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S O M M A R I O EDITORIALE 3 Paolo Scandaletti Giornali: tutti sotto tiro PROFESSIONE 6 Ugo Apollonio La scienza in tv e in edicola. Più lettori ma meno rigore 17 Sabrina Speranza L’Università prepara i comunicatori? 30 Maria Luisa Stazio La canzone napoletana tra mito e passione 42 Eugenia Teresa Vitelli House organ e comunicazione interna: il caso Henkel 43 M. C.. D’Ambrosio Propaganda in radio durante i regimi totalitari 44 Martina Botti Il mutamento sociale e il caso di pubblicità progresso 45 Angela Giudice Comunicare la salute 47 Francesca Mauriello L’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria 48 Francesco Giudici Movie marketing: l’approccio di mercato nella Settima Arte CONVEGNI 50 Ilaria Della Corte ROMA LUISS Cosa fa l’Università per i comunicatori? E CONGRESSI 51 Camilla Rumi ROMA Tv e minori. L’impegno del Corecom Lazio 53 C.R. ROMA Comunicare la cultura 54 Annarita D’Agostino ROMA LUISS Libertà d’informazione e dovere di cronaca 55 Papagna e Costantini CITTÀ DELLA PIEVE L’incontro delle testate locali 56 Francesco Macaro ROMA UCSI Narrare la professione 59 Paolo Scandaletti Giancarlo Bosetti, Spin 60 Ilaria Della Corte VI Rapporto Ucsi/Censis sulla comunicazione 61 Camilla Rumi Aldo Grasso, La tv del sommerso 62 Marica Spalletta Alberto Lori, Manuale di conversazione 62 M.S. B. Scaramucci, G. Del Pino, Come si documenta la tv 63 Valeria Lupo Cristina Zagaria, Processo all’Università 64 C.R. Natascia Villani, Libertà della ricerca o libertà dalla ricerca? STORIA E CULTURA TESI DI LAUREA LIBRI 1 n. 2/2007 DESK DESK C U LT U R A E R I C E R C A D E L L A C O M U N I C A Z I O N E Rivista trimestrale Università Sr. Orsola Benincasa e Ucsi Anno XIV n. 2 DIRETTORI Paolo Scandaletti (responsabile) Lucio D’Alessandro COMITATO SCIENTIFICO Francesco M. De Sanctis (Presidente) Giuseppe Acocella Ermanno Bocchini Pasquale Borgomeo Isabella Bossi Fedrigotti Enzo Cheli Massimo Corsale Piero Craveri Lucio D’Alessandro Derrick De Kerckhove Ornella De Sanctis Gianpiero Gamaleri Paolo Mazzoletti Massimo Milone Mario Morcellini Agata Piromallo Gambardella Emilio Rossi Paolo Scandaletti Franco Siddi REDAZIONE: ROMA, VIA IN LUCINA 16/A Rosa Maria Serrao 06/68.80.28.74 fax 06/45.44.96.21 cell. 392/00.19.687 e-mail: [email protected] NAPOLI: Arturo Lando, Andrea Pitasi cell. 339/22.65.709 e mail: [email protected] Proprietà ed Editore: Ucsi www.ucsi.it GIUNTA ESECUTIVA Massimo Milone (Presidente) Angelo Sferrazza (Vicepresidente), Giorgio Tonelli (Segretario), Francesco Birocchi (Tesoriere), P. Pasquale Borgomeo (consulente ecclesiastico), Maurizio Del Maschio, Paolo Lambruschi, Andrea Melodia, Antonello Riccelli, Giuseppe Vecchio Finito di stampare: giugno 2007 da CSR - Roma, Via di Pietralata 157 E D I T O R I A L E GIORNALI: TUTTI SOTTO TIRO RESPONSABILITÀ DI GIORNALISTI, PUBBLICITARI, EDITORI PAOLO SCANDALETTI F Paolo Scandaletti, giornalista, insegna etica della comunicazione all’Università Luiss di Roma e Storia del giornalismo al Sr Orsola Benincasa di Napoli. Dirige questa rivista insieme a Lucio d’Alessandro Finalmente è stato messo in discussione il “prodotto”, dopo tanta promozione acritica. Ha ragione Ceccherini a vantare il buon risultato ottenuto dall’Osservatorio Giovani Editori che ha portato il giornale nelle mani di un milione e mezzo di giovani e che si sta estendendo negli atenei. Ora, essendo stato chiesto ai destinatari un giudizio sul quotidiano italiano, gesto dovuto e fidelizzante, ne è venuta qualche opportuna indicazione, per gli editori come per i giornalisti. Paradossalmente, fra i primi a capirlo Cerutti, costruttore di macchine tipografiche (e presidente dell’editoriale del 24 Ore), che richiamava il Maritain degli anni ’60: sappiamo di più, ma comprendiamo di meno. Eccolo, il compito dei giornali: aiutare i lettori a capire di più, mettendoci più intelligenza, insieme a più innovazione. E dunque non inseguire la tv, il Palazzo, il potere e i personaggi, ma stare dentro la società per ascoltarne le voci ed esprimere i bisogni (De Bortoli), radicando le pagine di cronaca nelle realtà e i problemi dei paesi (Giovanetti, giovane direttore de L’Adige). C’è una diffusa sottovalutazione del fatto: non descritto – analizzato per contestualizzarlo ed aiutare a decifrarlo, ma usato per rovistare fra quel che può esservi dietro, condirlo con indiscrezioni, interpretazioni e polemiche più o meno pretestuose. Così come si è perduta quella originaria vocazione e mantenere salda una gerarchia delle notizie, che è espressione di un senso della vita autentico e profondo, al quale si ancora l’intima credibilità dei giornali. Che la via della saggezza sia destinata ad una minoranza l’ha confermato Feltri, in risposta ad un ragazzo che chiedeva per 3 n. 2/2007 DESK E D I T O R I A L E l’appunto ai direttori schierati la possibilità di “Crescere fra le righe”: al costo di un euro, che vorresti? Per la formazione, vai dalla mamma…Oppure Riffeser, che pensa di risolvere i problemi aumentando il prezzo.. L’informatica ha condotto l’editoria verso un “sistema integrato dell’informazione”: cartacea al mattino, in dialogo e verifica con i lettori attraverso il blog e l’interattività; in giornata, con le notizie speciali nel web, lettori paganti e pubblicità montante. E ricavi in crescita per l’editore. A questo proposito, Khan del Wall Street Journal e Parsons di Time Warner rammentano come i lettori rifuggano dalle novità improvvisate, preferendo di certo i media con una lunga e consolidata storia alle spalle, il brand che è innovativo e immette di continuo nuovo valore nel prodotto ‘giornale’; che non cavalca le crisi di un giorno o si fa inquinare alla pubblicità, nella confusione non perde la bussola e sa mantenere una gerarchia dei fatti e dei valori, cura la precisione e la prospettiva, tiene all’understatement e alla correttezza con stile. In Italia siamo arrivati all’”effetto marmellata” (Veltroni): con la tv che fa politica non si capisce più nulla. Si rincorrono illusioni, quando invece è urgente riportarla dentro la società, magari con una nuova rete di luoghi e di relazioni. E’ la via che ha scelto Calabrese (Panorama) partendo dai blog (ovvero dall’ascolto) per identificare ed impostare sezioni di approfondimento e di riflessione. A Bagnaia il nuovo soggetto protagonista sono stati i 200 ragazzi che spesso hanno messo in croce quelli che stavano sul palco, i padroni dei giornali e gli operatori. Le domande non tradivano imbarazzo o timore reverenziale, ne incertezze: sapendo esattamente quello che cercano e manifestandolo con franchezza, hanno offerto a editori e giornalisti di buona volontà il bandolo da afferrare per accreditarsi presso le nuove generazioni, far loro leggere (e prima ancora, acquistare) il giornale, anche dopo il liceo e l’università. DESK Per arrivare a ciò occorre tuttavia che l’editoria italiana faccia ammenda del suo peccato originale, degli interessi extraeditoriali che ne hanno minato la credibilità e frenato lo sviluppo. I ‘numeri uno’ americani che sono stati invitati l’hanno detto con elen. 2/2007 4 E D I T O R I A L E ganza e precisione: il lettore è il solo referente dell’impresa editoriale che voglia campare e fare utili (e senza gli aiuti e sconti fiscali che consente lo Stato italiano). Non altri soggetti, poteri o interessi. Pur avendo nelle loro mani più della metà delle entrate dei quotidiani, curiosamente i pubblicitari non erano presenti, né programmati. Così come non è mai entrata nel discorso la figura del “garante del lettore”, che in Italia è morta sul nascere; né l’esperienza, positiva in Europa, dei press-council o del revisore in redazione. Sono componenti ingombranti per un sistema abituato ad adoperare il lettore: ma si dovrà farvi i conti, prima o dopo, se davvero si sceglierà come interlocutore il cittadino – lettore. Anche i giornalisti sono stati chiamati in causa, e parecchio. I ragazzi non hanno loro risparmiato nulla, obbligandoli perfino ad una salutare autocritica: siamo una casta chiusa, non dialoghiamo con i lettori (e nemmeno con gli editori, al di là del contratto, sul prodotto-giornale), non riconosciamo i nostri errori. L’Ordine va abolito (Fini), come il corso di Scienze della Comunicazione (Latella); il praticantato così diffuso crea troppe aspettative e quindi disoccupati. Altri hanno sono arrivati a dare dei numeri, sbagliandoli grossolanamente e mostrando superficialità anche nelle cose di casa propria. Ma il punto vero è: posto che lo si voglia, con chi e dove realizzare la sollecita e corretta gestione deontologica del settore, per le responsabilità dei giornalisti, dei pubblicitari, dei comunicatori e degli stessi editori, verso il ‘riscoperto’ lettore? Paolo Scandaletti 5 n. 2/2007 DESK P R O F E S S I O N E LA SCIENZA IN TV E IN EDICOLA PIÙ LETTORI MA MENO RIGORE UGO APOLLONIO A Ugo Apollonio, condirettore organizzativo della Scuola superiore di giornalismo alla LUISS Guido Carli, Roma DESK fflitti da un’emorragia di lettori e di entrate pubblicitarie, i grandi quotidiani americani (New York Times, Washington Post, Los Angeles Times, ecc.) continuano a perdere copie, come è stato dimostrato durante il Forum mondiale degli editori, membri della Wan (World association of newspapers), svoltosi a Cape Town in Sud Africa, nei primi giorni del giugno 2007. Anche i grandi, ormai storici, network (Abc, Cbs, Cnn, Fox, Nbc) sono in crisi di profitti e di organizzazione, aggrediti dall’avanzata dei canali via cavo e da Internet, che stanno delineando la nuova società della comunicazione. In questo rapido e crescente mutamento, resistono ancora i maggiori settimanali (Time, News Week, Economist, New Yorker) e la miriade di pubblicazioni scientifiche e tecniche, come è stato documentato nel rapporto “State of the News Media 2005” sui vari mezzi di informazione negli Usa, realizzato dal “Project for Excellence in Journalism” della Columbia University di New York. Anche in Italia sta verificandosi un analogo fenomeno, con i costi dei quotidiani che crescano il triplo del n. 2/2007 fatturato ed i ricavi pubblicitari in calo (scesi tra il 2000 ed il 2005 dal 58 al 45 per cento del totale) perché la maggior parte delle risorse è assorbita dalle televisioni e da Internet. Le vendite nel 2006, per l'esattezza, sono salite dell'1,9, superando i 5,5 milioni di copie al giorno, quasi quante si stampavano più di 60 anni fa, quando la popolazione raggiungeva appena i 40 milioni di abitanti. Nelle rilevazioni statistiche non si tiene conto né del numero delle testate, né della tiratura dei quotidiani appartenenti alla cosiddetta "free press", che- come in altri stati europei- pesca nel bacino di chi prima non comprava il giornale. Ormai, nel nostro Paese ha superato i due milioni di copie al giorno, distribuite gratuitamente in varie città. Si devono poi aggiungere oltre 20 pubblicazioni stampate in diverse lingue dagli stranieri residenti in Italia, con un totale di circa 250 mila copie l'anno. Crescono, invece i periodici, sia quelli venduti in edicola, che aumentano in copie ed in nuove testate, sia quelli che vengono diffusi per posta e ignorati dal grande pubblico, perché rivolti a particolari cate- 6 P gorie di persone. Basti pensare che nel campo dell’informazione specialistica, tecnico- scientifica, ed in quello della formazione professionale, si pubblicano 950 testate (dal settimanale al quadrimestrale) con una diffusione annuale di 350 milioni di copie, stampate da 210 editori, raggruppati, dal 1995, nell’Anes, (Associazione nazionale editoria specializzata) che – con i suoi 6800 occupati e con un fatturato che ha superato un miliardo e 224 milioni di euro nel 2006 - copre l’80 per cento del mercato pubblicitario delle riviste specializzate, pari a circa 850 milioni di euro. Le origini della comunicazione scientifica Negli Stati Uniti la divulgazione scientifica e tecnologica nasce con gli Almanacchi popolari e con i Pamphlet ispirati al periodico di Benjamin Franklin Poor Richard Almanach, edito dal 1733 al 1757, ricco di testi illustrati sugli esperimenti elettrici ed altri di fisica e di chimica, con particolare rilevanza per i risultati della ricerca applicata e della tecnica. Lo stesso Franklin fonda in Filadelfia nel 1743, la prima Associazione Scientifica degli Stati Uniti, l’ “American Philosophical Society for promoting useful knowledge”. Nella seconda parte del secolo XVIII vengono pubblicati numerosi periodici, in maggioranza basati su saggi riguardanti i principali fenomeni naturali: American Museum, American Magazine, Columbian Magazine, Pennsylvanian Magazine, ecc. Successivamente gli argomenti scientifici diventano sempre più popolari, 7 R O F E S S I O N E grazie soprattutto alla diffusione, in diversi Stati americani, di riviste che si occupano di tutte le scoperte e invenzioni: American Journal of Science, Scientific American, Popular Science Monthly, Mechanic’s Magazine. E’ in questo periodo che si pongono decisamente le basi per lo sviluppo del mondo moderno e dell’era industriale. Dopo l’invenzione della pila di Alessandro Volta (1745-1827) , in pochi decenni infatti, si definiscono principii e si costruiscono oggetti determinanti per i successivi sviluppi delle conoscenze: telegrafo, telefono, generatrici e motori elettrici, trasporto di energia a distanza, elettromagnetismo ed elettrodinamica. Il pubblico si appassiona a tutte queste invenzioni e scoperte che cambiano il modo di vivere: Louis Pasteur (1822-1895) descrive il ruolo dei batteri, che chiama “microbi”, nei processi di fermentazione e individua la causa delle malattie trasmissibili; Charles Darwin (18091882), con la teoria tuttora discussa in Europa e negli USA dell’ evoluzionismo, modifica il pensiero creazionista che riguarda il passato dell’uomo; il Mondo Occidentale esplora e colonizza gran parte del Pianeta; l’industrializzazione e l’urbanesimo sono fenomeni straordinariamente importanti che impongono mutamenti nella vita e nelle condizioni di lavoro. I dibattiti pubblici coinvolgono le masse. Tutti sperano in un mondo migliore costruito grazie ai progressi della scienza. E’ in questo periodo che anche il “sistema comunicazione scientifica” rivela tutta la sua imporn. 2/2007 DESK P R O F E S S I O N E tanza, in campo economico e sociale, tanto che si arriva, nel 1848, alla costituzione negli Stati Uniti dell’AAAS (American Association for Advancement of Science), sul modello di quella inglese, fondata nel 1831, la BAAS (British Association for Advancement of Science). La scienza fa ormai parte della vita, perchè la gente spera di poter risolvere tutti i principali problemi con le applicazioni tecnologiche, con i prodotti tecnici, come è stato sempre dimostrato dalle Esposizioni internazionali, (su un tema specifico, che durano tre mesi e si estendono su di una superfice non superiore ai 25 ettari) e dalle Esposizioni universali (su temi generali, che durano sei mesi e si svolgono in un’area senza limiti di superfice). La sede di entrambe viene scelta ogni cinque anni fra le varie città che si candidano, dal Bureau international des expositions (Bei), costituito nel 1928 e del quale fanno parte attualmente 95 Paesi. I periodici scientifici, lo sviluppo delle testate mediche, le traduzioni Per quanto riguarda l’Italia, le riviste di divulgazione scientifica cominciano ad apparire nel 1788 con un primo periodico, la Biblioteca fisica d’Europa (per far conoscere al pubblico italiano le principali memorie degli scienziati d’Oltralpe) e, nel 1792, con il Commercio scientifico d’Europa e il Regno delle Due Sicilie. Queste riviste, in poche copie, erano rivolte agli uomini di scienza e al mondo accademico. La diffusione di informazione e di aggiornamenti, su argomenti ritenuti di pubblica utilità, avvenne molti decenni dopo, DESK n. 2/2007 negli anni della Rivoluzione industriale, verso la fine del XIX secolo: dal 1880, sino all’inizio del 1900, circolavano una ventina di testate poi- con la prima guerra mondialeseguì un rallentamento delle pubblicazioni. La ripresa si ebbe durante il ventennio fascista, con la nascita di Scienza e tecnica pratica (1924), Natura (1928), Scienza e vita (1929) e Sapere (1935). In questo periodo non si parlava più e soltanto di argomenti riguardanti l’elettricità, il telefono, il telegrafo, come era avvenuto negli anni precedenti, ma l’avanzamento delle tecnologie, con prodotti e applicazioni della ricerca, interessava il vasto pubblico ed era incoraggiato dalla propaganda fascista. Nel 1934, Guglielmo Marconi, presidente del Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche), in occasione del Congresso della Sips (Società italiana per il progresso delle scienze), inviò un “Messaggio agli scienziati d’Italia” nel quale fra l’altro scriveva: “Mai come ora la ricerca scientifica è diventata necessaria per l’economia, per la vita sociale, per la difesa del Paese.” Il linguaggio per annunciare una nuova scoperta o invenzione era sempre ricco di aggettivi entusiastici: “stupefacenti risultati della ricerca”, “incredibili, prodigiose conquiste della scienza”, ecc. Nel 1937 si cominciò a pubblicare un periodico dal titolo Il giornale delle meraviglie. Poi ci fu un’altra battuta di arresto per la seconda guerra mondiale e una ripresa, intorno agli anni Cinquanta, con la nascita di numerose riviste di divulgazione scientifica: Historia Naturalis; L’illustrazione scientifica; La scienza 8 P illustrata; Natura e vita, ecc. In questo modo è stata aperta la strada a numerose iniziative editoriali, con particolare riguardo a quelle che divulgano lo sviluppo delle scienze biomediche. Solo per fare qualche esempio, ricorderemo le testate di Minerva Medica (Torino), di Esi-Stampa Medica (Milano), del Cic (Roma), trascurando tutte quelle delle numerosissime Società mediche. In anni più recenti, il settore editoriale medico scientifico ha avuto un enorme sviluppo con la pubblicazione di qualche centinaio di testate rivolte all’aggiornamento e all’informazione medica. Sono state anche realizzate le traduzioni delle più prestigiose riviste scientifiche inglesi e americane (Jama, Lancet, British medical journal, The practitioner, Medical Tribune, Geriatric ecc.) e di “Science et vie” che da oltre 85 anni riscuote un grande successo in Francia. Quasi tutte queste testate, con varia periodicità, dal bisettimanale al mensile e al trimestrale, sono inviate gratuitamente ai medici e a particolari categorie di operatori sanitari, poichè i costi sono sostenuti dalle inserzioni pubblicitarie delle società farmaceutiche (nel nostro Paese ve ne sono poco più di 300, raggruppate nella Farmindustria) e dalle società che producono apparecchiature sanitarie. Una battuta di arresto si è avuta per effetto di tangentopoli e delle incriminazioni, da parte del pool milanese dei magistrati di “mani pulite”, di numerosi industriali farmaceutici, che dal 1994 hanno chiuso i cordoni della borsa. Comunque si deve riconoscere che, per l’alto contenuto scientifico di gran 9 R O F E S S I O N E parte degli articoli e dei testi redazionali, tutte queste pubblicazioni divulgative hanno costituito una delle principali fonti di aggiornamento professionale per molte categorie di medici specialisti. Si è calcolato che le circa 400 testate mediche specialistiche, pubblicate da una ventina di editori, avevano sino al 1993 una diffusione annuale di oltre 50 milioni di copie, con la pubblicazione di 8-9 mila articoli scientifici o informativi e 13-14 mila pagine di testi redazionali o inserzioni pubblicitarie, per un valore di oltre 50 milioni di euro. Vi hanno collaborato varie migliaia fra medici, docenti, ricercatori e consulenti scientifici e sono state impiegate qualche migliaio di persone, se consideriamo anche gli addetti editoriali e pubblicitari dei periodici specializzati, venduti nelle edicole, come Salve (Rizzoli), Vitality (Rusconi), Starbene (Mondadori), ecc. Vi sono poi altre decine di pubblicazioni a carattere scientifico, specializzate in diversi campi, in minima parte vendute nelle edicole (come Airone, Geodes, Oasis), perchè raggiungono lettori interessati a settori specifici. (Circa 50 mila copie ciascuna compresi gli abbonamenti). Ma spesso accade che questi periodici, ideati come “informazione mista” meno settoriale, non riescono a diffondersi pur essendo molto eleganti, con carta patinata e bellissimi fotocolor e scompaiono rapidamente dal mercato, come è successo per Genius (Mondadori), Fortuna (Peruzzo), e Scienza 85 (Fabbri). Anche numerose riviste, di viva attualità, hanno cessato la loro pubblicazione, n. 2/2007 DESK P R O F E S S I O N E come Teknos, mensile di “scienza, salute, ambiente”, diretto da Giulio Raiola e Sebastiano Fusco e il trimestrale Ricerca e Futuro, rivista del Consiglio nazionale delle ricerche, diretta da Isabella Vannutelli e da un Comitato scientifico di altissimo livello, presieduto da Lucio Bianco. Altre sono comparse nelle edicole, per esempio, il settimanale Vivere sani e belli, dell’editore Universo, con testi e disegni molto popolari e il mensile Salute più dell’editore Edimedia. Sono anche da ricordare l’edizione italiana di Technology Review, pubblicato da Edindustria e diretto da Alessandro Ovi e Giampiero Jacobelli; Focus, diretta da Sandro Boeri (650 mila copie) e Focus Junior, diretto da Livio Colombo (200 mila copie); NEWTON oggi, nato nel gennaio 1998, con la direzione di Giorgio Rivieccio (120 mila copie). Dopo il 2001 si sono aggiunti in edicola altri mensili: La Macchina del Tempo (45 mila copie),diretto da Paolo Calvani, direttore editoriale Alessandro Cecchi Paone; National Geographic (130 mila copie) diretto da Marina Conti; Geo (280 mila copie) diretto da Fiona Diwan; Quark (75 mila copie), diretto da Paolo Magliocco e da un Comitato scientifico, coordinato da Piero Angela, del quale fanno parte Silvio Garattini, Margherita Hack, Danilo Mainardi, Alberto Oliveiro e Giuliano Toraldo di Francia. Molte testate, pur presenti in edicola, sono costrette a significative flessioni nella tiratura e puntano tutto sugli abbonati che assicurano una maggiore tranquillità, come è avvenuto dal 1968 per Le Scienze, l’edizio- DESK n. 2/2007 ne italiana di Scientific American, diretta da Enrico Bellone, succeduto a Felice Ippolito e stampata da Mondadori, assestatasi ormai su circa 60 mila fedeli lettori. (Ma vi sono periodici particolari che superano il milione di copie mensili, come per esempio “Fondamentale”, dell’Associazione italiana per la ricerca sul cancro, dell’Istituto diretto a Milano sino al 1994 da Umberto Veronesi ed attualmente da Natale Cascinelli). Le pagine scientifiche nei quotidiani e le rubriche della salute sui rotocalchi Il “fenomeno” della divulgazione scientifica nei quotidiani si è cominciato ad avvertire in Italia all’inizio degli anni ‘60, quando Il Giorno, Il Corriere della Sera, e La Stampa decisero di dedicare un’intera pagina settimanalmente alle notizie scientifiche di attualità, con particolare riguardo ai problemi della salute, alle più diffuse malattie sociali e degenerative, alla cosmesi e alle cure per il corpo, nonchè ai grandi dibattiti sulle fonti energetiche, sull’inquinamento acustico e ambientale, sui trasporti, sulla conquista dello spazio, ecc. Ricercatori, studiosi di varie discipline, scienziati e premi Nobel firmavano gli articoli e portavano la loro testimonianza di esperti e competenti, avvalorando, con la loro riconosciuta autorità accademica, l’importanza dell’argomento e interessando un numero sempre più vasto di lettori. Sull’esempio dei primi quotidiani, negli anni successivi, altri grandi giornali -Il Messaggero, Il Tempo, Il Giornale, La Repubblica, Il Mattino, La Gazzetta del Mezzogiorno, Il Giornale di Sicilia, La 10 P Gazzetta del Sud, solo per citarne alcuni (vedi elenco nel riquadro)- hanno dedicato ogni settimana un’intera pagina o più pagine, all’informazione medica e scientifica. (L’Unità addirittura 6 pagine alla settimana). Molto spesso le notizie di scienza e di medicina hanno l’onore della prima pagina, oppure occupano grandi spazi negli