iniziative come “Narrare la professione” è possibile instaurare con questi studenti – che in molti casi saranno, ci auguriamo, il futuro del giornalismo italiano – legami di collaborazione e di amicizia, affinché i valori, le attenzioni e le iniziative che l’UCSI Lazio ha portato e intende portare avanti nel panorama socio-culturale regionale possano continuare ad avere spazio e interpreti adeguati. (Francesco Macaro)
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LIBRI
RECENSIONI
a cura di Settilio Mauro
Gallinaro, tutor
all’Università La
Sapienza, Roma
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ui si parla del modo, così diffuso tra i politici e praticato con l’aiuto di consulenti tanto agguerriti quanto spregiudicati, di inquinare l’informazione
pubblica e politica a fini personali e di partito; in barba ai cittadini elettori, cioè
alla vera unica fonte del potere, negli stati retti con la cultura ed il sistema propri della democrazia. In Italia, il fenomeno è in progressione quasi inarrestabile
e procede in parallelo ai trionfi della tv commerciale.
Si va dalle riprese, pressocchè innocenti, del volto solo dalla parte dove l’occhio
è ben aperto e dalle battute- bugie con le gambe corte, fino alle omissioni sorrìdenti e agli ottimismi perpetui. Giocando pesante quando si cerca di sconvolgere la gerarchia delle notizie nella quotidiana agenda setting, facendo irrompere allarmi a vasta presa; oppure, srotolando telegiornali fotocopia e a panino, che accentuano i contrasti fra i leader. Con giudizi sulle persone ed accuse del tutto
avulse dai nodi irrisolti della vita che scorre nelle pagine di cronaca, tanto più dai
provvedimenti che le parti politiche dovrebbero predisporvi a soluzione.
Dalle piazze greche dove si sono sparsi i primi semi democratici alle grandi dispute pubbliche medioevali, dalle righe di Gutemberg alle onde radio, bugie e
trucchi della politica per girar le cose a proprio favore danneggiando gli avversari, si son sempre visti. Il davvero grave di oggi è nel nuovo contesto: i luoghi della politica sono scomparsi a favore delle grandi tv politicizzate; i ras dei partiti
centralizzati nominano persino quei parlamentari che una volta sceglievamo
noi.. E ai cittadini, - per loro utilità elettorale, quantomeno - venivano a raccontare cosa stavano facendo nelle istituzioni. Così recite e bugie la fan da padrone.
( Per chi voglia approfondire, “Iscritti, dirigenti ed eletti” di Luciano Bardi, Piero Ignazi e Oreste Massari, Università Bocconi ed.)
Il pregevole libro di Giancarlo Borsetti si distende in capitoli ricchi di personaggi, episodi, racconti e casi di studio. Convince meno quando afferma che tutto è ormai manipolabile e manipolato. Se anche lo fosse in così larga misura,
non va dimenticato infatti che sempre più persone, anche fra le semplici che
stanno davanti alla tv molto tempo, hanno scoperto il gioco, i modi e le parole
di una propaganda (questo è il suo vero nome in italiano) che per l’eccesso si è
fatta controproducente.
L’altro rimedio auspicato dall’Autore sta nel rafforzamento della Rai come servizio pubblico. Se potesse funzionare…Non escluderei i benefici che potrebbero giungere dalla liberalizzazione del sistema politico-elettorale italiano, rimesso
nelle mai della gente a cominciare dal referendum in corso; e da quella del sistema dei media, appesantito dai peccati originali delle proprietà e degli interessi ex-
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G IANCARLO
BOSETTI
Spin
ed. Marsilio
pp. 220,
€ 13,00
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traeditoriali, delle tv tanto grandi quanto egocentriche, della pubblicità che inquina l’informazione. I colossi americani hanno ripreso bene riscoprendo i cittadini -lettori –utenti. (Paolo Scandaletti)
VI Rapporto
Censis-Ucsi
sulla comunicazione
Le diete mediatiche degli italiani
nello scenario europeo
Franco Angeli
pp. 223, €
22,00
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ei anni di monitoraggio e di analisi per delineare le diete mediatiche dei cittadini italiani ed individuare le aspettative e gli stili di fruizione dell’utenza, senza dimenticare l’indagine dell’offerta, la formazione e le esigenze dei professionisti dell’informazione e della comunicazione.