interni o in economia o negli esteri, oppure sono ospitate in inserti e supplementi, come Corriere Salute diretto da Riccardo Renzi che, secondo i dati della RCS Editori, fa aumentare la diffusione del Corriere della Sera di circa 40 mila copie. Altro supplemento molto seguito è il settimanale Repubblica Salute, curato da Gugliemo Pepe. I redattori che hanno il compito di seguire le sempre più frequenti notizie di carattere scientifico sono così costretti, anche se spesso hanno conseguito una laurea scientifica, a formarsi le necessarie competenze in modo autonomo, studiando e approfondendo gli argomenti, aggiornandosi continuamente e conservando in archivio (quasi sempre a casa) i documenti più importanti, le relazioni ufficiali dei congressi, i dati statistici, ecc. Questo avviene, per esempio, con i redattori e con i collaboratori esterni di Panorama e de L’Espresso che pubblicano settimanalmente servizi, inserti e dossier scientifici di approfondimento. Ma com’è l’informazione scientifica nel nostro Paese, visto che essenzialmente è basata sull’impegno professionale del divulgatore autodidatta? Per rispondere a questa domanda quattro gruppi di scienziati e specialisti di 11 R O F E S S I O N E diverse discipline (coordinati dall’astronomo Mario Rigutti), iscritti al COASSI (Comitato delle Associazioni Scientifiche Italiane) che raggruppa numerosi docenti universitari, hanno esaminato 1042 articoli apparsi nei primi 6 mesi del 1983 sui quotidiani (Corriere della Sera, La Stampa, Il Tempo, Il Giornale, Paese Sera), sui settimanali (Panorama, L’Espresso, Domenica del Corriere) e su mensili specializzati (Scienza e Vita nuova, Scienza ‘83, Scienza Digest, Scienza 2000, Nuova Scienza ). Le discipline prese in esame sono state 25, divise in Scienze naturali, fisiche, chimiche e matematiche. A parere degli esaminatori, i migliori articoli sono stati pubblicati dai quotidiani (giudicati insufficienti solo il 7%), i peggiori dai settimanali (insufficienti il 39%), mediocri quelli apparsi sui mensili (insufficienti il 29%). Pessima votazione per capacità descrittiva, esplicativa e chiarezza espositiva è stata assegnata a Panorama; al primo posto per inattendibilità dei dati si è classificata Scienza e Vita e molto carente è stata giudicata la documentazione grafica e iconografica, sia per i quotidiani, che per i periodici. A distanza di circa 24 anni dall’indagine COASSI, la situazione non è cambiata di molto. Si deve aggiungere che in quasi tutti i rotocalchi vi sono rubriche sulla salute, alcune delle quali affidate a medici specialisti che danno consigli o rispondono a domande di argomento sanitario. Ma molti giornalisti continuano ad occuparsi di divulgazione con disinvoltura e superficialità, altri si improvvisano tali con irresponsabilità e rin. 2/2007 DESK P R O F E S S I O N E mangono legati agli imperativi dell’attualità, dell’impaginazione, della messa in onda, spesso per fare spettacolo e destare meraviglia. Tuttavia - poiché la comunicazione è una tecnica che si impara - si stanno formando degli ottimi giornalisti scientifici, anche se nell’ambito della stessa redazione dove lavorano non sono bene utilizzati, perchè la loro specializzazione e specificità professionale non sono ancora adeguatamente riconosciute ed apprezzate. E questo accade anche nel mondo della radiotelevisione pubblica e privata, come vedremo di seguito. Il problema della comunicazione specialistica è largamente noto e discusso, soprattutto nell’ambito delle categorie interessate. Durante le giornate di Milano Medicina del novembre ‘94 si è svolta una Tavola Rotonda moderata da Paolo Mieli, tuttora direttore del Corriere della Sera, sui principali temi dell’informazione scientifico-sanitaria, con numerosi esperti e giornalisti, fra i quali A.Bazzi, D.Brancati, D.De Stefano, G. Faustini, E. Mentana, L.Zanetti. Alla base del dibattito, il risultato di un sondaggio su 55 mila medici (l’incontro era stato promosso dal Corriere Medico) dal quale emergeva che tre quarti degli intervistati consideravano “allarmistica e semplicistica, tendenziosa e superficiale” l’informazione medicoscientifica e sanitaria, rivolta al grande pubblico, pur ritenendola molto utile ai fini della prevenzione e di una più diffusa cultura. Si sente, dunque, la necessità di nuove regole, in un Codice di deontologia professionale, specie per porre vincoli sicuri nei confini e li- DESK n. 2/2007 miti dei due grandi settori della comunicazione: la Pubblicità e l’Informazione. Ma nello stesso tempo appare sempre più evidente l’importanza di preparare nelle Scuole di giornalismo e nelle università giornalisti specializzati anche nelle scienze e nelle tecnologie biomediche e, più in generale, nel vasto campo della divulgazione scientifica, perchè, come ha dichiarato l’astronoma Margherita Hack in “Prima Comunicazione” (Novembre 1999):”Fare divulgazione scientifica attraverso i giornali è per noi un dovere, perchè i ricercatori sono dipendenti pubblici. Ma il problema è il giornalista. Va tutto bene se ha una discreta preparazione, sennò ti fa dire delle castronerie clamorose, roba che non sta né in cielo né in terra”. Le trasmissioni scientifiche radiofoniche e televisive Tra i vari mezzi per diffondere l’informazione, la televisione è senza dubbio il più potente dei mass media. Se la radio, sin dalla fine della seconda guerra mondiale, ha fatto sentire ed apprezzare la voce degli scienziati, cominciando a riscuotere molta curiosità e vasto interesse per le scoperte e per le promesse applicative, la televisione è andata ben oltre, potendo mostrare i ricercatori al lavoro nei laboratori, accanto ad apparecchiature sempre più sofisticate, descrivendo - per esempio - la struttura del DNA o il volo simulato in un esperimento di astronautica. Appare, dunque, evidente che un programma televisivo di divulgazione scientifica può aggiornare il pubblico sull’importanza delle più recenti scoperte e sui fenomeni naturali, co- 12 P me nessun altro mezzo di comunicazione, compresa la rete Internet. Tuttavia -nonostante questa obiettiva verità- nel nostro Paese non esistono ancora organismi permanenti strutturati per gestire questo tipo di informazione nella stessa televisione pubblica e, tanto meno, in quella privata. Basti pensare che l’organigramma dei telegiornali prevede, oltre al vertice direttivo e alle strutture di supporto amministrative e tecniche, un ben preciso e distinto gruppo di redazioni operative: interni, esteri, cronaca, economia, sport, cultura e spettacolo, ambiente, diritti del cittadino. Ma non una “redazione scientifica” che, del resto, hanno soltanto pochi quotidiani e le principali agenzie di stampa (Ansa, Italia, Adn Kronos) . L’interesse per la comunicazione radiofonica scientifica si avvertì in Italia a metà degli anni ‘50 quando la radio avviò, nella popolare rubrica Classe Unica, un vasto programma per diffondere le nozioni di base “indispensabili alla cultura dell’uomo moderno”, affidando brevi trasmissioni cicliche a studiosi e a cattedratici di varie università in tre grandi settori: Letteratura e Arte; Storia, Diritto e Attualità; Scienze. In quest’ultimo campo -come si può constatare rileggendo le lezioni radiofoniche raccolte dalla casa editrice Eri Rai nei volumetti di Classe Unica - furono affrontati moltissimi temi con un linguaggio preciso e semplice: Problemi di biologia moderna e dell’eredità biologica (Giuseppe Montalenti); Corso di fisiologia (Enzo Boeri); Igiene e salute dell’uomo (Lino Businco); Imparare a nutrirsi (Gino Ber- 13 R O F E S S I O N E gami); Medicina e igiene del lavoro (Enrico Vigliani); I microbi e l’uomo (Giuseppe D’Alessandro); Fattori interni e ambientali nello sviluppo dell’organismo umano (Ugo Teodori); Pedagogia e psicologia (Carlo Traversa); Invenzioni nella storia della civiltà e Progresso della tecnica (Rinaldo De Benedetti); Il sistema planetario e La fisica atomica (Ginestra Amaldi); Astronomia e astrofisica (Giorgio Abetti); Le grandi conquiste della chimica industriale (Livio Cambi); Geofisica (Maurizio Giorgi); L’automazione (Gustavo Colonnetti); Missili e volo spaziale (Cesare Cremona); e decine di altri argomenti scientifici e tecnologici. Molto seguiti sono stati alla RAI i programmi radiofonici di scienza e medicina , come quello pomeridiano di Luciano Ragno, quello serale di Luciano Sterpellone ed altri analoghi. Si deve poi aggiungere l’attività quotidiana di informazione medica nella RAI, svolta da redattori scientifici ben noti, come, solo per fare due esempi, Emanuela Medi e Vito Pindozzi. I programmi divulgativi di scienza nella televisione iniziarono, sin dalle sue prime trasmissioni, nel novembre 1954, con alcune rubriche di pochi minuti che si proponevano di diffondere nozioni “in pillole”, come avveniva con la Piccola Enciclopedia Scientifica, l’Enciclopedia di Lascia o Raddoppia (Mike Bongiorno), Una risposta per voi (Alessandro Cutolo). Più impegnative e rigorose erano, invece, le prime trasmissioni organiche sui fenomeni fisici e chimici, soprattutto con finalità didattiche, del giornalista Bruno Ghibaudi e di Enrico Medi, direttore dell’Istituto nazionale di n. 2/2007 DESK P R O F E S S I O N E Geofisica, nella rubrica Avventure della Scienza; quelle di medicina, fisiologia e biologia, nella rubrica La Macchina per vivere, curata da Annamaria Di Giorgio, dell’Università di Torino; quelle di Giorgio Abetti e Aurelio Robotti (Viaggi nel Tempo e nello Spazio, Quarta Dimensione). All’inizio degli anni ‘60, i programmi vennero ampliati e sviluppati anche su argomenti monotematici: Italia nucleare, Atomo pratico, Finestra sull’universo, Alle soglie della scienza, a cura di Giordano Repossi; Storia della bomba atomica (Virgilio Sabel); Conoscere la natura (A.Ancillotto e F. Armati); Almanacco di storia, scienze e varia umanità (G.Lisi e G.Salvi); Verso il futuro (E.Sanna e A.Barbato). Nel gennaio 1966, Giulio Macchi comincia la sua impegnativa rubrica - Orizzonti della scienza e della tecnica che avrà sette cicli, sino al 1973, molto seguiti ed apprezzati, sempre con l’obiettivo di divulgare, istruire, informare, intrattenere un vasto pubblico, mentre le rubriche L’altra medicina e Medicina oggi, affidate a vari specialisti, collocate in tarda serata, erano corsi di aggiornamento per medici o altri esperti; Boomerang di L. Pedrazzi e Planetario di Gian Luigi Poli, rientravano nei programmi televisivi di attualità culturale, di circa un’ora l’uno, con tre-quattro milioni di spettatori per puntata. Nel 1969 scende in campo Piero Angela, con Il futuro nello spazio, Destinazione uomo, Scienza e sviluppo tecnologico, Quark: un successo progressivo e strepitoso che, nel 1981 - con I Viaggi dall’universo al cervello umano, (sedici puntate) - colloca la scienza tra i programmi di maggiore ascol- DESK n. 2/2007 to, sino a sette, otto milioni di telespettatori. Questo successo è stato confermato, dieci anni dopo, con Quark speciale, Il mondo di Quark, Viaggio all’interno del corpo umano e Super Quark (insieme con il figlio Alberto, geologo) seguitissimi in prima serata (tutti i cicli televisivi di Piero Angela sono sempre accolti con grande entusiasmo ed interesse dal pubblico e dalla critica, come del resto i suoi trenta volumi di divulgazione , che hanno superato due milioni di copie). Altre rubriche scientifiche di grande risonanza sono state quelle del documentarista Folco Quilici, dell’etologo Danilo Mainardi e quelle, ovviamente, riguardanti i problemi della salute, prima fra tutte Checkup, ideata da Biagio Agnes, curata da Maria Conti e condotta per molti anni da Luciano Lombardi e da Annalisa Manduca. Alla fine del 1997 Check -up della Rai era giunta alla ventesima edizione con circa 600 puntate, spesso con il 90% di indice di gradimento. Ha segnato una tappa importante e significativa, nel campo dell’informazione medica, perchè ha instaurato un utile colloquio settimanale del pubblico presente in studio con i più autorevoli esperti, italiani e spesso stranieri, nel vasto campo delle scienze e delle tecnologie biomediche. Le notizie dal mondo della medicina sono sempre molto seguite e questo lo si deve anche all’attività divulgativa iniziata da pochi giornalisti dedicatisi a questo settore (come Giorgio Conte e Marcello Morace) che, seguendo i grandi Congressi medici ed intervistando gli 14 P esperti, hanno cominciato, con i loro servizi di cronaca, a diffondere negli “interni”, cioè nei telegiornali - le novità e le più recenti acquisizioni mediche. Poi sono seguite le rubriche fisse settimanali di divulgazione scientifica e medica come Albedo di Giuseppe Breveglieri sulla Rete 1; Medicina Trentatre di Luciano Onder sulla Rete 2; Elisir di Michele Mirabella; Geo & Geo di Licia Colo’ su Rai 3; La macchina del Tempo di Alessandro Cecchi Paone su Rete quattro; Big Bang di Jas Gawronski su Canale 5; Sfera di Andrea Monti su La7 e la rubrica quotidiana di medicina Vivere meglio, curata da Fabrizio Trecca prima su Canale 5 e poi sulla Rete 4. Sono almeno una ventina i programmi medico-scientifici trasmessi dalle reti televisive pubbliche e private, tutti con notevole indice di ascolto. C’e da osservare che molte piccole televisioni locali, negli ultimi tempi, sono state acquistate da proprietari di case di cura o di istituti di bellezza, in quasi tutte le regioni d’Italia, per propagandare in maniera indiretta e spesso scorretta, l’ efficacia terapeutica di apparecchi, sostanze, prodotti e metodiche, inducendo nel pubblico comportamenti pregiudizievoli ed erronei convincimenti su mirabolanti risultati. Appare sempre più evidente che la divulgazione scientifica radiofonica e televisiva è quanto mai utile per il progresso culturale e civile della gente, perchè può sopperire alle grandi lacune del sistema educativo tradizionale, troppo lento e superato, per il fatto che la scuola d’obbligo e gli stessi corsi universitari non 15 R O F E S S I O N E possono tenere il passo delle grandi scoperte scientifiche. Per colmare questa carenza, largamente sentita, sono ora interessati grandi editori Mondadori, Rizzoli, Fabbri, la stessa ERI della RAI, ed altri- che, sull’esempio del National Geographic e della WWF, hanno cominciato a preparare le prime collane divulgative in videocassette o in CD. Un vasto programma editoriale per una piccola enciclopedia delle scienze in VHS, che merita di essere ricordato, è quello avviato, alla fine del 1989, dall’Istituto Luce (direttore Antonio Manca), e dal Cattid- Centro per le applicazione della televisione e delle tecniche di istruzione a distanza- (direttrice Maria Amata Garito), nell’ambito dell’Università La Sapienza di Roma. Si è voluto raccogliere, in cassette, l’essenza delle discipline scientifiche, la risposta tecnologica ai bisogni dell’uomo (energia, ambiente, telecomunicazioni) ed il futuribile in alcuni campi strategici (biotecnologie, nuovi materiali, telematica). Le prime videocassette, ad esempio, sono state curate da Antonio Ruberti (robotica), Francesco Melchiorri (astrofisica), Giorgio Tecce (biologia), Ugo Montanari (informatica) e Francesco Carassa (telecomunicazioni). Altre iniziative in questo settore sono prese da vari editori con la diffusione di CD Rom, come per esempio è stato fatto da La Stampa che ha raccolto nel CD Tutto scienze ‘92-’96, a cura di Pietro Bianucci, i testi degli articoli pubblicati nel quinquennio e poi negli anni successivi. Tutto questo determina, chiaramente, l’esigenza di disporre, da n. 2/2007 DESK P R O F E S S I O N E una parte, di un sempre maggior numero di giornalisti specializzati e di tecnici qualificati che possano lavorare insieme con docenti universitari, ricercatori e scienziati; e, dall’altra, di avere una serie di norme deontologiche ben precise, per poter garantire un’informazione seria, corretta, affidabile e una “televisione di qualità”, come si augurano in molti (Arrigo Levi, La Stampa 15.06.2006). Riguardo alla specializzazione dei giornalisti, c’è da osservare che la preparazione e la qualificazione sono un serio problema, soprattutto per mancanza di tradizione e di scuole (vedere, in proposito, il libro di Marcella Cardini Le scuole di giornalismo e la Guida al giornalismo scientifico di Gino Papuli). Corsi di giornalismo scientifico e medico, per 15 - 20 laureati in materie scientifiche, sono stati istituiti, alla fine degli anni ‘80, in varie Università: Trieste, Milano, Tor Vergata di Roma e nell’Istituto Negri di Chieti. Tale esigenza è fortemente sentita in vari Paesi come, per esempio, in Francia, dove i tassi di audience dei programmi scientifici sono generalmente troppo bassi rispetto agli investimenti necessari alla loro produzione, e questo li relega in spazi limitati, anche se ciò non corrisponde alla funzione stessa di servizio pubblico che deve soddisfare tutti i telespettatori. L’argomento è allo studio, da molti anni, nell’ambito del CNCA (Conseil National de la Comunication Audiovisuelle) che, sin dal marzo 1986, ha stabilito, in uno specifico documento (Avis N.16) norme precise, riguardo alla qualità dei pro- DESK n. 2/2007 grammi scientifici, tecnici e medici in televisione. Ha raccomandato, altresì, una serie di iniziative per offrire al pubblico regolari trasmissioni tendenti a formare una cultura scientifica popolare, obiettivo questo che rientra in un ambito più vasto di decisioni del governo francese, fra le quali la recente realizzazione della Mostra scientifica permanente nella Citè de la science, La Villette di Parigi, unica in Europa per la ricchezza e l’originalità delle opere raccolte. Su questo esempio una Città della Scienza, è stata inaugurata a Napoli, nell’area industriale di Bagnoli, nel novembre 2001, sulla base di un ambizioso progetto del fisico Vittorio Silvestrini, tendente a realizzare la diffusione della cultura scientifica, la formazione permanente degli insegnanti, l’orientamento professionale dei giovani e uno stimolo costante per la creazione di nuova imprenditorialità, come del resto avviene nel Museo della Scienza di Londra e all’Exploratorium di San Francisco. Un altro grande progetto per la realizzazione a Torino di un Centro per la divulgazione della Scienza è stato varato nel giugno 2001 articolato su 3 filoni principali: l’informatica e le telecomunicazioni, la nuova biologia e le biotecnologie, la meccanica e lo spazio. Sono seguite poi le Mostre della scienza di Genova, di Roma e, annualmente, a livello nazionale, la “Settimana della scienza”, promosse e sostenute dal Ministero dell’università e della ricerca . Ugo Apollonio 16 S T O R I A E C U L T U R A ? L’UNIVERSITÀ PREPARA I COMUNICATORI UNA INDAGINE RIVELA: TROPPI INTERESSI E SQUILIBRI A DANNO DELLA QUALITÀ SABRINA SPERANZA Con il progetto di ricerca Le professioni della comunicazione in Italia e in Europa si è compiuta una ricognizione analitica e diffusa sui momenti essenziali che scandiscono i percorsi curriculari dei comunicatori relativamente alla formazione, nonché all’accesso e all’esercizio della professione, mirando a fare emergere problematiche e criticità. La ricerca offre una radiografia aggiornata della situazione universitaria e professionale italiana e di alcune significative esperienze europee, ponendo le premesse per un dibattito aperto tra accademici e professionisti, dirigenti pubblici e privati, leader e aggregazioni sociali, aziende e istituzioni, cittadinanza attiva. Il progetto e la direzione della ricerca sono di Massimo Baldini e Paolo Scandaletti. I ricercatori appartengono alle università Luiss Guido Carli, Lumsa e “La Sapienza” di Roma, “Suor Orsola Benincasa” di Napoli e “Gabriele d’Annunzio” di Chieti-Pescara. Dal primo volume anticipiamo parte del saggio critico di Sabrina Speranza. I Università: un cantiere aperto dal 1997 l cantiere apre alla riforma con la legge 15 maggio 1997, n. 127 (Autonomia didattica e innovazione dei corsi di studio di livello universitario e post universitario); l’università si dà, cioè, un criterio organizzativo con cui poter consentire e gestire un cambiamento che ha come obiettivo principale il miglioramento qualitativo dell’istruzione universitaria e delle condizioni complessive di funzionamento dell’università italiana. L’avvio del processo di miglioramento è segnato dalla Nota di indirizzo sull’autonomia didattica (o avviso preventivo di interpretazione) inviata il 16 giugno 1998 dal ministro Luigi Ber- 17 linguer a tutti gli atenei per riportare sinteticamente gli obiettivi della riforma e per indicare le innovazioni implicate immediatamente percorribili. L’introduzione dell’autonomia didattica negli atenei, intesa come autogoverno, responsabilizzazione, apertura alla domanda di formazione e di innovazione dei contesti sociali e produttivi, ha determinato la rivisitazione del ciclo di formazione universitaria (I e II livello), la riarticolazione dell’offerta formativa sulla base della possibilità di progettare, autonomamente, corsi di studio con specifici ordinamenti didattici (denominazioni, attività e obiettivi formativi, crediti, modalità della prova finale per conseguimento n. 2/2007 Sabrina Speranza, è docente di Teorie e tecniche della comunicazione pubblica all’Università di Chieti-Pescara e docente di Comunicazione moda all’Università di Urbino. DESK S T O R I A E C U del titolo). In particolare, «per rafforzare la sintonia tra formazione acquisita all’università e aspettative del mondo del lavoro, per costruire uno spazio europeo dell’istruzione superiore finalizzato alla mobilità internazionale degli studenti, la libera circolazione dei professionisti e per favorire il riconoscimento internazionale dei titoli di studio», la riforma universitaria si è prefissata di ridefinire la struttura del sistema formativo e dei titoli accademici, suddividendola in livelli (o gradi) di approfondimento teorico-culturale e di specializzazione professionale. Con il decreto MURST n. 509 del 3 novembre 1999, concernente la nuova architettura del sistema degli ordinamenti didattici, prende corpo l’autonomia degli atenei, e si inizia a progettare ed organizzare corsi di studio meno vincolati dalle tabelle ministeriali. La nuova offerta formativa si caratterizza per l’articolazione dei corsi secondo il modello del 3+2 (3 anni di laurea di I livello o triennale + 2 anni di laurea di II livello o specialistica). Le università rilasciano, quindi, titoli di primo livello (tre anni (L), orientata all’acquisizione di metodi e contenuti scientifici generali e di specifiche conoscenze professionali); di secondo livello, o specialistica, (due anni (LS), per una formazione più avanzata e per l’esercizio di attività di elevata qualificazione in ambiti specifici). Le università cominciano a ragionare, più che in passato, come aziende: moltiplicano l’offerta, organizzano il prodotto, adottano DESK n. 2/2007 L T U R A politiche di localizzazione dell’offerta e politiche di naming per aumentare l’attrattività dei corsi, investono in pubblicità. Giornate dell’orientamento, stand informativi, nuove guide dello studente, opuscoli e brochure illustrano percorsi e facoltà per aiutare concretamente i futuri studenti nella scelta del percorso universitario. E nel 2001/2002, con l’attuazione della riordino dei percorsi formativi, inizia la fase di inedita espansione. Aumenta considerevolmente l’impegno finanziario rivolto al sistema universitario (es. la spesa pubblica, che copre l’università per il 70%, ammontava a 8.500 milioni di euro nel 1994 e quasi 15.000 milioni di euro nel 2003); diventa più significativo è l’intervento delle università in aiuto agli studenti (47% rispetto al 4,2% erogato precedentemente dagli enti per il diritto allo studio); Il 41,4% dei progetti di ricerca presentati, soprattutto progetti di rilevante interesse nazionale (PRIN) sono finanziati. Cresce, a partire dal 1999/2000, il numero dei docenti di ruolo in quanto la legge n. 210/1998, introducendo il cambiamento delle modalità di accesso ai ruoli della docenza universitaria e concedendo agli atenei l’autonomia nel bandire i concorsi, ha permesso di ridurne i tempi di espletamento (la finanziaria del 2003 ha però bloccato le assunzioni); cresce il numero dei docenti a contratto (rappresentano il 33% delle 83.000 unità che compongono complessivamente il personale docente). Aumentano il numero e la diversi- 18 S T O R ficazione dei corsi (quasi un corso su 5 è di nuova istituzione, 5.131 corsi nel 2003/2004, quasi 5.400 nel 2005/2006); cresce il numero delle facoltà, da 510 a 548. Aumentano le sedi universitarie, negli ultimi 2 anni sono nate 13 università (9 università telematiche, 4 università tradizionali non statali); si diffondono le sedi universitarie decentrate (i comuni in cui sono presenti sedi didattiche erano già 237 nel 2003, sono attualmente 253). I giovani studenti, e la novità dei meno giovani, manifestano, anche rispetto agli altri paesi europei, una notevole propensione agli studi accademici (es. nel 2003/2004, su 340.000 iscritti, il 55% ha 19 anni, il 21% ha compiuto 21 anni e il 10% è ultraventunenne, quota quest’ultima che è stata via via in particolare aumento); più matura e consapevole sembra la scelta degli studenti i quali affrontano, attraverso test di selezione in ingresso (anche non obbligatori ma di solo orientamento), la valutazione delle proprie capacità e competenze prima di iscriversi ad un corso di laurea (negli ultimi 2 anni, su 250-300.000 matricole, il 55/60% ha avuto a che fare con un test per l’ammissione); diminuisce quindi la quota di coloro che abbandonano gli studi e degli studenti fuori corso mentre cresce il numero dei laureati (175.000 nel 2001, 234.000 nel 2003). Il settore della formazione post lauream riscuote molto successo in tutte le sue componenti: a 3 anni dall’attuazione della riforma si contano 149.000 iscritti (in 23.309 hanno scelto un master nel 19 I A E C U L T U R A 2003/04, in 26.207 nel 2004/05). Nel frattempo, il decreto MIUR n. 270/2004 (pubblicato nella GU n. 266, 12 novembre) modifica notevolmente, e sostituisce (art. 13, comma 1), il DM n. 509/1999. Nuove versioni e riformulazioni di articoli, eliminazioni ed integrazioni di commi presentano nel complesso significative differenze che incidono soprattutto sul potere di iniziativa delle università in merito a modifiche e attivazioni di classi e corsi di studio (art. 4 e art. 9) e che sottolineano la centralità di ministro, nucleo di valutazione, CUN (Consiglio universitario nazionale) e CRUI (Conferenza dei rettori delle università italiane). Dalla generale tendenza del DM n. 270 a ridimensionare propositi e autonomie delle università emergono alcune novità riguardanti per esempio la laurea di secondo livello. Le novità da considerare sono: - la sostituzione della laurea specialistica (LS) con la laurea magistrale (LM), quindi tutte le volte che nel DM n. 509 si faceva riferimento alla laurea specialistica, automaticamente nel DM n. 270 ci si riferisce alla laurea magistrale; - la versione totalmente nuova del comma 5 (art. 3, Titoli e corsi di studio) riferita più esplicitamente alle conoscenze professionali, all’inserimento nel mondo del lavoro e all’osservanza delle disposizioni di legge e dell’UE; - l’integrazione del comma 2 (art. 6, Requisiti di ammissione ai corsi di studio) con una parte finale che evidenzia la possibilità, per le università, di stabilire i criteri di accesso, i requisiti curriculari e di consentire n. 2/2007 DESK S T O R I A E C U l’iscrizione anche ad anno accademico iniziato, purchè in tempo utile per la partecipazione ai corsi nel rispetto delle norme fissate nei rispettivi regolamenti; - una maggiore individuazione della laurea magistrale come percorso formativo specifico di 120 crediti, non più presentato come un tratto dei 300 crediti complessivi di cui si parlava nel DM n. 509 (comma 2, art. 7, Conseguimento dei titoli di studio); - la chiarificazione delle qualifiche accademiche che competono ad ogni livello formativo, e cioè la qualifica di dottore per la laurea di primo livello, di dottore magistrale per la laurea di secondo livello (specialistica o magistrale) e di dottore di ricerca per il dottorato di ricerca. Differenze più o meno significative a parte, il sistema del cosiddetto “3+2” è sostanzialmente confermato e ci si può riferire ancora all’attuale assetto dell’offerta formativa specialistica. C’è stato un momento in cui si è temuto il cambiamento per tutto un settore dell’offerta formativa ormai in corso. Non si capiva bene, per esempio, se si poteva parlare ancora di lauree specialistiche o in che termini farlo delle lauree magistrali (LM). In sostanza, il DM n. 270 ha stabilito solo una diversa denominazione: la laurea di secondo livello, precedentemente nota come specialistica, è ridenominata laurea magistrale. DESK Le storture Da quanto si è letto per tutto lo scorso anno, sui quotidiani e negli n. 2/2007 L T U R A approfondimenti settimanali, l’università versa in uno stato di crisi permanente, in quanto non sembra costituire, per il governo del paese, una delle grandi e decisive questioni nazionali per la costruzione del futuro. Sembra vivere solo il dramma del cambiamento, il caos. In una lettera firmata a Eugenio Scalfari, l’università è così raccontata: «vivo da anni una condizione da docente universitario precario, fatta di corsi e moduli assegnati all’ultimo momento, assenza cronica di fondi e programmazione, affollamento di aule e di corsi, strumenti didattici inesistenti o antiquati, studenti eroici nel loro tentativo di sopravvivere in un mondo impazzito che reagisce offrendo una moltitudine sempre più caotica di corsi di laurea fantasiosi e master dai nomi altisonanti». È vera, intanto, la moltiplicazione scriteriata di atenei. In 2 anni ne sono nati 13: - 9 telematici (“Guglielmo Marconi”, Tel.M.A., Uninettuno, “Leonardo da Vinci”, “Italian University Line”, “Universitas Mercatorum”, UNISU, “Giustino Fortunato”, “E-Campus”); - 4 non statali (Università degli Studi di Scienze gastronomiche di Pollenzo, Università “Francesco Ranieri” di Villa San Giovanni, Università Kore di Enna, Università Europea di Roma). Il boom demografico delle sedi universitarie caratterizza, in realtà, gli ultimi 10 anni. Nascono, infatti, nel 1996 la Libera Università “Vita Salute San Raffaele” di Milano; nel 20 S T O R 1998 l’Università degli Studi “Insubria” di Varese-Como, l’Università “Magna Graecia” di Catanzaro, l’Istituto di Scienze Motorie di Roma, l’Università degli Studi di Foggia; nel 2000 l’Università della Valle d’Aosta, la LUM “Jean Monnet”. Attualmente il sistema dell’istruzione superiore italiano conta 93 unità: statali (56 atenei, 2 atenei per stranieri, 3 politecnici, 3 scuole superiori); non statali (18 atenei, 9 atenei telematici, 2 consorzi interuniversitari). La moltiplicazione risulta scriteriata perché alcune sono nate per accontentare qualche politico, perché stava per partire una Università delle scienze umane (UNISU) collegata all’istituto per la preparazione agli esami Universitalia, perché spesso sono università generaliste che non aggiungono niente all’offerta già esistente, perché molti web atenei non hanno ancora un sito Internet. Fra lauree e diplomi di vecchio ordinamento, lauree triennali, lauree specialistiche e a ciclo unico, si contano in tutto 5.396 corsi, 3.000 dei quali sono di nuova istituzione, prodotto di un aumento del 35% dell’offerta formativa in 6 anni di applicazione della riforma 3+2 degli ordinamenti (nel vecchio ordinamento i corsi erano 2.500). Le lauree triennali, 182 nel 2000/01, sono diventate: 2.799 nel 2001/02; 2.812 nel 2003/04; 2.773 nel 2005/06; 2.785 nel 2006/07. Le lauree specialistiche, 533 nel 2001/2002, sono diventate: 1.427 nel 2003/04; 2.082 nel 2004/05; 21 I A E C U L T U R A 2.231 nel 2005/06; 2.361 nel 2006/07. Il 54% dei laureati di primo livello e il 90% dei laureati regolari in età canonica proseguono la formazione universitaria: 1.796.270 studenti (in corso e fuori corso) nelle università statali, 110.312 studenti nelle università non statali. E alcuni sono solitari frequentatori di mini-facoltà: su quasi 5.400 corsi, 323 non arrivano a 15 iscritti, 37 quelli con un solo iscritto, e pesano comunque sulla distribuzione dei finanziamenti. Una dinamica che presenta alcuni vizi: il 10% dei corsi triennali, a ciclo unico (ad esclusione di quelli a numero chiuso) si sovrappone alla specializzazione prevista dalle lauree magistrali, sono cioè corsi di nicchia (es. Tecniche del territorio, Conservazione e valorizzazione delle biodiversità) che lo scorso anno, infatti, non hanno superato i 20 iscritti; si varano corsi con stessi insegnamenti in sedi vicine per concorrenza territoriale; si varano corsi che non intrecciano la domanda di formazione e hanno pochi contatti con le richieste del mondo del lavoro. La proliferazione dei corsi non è solo il prodotto di una concorrenza territoriale spietata, di un’ipertrofia accademica che complica la scelta alle matricole, è anche passione per la specializzazione. Si trovano corsi dai titoli più disparati: impegnativi (Promozione della lingua e della cultura italiana nel mondo), evocativi (Gestione del verde), ultramoderni (Tecnologie del packaging), arcaizzanti (Tecnologie del legno), criptici (Divulgatore ambientale), iperspen. 2/2007 DESK S T O R I A E C U cialistici (Scienze vivaistiche) e poetici (Scienze del fiore). Con la moltiplicazione dei corsi di studio e l’avvento delle lauree triennali, anche le segreterie studenti incorrono in gravissimi affanni. Troppi corsi e lauree ingolfano le procedure. La segreteria della facoltà di Lettere dell’università di Firenze per esempio, nell’impossibilità di certificare gli esami e alle prese con l’emergenza della sessione estiva di laurea 2005/2006, ha dovuto chiedere agli studenti una dichiarazione sostitutiva di certificazione e/o di atto di notorietà, ai sensi del DPR 28 dicembre 2000, n. 445. In definitiva, libretti fai-da-te per risolvere il caos, in attesa dell’arrivo di risorse umane e tecnologiche adeguate. Latifondi e giardini della formazione, disseminazioni, profusioni e affanni a parte, l’aspetto più discutibile delle applicazioni della riforma è la preparazione degli studenti. L’esplosione del numero dei docenti e degli atenei ha fatalmente abbassato il livello medio degli insegnanti. Come si chiedono Rizzo e Stella, «valeva la pena di incoraggiare la moltiplicazione di pani, pesci e cattedre […] visto che come nel calcio e nella lirica non ci sono abbastanza Totti e abbastanza Pavarotti per tutti gli stadi e tutti i teatri e occorre dunque ricorrere sempre più spesso a brocchi e ronzini?». E anche quando stadi e teatri accademici hanno cercato fuori - nelle docenze a contratto di professionisti di qualità - i Totti e i Pavarotti che non aveva, non li ha sempre riconosciuti. L’università- DESK n. 2/2007 L T U R A azienda non si è mai posta il problema di dover considerare il mercato e di organizzarsi adeguatamente per poterseli permettere: per un seminario professionalizzante prevede circa 150 euro di rimborso spese; per un docente professionista a contratto per un insegnamento da 4 crediti (32 ore di lezione in un semestre, un anno di impegno per esami ed eventuali tesi) prevede 2.000 euro lordi. E così finisce per ricorrere a brocchi e ronzini di emergenza: presa dal problema della trasformazione dei propri feudi in clan e leader, dalla moltiplicazione dei re da corteggiare (aziende, fondazioni, regioni), dall’assegnazione di decine e decine di poltrone per cooptazione concertata in tutto il paese, non si accorge della delusione, e dell’esodo, dei docenti professionali di qualità. La conseguente riduzione della qualità della preparazione degli studenti sembra essere un effetto “atteso” del cambiamento del sistema, e quindi non proprio allarmante. «È evidente - spiegava inoltre qualche tempo fa il rettore del Politecnico di Milano, Giulio Ballio - che il laureato con il corso triennale avrà una qualità e una preparazione inferiori a quella di chi ha ottenuto il diploma universitario con corsi di quattro o cinque anni. Ma il percorso formativo del 3+2 abbasserà anche la qualità del laureato al termine del secondo ciclo e quindi la qualità globale del percorso formativo. Per non parlare di flessibilità e ibridazioni: […] un bravo laureato in geologia potrà iscriversi alla laurea magistrale di 22 S T O R ingegneria ambientale. Ma sarà un bravo ingegnere?». Infatti, la maggiore individuazione della laurea specialistica come ciclo indipendente dalla triennale (DM n. 270/2004) da una parte consente importanti flessibilità (il sistema aziendale apprezza la trasversalità di competenze e metodologie) dall’altra permette ibridazioni di percorso (gli ordini professionali apprezzerebbero invece la continuità dei percorsi) che possono richiedere ulteriori integrazioni. E per questo ci sono i master universitari (2.054 le proposte per il 2006/2007, con un aumento rispetto allo scorso anno del 24,3%) e non universitari, statali e non statali, di centri di istruzione superiore privati. Sono tanti - oltre 900 quelli presentati dal Career Book di Repubblica in collaborazione con Censis e Somedia - da non poter essere quantificati con precisione. L’a.a. 2004/2005 ha contato 13.615 iscritti a master universitari di primo livello e 12.592 iscritti a master universitari di secondo livello. Le lauree rischiano però di essere solo punti di partenza. Ed è ciò cui fanno pensare i master universitari di secondo livello: ancora, dopo la laurea specialistica? Ancora integrazioni per quei lavori in cerca di una laurea che non c’è o, spesso, solo di un diploma perché le imprese non possono proporre contratti adeguati a titoli superiori. Secondo i dati di Unioncamere, il 38,8% delle motivazioni delle difficoltà di reperimento delle risorse e delle assunzioni da parte delle imprese ri- 23 I A E C U L T U R A guarda la mancanza di qualifiche formative richieste e il 36,4% riguarda il tipo di profilo professionale raro. Ciò segnala che la moltiplicazione dell’offerta formativa solo in apparenza ha fronteggiato in modo adeguato le esigenze evolutive del mercato del lavoro e delle professioni. Il punto è che si istituiscono master per l’aggiornamento di formula e di contenuti, ma anche per l’introito economico che sono in grado di muovere (iscrizioni, finanziamenti dell’UE, di enti pubblici o privati, di aziende del settore di riferimento). Qualità, livelli di preparazione, miglioramento delle funzioni sono ancora gli obiettivi principali sulle carte della riforma. Gli studenti potrebbero essere preparati meglio anche dall’attuale sistema se si evitasse, fra le altre storture, la quotidiana divaricazione dei docenti fra le attività più disparate, parallele e contemporanee, di corsi triennali e specialistici, master e numero di studenti ingestibile dal punto di vista della cura che si deve avere per la loro formazione. L’inchiesta promossa dal settore education di Confindustria e sottoscritto da 16 associazioni imprenditoriali nell’ambito del piano d’azione per l’università, ha sottolineato fra gli indicatori che spiegano l’eccellenza e l’efficienza delle università (meritocrazia nella scelta dei docenti e degli studenti, borse di studio, internazionalizzazione degli iscritti, concentrazione dei finanziamenti sulle più avanzate nella didattica e nella ricerca, incentivi per gli inven. 2/2007 DESK S T O R I A E C U stimenti privati) il rapporto docenti-studenti. Ogni docente universitario italiano ha in media 24 studenti (Princeton uno ogni cinque), per non parlare degli squilibri fra facoltà (Agraria dell’università di Bari 3,3 studenti per docente, Psicologia dell’università di Napoli 130 studenti per docente). Del resto la Nota di indirizzo del 1998 aveva confidato nella piena e maggiore flessibilità dell’utilizzazione dei docenti (per qualsiasi numero di studenti e senza legarsi troppo alla materia di insegnamento) per il raggiungimento degli indicati obiettivi. Forse questo è uno dei pochi aspetti della riforma del quale non si può lamentare la mancata corrispondenza fra principio e applicazione. Sarà anche per questo che l’università, esausta, perde posti nelle classifiche internazionali: la prima università italiana è al 125° posto della classifica del Times Higher Education Supplement ed al 97° della graduatoria elaborata dall’università di Jao Tong di Shangai. Anche per quello che non le è destinato: solo l’1% del PIL è destinato all’istruzione superiore (negli Usa il 2,6%); lo 0,2% del PIL è investito dai privati (negli Usa l’1,4%). E tutto è lentamente mobile: l’81% degli studenti sceglie la facoltà più per la vicinanza al paese natale che per la qualità dell’insegnamento. Sarà anche per le logiche di reclutamento. Il ministro Fabio Mussi ha recentemente definito i concorsi universitari una Torre di Babele. Concorsi nazionali con commissari eletti, con commissari eletti e sorteggiati, con commissari eletti su una lista di DESK n. 2/2007 L T U R A sorteggiati, concorsi locali con un idoneo, con due idonei e italiche raccomandazioni rendono tutto più complicato. Infine, il finanziamento competitivo previsto dall’ex ministro Moratti (cioè togliere delle quote dal finanziamento ordinario per destinarle, come premio, ad atenei più meritevoli) ha messo a rischio la sopravvivenza di quelli risultati come “meno meritevoli” secondo la valutazione di organismi (Comitato nazionale di valutazione del sistema universitario e Comitato di indirizzo per la valutazione e la ricerca), non sempre liberi dalle pressioni del ministero e del mondo accademico). Il criterio del finanziamento premiale non ha garantito la sopravvivenza dell’esistente (mortificando anche le migliori volontà a farcela nonostante tutto), ma non ha neanche premiato molto, visto che la quota meritocratica del finanziamento ordinario non è mai stata più del 2-3%. La tempesta di riforme non si è mai tradotta in aumento delle risorse. Le risorse sono state costanti o decrescenti. Secondo Carlo Rizzuto, fino al 2003 membro del Comitato italiano per la valutazione della ricerca, alla ricerca pubblica (universitaria e non) manca un ulteriore strumento di discussione e di crescita. La tempesta riformatrice ha sciolto i Comitati nazionali per la ricerca universitaria, che negli anni Ottanta assicuravano un forma di autogoverno efficace della ricerca, più autonoma quindi, meno burocratizzata e più in grado di coordinare CNR, università e ministero e di superare, 24 S T O R nel rispettare e risolvere gli impegni, le difficoltà logistiche ed organizzative legate ad una singola università. Sciolti i Comitati, prosegue Rizzuto, «l’unico modo di coordinamento efficace rimasto è quello implementato dai raggruppamenti disciplinari per i concorsi universitari, ma con un core business molto diverso da quello di assicurare la competitività internazionale, più mirato alla cooptazione dei più fedeli». Il cantiere in fase di contromisure «Le storture ci sono e sono innegabili - lo ha detto chiaramente il sottosegretario all’università Luciano Modica - ma ci sono anche gli strumenti per contenerle. Una contromisura è che i dati più sono pubblici e accessibili, più si sviluppa il dibattito, anche sui giornali, sulle caratteristiche dei corsi». Una contromisura significativa è stata attivata dalla stessa università nel 2003/2004. Nel cantiere aperto della riforma, dopo incertezze e particolarismi, ha introdotto l’obbligo di rispettare i requisiti minimi per disincentivare, contenere e razionalizzare le iniziative. Pungolata dai disincentivi economici, l’università valuta i corsi in base a quanto sono in grado di sostenere la numerosità degli iscritti, i docenti destinabili e le strutture (biblioteche, aule informatiche). I requisiti minimi concorrono anche a determinare una quota dei finanziamenti universitari che, dall’anno scorso, non sono più derogabili (se non dalle università non statali e da quelle nuove). «Si tratta di un indicatore 25 I A E C U L T U R A di qualità estremamente interessante ma finora poco pubblicizzato», ha precisato il sottosegretario. «Occorre spulciare fra gli allegati dei decreti con cui il ministero assegna i fondi agli atenei. L’ultimo decreto reso disponibile su Internet è quello del 2004, e mostra che solo 15 atenei avevano rispettato i requisiti minimi in tutti i loro corsi. Negli altri casi la percentuale si abbassa fino a scendere sotto il 60%». Proprio perché il Comitato nazionale di valutazione del sistema universitario e del Comitato di indirizzo per la valutazione e la ricerca non sono sempre liberi dalle pressioni del ministero e del mondo accademico, il ministro Mussi si è proposto di istituire un’agenzia di valutazione indipendente che, come soggetto terzo, si assuma interamente la responsabilità della valutazione e di separare drasticamente il Fondo ordinario, che garantisce l’esistente, dalle quote destinate alla qualità. Le procedure di riconoscimento di nuovi atenei, soprattutto di quelli multimediali, sono ferme da maggio 2006 anche per imposizione al ministro da parte del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Per quanto riguarda i concorsi, il ministero conta di assumere da 1.000 ai 2.000 studiosi per un decennio. Mussi si è rivolto all’Accademia dei Lincei perché si adotti la nomination, cioè il reclutamento dei ricercatori sulla base di una lettera di presentazione sigillata, con la quale gli autorevoli scienziati illustrano i meriti degli aspiranti professori n. 2/2007 DESK S T O R I A E C U universitari, gli atenei scelgono e una commissione nazionale designata prende in esame le scelte degli atenei e stabilisce i vincitori. Il 4 luglio 2006, il ministro Mussi ha annunciato alla commissione cultura della Camera i seguenti obiettivi per disincentivare gli eccessi ed innovare: - riforma dei concorsi; - riduzione della frammentazione e della proliferazione dei corsi; - nascita dell’agenzia per la valutazione; una legge di riordino degli enti di ricerca; - inserimento di un crescente numero di dottori di ricerca nelle imprese e nelle pubbliche amministrazioni; - istituzione di una conferenza nazionale sulla condizione giovanile; - vantaggi per le imprese che investono in ricerca e innovazione; - nessun taglio ai fondi stanziati per le università non statali. Il 4 agosto 2006 sono stati firmati i decreti sulle nuove classi di laurea triennale e magistrale per contenere convenzioni, proliferazione di corsi eccessivamente specializzanti e parcellizzazione delle attività formative al loro interno. I decreti MIUR Disciplina delle classi di laurea triennale e Disciplina corsi di laurea magistrale, attuativi del DM 270/2004, concludono l’odissea legislativa, iniziata con il precedente Governo, nel marzo 2007 e introducono le seguenti principali novità: - riordinano le lauree triennali in 43 classi (prima 42) e riducono le 104 classi di laurea magistrale a 94; - stabiliscono l’impossibilità di isti- DESK n. 2/2007 L T U R A tuire due distinti corsi di laurea o di laurea magistrale afferenti ad una medesima classe se non si differenziano per almeno 40 crediti (lauree) e 30 crediti (lauree magistrali); - fissano il numero massimo degli esami o valutazioni di profitto, 20 esami per la triennale, 12 per la magistrale, 30 per la magistrale a ciclo unico di 5 anni, 36 per la magistrale di 6 anni; - vincolano l’attivazione di nuovi corsi di laurea alla condizione di garantire che la metà degli insegnamenti, 90 crediti nella triennale e 60 nella magistrale, sia tenuta da docenti di ruolo; - limitano le possibilità di riconoscimento di conoscenze e abilità al numero massimo di 60 (triennale) e 40 crediti (magistrale). Tutte le università statali e non statali, comprese le università telematiche, possono modificare i vigenti regolamenti didattici di ateneo a decorrere dall’anno accademico 2008/2009, devono farlo entro l’anno accademico 2009/2010. Il decreto MIUR n. 215/2006 incoraggia invece, tra gli obiettivi da raggiungere nel triennio 2007/09, la selezione per l’ammissione ai corsi. Ci si propone, infatti, di definire test per la valutazione della preparazione iniziale degli studenti. Regolarmente presenti nelle facoltà a numero chiuso (es. in quelle di area medica, di ingegneria), orientative in molte altre facoltà (da Economia a Psicologia a Scienze della comunicazione), le selezioni servono alle università per accogliere i migliori nei corsi a numero chiuso, per capire il 26 S T O R grado medio di preparazione assicurato dalla scuola superiore, per capire, da studenti, se la scelta maturata è quella giusta. In particolare, la selezione per i corsi a numero “chiuso” o “programmato” permette alle università di «adeguare il numero dei laureati alle effettive esigenze del mondo del lavoro nei vari settori professionali, contenere il fenomeno dell’abbandono degli studi e il numero degli studenti fuori corso». Ad ogni modo, i laureati italiani restano, nel frattempo, poco appetibili: il 38% dopo 3 anni dalla laurea non ha un lavoro, perché l’università non insegna quello di cui si ha bisogno nel mondo del lavoro. I media non impegnano più molte parole per dire apertamente che, in quanto sistema di predestinati, per figli di papà, non può occuparsi di dare contenuti alla gente normale. Il timore è che l’eventuale competizione meritocratica provocata dalla liberalizzazione dell’università trasformi anche il panorama degli interessi delle università private. Le rispettive esigenze e gli obiettivi sembrano però coincidere: sistema di finanziamento trasparente, fondi-premio ed incentivi agli atenei migliori e reclutamento autonomo dei docenti sono anche gli ingredienti della ricetta di Confindustria per atenei più competitivi. Il dibattito autunnale scorso ha riportato, inoltre, più di un appello sulla necessità di contromisure tanto improrogabili quanto logiche. Al convegno italo-britannico di Pontignano, il ministro degli interni Giuliano Amato ha indicato 27 I A E C U L T U R A nella selezione dell’eccellenza, delle disparità, una delle vie da seguire per competere a livello europeo: «non tutte le università potranno avere ciò che vogliono […] ed è impossibile avere centri di eccellenza dappertutto». Concentrarsi sulle eccezioni non potrebbe significare non innalzare mai la qualità dell’intero sistema, e quindi non voler cambiare? Il governatore Mario Draghi ha ricordato la leva del merito per valutare tutte le realtà universitarie: piuttosto che lamentare l’insufficienza dei fondi pubblici che si cambino le regole, premiando il merito di università, docenti e ricercatori. Una rivoluzione, è stato commentato, che farebbe coincidere forma e sostanza, che ci farebbe tornare normali: «scopriremmo che ci sono università che meritano più risorse e altre che meritano di essere chiuse […], che ci sono docenti che meritano di essere premiati e altri che meritano di essere mandati a casa. Scopriremmo soprattutto che i primi ad essere contrari a tornare normali sono tanti docenti e ricercatori». Il vicepresidente di Confindustria Gianfelice Rocca ha detto che le università devono cambiare la governance, non basarsi più su logiche assembleari; devono concepirsi come intraprese culturali ed essere il prodotto di scelte politiche coraggiose. Per il momento, più che culturali gli atenei sono semplicemente intraprese e, più che meritocratica, la competizione è al ribasso: a chi rende più facile la laurea (abbuoni di crediti, verifiche approssimative, forme di tutoraggio per agevolare, n. 2/2007 DESK S T O R I A E C U sconti sulle tasse). Per non parlare del marketing delle lauree honoris causa per lusingare e attirare un personaggio, soprattutto da parte delle università più piccole in cerca di pubblicità e di iscritti (100 titoli assegnati in soli sei mesi). La rarefazione del finanziamento pubblico ha spinto gli atenei alla ricerca di fonti alternative. Stipulare convenzioni, convertire cioè le esperienze professionali in crediti formativi, e alleggerire il carico didattico, è un esempio di fonte alternativa di finanziamento. Il 33% degli atenei ha attivato convenzioni con ministeri (interni, difesa, economia), ordini professionali (Ordine dei giornalisti) e collegi (Collegio dei ragionieri), il 13% conta di farlo. La decisione di valutare tutti come prassi, la radicalizzazione del ragionamento dell’università in termini di azienda con presidi manager e politiche del prezzo sono tutti aspetti e conseguenze di una fibrillazione del fare che «sta scardinando la fede pubblica nell’imparzialità dell’istituzione universitaria e il principio della parità di impegno didattico per il conseguimento di titoli di studio con identico valore legale». Non si tratta solo di polemiche, ma di indagini documentate che hanno riscontrato superficialità nella valutazione in merito alle convenzioni. Una delle inchieste sollevate dalla trasmissione televisiva Report (maggio 2006) ha coinvolto direttamente il MIUR spingendolo definitivamente alla rivisitazione degli sconti. L’esperienza non può valere più di 60 crediti nella laurea di primo livello, DESK n. 2/2007 L T U R A non più di 40 crediti nella laurea di secondo livello. Intanto i laureati privilegiati, già oltre il 10% del totale, sono in crescita e «contribuiscono a “drogare” le statistiche ufficiali dei laureati in corso (e connessi finanziamenti) e il preteso successo della riforma del 3+2». Presa dalla rincorsa alle iscrizioni, l’università rimanda il problema della disoccupazione. Forse non si preoccupa abbastanza di contribuire a far risultare il paese maglia nera più o meno consapevole nel giro d’Europa dell’occupazione. Entro il 2010, secondo quanto stabilito a Lisbona, il tasso di occupazione generale deve raggiungere il 70% (oggi 58,2%), l’occupazione femminile il 60% (oggi 45%), l’occupazione degli over 55 il 50% (oggi 30%), per non parlare dell’occupazione giovanile tra i 15 e i 24, un giovane su quattro è occupato mentre la media OCSE è del 42%. La contromisura più dirompente sta dunque per giungere dai riscontri da parte degli studenti “regolari”. Nel frattempo, a fronte di “corsie preferenziali” vs valore legale del titolo, “disparità” vs società dell’integrazione e della conoscenza, “corsi attraenti” vs mercato del lavoro, essi possono aver maturato (per vissuto e per informazione) una maggiore consapevolezza per fare richieste ineludibili di garanzie, di competenze serie, di strumenti, di trasparenza, di uniformità di condizioni. Se gli studenti imparano a chiedere di più, come consumatori e investitori informati del bene università, possono diventare una forza rilevante di riconfigurazione del sistema. Guarderebbero 28 S T O R gli indirizzi di studio con occhio critico, considerando gli sbocchi professionali non solo del momento; sarebbero più propensi agli spostamenti per cercare saperi utili e di qualità nelle migliori università italiane e non nei mille atenei dietro casa. Le università italiane devono migliorare anche per gli studenti stranieri. Più di 2 milioni di universitari studiano in atenei fuori dei loro paesi d’origine, il 10% sceglie la Francia e la Germania, l’11% il Regno Unito e solo il 2% l’Italia. Sono 38.000 gli studenti stranieri che frequentano l’università italiana, il 24,5% è albanese. Sta crescendo il numero di studenti cinesi: sono circa 800 per l’a.a. 2006/2007; il patrimonio culturale, la creatività, gli accordi e le borse di studio erogate dal governo italiano stimolano sempre di più il loro interesse. Ci sono, inoltre, borse di studio offerte da atenei (Perugia Stranieri, Siena, Trento, Milano Cattolica) ed altri istituti italiani (Mib School of Management di Trieste) e una università italo-cinese a Shanghai inaugurata nel 2006, nata dall’unione tra Luiss, Bocconi, politecnici di Milano e Torino e le università Tongji e Fudan di Shanghai. Ad ogni modo, «sono pochi - secondo Carlo Secchi - i laureati stranieri delle università italiane che hanno conquistato posizioni di rilievo nel mondo». Mentre in Germania, Francia e Inghilterra ci sono politiche per accogliere studenti, programmi di inserimento nel tessuto sociale e produttivo, in Italia c’è scarsa attenzione sull’internazionalizzazione dell’università e non si fa 29 I A E C U L T U R A altro che ostacolarli (corsi di lingua inglese irrilevanti, burocrazia, ministero). I corsi di lingua inglese sono irrilevanti: secondo l’indagine avviata dalla CRUI sull’offerta formativa di corsi di I e II livello, dottorati, master e winter/summer school interamente erogati in inglese, sono solo 35 le università italiane che offrono un corso erogato interamente in inglese, e che quindi forniscono uno strumento utile e aggiornato agli studenti stranieri che decidono di studiare nel nostro paese. Sono evidentemente gli atenei che comprendono, e scelgono di considerare, quanto contribuire alla formazione delle classi dirigenti dei paesi dai quali gli studenti provengono sia il modo migliore per costruire con loro relazioni solide e positive, anche come futuri interlocutori del mondo imprenditoriale italiano. Ma questo è possibile se burocrazia e ministero non impediscono la vera autonomia degli atenei. Secondo Secchi, il ruolo del ministero è invece antistorico, anticulturale e antidemocratico perché, piuttosto che occuparsi di valutazione, di attivazione di un sistema di accreditamento che faccia emergere le eccellenze, «contribuisce all’appiattimento non lasciando libere le università di selezionare i propri iscritti, di investire come ritengono più opportuno e di costruire la propria reputazione anche fuori dell’Italia». Sabrina Speranza n. 2/2007 DESK S T O R I A E C U L T U R A LA CANZONE NAPOLETANA TRA MITO E PASSIONE MARIALUISA STAZIO L’ Marialuisa Stazio insegna Sociologia dei processi culturali all'Università di Cassino. Dal 2005 è impegnata nel progetto di radio d'ateneo del Suor Orsola Benincasa, con i tirocini Radio Days. Laboratori per un progetto di radio universitaria. DESK universo espressivo della canzone napoletana sembra avere ben poco a che vedere con gli attuali scenari catastrofici. Oggi l’immagine di Napoli sembra non poter più circolare nel mondo con le note ed i versi del Vesuvio. Ma quello de la canzone (al singolare, come si addice a un “concetto puro”, che sta prima dell’esperienza) è, per i napoletani, un mito e una passione “resistente”. Che sia una passione lo dimostrano le iniziative che ancora attualmente la promuovono, dall’Archivio sonoro della canzone napoletana; alla mostra La festa di Piedigrotta e la canzone napoletana; all’annuncio della preparazione, per il 2007, del grande ritorno di Piedigrotta: «culto e celebrazioni religiose, canzone napoletana, carri, sfilate e spettacoli pirotecnici». Che sia un mito è riscontrabile nelle forme della narrazione. Come spiega il titolo di un libro recente – L’Eredità di Partenope. Il cammino del canto napoletano dagli antichi rapsodi ai moderni neomelodici – la canzone è una forma originaria della napoletanità che, non a caso, si embrica con la festa di Piedigrotta «cominciata al n. 2/2007 tempo dei Romani e finita 30 anni fa». Ma – come queste brevi note in una pubblicazione tedesca dimostrano – la canzone è un mito corollario del mito Napoli per i non napoletani. Di esso non si trovano tracce in uno degli archetipi della cultura occidentale moderna, il Grand Tour, il leggendario «viaggio in Italia» di Goethe e Stendhal, di Mozart e Byron, per secoli l’itinerario di formazione per eccellenza delle élites e degli intellettuali europei. Qui la Musica era altra: il San Carlo, la leggenda di Pergolesi. Il mito extranapoletano della canzone ha una fondazione tardo ottocentesca. Si è formato attraverso il cammino europeo (e poi extraeuropeo) dei suoi autori e, soprattutto dei suoi interpreti. Francesco Paolo Tosti a Londra, Enrico Caruso a New York ma, anche, un numero imprecisato di artisti e posteggiatori che – in tournée organizzate o al seguito delle rotte dell’emigrazione – sciamarono in Europa e nel Mondo. Dove – al mito della città gentile, Paradiso dove tutti «vivono in una specie di inebriata di- 30 S T O R menticanza di sé» senza pensare «ad altro che godere» – si intreccia quello della città canora. Siamo abituati a valutare le idee in relazione alla loro verità o falsità, e i miti vengono comunemente definiti falsi. Essi, invece, vanno considerati non tanto dalla loro capacità di riflettere la realtà ma, piuttosto, da quella di vivere – sopra, contro, nonostante – ciò che può essere giudicato reale. Un mito è vivo se continua a dare significato alla vita umana, a rappresentare una parte importante della mentalità collettiva e a rendere socialmente ed intellettualmente tollerabile ciò che altrimenti sarebbe considerato incoerente. La canzone napoletana è uno dei master myth – dei miti matrice – della Napoli post-unitaria. Esso racconta di una produzione dialettale, strettamente correlata al genius loci, indivisibile dal luogo in cui vede la luce. Manifestazioni naturale, dalle radici antichissime, da sempre esistente – originaria, oltre che originale – che manifesta l’essenza di un paese dove istinto e sentimento di un popolo, genio e poesia dei suoi cantori, il miracolo ogni giorno rinnovato di una natura di abbagliante bellezza, permettono ai prodotti artistici, nati da così fortunate coincidenze, dal sereno coesistere di condizioni tanto favorevoli, di penetrare e avvincere i cuori di tutto il mondo, in una sorta di «colonialismo» che sancisce definitivamente il primato del luogo dove tanta bellezza poetica ha trovato i natali. I napoletani, allora, non possono, né devono più, misurarsi con la nuova situazione politica, né con la contraddittoria 31 I A E C U L T U R A realtà di una antica capitale Nobilissima e stracciona: tutto il mondo rende omaggio all’incalcolabile superiorità del genio dell’arte sul talento dell’industria e degli affari, tutta la città è affratellata dall’amore per la canzone e dalla capacità di rivelarla. È una storia che, nelle sue forme più sofisticate, vaccina se stessa, ammettendo mancanze, collisioni, irregolarità e divari che, alla fine, vengono comunque e inevitabilmente superati: la canzone nuova, di anno in anno, avvince e ammalia tutti i cuori. Vi sono molti modi per controbattere alla «parola depoliticizzata» dei miti. Se, secondo la lezione di Roland Barthes – «il mondo entra nel linguaggio come un rapporto dialettico di attività, di atti umani: esce dal mito come un quadro armonioso di essenze»; se, grazie ad esso, si opera «un gioco di prestigio che ha rovesciato il reale, lo ha vuotato di storia e lo ha riempito di natura» – si può ricostruire la storia evaporata e riempire il «vuoto mitico» che le si è sostituito. Nel corso della sua lunga storia di locus amoenus letterario e giornalistico la canzone napoletana è stata dichiarata – come ogni essere mitico che si rispetti – non solo immortale, ma anche talmente antica da potersi definire nata con la città stessa. Ma, anche all’interno di questo racconto senza tempo, si può individuare un momento – che storicamente corrisponde a quello in cui si incominciò a formalizzare la scrittura della storia stessa – in cui si intravede un cambiamento del prodotto, dei suoi modi di produzione, diffusione e n. 2/2007 DESK S DESK T O R I A E C U consumo: in cui la canzone si fa, si dice, si racconta non solo molto più che in precedenza, ma anche in modo diverso. Abbiamo (con qualche inevitabile arbitrio, pur su basi documentarie) identificato questa cesura nell’anno 1880, quando Giuseppe Turco e Luigi Denza presentano al mondo, dallo Stabia’s Hall di Castellammare, l’indimenticata Funiculì Funiculà. La novità più immediatamente visibile è nella figura sociale degli autori dei testi in rima: Giuseppe Turco, Roberto Bracco, Salvatore Di Giacomo. Tutti homines novi della cultura, non solo e non tanto perché agli inizi della carriera, ma soprattutto in quanto incarnano una nuova figura sociale di letterato: di estrazione borghese o, più spesso, piccolo borghese, dotati di un capitale culturale che sopravanza di molto quello monetario, costretti a guadagnarsi la vita in stretto contatto con il mondo del giornalismo, dell’editoria e dell’industria culturale. In collaborazione con professionisti della musica (per i quali il rapporto di lavoro “mercenario” rientra già nella tradizione), come – ad esempio – Denza (sotto contratto con Ricordi) e Costa, queste nuove figure di autori aprono rapporti di collaborazione con editori e cominciano a presentare canzoni sulle pagine di quotidiani e periodici. L’incontro di professionisti della penna e del pentagramma con un genere eccezionalmente gradito e appropriato al pubblico cui si destinava, con le possibilità in espansione offerte dal medium della stampa e con l’interesse di case n. 2/2007 L T U R A editrici decise a sfruttarlo, diede vita ad una quantità, qualità e varietà di pubblicazioni destinate a divulgare e a parlare de la canzone, quale mai si era vista prima. Esse hanno di nuovo le tirature – che superano frequentemente le decine di migliaia di copie – la grafica, la periodicità, le destinazioni. E sono caratterizzate dalla costante tensione ad ottimizzare i rapporti fra qualità e prezzo, non solo in iniziative di carattere dichiaratamente «economico» e «popolare» ma, anche, controbilanciando la grande ricchezza nei contenuti e nelle vesti grafiche con la larghezza delle tirature, fino a prezzi di mercato estremamente accessibili. Il loro esistere presupponeva, evidentemente, investimenti rilevanti e tecnologie relativamente complesse, e rimanda immediatamente ad organizzazioni di una certa articolazione, capaci di garantirsi economicità di gestione coprendo, sfruttando, condizionando larghe fasce di mercato. E, di fatto, l’opera di diffusione della canzone che l’editoria napoletana fu capace di portare avanti fu veramente imponente, non solo relativamente alla quantità, qualità, varietà dei mezzi impiegati, ma soprattutto per l’intelligente utilizzazione di strutture economiche, sociali e culturali innervate al territorio. Tutto ciò diede ai messaggi una forza d’impatto e di penetrazione impensabili per i tempi e per i media allora disponibili. La diffusione del prodotto canoro e la creazione del suo mito sono affidate anche stampa quotidiana e periodica, con la quale il mondo 32 S T O R della canzone era strettamente legato da più fili, visto che molti degli autori di testi erano anche (anzi, spesso soprattutto) giornalisti, e che editori musicali e stampa cittadina trovavano reciproca convenienza nella diffusione di questo prodotto di largo consumo, apprezzato, amato, seguito con passione dai lettori al pari, se non meglio, di un feuilleton. Per rendere accessibile e desiderabile un prodotto ad una larga massa di persone, non basta che ad esso si dedichi una organizzazione editoriale capace di produrlo e diffonderlo in grandi quantità. Specialmente in una società pesantemente segnata dall’analfabetismo, dove la circolazione culturale è prevalentemente orale. A far ascoltare le canzoni provvedeva – com’è noto – il teatro di varietà, legato al mondo della produzione da accordi fra editori, musicisti, autori di testi, e impresari, proprietari e divi del café-chantant. La diffusione internazionale era affidata alle tournée europee di cantanti e musicisti napoletani, alla volta degli alberghi e dei locali di Londra, Parigi, Berlino, Amburgo e delle Esposizioni Universali. Ma, nel campo della diffusione orale, non è da trascurare anche il ruolo di una miriade di teatri, teatrini, baracche, casotti, ristoranti, bar e caffé che tutti, dal più popolare al più signorile – negli intervalli di una farsa di Scarpetta o di una operetta, dell’opera dei pupi e dei drammoni di Federico Stella, fra un piatto di spaghetti e uno spumone – proponevano canzoni. Senza contare, poi, i pianini e i cantori gi- 33 I A E C U L T U R A rovaghi che circolavano ininterrottamente per le strade della città o le prestazioni di posteggiatori e gavottisti, che allietavano le serate all’aperto, le giornate agli stabilimenti balneari, le feste private dei napoletani. Tutti costoro – seppur poco controllabili dall’industria editoriale – ne dipendevano riguardo la quantità, la qualità, i tempi di uscita, lancio, distribuzione e promozione delle canzoni. Una tale organizzazione editoriale rimanda immediatamente a nuove condizioni di lavoro per gli intellettuali che producevano i testi letterari e musicali: produzione con tempi e ritmi fissati, standard di prodotto da mantenere, economia nei modi e nei tempi di lavoro, capacità di confermare gli stereotipi con il massimo dell’innovazione. Questa organizzazione editoriale dovrà, perciò, formare “creatori” capaci di ottemperare alle sue esigenze. Già nei pochi anni che vanno dal 1880 al 1914, si profilano così almeno due “generazioni” di autori. La prima è quella dei Di Giacomo, Bracco, Denza, Costa, Valente: operatori forti di una pratica professionale giornalistica e di corsi di studi abbastanza regolari, inseriti – spesso con ruolo attivo e protagonista – nei cambiamenti culturali e produttivi in atto nel paese. Radicati in una “culturamosaico” di melodramma e Salonmusik, letteratura di viaggio e bozzettismo, poesia colta in lingua e in dialetto e forme popolaresche dialettali, essi posero le basi degli stereotipi e dei topoi della nuova canzone, e del discorso giornalistico su di essa. n. 2/2007 DESK S DESK T O R I A E C U Saranno sostituiti o affiancati – nell’arco di una decina d’anni – da una nuova generazione di “poeti” e musicisti, la cui cultura specifica sarà unicamente e praticamente canzonettistica, totalmente interna alla logica editoriale e ad essa funzionale. Dove però l’editoria musicale e l’industria culturale napoletane mostrano tutta la loro spregiudicatezza è nella reinvenzione di una festa tradizionale: Piedigrotta. Che, in breve tempo, aggiornò una storia di stratificazioni e sincretismi (fra culti solari, riti di passaggio, liturgia cattolica, dispiegamenti di potenza regale, espressioni subalterne e parate del potere) trasformandosi nel più veloce ed efficace momento di diffusione trasversale di decine e decine, centinaia e centinaia, di canzonette composte per i concorsi, indetti dalle molte case editrici napoletane, dalle loro riviste, dalla stampa quotidiana e periodica, dai grandi magazzini, dai grandi alberghi, dai teatri e dagli stabilimenti balneari. I concorsi mettevano in competizione canzoni ed autori; le canzoni che risultavano vincitrici – le prime tre classificate, e una serie più o meno lunga di altre ritenute meritevoli – venivano presentate al pubblico qualche giorno prima della festa, nelle audizioni: lunghe passerelle di divi del teatro e del café-chantant. Ma il lavoro di preparazione della Piedigrotta cominciava già nella primavera precedente, cosicché nel mese di agosto erano in vendita gli Album di decine di case editrici diverse, le quali inoltre provvedevan. 