Sono questi i capisaldi dell’indagine annuale Censis-Ucsi sulla comunicazione. Il
successo ottenuto dai Cinque Rapporti sulla comunicazione in Italia ha consentito di
ampliare gli orizzonti della ricerca: il Sesto Rapporto varca i confini nazionali e realizza una comparazione europea.
Il monitoraggio de Le diete mediatiche degli italiani nello scenario europeo dipinge un’Italia in corsa, un Paese che negli ultimi sei anni è stato protagonista di una rivoluzione dei consumi mediatici e degli stili di fruizione, che ha visto crescere la
propria popolazione “multimediale”, ma che, ancora oggi, presenta un ritardo
rispetto alle altre nazioni oggetto della comparazione (Francia, Germania, Gran
Bretagna, Spagna).
L’aumento percentuale dei post- moderni, ossia degli utenti che si caratterizzano per una dieta mediatica varia ed un uso consapevole dei diversi mezzi di comunicazione, infatti, non riesce a compensare l’influenza di quelle fasce della popolazione italiana che restano imprigionate in una gabbia di marginalità mediatica. Uno dei principali ostacoli all’estensione della popolazione multimediale è la
dipendenza dal modello televisivo analogico-terrestre, che è la più alta fra i Paesi europei: il 72,1% dei cittadini italiani, infatti, vede solo i programmi della televisione tradizionale. La variabile anagrafica e le differenze relative al livello di
istruzione confermano la loro rilevante influenza sui consumi mediatici degli italiani e sulla presenza di un preoccupante divario culturale, ma i ricercatori del
Censis rilevano alcune vistose eccezioni. E’ il caso dei “nuovi post- moderni”,
un segmento della popolazione di cui si sa ancora poco, composto prevalentemente da persone giovani e con un buon livello di istruzione, che gestiscono con
disinvoltura i new media, estromettendo, però, la carta stampata dalla propria dieta mediatica.
Anche la relazione dei media con il pubblico è al centro dell’interesse dell’analisi Censis- Ucsi: in un contesto in cui il mezzo attraverso il quale sono veicolati i
messaggi risulta sempre meno vincolante, mentre è la ricerca dei contenuti la
principale motivazione alla fruizione, l’individuazione dei bisogni comunicativi
dell’utenza diventa un elemento centrale dell’indagine sul rapporto tra cittadini e
media. Le principali finalità che spingono al consumo dei mezzi di comunicazione, secondo i risultati emersi dall’analisi del Censis, sono, nell’ordine: informarsi, approfondire le conoscenze acquisite, trovare un momento di svago e divertimento o di compagnia, concedere spazio alla musica, orientarsi per gli acquisti e risolvere questioni pratiche.
Ma qual è la situazione dell’offerta di informazione e di comunicazione nel nostro Paese?
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Il Sesto Rapporto non abbandona il tradizionale impianto, caratterizzato da uno
sdoppiamento della ricerca annuale: la seconda sezione dell’indagine si concentra, infatti, sulle prospettive della professione giornalistica nelle nazioni europee
oggetto della comparazione. Francia, Gran Bretagna, Spagna, Germania e Italia
sono accomunate dalla “biforcazione” del percorso che conduce all’esercizio
dell’attività giornalistica. Una delle due alternative è la “via colta”, sempre più caldeggiata a livello di associazioni professionali e di istituzioni pubbliche, che passa attraverso le aule universitarie e che ha l’obiettivo di garantire una formazione adeguata all’importanza di tale professione per la società.
Resiste, tuttavia, il percorso on the road, la gavetta che gli aspiranti giornalisti affrontano, come si dice in gergo, “battendo i marciapiedi”. E’ importante sottolineare che, nonostante il profilo dei giornalisti risponda sempre più alle esigenze di professionalizzazione e di formazione di livello universitario, in tutti i quattro Paesi oggetto della rilevazione la laurea non è un requisito obbligatorio per
l’esercizio di tale attività. La scelta della “via colta” da parte di un numero crescente di giornalisti testimonia, pertanto, l’esigenza di passare da una fase artigianale dell’attività a figure professionali sempre più qualificate, con caratteristiche tecnico-culturali adeguate, a garanzia di un’informazione migliore.