2/2007 L T U R A no inoltre a far distribuire le copielle con i testi delle canzoni, affittavano legioni di pianini, assoldavano cantanti e musicisti per dare concerti nei luoghi pubblici, nelle redazioni dei giornali, nei teatri e nei caffé. Nello stesso tempo, quotidiani e settimanali stampavano canzoni nuove, pubblicavano i profili degli autori (comprensivi di successi passati, presenti e futuri, illustrati da ritratti fotografici o al tratto), storie della canzone napoletana dalle origini ai giorni nostri, panegirici ispirati al «genio» e alla «naturale musicalità» partenopee. Il tutto culminava, nella notte fra il 7 e l’8 settembre – quando treni speciali riversavano in città frotte di gitanti curiosi, quando ancora i turisti affollavano le terrazze di caffé e alberghi e la città era riscaldata dall’atmosfera estiva – in concerti pubblici in Villa o in Piazza Plebiscito, mentre orchestre itineranti, capeggiate e dirette dagli autori delle canzoni, percorrevano ininterrottamente le più importanti strade cittadine, fermandosi nelle redazioni e nei caffé, e venivano distribuiti a tappeto i quotidiani che sostenevano questa o quella canzone, questo o quell’autore, fra lo scorazzare di pianini che suonavano incessantemente i motivi dell’anno. Piedigrotta era, dunque, il momento in cui tutto il complesso sistema produttivo della canzone entrava massicciamente in azione, in cui le sinergie fra diversi settori economici napoletani acquistavano evidenza. Essa, infatti, non era soltanto – come da quell’epoca cominciò a venir chiamata – la festa delle can- 34 S T O R zoni. Era la festa di un nuovo modo di produrre e di consumare, di usare il territorio, i linguaggi e le risorse sociali cittadine. Era, anche, un momento di potenziamento dell’offerta turistica della città, delle sue strutture ricettive e di servizi, di spettacolo e divertimento e offriva opportunità pubblicitarie per le industrie e i commerci: nascevano così le canzoni-réclame, il finanziamento pubblicitario di copielle, spartiti, album, cartoline musicali e manifestazioni canore, l’organizzazione di carri e sfilate da parte di singoli commercianti e produttori. In tali iniziative è possibile ravvisare le tracce non solo della tanto proclamata vocazione turistica napoletana, ma anche della propensione e della volontà della imprenditoria cittadina a difendere e incrementare – aggiornandola – questa risorsa economica tradizionale. E gli sforzi per trasformare il tradizionale turismo intellettuale e di lusso in un moderno turismo di massa sembrano, infine, essere stati premiati, almeno a giudicare dalle testimonianze fornite in merito dai giornali cittadini: Il Mattino nel 1909 (6 sett.) riporta la notizia della presenza di oltre 500.000 persone giunte in una città che, evidentemente, era preparata ad accoglierle ed attrezzata a riceverle. Ma, ancora secondo Barthes, per «misurare lo svuotamento del reale operato dal mito», bisogna mettersi dal punto di vista del «linguaggio oggetto»: dalla parte di chi è detto. La narrazione mitica della canzone riguarda innanzitutto l’identità e l’alterità napoletane. Fonda il noi con- 35 I A E C U L T U R A tro il loro: i piemontesi, gli italiani, i romani, i milanesi… Ma, se ci stacchiamo dal panorama piatto delle differenze, ed osserviamo l’organizzazione verticale delle strutture, non possiamo fare a meno di osservare quanto sia frastagliato e diseguale il panorama del noi napoletano. A cominciare dalle disuguaglianze e ai conflitti che attraversano il versante produttivo; o una forza lavoro intellettuale contrassegnata da squilibri di fama, prestigio, potere, danaro. Ma, soprattutto, non possiamo non vedere il protagonista muto di questa narrazione: il popolo «cantato» dai poeti della canzone e dai suoi mitografi. Il popolo che canta ma, per noi posteri, è condannato al silenzio dalla qualità delle fonti: scritte, e elaborate secondo regole e codici a lui totalmente estranei. Una impossibilità di dirsi, riconoscersi, di fissare processi riflessivi, ancora in pieno Novecento, che denuncia gli squilibri violenti della società e della storia che il mito della canzone depura e pacifica. Ma, infine, è anche utile domandarsi cosa mantenga vivi i miti, oltre che demistificarli. Essi, ad esempio, coinvolgono l’autorità di narratori che, con narrazioni ingannevolmente semplici, si avvalgono anche del campo denso, “geneticamente manipolato” e iterativo dei media, che amplificano, facilitano ed adattano a diversi pubblici i racconti. Salvatore Di Giacomo – per soggettive capacità e influenza letteraria – può essere indicato come il campione di questa compagine. I suoi numerosi scritti in materia e l’attenzione alla sua immagine n. 2/2007 DESK S DESK T O R I A E C U pubblica (certamente inusuale fra i suoi colleghi canzonettisti), testimoniano di un costante sforzo di presa di distanza personale dall’universo della merce-canzone, nonché di sintesi (e non di rado di invenzione) di una storia e di una immagine della canzone capace di giustificarla come prodotto poetico e colto. Gli autori delle canzoni, in special modo a quelli della «prima generazione», soffrivano non poco le nuove condizioni lavorative, sempre più lontane dall’ideale e dalla figura tradizionale di uomo di lettere e di cultura. Nel difficile passaggio da forme di produzione artistica e letteraria tradizionali a forme sempre più legate a necessità e principi estranei al lavoro stesso, si trovavano nella scomoda posizione di dover concedere e negare insieme la loro paternità alle canzonette. Non potevano privare (almeno i più famosi) gli editori di una firma di sicuro richiamo, ma neanche legarsi a un prodotto di cui all’epoca era chiarissimo il carattere di merce, pena la esclusione dalla condizione di artisti, e l’immissione in quella, più umile, di produttori. Diverse saranno le strategie individuali e collettive. Ma la valorizzazione della canzone come forma d’arte (innervata nello spirito del popolo, grazie alle scorie della poetica romantica), e l’ostinata azione di occultamento dell’industria culturale e delle forme di lavoro che presupponeva e utilizzava, videro convergere tutti gli sforzi autoriflessivi dell’industria culturale napoletana. Guardando a un tempo più vicino, a proposito della perdurante longen. 2/2007 L T U R A vità del mito, è impossibile dimenticare come le Piedigrotte, le canzoni, i Festival, con tutti i loro divi e le loro mitologie, abbiano rappresentato una parte importante, sostanziale della politica di un personaggio come Achille Lauro, che del meridionalismo revanchista e oppositivo è stato per anni l’incontrastato paladino. L’utilizzazione laurina della canzone, della tradizione, dello spettacolo e della festa napoletane ci sembra avere due anime: una razionale, l’altra emotiva. Il lato razionale dell’opzione in favore di una tradizione melodica che ha tanta parte nell’immaginario internazionale è in qualche modo rivolto verso l’esterno della città stessa, ai «forestieri e stranieri in visita» e a quelli che si spera di attirare. Quello emotivo guarda verso l’interno, e affonda le sue radici nella appartenenza del sindaco-padrone alla cultura e all’immaginario popolari, nel suo innegabile talento di sentire, eccitare, conquistare, ed eventualmente volgere a suo vantaggio, quelle «ragioni del cuore» che la ragione non conosce ma riconosce istintivamente e, altrettanto istintivamente, inserisce nei suoi piani. Ha fini di consenso, e consenso ottiene. Ma è indicativo come – rievocando quel periodo – si spendano pochissime parole sul come e perché sia possibile ottenere cose come voti, potere, sostegno politico, utilizzando carri, luminarie, canzoni, fuochi artificiali. Il fenomeno Lauro e la sua prodigiosa ascesa vengono analizzati e spiegati in relazione alle politiche nazionali e agli interessi economici cittadini ma, quando si arriva al 36 S T O R problema del consenso, di quel popolo che crede, sostiene, vota Lauro – e che, ancora oggi, lo ricorda con rispetto – ci si appella al panem et circenses o, più napoletanamente, al feste, farina e forca di borbonica memoria. Si ricorre alla sua “naturale” propensione a farsi abbindolare, a cedere il suo potere sovrano in cambio di soddisfazioni effimere e illusorie. L’osservazione del come e perché i napoletani abbiano scelto Lauro – con la sua trivialità, con le sue Piedigrotte, con la sua ipotesi di sviluppo turistico fatta di Casinò e gruppi folkloristici – non entra, fra gli anni ‘50 e ’70, nei “salotti buoni” della cultura e della politica napoletane, se non per un ripudio frettoloso, talvolta imbarazzato. E, anche in questa rimozione, ci sembra di poter individuare due aspetti – uno culturale, l’altro, ancora una volta, emotivo – enucleabili ambedue nell’elisione del tema canzoni dal discorso pubblico del napoletano colto. Le categorie in cui possono essere comprese le canzoni sono essenzialmente due: cultura popolare e industria culturale. Popolari, almeno nel senso che Gramsci attribuiva al termine, perché «dal popolo adottate» in quanto qualcosa in esse, o ad esse attinente, era conforme «alla sua maniera di pensare e sentire». Industriali perché nate esclusivamente da esigenze discografiche, e “persino” da autori non napoletani, come sono sovente accusate di essere. Ciò che fa escludere le canzoni dalle indagini sulla cultura popolare è, in parte, quanto Gramsci aggiunge citando la distinzione formulata da Ermolao Rubieri sul 37 I A E C U L T U R A canto popolare. Il loro «modo di concepire il mondo e la vita» non è «in contrasto con la società ufficiale». Sono una forma di “resistenza culturale” che non si manifesta in opposizione alle intenzioni di chi quella “resistenza” utilizza e promuove. Inoltre, la cultura popolare napoletana è «impura», doppiamente impura quella legata alle canzoni, alle Piedigrotte, ai Festival, vicina com’è ai valori della merce, del mercato, del consumo, del denaro, dell’industria. Il popolo napoletano non è “puro”. E non è nemmeno proletariato in un’epoca in cui – come scrive Pasolini – «l’alternativa è monopolizzata dalla «coscienza di classe» proletaria (che detesta i sottoproletariati e quindi, borghesemente, le «culture popolari» verso cui non ha mai espresso una politica decente)». Le resistenze/ritardi culturali, con i quali la passione per i Festival, per le Piedigrotte, per le sceneggiate si identificano e si sovrappongono, sono perfettamente coerenti con la storia e la natura dei discendenti degli antichi lazzaroni napoletani. O, nei casi migliori, sono residui del passato nel moderno, «formazioni mentali ritardatarie», consentiti anche dalla scarsa efficacia delle forme egemoniche di cultura, che «invitano a verificarne le pretese di egemonia e di verità, di coerenza e di forza espansiva e unificatrice». E se le canzoni – intese come parte di una cultura popolare – sfuggono alle categorie interpretative del periodo, non si può dire che queste siano in grado di affrontarle come manifestazioni industriali. Le canzoni – i meccanismi e la qualità del n. 2/2007 DESK S DESK T O R I A E C U loro potere fascinatorio, gli apparati cui fa capo la loro forza espansiva – non vengono affrontate neppure in questa qualità di fenomeni comunicativi, di prodotti, sia pure innervati, linguisticamente e produttivamente, in modi di distribuzione e consumo, modelli e modalità tradizionali. Alla cultura – così come alla politica – manca un discorso specifico sulla produzione culturale in età industriale: né l’una, né l’altra hanno chiari i terreni di gioco e di conflitto che l’industria culturale offre loro. In quanto espressioni dell’industria editoriale e discografica, le canzoni del Festival napoletano sono accomunate a quelle di Sanremo – e alla nascente televisione – nella categoria dì volgari idiozie, accusate, con incongruenza e patente incomprensione della loro storia e natura, di tradimento della tradizione (colta/digiacomiana e/o popolare/folklorica) dalla quale provengono, e liquidate frettolosamente da una intellettualità offesa in tutti i suoi valori e arroccata nella difesa di una qualità e di una organizzazione del lavoro intellettuale lontanissime dai valori della produzione. Un ulteriore motivo di elisione è esattamente speculare all’interesse che il Comandante Lauro ripone in esse: le canzoni vengono rifiutate innanzitutto come segmento-simbolo di una politica di immagine che assume versi e musiche come ambasciatori nel mondo, avendo tra i suoi fini dichiarati la promozione turistica della città. Le opposizioni del periodo accusano il Comandante di tradire l’avvenin. 2/2007 L T U R A re industriale della città per l’avventura-turismo. Identificano trasformazione e sviluppo con la grande industria, quella che produce una classe operaia di fabbrica. E non sono in grado di riconoscere la qualità “industriale” – economica e produttiva, ma anche portatrice di nuova organizzazione del lavoro, di nuovi modi di produzione, di nuove figure sociali – dell’industria della cultura e del turismo. Sicuramente i progetti laurini non sono quanto di meglio si potesse auspicare per la città, la qualità della loro proposta culturale è scadente, volgare e arretrato quello che promuovono. Ma quello che è indicativo è che il terreno che offrono non venga mai accettato come campo di possibile scontro, ma soltanto sdegnosamente liquidato da una politica e da una cultura totalmente chiuse a modelli di sviluppo che non siano quelli dell’interventismo statale e dell’industrializzazione accelerata, e ad ogni «analisi del significato e della praticabilità politica dei consumi di massa». Fin qui le categorie interpretative e i bagagli culturali responsabili dell’assenza dell’oggetto-canzone (con i suoi annessi e connessi) dai possibili campi dì indagine e di discussione “seria”. Esse sono ormai al centro di un complesso sistema di connotazioni negative: perché “adottate” da un popolo lazzarone, perché contaminate dalla merce e dall’industria, perché legate alla cultura di massa, e soprattutto perché parte della politica populistica dell’avversario politico. Ma la cultura napoletana – quella 38 S T O R che riconosce la sua genealogia politica e culturale e i suoi referenti nella parte più nobile della cultura europea, quella che non accetta e combatte il degrado in cui la plebe decaduta e corrotta e i suoi corruttori politici e culturali hanno trascinato la città, quella per cui la miseria materiale e morale dei concittadini rappresenta quotidianamente una pena e una sconfitta – rifiuta di accettare il terreno dì scontro proposto dall’avversario, da quella parte della città in cui non si riconosce, e non vuole riconoscersi, anche per l’oscuro sentimento che praticare il terreno dell’altro sia un modo di cedere al suo potere. Atteggiamento di rimozione che rivela il magma di un senso di appartenenza diverso da quello storico dei partiti e dei movimenti o dei capitali culturali e sociali. Qui si proiettano lo sbigottimento e le lacerazioni di chi in qualche modo si riconosce – sia pur deformato – nello specchio che l’altro gli porge, coglie con paura il fascino dei suoi argomenti, e si sente debole rispetto alla forza e alla libertà di chi può usare – come fantastiche armi da guerra – ragioni che egli ha paura di scoprire nelle profondità della sua zona oscura. La canzone è ancora un simbolo della città, che richiama ad origini comuni tutte le sue parti: quelle che la assumono fra i misteri gloriosi e quelle per le quali rappresenta un mistero doloroso della passione napoletana. Come ogni simbolo è ambivalente. Ambivalenti sono le reazioni e i sentimenti che ispira: i colti napoletani amano le canzoni, e le cantano, e se ne commuovono. Ma an- 39 I A E C U L T U R A che se ne vergognano, e tentano di prenderne le distanze, e vivono il proprio amore come una diminuzione. E’ un rapporto, quello con le canzoni, sorprendentemente simile a quello con la città. Perché, così irrimediabilmente locali, parlano all’appartenenza e all’identità; rappresentano, per la parte più colta, nobile, progressista, europea della città, l’incontro con la propria «coscienza infelice», che mette a confronto la «sede del progresso storico» – «là dove si elaborano i valori che contano per tutti », «dove si realizzano i successi individuali misurati su quei valori», «dove si fabbricano i nuovi beni che soppiantano gli antichi», «dove sta chi ha il potere» – con la consapevolezza rabbiosa della propria marginalità storica, col sentimento di vivere in un luogo dove «qualsiasi sforzo arriverà solo a sistemare la miseria, ad ammobiliare l’inferno», ma anche con la volontà di resistere a un processo percepito, in qualche modo, imposto dall’esterno e rispetto al quale «l’esaltazione di un tradizionalismo generico ma profondo veniva spontanea». Una «coscienza infelice» nella quale si riconoscono angosciosamente componenti e radici comuni con l’altra Napoli, quella che esplode nelle manifestazioni “deteriori”. Ogni colto napoletano, da quando nella città si è fatta strada la coscienza del processo che la condannava alla marginalità storica, sperimenta la frantumazione della propria fisionomia storico-sociale sotto la spinta di sollecitazioni diversissime a seconda del piano sul quale si muove. Avanzatissimi i n. 2/2007 DESK S DESK T O R I A E C U quadri teorico-critici di riferimento, in linea con le più evolute esperienze europee dalle quali riceve, e alle quali spessissimo offre, contributi. Sviluppata la creatività, la capacità di connettere saperi e proiettarli in realizzazioni. Certamente problematici i problemi del ruolo, dello status, della posizione sociale legati al lavoro intellettuale. Assolutamente mancato il raccordo tra progettualità intellettuale e realtà politico-amministrativa. Sicuramente disperante la coscienza che – altrove – i propri sforzi sarebbero non solo meglio ricompensati, ma utili. Mentre qui arriveranno al massimo ad «ammobiliare l’inferno». Per ogni colto napoletano, la propria appartenenza a Napoli è una passione: se ne gode e la si subisce, la si fugge e la si cerca. E parlare delle passioni è più che difficile. É doloroso. Venendo ad oggi – ed alla riproposizione dei temi canzone e Piedigrotta da parte delle attuali amministrazioni locali – rovesciando l’affermazione di Barthes, se il mito della canzone è tuttora politicamente significante, è perché, evidentemente, è ancora «fatto per noi». Un ulteriore aspetto del mito è fondato nei valori e nei desideri che vi confluiscono: esso è, anche, prepolitico. Le amministrazioni stanno riscoprendo – attrezzate, ormai, sia pure imperfettamente, a riconoscere la valenza economica, organizzativa, propulsiva delle industrie legate alla cultura e al turismo – il valore di immagine legato all’armamentario piedigrottesco e canoro. E cercano di catturare, con la canzone, una visione ancora unitan. 2/2007 L T U R A ria e pacificata della città. Un simbolo che leghi le sue diverse anime, contro i diabolici scenari proposti dalla cronaca e dalla società. Ma, probabilmente, riconoscono anche un bisogno profondo di appartenenza, di identità positiva, di rispecchiamento nella faccia “buona” dei riti solari della Piedigrotta e del mito della sirena Partenope, perfida incantatrice ma, soprattutto, capace di canto ammaliante. Ma il mito è insidioso, e non è facile operare con i simboli. La continua oscillazione fra primo e secondo sistema semiologico del mito, la capacità di tenere insieme la faccia notturna e quella diurna del simbolo, ne rendono difficile la pratica per chi deve operare – intellettualmente, politicamente, demiurgicamente – nella società. Che è sempre divisa, e in alcuni casi più drammaticamente che in altri. C’è un episodio di cronaca che ha suscitato scalpore, pur essendo – per esigenze di cronaca – già dimenticato dai giornali. Sono le espressioni dalle rappresentanze politiche locali in occasione dei funerali di Mario Merola, re della sceneggiata napoletana e di una canzone che rappresentava «un mondo infimo scritto dai ceti alti», «una cultura ponte», esponente promiscuo di una città che, come lui, «non ha mai nascosto le frequentazioni con la famiglia mafiosa dei Zaza, né quelle con il giudice Falcone». Considerate unanimemente dai giornali una concessione alla faccia lazzara della città, quanto meno inopportuna in un momento di grande offensiva camorristica e di tutte le culture resistenti alla le- 40 S T O R galità e alla “normalità”, esse rivelano la difficoltà – di più, l’impossibilità – a praticare un terreno, ancora avvolto dalle nebbie di una rimozione troppo a lungo coltivata ma, anche, alieno agli strumenti per «agire le cose». Malauguratamente lo sguardo politico/culturale è ancora volto all’indietro. Lo dimostra l’incomprensione di un fenomeno come quello dei neomelodici – la faccia diabolica della canzone, che rifiuta gli scenari di integrazione dell’armonia perduta della napoletanità. I neomelodici – con i loro seguaci, e le organizzazioni produttive, le reti di distribuzione e promozione, le occasioni di esibizione dal vivo – disegnano una mappa frastagliata da fratture radicate in una povertà relativa, in una radicale alterità culturale, in una contiguità con la microdelinquenza e la malavita organizzata, che nessun mito può più ricomporre. E che essi stessi – lungi dal nascondere – esaltano nei comportamenti e nelle produzioni canore. I discendenti degli antichi lazzaroni non si fanno più cantare, ma cantano e, cantando, agiscono la propria descrizione. Hanno taciuto nella fase della scrittura ma, addestrati dalla fruizione dei prodotti e dei media di massa, hanno trovato con il digitale la possibilità di apparati più “leggeri” di quelli delle industrie culturali del passato, quando i protagonisti produttivi erano grandi aziende nazionali e internazionali (Ricordi, Polyphon Musikwerke, e poi, nel secondo periodo un ente come la RAI). Quello dei neomelodici, anche perché de- 41 I A E C U L T U R A dicato a un pubblico locale e ristretto, è un sistema produttivo semiindipendente, che consente libertà di espressione impensabili per le autocensure di un grande apparato. È anche questa nuova possibilità di dirsi, riconoscersi, fissare processi riflessivi, con linguaggi vicini all’oralità e alle forme canore e spettacolari consuete, a porre davanti ai nostri occhi l’evidenza di una frattura che non si può – non si deve – ricomporre. Il mito della canzone è «adatto» ai nostri desideri, non alla nostra quotidianità. Qui è tempo di scelte: di distinzioni, di critica, di azione civile, di coraggio. Per troppo tempo, probabilmente, a Napoli ci siamo preoccupati di segnare le differenze e edulcorare le disparità tra noi e loro (i piemontesi, gli italiani, i romani, i milanesi…), distogliendo lo sguardo (perché affascinati dalle somiglianze, incuranti delle sperequazioni, impotenti o conniventi con il sistema economico e culturale dell’illegalità) dai divari economici, culturali, sociali, che sono tra noi. Maria Luisa Stazio n. 2/2007 DESK T E S I A cura di Marica Spalletta, Università Luiss Guido Carli Roma D I L AU R E A House organ e comunicazione interna: il caso Henkel di Eugenia Teresa Vitelli Università Suor Orsola Benincasa, Napoli Relatore Prof.ssa Maddalena della Volpe L DESK a tesi è il risultato di una ricerca condotta in azienda, con lo scopo di individuare le tecniche comunicative messe in pratica, alla luce dei modelli teorici analizzati durante il percorso di studi. La ricerca si è svolta presso la Henkel Italia, nella sede centrale di Milano. Henkel S.P.A. è un grande gruppo industriale a carattere multinazionale, il cui quartier generale ha sede a Dusseldorf, ed è presente in 125 paesi nel mondo con oltre 10.000 prodotti. Oggi conta 52.000 dipendenti nel mondo e 1.600 in Italia. Nasce nel 1876 ad opera di un giovane imprenditore amante delle scienze naturali, Fritz Henkel, che ideò e commercializzò un prodotto chimico di detergenza che portò l’azienda al successo: il sapone per bucato Universalwaschmittel, a base di silicato, che poi diventa nel 1907 il famoso Persil, il cui nome deriva dalle iniziali dei suoi componenti: perborato e silicato. In pochi anni, l’azienda si impone a livello mondiale e, tra il 1929 e il 1930, approda in Italia, dove oggi è presente con nove stabilimenti produttivi, tutti forniti di certificazioni di qualità ISO e di certificazioni ambientali, in linea con i principi di Sviluppo Sostenibile e Responsabilità Sociale a cui si ispira il Gruppo. Il fatturato 2006 nel mondo ammonta a 12.740 milioni di euro, mentre il fatturato 2005 registrato in Italia è pari a 734 milioni di euro. Per l’anno 2007 è previsto un incremento del fatturato del 3 – 4%. I prodotti Henkel sono classificabili in tre settori di attività: cura della casa, cura del corpo, adesivi al consumo e tecnologie. Ricordiamo brands come Dixan, Bio Presto, Perlana, Vernel, Bref, Neutromed, Taft, Testanera, Pritt, Pattex, Superattak e numerosi altri, oltre a molteplici prodotti destinati al mercato B2B. Tra i competitors del Gruppo vi sono importanti multinazionali, come Procter&Gamble, Unilever, Reckitt-Benckiser, Bolton Group. La Vision dell’azienda è incentrata su un forte cooperazione all’interno del gruppo: “La coesione dà forza e insieme è possibile raggiungere gli obiettivi prefissati”. Il pay off della nuova identità Henkel “Henkel, a brand like a friend” racchiude il motto aziendale, che si presenta come una promessa, un impegno dell’azienda a ripagare la fiducia che milioni di consumatori ripongono nei suoi prodotti, che sono “marchi amici”, perché accompagnano il consumatore nella vita quotidiana. Tale principio è ripreso nella Mission dell’azienda: “Marchi di qualità e tecnologie avanzate che rendono più facile, piacevole e bella la vita delle persone ”. Henkel dà grande importanza alla comunicazione organizzativa, quindi sia a quella interna, sia a quella esterna. In particolar modo, la comunicazione interna è gestita attraverso il Piano di comunicazione, documento che analizza ed esplicita i bisogni comunicativi dell’azienda e li veicola tramite i mezzi di comunicazione più adeguati. Questi possono essere on line, come la rete Intranet aziendale, cartacei, come l’House organ e face to face come meeting e convention. In Henkel una posizione di rilievo è occupata da “Henkel Life”, il giornale aziendale. Il suo scopo è n. 2/2007 42 T E S I D I L AU R E A creare condivisione e senso di appartenenza, facilitare i processi di socializzazione interni all’azienda e informare il personale aziendale. “Henkel Life” nasce nel 2001 in Germania e poi si diffonde in tutti gli altri paesi. Oggi in Italia è presente in formato “magazine”, composto da 20 pagine, ed è pratico, maneggevole e graficamente attraente. È creato da un comitato di redazione interno e esce con cadenza bimestrale. Le modalità di distribuzione variano in base alla sede: ad esempio a Milano è messo direttamente sulle scrivanie dei dipendenti, oppure viene collocato negli spazi comuni. Il budget previsto per la sua realizzazione è di 65.000 euro, ma ne vengono usati solo 37.000 circa. In Italia vengono stampate e distribuite 2.200 copie per ogni numero edito. I contenuti sono vari: rispettano alcune linee guida provenienti da Dusseldorf soprattutto per le notizie internazionali e vi sono anche informazioni di carattere nazionale. Ogni articolo ha lo scopo di far conoscere al personale cosa accade nell’universo Henkel, al fine di creare coesione, conoscenza e coinvolgimento. La forza di “Henkel Life” consiste nell’essere l’unico strumento di comunicazione che raggiunge tutta la popolazione aziendale, mentre la principale criticità è rappresentata da un’attrattività ancora scarsa, che può implicare addirittura una perdita di lettori. Perché un’azienda abbia successo è fondamentale che il personale sia unito e condivida i valori dell’azienda, li senta come suoi, perché oggi le imprese si pongono non solo come realtà lavorative, ma anche come nuclei di interazione inter-soggettiva. Sul lavoro, infatti, nascono sempre più spesso forti legami umani e il nuovo management, detto appunto illuminato, deve mirare al benessere dei dipendenti, offrendo loro uno stato di serenità e di tranquillità che favorisca la produttività. Sempre più spesso, oggi, alla dizione di Customer satisfaction, si aggiunge e si sovrappone quella di Employee satisfaction. Propaganda in radio durante i regimi totalitari di Marina Concetta D’Ambrosio Università UNISOB, Napoli Relatore Prof. Paolo Scandaletti L o scopo della ricerca è stato quello di analizzare la propaganda radiofonica messa in atto durante i tre regimi totalitari che hanno maggiormente segnato la storia del Novecento; il fascismo, il nazismo e la dittatura comunista di Stalin. La breve introduzione che apre la tesi si sofferma sull’importanza che ha avuto la comunicazione politica nei secoli: dall’oratoria nell’antica Grecia, quando il messaggio politico veniva veicolato nel ristretto contesto del “faccia a faccia”, sino allo sviluppo del mezzo radiofonico nei primi anni Venti del Novecento, momento in cui la modalità di trasmissione del messaggio politico e della comunicazione in generale subiscono un cambiamento epocale. La ricerca si suddivide in quattro capitoli: Nel primo capitolo si analizza la società di massa: infatti sono state proprio le caratteristiche psicologiche e strutturali della società del XX secolo ad essere la “conditio sine qua non” non sarebbe stata possibile l’in- 43 n. 2/2007 DESK T E S I D I L AU R E A staurazione dei governi dittatoriali. Si esamina il significato di due concetti chiave della ricerca: totalitarismo e propaganda, che hanno avuto interessanti variazioni semantiche sia ad un livello diacronico sia ad un livello storico-critico. Il secondo capitolo è incentrato sulla figura di Benito Mussolini, sul movimento fascista, sulle tecniche messe in atto per garantire da un lato la diffusione del mezzo radiofonico in Italia e dall’altro l’organizzazione del consenso sociale con ogni mezzo a disposizione: giornali, manifesti, cinema, radio. Il terzo capitolo è dedicato alle tecniche di propaganda messe in atto durante il nazismo ed alla spietata ed efficientissima macchina di consenso sociale attuata da Joseph Goebbels, ministro della propaganda tedesca. Quest’uomo, proprio grazie alle sue abilità, è riuscito a creare attorno alla figura di Adolf Hitler un aurea divina, ed è a giusta ragione considerato come il più grande talento propagandista del secolo scorso. Nel quarto capitolo viene analizzata la figura di Stalin; il dittatore comunista che, come Mussolini ed Hitler, comprese l’importanza di un’efficiente propaganda politica al fine garantire stabilità al proprio potere. Le conclusioni della ricerca si soffermano sullo sviluppo della radio dopo il crollo dei regimi totalitari e su come questo medium sia riuscito a reinventarsi e ad essere, ancora oggi, il secondo mezzo di comunicazione per diffusione dopo la televisione. Il mutamento sociale e il caso di Pubblicità Progresso di Martina Botti Università UNISOB, Napoli Relatore Prof. Davide Borrelli U DESK no degli argomenti centrali del dibattito sociologico attuale è il passaggio delle società a industrializzazione avanzata a una nuova era, definita genericamente come postindustriale, in cui la razionalità strumentale viene messa in ombra da nuovi sistemi di valori. In questo contesto, il fenomeno della pubblicità sociale, e soprattutto le tematiche cui essa si è dedicata da quando è nata, possono essere un fondamentale strumento per ripercorrere i mutamenti di valori e le nuove priorità che si sono diffuse in tutte le società avanzate dalla fine degli anni ’60 fino ad oggi. E’ proprio dalla fine degli anni ’60, infatti, che inizia il declino dei valori di tipo materialista, legati all’importanza data alla sicurezza economica, al consumo materiale ed alla produttività, ed iniziano invece ad emergere nuove priorità, di tipo postmaterialista, che si orientano maggiormente verso la qualità della vita, verso elementi più intangibili come la libertà, l’ecologia, la salute e la crescita personale. Questa attenzione a fattori più immateriali nasce da una serie di processi socio-culturali diversi, come il benessere economico che inizia ad essere dato per scontato, l’aumento dei livelli medi di istruzione della popolazione, nonché l’avvento dei new media che iniziano a demassificare la società rendendola più complessa ed esigente. n. 2/2007 44 T E S I D I L AU R E A Proprio per questo, specialmente in Italia, in quel periodo prende avvio la diffusione di un clima di antagonismo che inizia a circondare la pubblicità commerciale, accusata di arretratezza rispetto al nuovo clima socio-culturale che andava formandosi. Diventa ormai evidente il contrasto tra la maturazione del consumatore e l’arretratezza delle tematiche affrontate dal mondo pubblicitario, ed emerge dunque l’esigenza, soprattutto da parte del numeroso ceto di pubblicitari, di ridare valore e dignità alla pubblicità, facendola distaccare dai suoi obiettivi esclusivamente consumistici per renderla invece uno strumento al servizio del benessere collettivo. E’ così che nel 1970 nasce l’ Istituto “Pubblicità Progresso”, fondazione volontaristica senza fini di lucro nella quale molti protagonisti del mondo della comunicazione contribuiscono alla realizzazione di campagne di tipo non commerciale ma sociale. Il caso di Pubblicità Progresso, con le numerose campagne da essa realizzate, rappresenta una finestra sul percorso che i valori e i bisogni della società hanno affrontato dagli anni ’70 fino ad oggi: già all’inizio della sua attività essa affronta tematiche sociali scottanti, come il diritto alla libertà di parola, in un momento in cui il processo di democratizzazione della società iniziava a diventare evidente. Anche la tematica ecologista viene più volte trattata, seguendo l’attenzione ad uno stile di vita più sano e tranquillo che la società incominciava a preferire a quello consumistico e caotico legato alla società industriale. Valori come la solidarietà ed il rispetto per la vita umana emergono in campagne a favore della donazione del sangue, o contro il fumo, ma all’impegno sociale si affianca, a partire dagli anni ’80, l’attenzione che la società dedica alla crescita personale, e che Pubblicità Progresso appoggia con campagne a favore della crescita personale, spiegando l’importanza di mantenersi continuamente aggiornati, istruiti, di coltivare interessi che stimolino la fantasia, l’intelligenza e la curiosità della persona. Il fenomeno della pubblicità sociale, dunque, anche se in termini quantitativi rappresenta ancora una piccola parte di quella prodotta complessivamente nel nostro paese, sta assumendo una sempre maggiore rilevanza socio-culturale, in quanto va di pari passo con l’evoluzione dei bisogni e delle problematiche sociali, e rappresenta uno specchio dei problemi, dei valori, e delle esigenze dell’era postmoderna, che può aiutarci a comprendere con maggior chiarezza l’evoluzione della nostra epoca rispetto al passato. “Comunicare la salute: le campagne istituzionali per la promozione degli stili di vita salutari” di Angela Giudice Università Luiss Guido Carli, Roma Relatore: Prof.ssa Franca Faccioli N umerose ed autorevoli ricerche ci suggeriscono che oggi l’ambiente ed i comportamenti individuali rappresentano importanti cause di malat- 45 n. 2/2007 DESK T E S I DESK D I L AU R E A tia e di morte, talvolta più dei fattori di tipo biologico e sanitario. Secondo i dati dell’OMS in Europa e in Italia, infatti, l’86% dei decessi, il 77% della perdita di anni di vita in buona salute ed il 75% delle spese sanitarie, sono causati da alcune patologie strettamente connesse ad errati stili di vita – fumo di tabacco, obesità e sovrappeso, scarso consumo di frutta e verdura, sedentarietà, abuso di alcol. Si tratta quindi di costi sanitari (60 miliardi di euro per il nostro Sistema Sanitario Nazionale) e sociali (mortalità, morbilità, perdita di produttività, invalidità, violenza) affatto trascurabili, che si ripercuotono sull’intera collettività, e che hanno obbligato i governi nazionali e sovranazionali ad intervenire, attraverso programmi finalizzati a sviluppare abilità e competenze dei singoli affinché diventino soggetti attivi nella tutela della propria salute. Il Ministero della Salute e le Regioni si presentano come i due soggetti che, oltre ad amministrare la sanità pubblica, sono obbligati a svolgere una funzione educativa nei confronti della società civile. La modalità principale con cui essi hanno cercato e cercano di portare all’attenzione della collettività determinate problematiche connesse alla salute, e di sensibilizzarla in merito alle stesse, è l’attivazione di campagne di comunicazione, espressamente previste nei Piani Sanitari Nazionali e Regionali (per quelle poche Regioni che prevedono iniziative di questo tipo). Esse rientrano in quell’ambito della comunicazione istituzionale definito sociale, proprio perché finalizzato ad aumentare il livello di consapevolezza e conoscenza dei cittadini relativamente a problemi di interesse generale, anche nella prospettiva di modificarne comportamenti e/o atteggiamenti. Si tratta di un compito sicuramente non facile, avendo a che fare con pratiche fortemente radicate nelle abitudini individuali e sociali, e rivolgendosi in molti casi ad interlocutori che traggono piacere da condotte a rischio, hanno un ottimismo irrealistico sulla propria salute, sono scettici circa l’efficacia delle raccomandazioni comunicate. Nonostante tali difficoltà, si prova comunque ad entrare nella sfera privata dei comportamenti e delle scelte per introdurvi uno spunto di riflessione piuttosto che una costrizione, utilizzando i sempre più sofisticati strumenti della comunicazione pubblicitaria. Le campagne di comunicazione per la promozione degli stili di vita salutari realizzate negli ultimi anni, mostrano chiaramente il tentativo del soggetto pubblico di farsi emittente di una comunicazione meno “istituzionale” rispetto al passato, capace di porsi in concorrenza con la molteplicità di voci presenti sull’affollato mercato della comunicazione. Pur nella sostanziale diversità d’approccio ai problemi – più generalista da parte del Ministero e più improntato alla pubblica utilità da parte delle Regioni – che si traduce in una maggiore originalità e creatività dei messaggi proposti in ambito regionale, si possono tracciare delle linee guida comuni: predilezione dei mass media per richiamare l’attenzione della totalità della popolazione su un certo tema, e della comunicazione diretta ed interattiva per valorizzare il contesto d’appartenenza e fornire soluzioni più concrete ai problemi; utilizzo di un linguaggio semplice, comprensibile ed amichevole, pur senza nascondere la drammaticità di certe situazioni; scelta di ton. 2/2007 46 T E S I D I L AU R E A ni non allarmanti ma pacati, e di un clima propositivo ed armonioso, anche nella rappresentazione di situazioni complesse. Data la rilevanza dei temi trattati e le difficoltà suddette, appare evidente la necessità di migliorare e valorizzare ulteriormente queste iniziative in futuro, ricercando modalità espressive sempre più efficaci, proseguendo le campagne in modo costante nel tempo, coinvolgendo il maggior numero di interlocutori possibile. L’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria di Francesca Mauriello Università Luiss Guido Carli, Roma Relatore: Prof. Paolo Scandaletti Q uando una campagna pubblicitaria fa scalpore è facile che venga ricordata. Ma quando il Giurì dell’Autodisciplina la blocca, perché ingannevole, indecente, o comunque in qualche modo scorretta, forse alla decisione non si dà il dovuto rilievo. Eppure l’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria esamina ogni giorno moltissimi messaggi per verificarne la rispondenza al codice. Ecco perché ho scelto una tesi su questo tema. Perché, tra le forme di comunicazione, la pubblicità è certamente quella più invasiva, e per questo deve essere corretta. E se gli organi che la controllano esistono, la collettività deve conoscerli ed imparare ad attivarli. Ma chi li ha creati questi organi? Gli stessi pubblicitari, ben consapevoli che una comunicazione irresponsabile nuoce in primo luogo a se stessa, in quanto tradisce la fiducia dei consumatori e ne esce screditata. Così, si sono dati delle regole, con tanto di meccanismi capaci di farle rispettare. In Italia opera l’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria e in Inghilterra l’Advertising Standards Authority (ASA). In linea generale il loro funzionamento è simile, ma l’ordinamento autodisciplinare inglese appare più articolato. La competenza dell’ASA è più vasta, andando ad includere anche il controllo sulla disponibilità dei beni, sulla ricezione di posta indesiderata ed alcune questioni concernenti il rispetto della privacy; gli organi sono in numero maggiore: il CAP (Commettee of Advertising Practice), che redige ed aggiorna periodicamente il Codice e l’ASA, che di fatto giudica le vertenze. Ognuno di essi è diviso in due sezioni, (una per la pubblicità trasmessa dalle emittenti radiofoniche e televisive ed una per le altre forme di advertising) e le decisioni dell’ASA possono essere riesaminate dall’Independent Reviewer. I tempi di decisione sono più lunghi (fino a 12 settimane, contro i 35 giorni dell’IAP), ma il regime sanzionatorio è più completo, con l’ASA che può imporre un controllo preventivo obbligatorio dei messaggi di chi ha violato ripetutamente il codice. E delle differenze si riscontrano anche nelle pronunce, per le quali l’Authority inglese è sembrata più tollerante, lasciando correre a volte alcuni aspetti in nome di “un’evoluzione della società” che porta con sé una modifica dei principi etici su cui essa si regge. 47 n. 2/2007 DESK T E S I D I L AU R E A Un settore di particolare interesse è quello dei prodotti farmaceutici ed estetici, per il quale sono stati stabiliti principi fondamentali. Così, un farmaco non può passare per cosmetico e viceversa; i testimonials non possono suggerire idee errate circa il funzionamento del prodotto, e le modalità di presentazione, così come il contesto in cui l’oggetto si inserisce, devono essere studiati con attenzione. Ma in tantissimi altri ambiti gli istituti autodisciplinari hanno fatto un buon lavoro, dimostrando che l’autodisciplina è la strada giusta da percorrere nel controllo dell’advertising. Gli organi ci sono e funzionano, il resto ora spetta a noi. Noi cittadini-consumatori che abbiamo il diritto di assistere a campagne pubblicitarie rispettose dei principi etici ed il dovere di agire affinché ciò sia possibile; che dobbiamo diffondere una cultura della comunicazione responsabile e segnalare sempre di più le campagne scorrette, nella consapevolezza che una cittadinanza attiva rappresenta il vero motore del sistema. Movie Marketing: l’approccio di mercato nella Settima Arte di Francesco Giudici Università Luiss Guido Carli, Roma Relatore: prof. Dario E. Viganò L DESK ’idea che un film ben fatto non abbia bisogno di essere promosso sul mercato perché si è convinti che abbia le qualità intrinseche per promuoversi da solo è tanto sbagliata quanto assurda. Il cinema è comunicazione che a sua volta deve essere comunicata ed il marketing per la Settima Arte assolve a una funzione di primo piano. Tradizionalmente identificato con la comunicazione, la promozione e la vendita di quei beni che materialmente vengono consumati, il marketing cinematografico ha come oggetto un prodotto immateriale ed impossibile da standardizzare, il cui consumo è altrettanto immateriale, il film. Hollywood ha fatto di questo strumento la propria carta vincente, la conditio sine qua non del successo delle proprie pellicole: non a caso il marketing incide sempre di più sui budget di realizzazione dei prodotti filmici targati USA, facendoli lievitare dai 32 milioni di dollari del 1989 ai quasi 90 milioni del 2002. Il settore artistico e culturale ha sempre guardato con diffidenza al marketing ed in genere a tutto ciò che facesse riferimento ad un approccio economico alla cultura. Nel cinema europeo, ed italiano in particolare, il fenomeno non è mai stato in controtendenza. Questo atteggiamento era dovuto a svariate ragioni, tra cui la paura di una “mercificazione dell’arte” o di uno svilimento della creatività per assecondare gli umori di un pubblico estremamente volubile. Oggi però le imprese operanti nel settore culturale, e cinematografico nello specifico, devono far fronte all’incremento dell’offerta di beni e servizi per il tempo libero, al bombardamento mediatico che quotidianamente affolla la vista dei consumatori e alla trasformazione della cultura in un fattore di differenziazione degli stili di vita che contribuisce alla costruzione delle identità individuali. Il marketing è oggi l’elemento in grado di fare la differenza, lo strumento n. 2/2007 48 T E S I D I L AU R E A per mezzo del quale i messaggi promozionali dei prodotti filmici possono riuscire a catturare l’attenzione dei potenziali spettatori cinematografici e ad imporsi ad essa. Naturalmente un’efficace campagna di marketing e comunicazione non può evitare l’insuccesso di un prodotto che lo spettatore sanziona come mediocre o che comunque non risponde alle sue aspettative. In tal senso Lukk, uno dei più noti cultori della materia, afferma che “se una brillante campagna di marketing non può salvare un pessimo film, un buon film può perdersi nella massa se non adeguatamente supportato da una campagna di marketing”. Una caratteristica dell’attuale mercato consiste nella sproporzione tra film prodotti e film distribuiti e tra le pellicole che arrivano nelle sale e quelle che conseguono un significativo successo di pubblico e, quindi, un incasso soddisfacente al box office. Quello poc’anzi illustrato rappresenta il vero punto focale del lavoro svolto, sintetizzato perfettamente dalla citazione di Lukk. Il marketing rappresenta oggi più che mai uno strumento assolutamente indispensabile per gli operatori del comparto distributivo nazionale e, a maggior ragione, internazionale: per quanto sia difficile pensare una strategia di marketing vincente senza un buon prodotto, è senz’altro impossibile che si affermi un prodotto filmico valido privo di una opportuna strategia di marketing. Le performances economiche di un film, il suo esito al botteghino, sono estremamente imprevedibili, e ciò per l’imponderabilità dei gusti e delle preferenze dei consumatori filmici che rendono aleatorio e privo di solide basi qualsiasi piano strategico. In tal senso, ogni film è una vicenda a sé, proprio come la storia che racconta. La prospettiva teorica della Resourcebased View (RBV), presa in esame nell’opera, ha permesso di porre l’accento sul rapporto, dialettico e conflittuale, fra distribuzione ed esercizio in relazione allo snodo strategico costituito dalla sala e sulle molteplici e diverse politiche distributive implementate dagli operatori italiani. Il mirino è stato inoltre puntato sul contributo che le cosiddette “4P” del marketing mix offrono per il conseguimento del successo nel settore cinema e al ruolo giocato dalle tre fondamentali leve della promotional campaign di un prodotto filmico: advertising, publicity e promotion. Attraverso riferimenti alla realtà cinematografica italiana ed internazionale si è discusso dei selling-elements di un film e dei fattori impiegati per incrementarne la visibilità, superare gli ostacoli della semiosfera ed imporsi all’attenzione dei consumatori/spettatori cinematografici. I case studies sui quali l’autore ha avuto modo di cimentarsi in occasione dell’esperienza diretta svolta presso l’Istituto LUCE, i film Love+Hate e La Guerra dei Fiori Rossi, hanno offerto una valida base di riferimento al fine di assodare l’imprescindibilità di talune strategie promozionali nell’assai imprevedibile settore cinematografico, corroborando il ruolo strategico del marketing e della comunicazione nel far sì che un prodotto filmico consegua performances economiche apprezzabili. 