(Ilaria Della Corte)
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on avranno forse le risorse economiche di Rai e Mediaset e neppure la varietà e l’equilibro dei palinsesti dei grandi network nazionali, ma le piccole
tv locali rappresentano indiscutibilmente, da ormai più di vent’anni, uno spaccato della nostra società tutt’altro che trascurabile. Il volume scritto da Aldo Grasso, professore di Storia della radio e della televisione all’Università Cattolica di
Milano, oltre che noto editorialista e critico televisivo del Corriere della Sera, vuole appunto riportare alla luce il mondo sommerso delle tv locali ricordando come esse non siano un’imitazione malriuscita dei grandi network, ma una risposta forte ad un processo di globalizzazione, ormai realizzatosi a tutti i livelli della vita associata, che rischia di fagocitare tradizioni e identità forse minoritarie ma
non per questo meno importanti.
Dopo una partenza selvaggia ed incontrollata sul finire degli anni Settanta, si assiste ad un periodo di assestamento grazie al quale l’emittenza locale vede la propria struttura razionalizzarsi e la possibilità di aggregare pubblici sempre più vasti. Sulla scia di TeleBiella, prima tv privata in Italia, e dei provvedimenti emanati dalla Corte Costituzionale, volti a liberalizzare le trasmissioni via cavo, prende
così inizio una nuova fase in cui cominciano a delinearsi progetti a lunga scadenza e percorsi meno improvvisati. Impostesi all’attenzione del pubblico attraverso le televendite, le tv locali si avviano a diventare delle vere e proprie comunità virtuali, affatto interessate ad imitare Rai e Mediaset, costituendo di per sé
un modello da cui “rubare” idee, atmosfere e sensazioni.
Se qualche anno fa la fortuna dell’emittenza locale sembrava seriamente
compromessa per via dei costi di gestione sempre più onerosi, della scarsità degli introiti pubblicitari e della spietatezza dei grandi network nell’acquisizione delle frequenze, oggi la situazione è radicalmente cambiata. Co-
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ALDO GRASSO
La Tv del
sommerso.
Viaggio nell’Italia delle
tv locali.
Ed. Mondadori,
pp. 190, € 9,40
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me spiega l’autore del volume, è stato proprio l’avvento della tv satellitare,
descritta da alcuni come “la pietra tombale del localismo”, a donare una
nuova inaspettata vitalità al mondo delle tv locali. Dalla metà degli anni Novanta quest’ultimo ha infatti visto raddoppiare il proprio fatturato e i propri indici d’ascolto. Come interpretare questa tendenza? “Le tv locali - scrive Aldo Grasso - sono la risposta alla paura del globale, ad una società in
cui cade la distinzione tra sfera pubblica e privata che rimette completamente in gioco le coordinate spazio-temporali dell’intera esistenza umana”.
Il volume, teso ad analizzare la varietà di un’offerta che stenta ad affermarsi in un mercato dalle tendenze internazionali ed una galleria di personaggi
spesso più interessanti di quelli delle reti generaliste, viene concluso dal saggio di Stefania Carini e Massimo Scaglioni, esperti del settore radio-televisivo, diretto ad illustrare il quadro economico e gli ascolti delle principali
emittenti locali. Un universo che sembra, quindi, non aver terminato la propria missione storica e che dovrà cimentarsi nel complesso e delicato compito di rappresentare le diverse identità regionali sulla nuova piattaforma
del digitale terrestre. (Camilla Rumi)
ALBERTO LORI
Manuale di
conversazione. Guida alla comunicazione integrale, Rai Eri,
pp.126, €13,00
BARBARA
SCARAMUCCI GUIDO
DEL PINO,
Come si documenta la tv
Rai Eri, pp.
144, €18,00
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“
Comunicare - scrive Alberto Lori - significa trasmettere, ma soprattutto far
capire ad altri il nostro messaggio»: sia esso un’idea, un progetto, una sensazione, un’emozione, un messaggio che sia destinato ad essere trasmesso deve,
prima di tutto, essere condiviso.
Perché ciò avvenga, colui che del messaggio è soggetto emittente deve fare ricorso, spesso nello stesso frangente, a diverse modalità di comunicazione: la parola, primo e più scontato codice della comunicazione, ma anche il timbro di voce, il tono, il volume, il ritmo, nonché la postura, la gestualità, la mimica. È proprio a questi tre codici, tra loro diversi eppure spesso convergenti, che Alberto
Lori dedica il suo bel volume: una ricostruzione analitica ed approfondita, corredata peraltro di numerosi esempi, che insegnano a governare la comunicazione verbale, quella paraverbale ed infine l’atteggiamento non verbale, dimostrando come un buon comunicatore deve essere in grado di padroneggiare tutti questi diversi codici, lasciando di volta in volta prevalere ora l’uno ora l’altro.
Tuttavia, la comunicazione non è un qualcosa che si vive solo nel presente - nell’attimo, cioè, in cui essa ha tempo e luogo - bensì una dinamica di cui speso di
deve conservare il ricordo. Al problema della conservazione/documentazione
della memoria comunicativa, nello specifico di quella televisiva, da molti anni ormai si dedicano Barbara Scaramucci e Guido Del Pinto, che in Come si documenta
la tv raccontano la loro esperienza in proposito alle Teche Rai.
Obiettivo del volume è senz’altro quello di raccontare - ed al tempo stesso dimostrare - come la documentazione sia un’attività complessa, che richiede al
tempo stesso conoscenza degli strumenti di documentazione ma anche dei contenuti che devono essere documentati. Parole chiave, dati anagrafici, protagonisti e personaggi, puntate e serie, prodotti e formati: queste sono solo alcune delle chiavi di lettura che il documentare deve saper padroneggiare, tanto nella fase
di costruzione degli archivi quanto in quella, successiva ma altrettanto impor-
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tante, di fruizione dell’archivio stesso. Non è quindi casuale che il volume si chiuda con una guida alla consultazione delle Teche Rai: una guida che vuole istruire l’utente circa le opportunità di ricerca, e di utilizzo di quel grande laboratorio
di esperienze e documentazione che è appunto rappresentato dalle Teche Rai.
D’altronde, scrivono gli Autori a conclusione della loro introduzione, spiegando
il perché di questo volume e del perché proprio in questo momento, «la tecnologia e la potenza della comunicazione hanno esaltato il valore della documentazione […]: abbiamo pensato che, anche in una logica di trasparenza propria di
un’azienda di servizio pubblico, fosse giunto il momento di rendere pubbliche le
modalità e le regole della documentazione aziendale Rai quale contributo al dibattito in corso a vari livelli per la miglior conservazione della memoria collettiva". (Marica Spalletta)
U
n processo spietato che porta ad un ineluttabile giudizio di colpevolezza,
senza nessuna possibilità di ricorrere in appello per il condannato: questo è
quanto esprime questo volume, un’aspra condanna al sistema universitario ritenuto malato ed assimilato in tutto e per tutto ad un’organizzazione mafiosa.
L’autrice muove dalla ricostruzione di fatti giudiziari che hanno coinvolto vari
atenei italiani per descrivere la storia dell’ “università di cosa nostra”, caratterizzata essenzialmente da regole non scritte, ma che tradizionalmente regolano i
rapporti e le procedure del sistema, specialmente quelle concorsuali, precedute
da “riunione carbonare” e gestite molto spesso dagli stessi soliti membri di una
“cupola” , che per scambiarsi favori si vedono molto spesso costretti a bocciare
il miglior candidato a vantaggio di “figli, nipoti, amanti, allievi” di potenti baroni. Quanto emerge è una situazione desolante, basata sulla logica del do ut des, di
intercettazioni telefoniche che hanno smascherato “un mercato gestito da organizzazioni togate” per l’assegnazione delle cattedre, ma anche un traffico a livello più basso, come ad esempio per la compravendita dei singoli esami, sino a poter stilare un vero e proprio “tariffario” per il superamento delle diverse discipline e per il conseguimento del titolo finale.
Verbali d’esame contraffatti, docenti che costringono i propri ricercatori a restituire loro in nero i compensi erogati dai dipartimenti, candidati obbligati a ritirarsi da concorsi per favorire vincitori predestinati, molestie sessuali in cambio di
ottenere in anticipo le risposte ai test di selezione universitari: questi sono solo
alcuni degli episodi di malcostume e corruzione che caratterizzano il sistema universitario, che spesso soffre, inoltre, di malsani rapporti con il mondo delle istituzioni, di una “selvaggia spartizione dei pochi fondi ministeriali con il bilancino
della politica”. Il tutto, è condito da un eccessivo proliferare degli atenei e dal sorgere di numerose sedi decentrate, che porta l’autrice a parlare di “polverizzazione dell’università”. La cosa peggiore è che, se i “delinquenti” sono pochi, tanti
sono “i molluschi” che abbassano la testa e accettano passivamente questo sistema corrotto.