49 n. 2/2007 DESK C O N V E G N I a cura di Camilla Rumi, dottoranda Università Lumsa, Roma DESK E C O N G R E S S I Roma Luiss - Cosa fa l’università per i comunicatori? E fficacia personale. Capacità di lavorare in team, di organizzare e risolvere problemi, di valutare e di misurare. Ma anche contenuti, deontologia e professionalità. E’ questo il profilo ideale dei comunicatori. Gli atenei italiani sono in grado di garantire loro una formazione che risponda alle esigenze del mercato del lavoro e ai bisogni della cittadinanza? Tali interrogativi rappresentano il primum movens de Le professioni della comunicazione in Italia. Offerta formativa, associazioni, mercato, progetto di ricerca promosso dalla Fondazione Antonveneta e dall’Università Luiss Guido Carli di Roma e diretto da Massimo Baldini, Preside della Facoltà di Scienze politiche della Luiss Guido Carli e Paolo Scandaletti, docente di Etica della Comunicazione dell’ateneo romano. I direttori della ricerca aprono i lavori del Convegno “Cosa fa l’università per preparare i comunicatori? Formazione, dati, storture”, organizzato dalla Luiss Guido Carli il 15 giugno 2007, in occasione della presentazione del primo volume dell’analisi “trilogica” relativa alle professioni della comunicazione, pubblicata ne I Quaderni di Desk. Emergono alcuni dati preoccupanti, risultato dell’attento lavoro di analisi che ha coinvolto un team di ricercatori provenienti dalla Luiss Guido Carli, dalla Lumsa e da“La Sapienza,” di Roma, dall’Università “Suor Orsola Benincasa” di Napoli e dall’Ateneo “Gabriele D’Annunzio” di Chieti- Pescara. Come hanno sintetizzato Massimo Baldini e Paolo Scandaletti, “ad una crescita ipertrofica delle sedi universitarie si aggiunge un’altrettanto incontrollata proliferazione tumorale di corsi frutto in primis dell’autoreferenzialità del corpo accademico”. Una conferma arriva dall’intervento di Alberto Abruzzese, direttore dell’Istituto di Comunicazione IULM di Milano, che sottolinea i ritardi nella realizzazione del Processo di Bologna, finalizzato alla convergenza culturale dei Paesi partecipanti. A ciò si somma un’offerta formativa spesso inadeguata, incapace di fornire agli studenti i contenuti didattici e gli insegnamenti pratici propedeutici all’incontro tra domanda ed offerta nel mercato del lavoro. E i giornalisti? L’informazione italiana è caratterizzata da una serie di criticità, che spesso passano in secondo piano per un privilegio accordato dalla società italiana agli aspetti meramente formali. Appare urgente un’inversione di tendenza che parta da un severo contesto competitivo, destinato a far emergere la competenza. Lo pensa Dario Antiseri, direttore del dipartimento di Scienze storiche e socio-politiche della Luiss che ha segnalato una serie di storture nella formazione dei comunicatori: assenza di contenuti, programmi inadatti allo sviluppo di capacità di argomentazione, pedissequa applicazione della formula 3+2. Furio Garbagnati, presidente di Assorel (Associazione Italiana delle agenzie di Relazioni Pubbliche), ha rimarcato il ruolo di primo piano che il settore delle Relazioni Pubbliche ha guadagnato nel vasto panorama della comunicazione italiana: “una disciplina a tutti gli effetti, per la quale sono indispensabili abilità specifiche e professionalità adeguatamente formate”. Ma n. 2/2007 50 C O N V E G N I E C O N G R E S S I non bisogna abbassare il livello di guardia nei confronti dei percorsi scarsamente professionalizzanti, che rispondono esclusivamente a logiche commerciali. Anche la formazione post- laurea sul campo - spiega Garbagnati - è spesso oggetto di una errata valutazione: “gli stagiaires non dovrebbero mai essere considerati una riserva di manodopera a basso costo, ma una preziosa fonte di turnover di capitale umano per le imprese”. Condivide quest’opinione anche Marco Mele, giornalista de “Il Sole 24 ore”, convinto sostenitore della necessità di una formazione universitaria per gli aspiranti giornalisti e comunicatori, che si è detto decisamente contrario al sottoutilizzo del potenziale creativo dei neo-laureati, spesso costretti a lavorare in un contesto che sfiora il mobbing. Secondo Franco Siddi, Presidente della FNSI (Federazione Nazionale della Stampa), lo spettro del precariato, uno dei problemi del nostro tempo, è un ostacolo le cui caratteristiche devono essere delineate con precisione, attraverso ricerche come Le professioni della Comunicazione. Giampiero Vecchiato, vicepresidente Ferpi (Federazione Italiana Relazioni Pubbliche), ha preso spunto dai desideri di chi studia per diventare comunicatore: uno degli argomenti più significativi per gli aspiranti comunicatori è l’etica, che, pertanto, dovrebbe diventare un tema “di posizionamento”nelle strategie di marketing dell’offerta formativa. E allora – ha suggerito Marco Mele – “perché non potenziare gli insegnamenti di etica e deontologia professionale all’interno dei corsi di laurea diretti a formare i comunicatori e i giornalisti di domani?” (Ilaria Della Corte) Roma - Tv e Minori: l’impegno del Corecom Lazio “La Tv può fare violenza psicologica sui minori, per questo occorre coniugare le esigenze del mercato con i valori dell’infanzia”. Questo ha affermato Massimo Pineschi, presidente del Consiglio Regionale del Lazio, al convegno “Tv, Minori, Corecom. Un triangolo virtuoso”, svoltosi a Roma presso la Sala Tevere della Regione. Un’iniziativa volta a sottolineare l’attenzione crescente del Corecom (Comitato Regionale per le Comunicazioni) del Lazio verso una problematica che, ormai da diversi anni, sembra essere sempre più sentita dall’intera società civile. Dal 1° gennaio 2004 il Corecom svolge, infatti, su incarico dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, una costante verifica del rispetto dei diritti dei minori nelle trasmissioni televisive a diffusione regionale. A seguito dell’approvazione dell’Accordo-quadro tra Agcom e Conferenza delle Regioni, ben quattordici Corecom (tra cui quello del Lazio, presieduto da Angelo Gallippi) assolvono funzioni delegate in materia di comunicazione, comprensive appunto di quell’attività di verifica sull’emittenza locale per la tutela dei minori. A tal proposito Maria Pia Caruso, responsabile dei rapporti Agcom-Corecom, ha spiegato come l’Autorità non fornisca linee guida e criteri operativi statici, ma parametri di valutazione molto elastici da attuare sulla base di un costante confronto con le emittenti, il pubblico e gli esperti della materia. Un impegno, quello del Corecom, estremamente im- 51 n. 2/2007 DESK C O N V E G N I DESK E C O N G R E S S I portante ed oneroso che, pur avendo già dato ottimi risultati, potrebbe essere migliorato, come sottolineato da Mario Michelangeli, assessore alla Tutela dei Consumatori della Regione Lazio, dal contributo di segnalazioni e suggerimenti da parte dei cittadini. “La tutela dei minori in Tv è un problema di cultura, di responsabilità, di matura libertà - ha affermato Samuele Ciambriello, componente del Comitato Tv e Minori del Ministero delle Comunicazioni - e, dunque, le sono essenziali l’approfondimento conoscitivo e la sensibilizzazione con i suoi percorsi persuasivi-dissuasivi, anche attraverso la concretizzazione della società e delle sue articolazioni”. La tavola rotonda, composta da docenti universitari, membri di istituzioni ed associazioni attive nel settore, ha originato un proficuo confronto di opinioni ed esperienze, ripercorrendo ciò che, fino a questo momento, si è fatto a livello di studi e di proposte sul tema della tutela dei minori in Tv. Tutti i relatori hanno concordato sulla necessità di un innalzamento del livello qualitativo delle trasmissioni televisive a diffusione nazionale e regionale, anche al di fuori della cosiddetta “fascia protetta”, e sull’esigenza di individuare un nuovo criterio di valutazione per la costituzione dei palinsesti televisivi che sostituisca quello della misurazione degli ascolti. Rientra in questo tipo di convinzioni l’iniziativa intrapresa dal Corecom Lazio, il “Bollino Qualità”, presentata durante il convegno da Domitilla Baldoni, presidente della Commissione Servizi e Prodotti Corecom. Le televisioni, le radio e le testate regionali che si sono distinte per la qualità della programmazione riceveranno, il prossimo 21 giugno presso la Casa del Cinema di Roma, la “Coccarda Blu”, uno speciale riconoscimento attribuito da un’apposita commissione composta da giornalisti, magistrati, giuristi, psicologi, artisti e, naturalmente, da alcuni componenti del Corecom Lazio. “Occorre sensibilizzare le emittenti private al problema del rapporto Tv e minori - ha sostenuto Maria Luisa Sangiorgio, presidente della Conferenza Nazionale Corecom - e dall’altra considerare il minore non solo un oggetto di tutela, ma un soggetto portatore di diritti che può trovare nella Tv uno strumento che gli offre una programmazione adeguata”. In accordo con le parole di Maria Luisa Sangiorgio, anche quelle di Giulia Rodano, assessore alla Cultura, Spettacolo e Sport della Regione Lazio, di Luca Borgomeo, presidente dell’Aiart (Associazione Spettatori Onlus), di Gianni Biondi, direttore del Servizio di Psicologia Pediatrica dell’Ospedale Bambino Gesù, e di Laura Sturlese, presidente del Centro Studi Minori e Media. Mario Morcellini, preside della Facoltà di Scienze della Comunicazione all’Università La Sapienza di Roma, e Vincenzo Zeno-Zencovich, docente di Diritto della comunicazione all’Università Roma Tre, hanno invece rilevato, rispettivamente da un punto di vista sociologico e giuridico, come la Tv, ed in generale tutto il sistema dei media, in quanto protagonista della scena di socializzazione dei minori, debba attuare efficaci processi di autoplisciplina dei propri operatori, così come le istituzioni attraverso appositi codici di autoregolamentazione. Concludendo il convegno Giancarlo Innocenzi, commissario Agcom, ha sottolineato con soddisfazione come si inizino finalmente a cogliere i risuln. 2/2007 52 C O N V E G N I E C O N G R E S S I tati concreti dell’intensa attività dei Comitati regionali in funzione dello sviluppo di uno spirito critico e di una reale consapevolezza nell’uso del mezzo televisivo. Il dibattito ha, infatti, ricordato come la televisione possa essere non soltanto una baby sitter elettronica o una cattiva maestra per gli spettatori più giovani, ma anche un importante strumento di crescita culturale, civile e morale. (Camilla Rumi) Roma - Comunicare la cultura “La cultura, in quanto bene collettivo, dovrebbe essere fruita dal maggior numero di persone possibile. Spesso, tuttavia, essa resta relegata alla conoscenza di pochi, prerogativa di élite e di classi privilegiate. Per uscire da tale ‘stato di letargo’, la cultura, intesa nelle sue più varie accezioni, necessita pertanto di essere divulgata attraverso l’utilizzo delle tecniche e degli strumenti più evoluti della comunicazione”. Questo lo scopo emerso dal convegno “Comunicare la cultura”, tenutosi lo scorso 11 maggio presso l’Aula Magna della Libera Università Maria SS. Assunta (Lumsa) di Roma. Al dibattito moderato da Massimiliano Tonelli, direttore della rivista culturale “Exibart”, sono intervenuti docenti universitari, esperti di comunicazione e professionisti operanti nei diversi settori della cultura, con l’intento di capire come quest’ultima, nella veste di bisogno, riflessione, svago, crescita, socialità e divertimento, possa essere diffusa presso l’intero corpo sociale, senza alcuna distinzione. “La comunicazione – ha dichiarato Gennaro Iasevoli, direttore del Master in Marketing e organizzazione degli eventi presso la Lumsa – deve saper chiamare in causa istituzioni e mercati diversi, conoscere le esigenze dei consumatori, avere la capacità di identificare e creare partnership, interpretando bene i tempi in uno scenario in continua evoluzione”. Coinvolgere il cittadino nella fruizione dell’evento culturale rappresenta, quindi, un’operazione complessa, soprattutto a fronte di una frammentazione del tessuto sociale che fa sì che nel Paese esistano per lo più mercati settorializzati. Madel Crasta, segretario generale del Consorzio BAICR, ha sottolineato infatti come le imprese debbano uscire da una logica esclusivamente commerciale e realizzare progetti di convergenza, se sono davvero intenzionate a sfatare un’idea di cultura come di un benessere riservato a pochi. Della stessa opinione Mario De Simoni, direttore dell’area gestione operativa del PalaExpo, il quale ha evidenziato come le aziende operanti nell’ambito culturale non abbiano solo il dovere di comunicare dove e quando si realizzeranno gli eventi, ma anche il perché si offrono e i benefici che arrecano. Molteplici sono, infatti, i momenti in cui una cultura comunica, talvolta anche in maniera implicita, attraverso gli allestimenti espositivi, il merchandising, la didattica, i servizi tecnologici, i rapporti con i media, la pubblicità, il valore della marca e dell’impresa sponsor. Particolarmente interessanti anche le testimonianze di Stefania Esther La Sala, responsabile comunicazione del Dipartimento Politiche Culturali del Comune di Roma, e di Kristina Herrmann Fiore, direttore della Galleria Borghese, i cui interventi hanno cercato di chiarire come si debba operare 53 n. 2/2007 DESK C O N V E G N I E C O N G R E S S I per contribuire alla valorizzazione del patrimonio storico-culturale del nostro Paese. Tale obiettivo diventa possibile soltanto attraverso l’attuazione di politiche aperte e flessibili, una pianificazione degli eventi culturali in sintonia con le strategie comunicative, da applicare in maniera concreta, affidabile e tempestiva, e soprattutto considerando i cittadini come soggetti portatori di interessi e di attese e la cultura non come un costo, ma bensì come un ricavo. Il dibattito è stato concluso dall’intervento della Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia della Lumsa, Maria Grazia Bianco, che ha sottolineato come sia necessario battersi per l’affermazione di un sapere che sia funzionale alla crescita dell’uomo, e da quello di Fabio Severino, curatore del volume “Comunicare la cultura”, il quale ha sostenuto come tale operazione potrà diventare realmente efficace solo nel momento in cui si attuerà un radicale cambiamento di prospettiva: dovrà infatti essere la cultura stessa a proporsi e sottoporsi, attraverso diverse tecniche e strumenti comunicativi, ai gusti e agli interessi dell’intera collettività. (C. R.) Roma Luiss -“Libertà d’informazione e dovere di cronaca” Incontro con Marco Travaglio Perché ha deciso di diventare giornalista? E, soprattutto, perché un giornalista libero? Perché fin da bambino volevo fare questo, il giornalista. Mi chiedi: perché libero? Il vero giornalista è libero, se no che giornalista è? Con questo scambio di battute è cominciato l’incontro fra Marco Travaglio e gli studenti della Luiss-Guido Carli, tenutosi il 24 aprile scorso nella sede dell’università romana. Affrontando il tema della libertà d’informazione e del dovere di cronaca, Travaglio ha raccontato le sue esperienze e la sua visione del giornalismo italiano, fra mete ideali da inseguire e difficoltà reali da affrontare. Il problema principale, in Italia, è la “scomparsa dei fatti”, ossia la mancanza cronica di informazioni complete, veritiere e corrette. Questa patologia, che investe tutti i settori della società italiana, è frutto della scarsa diligenza professionale dei giornalisti e del predominio di interessi privati sul valore pubblico dell’informazione. Le distorsioni del sistema hanno favorito la diffusione di vere e proprie tecniche di manipolazione dei fatti, che rischiano di diventare parte delle routine produttive della notizia. Il modo più comune di manipolare la realtà è ignorare completamente il fatto, rimuovendolo dall’agenda setting. Più sottile è il “modello Porta a Porta”: i fatti più importanti, ma “scomodi”, sono occultati ingigantendo altri eventi “normali”. I “falsi indipendenti” si nascondono dietro inutili dibattiti d’opinione per “salvare la faccia e la poltrona”, mentre i protagonisti dei fatti scomodi evitano sempre di prendere posizione di fronte alle accuse. Infine, si manipolano i fatti anche cambiando nome alle cose: è così che le guerre diventano “missioni di pace” e i corrotti di Tangentopoli le “vittime” del sistema. Il DESK n. 2/2007 54 C O N V E G N I E C O N G R E S S I vero giornalista, invece, deve disturbare il potere, perché, ha concluso Travaglio, soltanto in questo modo realizza pienamente il suo ruolo di watchdog delle istituzioni democratiche e della società civile. (Annarita D’Agostino) Citta’ della Pieve - L’incontro delle testate locali Da Ravenna a Bari, da Sondrio a Bologna, da Trento a Napoli, passando per tanti centri “minori” della profonda provincia italiana, oltre 50 sono stati i giornali (circa 140.000 copie complessive per uscita distribuite in 15 diverse province di 7 regioni) presenti a “Cronache italiane”. Tra quest,i periodici con struttura editoriale consolidata, fogli volontaristici, militanti, settimanali diocesani… Hanno portato a Città della Pieve una testimonianza in “presa diretta” sullo stato di salute della comunicazione (e non solo) nel nostro Paese. Una risorsa indispensabile per la democrazia e il rafforzamento delle identità locali, la stampa periodica “di prossimità” avrà un futuro solo se riuscirà ad unire le proprie forze, facendo particolare attenzione alle nuove (ma ormai attualissime) tecnologie, per affrontare le sfide quotidiane: è questo il quadro, e l’indicazione di massima, emerso dalla tre giorni di dibattiti e incontri di “Cronache italiane”, primo forum nazionale della stampa periodica locale, organizzato dal 15 al 17 giugno a Città della Pieve dal periodico Primapagina, dall’associazioneVocinrete in collaborazione con il Comune pievese e con il patrocinio della Provincia di Perugia. Un mondo vasto e variegato, quello della piccola editoria periodica locale, che si è ritrovato nella città del Perugino per discutere e confrontarsi sullo stato di salute, e sulle prospettive di sopravvivenza e sviluppo future, di una fetta così importante della stampa nazionale (da un recente studio infatti risulta che siano oltre 1.500 le testate locali di informazione registrate). Tre giorni di dibattiti e incontri che non sono stati, però, una semplice occasione di discussione e confronto, ma che sono serviti anche per gettare le basi di un progetto di collaborazione (che verrà definito e presentato ufficialmente nelle prossime settimane) tra realtà giornalistiche geograficamente lontane ma accomunate dalle medesime problematiche organizzative di fondo. Il Forum, che ha trovato l’attenzione di Mediacoop (il network delle testate cooperative), di alcuni parlamentari come gli on. Ezio Locatelli e Ali Rashid di Rifondazione, Marina Sereni dei Ds e dello stresso Presidente della Camera, on. Bertinotti, ha visto la partecipazione di docenti universitari (Roberto Segatori dell’Università di Perugia, Paolo Scandaletti della Luiss di Roma), di amministratori locali, di giornalisti e personaggi della tv come Luca Cardinalini (Rai e Il Manifesto) e Enrico Vaime (La 7) protagonisti di divertentissime interviste in piazza, una sul “calcio visto da sotto” e una sul linguaggio con cui i media raccontano l’Italia. Toccanti e serissimi invece i contributi di Massimo Pumilia giornalista napoletano costretto a chiudere il suo giornale in seguito alle minacce e alle 55 n. 2/2007 DESK C O N V E G N I E C O N G R E S S I violenze della camorra e Raffaele Baldoni, fratello di Enzo Baldoni, il freelance ucciso in Iraq nel 2004. Cronache Italiane, dopo questa prima edizione resta un “cantiere aperto” nel senso che diventerà un appuntamento annuale e proporrà iniziative specifiche tra una edizione e l’altra. Città della Pieve, la città del Perugino, al confine tra Umbria e Toscana, si candida, con questo evento, a diventare la capitale di questo strano, variegato e complesso arcipelago dell’informazione. Tanto per cominciare, la Biblioteca comunale, capofila delle biblioteche del comprensorio del Trasimeno, ospiterà infatti una sezione dedicata alla stampa locale di tutta Italia, a cominciare proprio dalle testate che hanno partecipato al Forum. Tra i periodici presenti: Questo Trentino, di Trento, La Voce della Valchiavenna di Chiavenna (So), Dialogo in Valle di Condove (Cn),Servizi e Società di Milano, Il Piccolo (Faenza), Sabato Sera e Sette Sere di Imola, Qui Magazine di Ravenna, Il Picchio Rosso di Budrio (Bo), Il Galletto e In Mugello di Borgo San Lorenzo (Fi), Toscana Oggi (Fi), L’Attenzione di Firenze, L’Araldo Poliziano (Montepulciano), Primapagina di Chiusi (Si), Metisse di Siena, Centritalia di Chianciano T. (Si), Montepiesi di Sarteano (Si), Il Vitellozzo di San Casciano Bagni (Si). Lungolago, Attraverso e Atipico di Castiglione del Lago (Pg), Il Poggio di Città della Pieve (Pg), Il Progresso di Monteoleone d’Orvieto (Tr), L’Altrapagina di Città di Castello (Pg), La Tramontana, Risonanze, Micropolis, Fuori Guida, Tutto Perugia, La Voce, Artico, di Perugia, Tutto Gubbio di Gubbio (Pg), Iesi e la sua Valle di Iesi (An), Il Progresso di Fabriano (An), Carta di Roma, Il Granchio di Nettuno (Roma), La Città di Sulmona (Aq), il Golfo di Ischia, La Voce della Campania di Napoli, Patto Magazine di Lucera (Fg), In Città di Giovinazzo (Ba), Quindici di Molfetta (Ba), Eventi e Commenti di Corato (Ba). Le testate Varieventuali di Ivrea, La Piazza Grande di Fossano (Cn), Dialogo di Modica (Rg), hanno inviato materiali e copie del giornale; le testate Amiata Storia e Territorio di Arcidosso (Gr), Tam Tam di Todi, Il bene Comune di Campobasso, La Riviera di Catanzaro, La Voce di Carpi (Mo), L’ora del Salento di Lecce, La Città di Orvieto, Alea Edizioni di Milano, Il Giornale di Scicli di Scicli (Rg), pur non essendo fisicamente presenti hanno comunque aderito al Forum dichiarandosi disponibili a partecipare attivamente. (Marzia Papagna e Filippo Costantini) Roma Ucsi - Narrare la professione R DESK accontare è il modo più efficace di far conoscere a qualcuno ciò che si è visto o sentito. Ai tempi degli aedi omerici, d’altronde, questo era il sistema più usato per ricordare alle nuove generazioni non solo i fasti mitici della propria stirpe, ma anche e soprattutto le storie del proprio passato, al fine di ‘formare’ in qualche modo chi avrebbe avuto in mano il futuro. Venendo ai giorni nostri, tuttora i moderni cronisti sanno fare bene il proprio mestiere se e quando sono in grado di raccontare – con dovizia di parn. 2/2007 56 C O N V E G N I E C O N G R E S S I ticolari e capacità di trasmetterne il senso – suoni, immagini, significati degli eventi, così come informazioni, emozioni, stati d’animo delle persone. Anche per questo motivo, nell’ambito delle iniziative di formazione e servizio che l’Unione Cattolica della Stampa Italiana del Lazio ha realizzato e realizza da anni, si è deciso di riproporre per la terza edizione il ciclo di appuntamenti dal titolo “Narrare la professione”, quest’anno con il sottotitolo: “Il giornalismo raccontato da chi lo fa”. Raccontare, appunto. In questo caso, raccontare è spiegare e in un certo senso far vivere ad altri, attraverso la propria esperienza professionale, un mestiere unico, difficile, che ha subìto nel tempo innumerevoli cambiamenti ed evoluzioni – ed è tuttora in fase di ulteriori sviluppi – e che, forse proprio per questo, suscita nell’immaginario collettivo pensieri e giudizi contrastanti. C’è, infatti, chi non sopporta la categoria dei giornalisti, o ancora chi ritiene il loro un mestiere non utile alla società; ma c’è anche chi non riesce a saltare due appuntamenti informativi della sera consecutivamente, o chi invece resta affascinato dalla capacità che i cronisti hanno di trasmettere dati, immagini, parole del mondo in cui viviamo e di come tutto ciò, talora, possa servire a starci dentro meglio. Tra coloro che provano queste seconde sensazioni, ovviamente, c’è anche una folta schiera di studenti universitari che hanno scelto di seguire un corso di studi che li avvicini a questa professione e fornisca loro i cosiddetti “attrezzi del mestiere”, abituandoli alle situazioni che troveranno poi nelle redazioni di periodici, telegiornali, uffici stampa e quant’altro esiste oggi nel mondo dell’informazione e della comunicazione. A loro, ma non solo, è stata dunque indirizzata l’iniziativa “Narrare la professione”, con la quale l’UCSI Lazio si propone di dare spazio e voce di volta in volta a un giornalista di fama nazionale affinché racconti qual è stata la sua esperienza nel campo dell’informazione, dagli esordi fino al momento presente. Le figure scelte hanno differenti attitudini giornalistiche e provengono da esperienze professionali variegate, al fine di garantire e, anzi, in qualche modo favorire la conoscenza del più ampio spettro possibile di “giornalismi” oggi presenti. Gli incontri di “Narrare la professione”, tuttavia, si sono spesso rivelati occasioni uniche nelle quali parlare dell’evoluzione del mestiere di giornalista dalla penna alla tastiera del pc, dalla cabina telefonica al telefono cellulare, dal giornale cartaceo – tuttora, per la verità, discretamente diffuso – al giornale on-line sul web, senza però mai dimenticare che l’informazione è fatta di capacità di scrittura e di contenuti. Quest’anno, poi, il ciclo di appuntamenti è divenuto “itinerante”, poiché è stata fatta la scelta di tenere i diversi incontri in differenti atenei della Capitale. Questo, nelle intenzioni, al fine di facilitare la partecipazione e l’interscambio tra i praticanti delle diverse scuole di giornalismo romane. A conti fatti, le aspettative non sono state tradite e sono stati numerosi i giovani che hanno