In un panorama così negativo, che evidenzia solo il marcio, in quest’analisi deprimente per chi vive l’università, vi lavora con passione e ripone in essa fiducia
e speranza, emerge da parte dell’autrice un finale barlume di speranza: un cam-
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CRISTINA ZAGARIA
Processo all’Università.
Cronache
dagli atenei
italiani tra
inefficienze e
malcostume,
Edizioni Dedalo 2007, pp.
326, € 16,00
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biamento può partire dalle minoranze, dai pochi che hanno il coraggio di denunciare i misfatti e il malcostume dilagante, dagli studenti che devono costituire una nuova classe dirigente, traghettati da docenti che - oltre al sapere - trasmettano loro dei valori. Primo fra tutti l’integrità morale. (Valeria Lupo)
NATASCIA VILLANI
(a cura di)
Libertà della
ricerca o libertà dalla ricerca? Spirito
universitario
e responsabilità della ragione.
Edizioni Scientifiche Italiane,
pp. 136, € 13,00
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l volume raccoglie le relazioni dei partecipanti al convegno “Libertà della ricerca o libertà dalla ricerca?” organizzato dall’IPE (Istituto per ricerche e attività educative) lo scorso novembre presso il Centro Congressi di Castel Gandolfo. Il convegno, giunto ormai alla sua decima edizione, si è posto il preciso
scopo di avviare una riflessione sul significato della ricerca universitaria, in quella che il noto sociologo Zygmunt Bauman ha definito come “la società dell’incertezza”, e sul ruolo rivestito oggi dall’università quale luogo del sapere e della
formazione individuale. “I rapporti tra scienza e società – ha scritto Luigi Cuccurullo, presidente dell’IPE, nella prefazione al volume – sono complessi, procedono su piani diversi e tendono a farsi sempre più intreccianti ed interattivi”.
Tale concetto, sotteso all’intero lavoro, rimanda ad una visione del mondo della
scienza come un ecosistema che per mantenersi efficiente necessita di un forte
sostegno da parte della cultura, ma anche e soprattutto di elevati finanziamenti
per rinnovare il suo apparato tecnico-scientifico. Per comprendere in modo approfondito questa complessa rete di relazioni, è necessario che lo studioso prenda in considerazione il rapporto che essa intrattiene con una società sempre più
frammentata e “polisemica”, volendo parafrasare Max Weber, che sembra non
riuscire a raccogliersi attorno a dei valori etici condivisi. E’ da questo tipo di considerazioni che discende tutta una serie di interrogativi rivolti a capire quale posto realmente occupi la scienza all’interno di questa nostra epoca postmoderna:
la libertà della ricerca non deve davvero conoscere limite alcuno? O, al contrario,
come ogni altra attività umana, anche la scienza dovrebbe esplicitarsi entro determinati spazi, rispettando un’etica oltre la quale non è ragionevole andare?
Gli interventi dei professori universitari raccolti nel volume puntano a chiarire
come la libertà della ricerca non debba trasformarsi in libertà dalla ricerca, ossia
nella rinuncia dell’orizzonte di senso all’interno del quale indagare. La libertà è
una condizione essenziale per ogni lavoro scientifico, ma è necessario che questa attività di ricerca avvenga nel massimo rispetto dei valori etici e giuridici posti alla base di ciascun Paese democratico. “Una società di uomini liberi – ha sostenuto Giuseppe Dalla Torre, Rettore dell’Università Lumsa – non può non
presupporre alcuni limiti fondamentali, costituenti il cuore e la ragione stessa della propria esistenza”. Da tale affermazione appare chiaro come sia fondamentale la formazione umana ed etica del ricercatore e, di conseguenza, il ruolo giocato dalle strutture universitarie dove i futuri scienziati muovono i primi passi. Soltanto le università consapevoli di questa gravosa responsabilità e fondate su di
un’autentica dimensione comunitaria, potranno infatti contribuire alla realizzazione di un’attività scientifica attenta alle necessità, alle aspirazioni e ai principi di
cui sono portatori tutti i componenti di una società rivolta a tutelare il primato
dell’uomo sulla scienza ed il valore irrinunciabile della dignità della persona umana. (Camilla Rumi)
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