seguito gli appuntamenti 2007. Ma “Narrare la professione”, in questo terzo anno, è stata anche un’opportunità imperdibile per analizzare nello specifico, grazie alla presenza di ospi- 57 n. 2/2007 DESK C O N V E G N I E C O N G R E S S I ti con grande esperienza, alcuni eventi-chiave del nostro recente passato; un modo ‘giornalisticamente’ produttivo di riflettere sull’attualità e come le molteplici sensibilità degli “addetti ai lavori” l’hanno recepita e raccontata, rendendola disponibile in molti differenti ‘tagli’ al grande pubblico. Una delle caratteristiche degli incontri che più è piaciuta fin dalla prima edizione, comunque, resta lo spazio riservato alle domande dei partecipanti; in questo modo, a chi è presente è possibile, ad esempio, chiedere al conduttore di un telegiornale nazionale o al caporedattore di una importante testata giornalistica radiofonica il criterio utilizzato nella comunicazione di una notizia o di un avvenimento; o, ancora, la filosofia di fondo che guida un’azienda editoriale di un certo tipo piuttosto che di un altro. Senza dimenticare alcuni utili flashback nella storia dell’informazione e dei mezzi di comunicazione di massa del nostro Paese. Venendo ai dati concreti dei quattro appuntamenti di quest’anno, meritano di essere ricordati gli ospiti che hanno reso possibile l’edizione 2007 di “Narrare la professione”: il primo a “raccontarsi” è stato Jean Leonard Touadì, giornalista e assessore all’Università e ai giovani del Comune di Roma, che ha parlato il 21 febbraio presso la sede di via Principe Amedeo dell’Università “La Sapienza” di Roma; il 7 marzo è stata invece la volta di Roberta Gisotti, giornalista della Radio Vaticana, e di Nicoletta Berardi, autrice tv, presso l’Università Pontificia Salesiana; un intenso dibattito è scaturito nel corso della relazione di David Sassoli, conduttore e vice-direttore del TG1, che ha richiamato oltre 50 giovani nell’Aula Pizzardo dell’università LUMSA il 28 marzo; altrettanto intenso è stato l’appuntamento di chiusura, il 23 marzo, che si è svolto nella sede del periodico dei gesuiti “Civiltà Cattolica” e ha avuto come ospite il direttore del TG1, Gianni Riotta. “Narrare la professione” è però, per l’UCSI, anche un investimento a lungo termine sui giovani: grazie a questi incontri, infatti, molti aspiranti giornalisti imparano a conoscere l’Associazione e le persone che ne fanno parte, nonché i suoi obiettivi e le motivazioni per cui agisce, comprendono l’importanza di avere qualcuno con cui confrontarsi sui problemi che il lavoro nell’ambito del complicato mondo dell’informazione pone e iniziano a non pensare più di essere gli unici a dover affrontare difficoltà che invece tutti condividono, scoprendo l’importanza dell’avere un luogo all’interno del quale poter porre e porsi domande, un posto nel quale continuare una riflessione culturale che non può finire con la discussione della tesi. Soprattutto, grazie a iniziative come “Narrare la professione” è possibile instaurare con questi studenti – che in molti casi saranno, ci auguriamo, il futuro del giornalismo italiano – legami di collaborazione e di amicizia, affinché i valori, le attenzioni e le iniziative che l’UCSI Lazio ha portato e intende portare avanti nel panorama socio-culturale regionale possano continuare ad avere spazio e interpreti adeguati. (Francesco Macaro) DESK n. 2/2007 58 L I B R I LIBRI RECENSIONI a cura di Settilio Mauro Gallinaro, tutor all’Università La Sapienza, Roma Q ui si parla del modo, così diffuso tra i politici e praticato con l’aiuto di consulenti tanto agguerriti quanto spregiudicati, di inquinare l’informazione pubblica e politica a fini personali e di partito; in barba ai cittadini elettori, cioè alla vera unica fonte del potere, negli stati retti con la cultura ed il sistema propri della democrazia. In Italia, il fenomeno è in progressione quasi inarrestabile e procede in parallelo ai trionfi della tv commerciale. Si va dalle riprese, pressocchè innocenti, del volto solo dalla parte dove l’occhio è ben aperto e dalle battute- bugie con le gambe corte, fino alle omissioni sorrìdenti e agli ottimismi perpetui. Giocando pesante quando si cerca di sconvolgere la gerarchia delle notizie nella quotidiana agenda setting, facendo irrompere allarmi a vasta presa; oppure, srotolando telegiornali fotocopia e a panino, che accentuano i contrasti fra i leader. Con giudizi sulle persone ed accuse del tutto avulse dai nodi irrisolti della vita che scorre nelle pagine di cronaca, tanto più dai provvedimenti che le parti politiche dovrebbero predisporvi a soluzione. Dalle piazze greche dove si sono sparsi i primi semi democratici alle grandi dispute pubbliche medioevali, dalle righe di Gutemberg alle onde radio, bugie e trucchi della politica per girar le cose a proprio favore danneggiando gli avversari, si son sempre visti. Il davvero grave di oggi è nel nuovo contesto: i luoghi della politica sono scomparsi a favore delle grandi tv politicizzate; i ras dei partiti centralizzati nominano persino quei parlamentari che una volta sceglievamo noi.. E ai cittadini, - per loro utilità elettorale, quantomeno - venivano a raccontare cosa stavano facendo nelle istituzioni. Così recite e bugie la fan da padrone. ( Per chi voglia approfondire, “Iscritti, dirigenti ed eletti” di Luciano Bardi, Piero Ignazi e Oreste Massari, Università Bocconi ed.) Il pregevole libro di Giancarlo Borsetti si distende in capitoli ricchi di personaggi, episodi, racconti e casi di studio. Convince meno quando afferma che tutto è ormai manipolabile e manipolato. Se anche lo fosse in così larga misura, non va dimenticato infatti che sempre più persone, anche fra le semplici che stanno davanti alla tv molto tempo, hanno scoperto il gioco, i modi e le parole di una propaganda (questo è il suo vero nome in italiano) che per l’eccesso si è fatta controproducente. L’altro rimedio auspicato dall’Autore sta nel rafforzamento della Rai come servizio pubblico. Se potesse funzionare…Non escluderei i benefici che potrebbero giungere dalla liberalizzazione del sistema politico-elettorale italiano, rimesso nelle mai della gente a cominciare dal referendum in corso; e da quella del sistema dei media, appesantito dai peccati originali delle proprietà e degli interessi ex- 59 n. 2/2007 G IANCARLO BOSETTI Spin ed. Marsilio pp. 220, € 13,00 DESK L I B R I traeditoriali, delle tv tanto grandi quanto egocentriche, della pubblicità che inquina l’informazione. I colossi americani hanno ripreso bene riscoprendo i cittadini -lettori –utenti. (Paolo Scandaletti) VI Rapporto Censis-Ucsi sulla comunicazione Le diete mediatiche degli italiani nello scenario europeo Franco Angeli pp. 223, € 22,00 DESK S ei anni di monitoraggio e di analisi per delineare le diete mediatiche dei cittadini italiani ed individuare le aspettative e gli stili di fruizione dell’utenza, senza dimenticare l’indagine dell’offerta, la formazione e le esigenze dei professionisti dell’informazione e della comunicazione. Sono questi i capisaldi dell’indagine annuale Censis-Ucsi sulla comunicazione. Il successo ottenuto dai Cinque Rapporti sulla comunicazione in Italia ha consentito di ampliare gli orizzonti della ricerca: il Sesto Rapporto varca i confini nazionali e realizza una comparazione europea. Il monitoraggio de Le diete mediatiche degli italiani nello scenario europeo dipinge un’Italia in corsa, un Paese che negli ultimi sei anni è stato protagonista di una rivoluzione dei consumi mediatici e degli stili di fruizione, che ha visto crescere la propria popolazione “multimediale”, ma che, ancora oggi, presenta un ritardo rispetto alle altre nazioni oggetto della comparazione (Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna). L’aumento percentuale dei post- moderni, ossia degli utenti che si caratterizzano per una dieta mediatica varia ed un uso consapevole dei diversi mezzi di comunicazione, infatti, non riesce a compensare l’influenza di quelle fasce della popolazione italiana che restano imprigionate in una gabbia di marginalità mediatica. Uno dei principali ostacoli all’estensione della popolazione multimediale è la dipendenza dal modello televisivo analogico-terrestre, che è la più alta fra i Paesi europei: il 72,1% dei cittadini italiani, infatti, vede solo i programmi della televisione tradizionale. La variabile anagrafica e le differenze relative al livello di istruzione confermano la loro rilevante influenza sui consumi mediatici degli italiani e sulla presenza di un preoccupante divario culturale, ma i ricercatori del Censis rilevano alcune vistose eccezioni. E’ il caso dei “nuovi post- moderni”, un segmento della popolazione di cui si sa ancora poco, composto prevalentemente da persone giovani e con un buon livello di istruzione, che gestiscono con disinvoltura i new media, estromettendo, però, la carta stampata dalla propria dieta mediatica. Anche la relazione dei media con il pubblico è al centro dell’interesse dell’analisi Censis- Ucsi: in un contesto in cui il mezzo attraverso il quale sono veicolati i messaggi risulta sempre meno vincolante, mentre è la ricerca dei contenuti la principale motivazione alla fruizione, l’individuazione dei bisogni comunicativi dell’utenza diventa un elemento centrale dell’indagine sul rapporto tra cittadini e media. Le principali finalità che spingono al consumo dei mezzi di comunicazione, secondo i risultati emersi dall’analisi del Censis, sono, nell’ordine: informarsi, approfondire le conoscenze acquisite, trovare un momento di svago e divertimento o di compagnia, concedere spazio alla musica, orientarsi per gli acquisti e risolvere questioni pratiche. Ma qual è la situazione dell’offerta di informazione e di comunicazione nel nostro Paese? n. 2/2007 60 L I B R I Il Sesto Rapporto non abbandona il tradizionale impianto, caratterizzato da uno sdoppiamento della ricerca annuale: la seconda sezione dell’indagine si concentra, infatti, sulle prospettive della professione giornalistica nelle nazioni europee oggetto della comparazione. Francia, Gran Bretagna, Spagna, Germania e Italia sono accomunate dalla “biforcazione” del percorso che conduce all’esercizio dell’attività giornalistica. Una delle due alternative è la “via colta”, sempre più caldeggiata a livello di associazioni professionali e di istituzioni pubbliche, che passa attraverso le aule universitarie e che ha l’obiettivo di garantire una formazione adeguata all’importanza di tale professione per la società. Resiste, tuttavia, il percorso on the road, la gavetta che gli aspiranti giornalisti affrontano, come si dice in gergo, “battendo i marciapiedi”. E’ importante sottolineare che, nonostante il profilo dei giornalisti risponda sempre più alle esigenze di professionalizzazione e di formazione di livello universitario, in tutti i quattro Paesi oggetto della rilevazione la laurea non è un requisito obbligatorio per l’esercizio di tale attività. La scelta della “via colta” da parte di un numero crescente di giornalisti testimonia, pertanto, l’esigenza di passare da una fase artigianale dell’attività a figure professionali sempre più qualificate, con caratteristiche tecnico-culturali adeguate, a garanzia di un’informazione migliore. (Ilaria Della Corte) N on avranno forse le risorse economiche di Rai e Mediaset e neppure la varietà e l’equilibro dei palinsesti dei grandi network nazionali, ma le piccole tv locali rappresentano indiscutibilmente, da ormai più di vent’anni, uno spaccato della nostra società tutt’altro che trascurabile. Il volume scritto da Aldo Grasso, professore di Storia della radio e della televisione all’Università Cattolica di Milano, oltre che noto editorialista e critico televisivo del Corriere della Sera, vuole appunto riportare alla luce il mondo sommerso delle tv locali ricordando come esse non siano un’imitazione malriuscita dei grandi network, ma una risposta forte ad un processo di globalizzazione, ormai realizzatosi a tutti i livelli della vita associata, che rischia di fagocitare tradizioni e identità forse minoritarie ma non per questo meno importanti. Dopo una partenza selvaggia ed incontrollata sul finire degli anni Settanta, si assiste ad un periodo di assestamento grazie al quale l’emittenza locale vede la propria struttura razionalizzarsi e la possibilità di aggregare pubblici sempre più vasti. Sulla scia di TeleBiella, prima tv privata in Italia, e dei provvedimenti emanati dalla Corte Costituzionale, volti a liberalizzare le trasmissioni via cavo, prende così inizio una nuova fase in cui cominciano a delinearsi progetti a lunga scadenza e percorsi meno improvvisati. Impostesi all’attenzione del pubblico attraverso le televendite, le tv locali si avviano a diventare delle vere e proprie comunità virtuali, affatto interessate ad imitare Rai e Mediaset, costituendo di per sé un modello da cui “rubare” idee, atmosfere e sensazioni. Se qualche anno fa la fortuna dell’emittenza locale sembrava seriamente compromessa per via dei costi di gestione sempre più onerosi, della scarsità degli introiti pubblicitari e della spietatezza dei grandi network nell’acquisizione delle frequenze, oggi la situazione è radicalmente cambiata. Co- 61 n. 2/2007 ALDO GRASSO La Tv del sommerso. Viaggio nell’Italia delle tv locali. Ed. Mondadori, pp. 190, € 9,40 DESK L I B R I me spiega l’autore del volume, è stato proprio l’avvento della tv satellitare, descritta da alcuni come “la pietra tombale del localismo”, a donare una nuova inaspettata vitalità al mondo delle tv locali. Dalla metà degli anni Novanta quest’ultimo ha infatti visto raddoppiare il proprio fatturato e i propri indici d’ascolto. Come interpretare questa tendenza? “Le tv locali - scrive Aldo Grasso - sono la risposta alla paura del globale, ad una società in cui cade la distinzione tra sfera pubblica e privata che rimette completamente in gioco le coordinate spazio-temporali dell’intera esistenza umana”. Il volume, teso ad analizzare la varietà di un’offerta che stenta ad affermarsi in un mercato dalle tendenze internazionali ed una galleria di personaggi spesso più interessanti di quelli delle reti generaliste, viene concluso dal saggio di Stefania Carini e Massimo Scaglioni, esperti del settore radio-televisivo, diretto ad illustrare il quadro economico e gli ascolti delle principali emittenti locali. Un universo che sembra, quindi, non aver terminato la propria missione storica e che dovrà cimentarsi nel complesso e delicato compito di rappresentare le diverse identità regionali sulla nuova piattaforma del digitale terrestre. (Camilla Rumi) ALBERTO LORI Manuale di conversazione. Guida alla comunicazione integrale, Rai Eri, pp.126, €13,00 BARBARA SCARAMUCCI GUIDO DEL PINO, Come si documenta la tv Rai Eri, pp. 144, €18,00 DESK “ Comunicare - scrive Alberto Lori - significa trasmettere, ma soprattutto far capire ad altri il nostro messaggio»: sia esso un’idea, un progetto, una sensazione, un’emozione, un messaggio che sia destinato ad essere trasmesso deve, prima di tutto, essere condiviso. Perché ciò avvenga, colui che del messaggio è soggetto emittente deve fare ricorso, spesso nello stesso frangente, a diverse modalità di comunicazione: la parola, primo e più scontato codice della comunicazione, ma anche il timbro di voce, il tono, il volume, il ritmo, nonché la postura, la gestualità, la mimica. È proprio a questi tre codici, tra loro diversi eppure spesso convergenti, che Alberto Lori dedica il suo bel volume: una ricostruzione analitica ed approfondita, corredata peraltro di numerosi esempi, che insegnano a governare la comunicazione verbale, quella paraverbale ed infine l’atteggiamento non verbale, dimostrando come un buon comunicatore deve essere in grado di padroneggiare tutti questi diversi codici, lasciando di volta in volta prevalere ora l’uno ora l’altro. Tuttavia, la comunicazione non è un qualcosa che si vive solo nel presente - nell’attimo, cioè, in cui essa ha tempo e luogo - bensì una dinamica di cui speso di deve conservare il ricordo. Al problema della conservazione/documentazione della memoria comunicativa, nello specifico di quella televisiva, da molti anni ormai si dedicano Barbara Scaramucci e Guido Del Pinto, che in Come si documenta la tv raccontano la loro esperienza in proposito alle Teche Rai. Obiettivo del volume è senz’altro quello di raccontare - ed al tempo stesso dimostrare - come la documentazione sia un’attività complessa, che richiede al tempo stesso conoscenza degli strumenti di documentazione ma anche dei contenuti che devono essere documentati. Parole chiave, dati anagrafici, protagonisti e personaggi, puntate e serie, prodotti e formati: queste sono solo alcune delle chiavi di lettura che il documentare deve saper padroneggiare, tanto nella fase di costruzione degli archivi quanto in quella, successiva ma altrettanto impor- n. 2/2007 62 L I B R I tante, di fruizione dell’archivio stesso. Non è quindi casuale che il volume si chiuda con una guida alla consultazione delle Teche Rai: una guida che vuole istruire l’utente circa le opportunità di ricerca, e di utilizzo di quel grande laboratorio di esperienze e documentazione che è appunto rappresentato dalle Teche Rai. D’altronde, scrivono gli Autori a conclusione della loro introduzione, spiegando il perché di questo volume e del perché proprio in questo momento, «la tecnologia e la potenza della comunicazione hanno esaltato il valore della documentazione […]: abbiamo pensato che, anche in una logica di trasparenza propria di un’azienda di servizio pubblico, fosse giunto il momento di rendere pubbliche le modalità e le regole della documentazione aziendale Rai quale contributo al dibattito in corso a vari livelli per la miglior conservazione della memoria collettiva". (Marica Spalletta) U n processo spietato che porta ad un ineluttabile giudizio di colpevolezza, senza nessuna possibilità di ricorrere in appello per il condannato: questo è quanto esprime questo volume, un’aspra condanna al sistema universitario ritenuto malato ed assimilato in tutto e per tutto ad un’organizzazione mafiosa. L’autrice muove dalla ricostruzione di fatti giudiziari che hanno coinvolto vari atenei italiani per descrivere la storia dell’ “università di cosa nostra”, caratterizzata essenzialmente da regole non scritte, ma che tradizionalmente regolano i rapporti e le procedure del sistema, specialmente quelle concorsuali, precedute da “riunione carbonare” e gestite molto spesso dagli stessi soliti membri di una “cupola” , che per scambiarsi favori si vedono molto spesso costretti a bocciare il miglior candidato a vantaggio di “figli, nipoti, amanti, allievi” di potenti baroni. Quanto emerge è una situazione desolante, basata sulla logica del do ut des, di intercettazioni telefoniche che hanno smascherato “un mercato gestito da organizzazioni togate” per l’assegnazione delle cattedre, ma anche un traffico a livello più basso, come ad esempio per la compravendita dei singoli esami, sino a poter stilare un vero e proprio “tariffario” per il superamento delle diverse discipline e per il conseguimento del titolo finale. Verbali d’esame contraffatti, docenti che costringono i propri ricercatori a restituire loro in nero i compensi erogati dai dipartimenti, candidati obbligati a ritirarsi da concorsi per favorire vincitori predestinati, molestie sessuali in cambio di ottenere in anticipo le risposte ai test di selezione universitari: questi sono solo alcuni degli episodi di malcostume e corruzione che caratterizzano il sistema universitario, che spesso soffre, inoltre, di malsani rapporti con il mondo delle istituzioni, di una “selvaggia spartizione dei pochi fondi ministeriali con il bilancino della politica”. Il tutto, è condito da un eccessivo proliferare degli atenei e dal sorgere di numerose sedi decentrate, che porta l’autrice a parlare di “polverizzazione dell’università”. La cosa peggiore è che, se i “delinquenti” sono pochi, tanti sono “i molluschi” che abbassano la testa e accettano passivamente questo sistema corrotto. In un panorama così negativo, che evidenzia solo il marcio, in quest’analisi deprimente per chi vive l’università, vi lavora con passione e ripone in essa fiducia e speranza, emerge da parte dell’autrice un finale barlume di speranza: un cam- 63 n. 2/2007 CRISTINA ZAGARIA Processo all’Università. Cronache dagli atenei italiani tra inefficienze e malcostume, Edizioni Dedalo 2007, pp. 326, € 16,00 DESK L I B R I biamento può partire dalle minoranze, dai pochi che hanno il coraggio di denunciare i misfatti e il malcostume dilagante, dagli studenti che devono costituire una nuova classe dirigente, traghettati da docenti che - oltre al sapere - trasmettano loro dei valori. Primo fra tutti l’integrità morale. (Valeria Lupo) NATASCIA VILLANI (a cura di) Libertà della ricerca o libertà dalla ricerca? Spirito universitario e responsabilità della ragione. Edizioni Scientifiche Italiane, pp. 136, € 13,00 DESK I l volume raccoglie le relazioni dei partecipanti al convegno “Libertà della ricerca o libertà dalla ricerca?” organizzato dall’IPE (Istituto per ricerche e attività educative) lo scorso novembre presso il Centro Congressi di Castel Gandolfo. Il convegno, giunto ormai alla sua decima edizione, si è posto il preciso scopo di avviare una riflessione sul significato della ricerca universitaria, in quella che il noto sociologo Zygmunt Bauman ha definito come “la società dell’incertezza”, e sul ruolo rivestito oggi dall’università quale luogo del sapere e della formazione individuale. “I rapporti tra scienza e società – ha scritto Luigi Cuccurullo, presidente dell’IPE, nella prefazione al volume – sono complessi, procedono su piani diversi e tendono a farsi sempre più intreccianti ed interattivi”. Tale concetto, sotteso all’intero lavoro, rimanda ad una visione del mondo della scienza come un ecosistema che per mantenersi efficiente necessita di un forte sostegno da parte della cultura, ma anche e soprattutto di elevati finanziamenti per rinnovare il suo apparato tecnico-scientifico. Per comprendere in modo approfondito questa complessa rete di relazioni, è necessario che lo studioso prenda in considerazione il rapporto che essa intrattiene con una società sempre più frammentata e “polisemica”, volendo parafrasare Max Weber, che sembra non riuscire a raccogliersi attorno a dei valori etici condivisi. E’ da questo tipo di considerazioni che discende tutta una serie di interrogativi rivolti a capire quale posto realmente occupi la scienza all’interno di questa nostra epoca postmoderna: la libertà della ricerca non deve davvero conoscere limite alcuno? O, al contrario, come ogni altra attività umana, anche la scienza dovrebbe esplicitarsi entro determinati spazi, rispettando un’etica oltre la quale non è ragionevole andare? Gli interventi dei professori universitari raccolti nel volume puntano a chiarire come la libertà della ricerca non debba trasformarsi in libertà dalla ricerca, ossia nella rinuncia dell’orizzonte di senso all’interno del quale indagare. La libertà è una condizione essenziale per ogni lavoro scientifico, ma è necessario che questa attività di ricerca avvenga nel massimo rispetto dei valori etici e giuridici posti alla base di ciascun Paese democratico. “Una società di uomini liberi – ha sostenuto Giuseppe Dalla Torre, Rettore dell’Università Lumsa – non può non presupporre alcuni limiti fondamentali, costituenti il cuore e la ragione stessa della propria esistenza”. Da tale affermazione appare chiaro come sia fondamentale la formazione umana ed etica del ricercatore e, di conseguenza, il ruolo giocato dalle strutture universitarie dove i futuri scienziati muovono i primi passi. Soltanto le università consapevoli di questa gravosa responsabilità e fondate su di un’autentica dimensione comunitaria, potranno infatti contribuire alla realizzazione di un’attività scientifica attenta alle necessità, alle aspirazioni e ai principi di cui sono portatori tutti i componenti di una società rivolta a tutelare il primato dell’uomo sulla scienza ed il valore irrinunciabile della dignità della persona umana. (Camilla Rumi) n. 2/2007 64