Credenze magiche del passato, un "bene culturale
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Credenze magiche del passato, un "bene culturale
Credenze magiche del passato, un "bene culturale" da salvaguardare In un’intervista rilasciata nel lontano marzo del 1985 alla rivista trimestrale di scienza e storia “Prometeo", lo storico francese Le Roy Laduric ebbe ad affermare: «Credo che il Carnevale sia una forma culturale e che lo sia la stregoneria. Sono forme di lunga e lunghissima durata che meritano di essere conosciute in quanto tali. Non si tratta di una cultura letteraria, ma di una cultura della società globale che include sia il popolo che le élites». Forti di quest’autorevole parere vogliamo proporre in questa sede alcune testimonianze relative alle credenze e ai personaggi che popolavano l’universo magico delle generazioni che ci hanno preceduto: persuasi come siamo, che queste credenze, in quanto rielaborazioni popolari di antiche leggende mitologiche rientrino in una visione più ampia del concetto di bene culturale; e, certi, altresì, che si tratti di beni su cui bisognerebbe avviare un’urgente opera di tutela e conservazione al fine di preservarne la memoria alle generazioni future: e appena il caso di evidenziare, infatti, come trattandosi per lo più di tradizioni orali, i rischi della dispersione siano oltremodo notevoli. All’interno delle credenze magiche si situano le figure cattive del “lupermenaro” (il lupo mannaro o licantropo) e della “janara” (la strega), Il "munaciello" in un disegno di Michele Auletta, Coll. dell'autore quella buona della "bella mbriana" (la fata delle abitazioni), l’ambivalente figura del "mazzamauriello” o “munaciello”. La più popolare di queste figure è proprio quest’ultima: un piccolo nano che si mostrava in abito monastico, con una "scazzetta" (zucchetto) rossa sulla testa (che se asportata si credeva diventasse una vera e propria sorta di cornucopia), capace di elargire ricchezze e fortune (soprattutto dando i numeri al lotto) a quanti lo veneravano («Somministra delle monete ai suoi devoti; e qualcuno o qualcuna è giunto ad arricchire» scrive Gaetano Amalfi, un etnologo napoletano alla fine del secolo scorso). Il “munaciello” era però capace, allo stesso tempo, di dispensare disgrazie e miserie a chi, invece, rilevava incautamente la sua presenza («Ma guai a chi ne svela il segreto e lo lascia solo trapelare! Se lo fa nemico e non ha più nulla. Anzi deve aspettarsi una serque di dispettucci , e qualche volta anche una peggiore vendetta»: e sempre Amalfi che scrive).Talvolta il “munaciello" si presentava, secondo i racconti raccolti da altri studiosi, nei panni di un «vecchio venerando con parrucca e codino» o sotto forma di serpente; altre volte ancora nelle sembianze di un animale qualsiasi, più spesso nei panni di un elegante giovanotto (Luigi Correra). Questa figura non è presente al contrario di quanto comunemente si crede solo nella nostra cultura popolare, bensì la si ritrova un po’dappertutto: nel centro Europa e nel bacino mediterraneo, specie nel sud della Francia, dove prende il nome di “moine bourru", e in Spagna, dove è invece chiamato “frayle". Qui egli assurge addirittura al ruolo di protagonista in una commedia di cappa e spada, "La dama duende", scritta nel 1629 da Pedro Calderòn de la Barca. Nella fitta rete di credenze popolari l’elemento centrale, la figura più temuta, era però rappresentata dal "lupo mannaro", una persona normale, destinata dall’ora della nascita, la mezzanotte della vigilia di Natale, a trasformarsi d’improvviso, in un particolare momento e con un particolare procedimento magico, in un soggetto socialmente eversivo: sicché smessi gli abiti presso una fontana pubblica, prendeva a girare per il paese ululando verso la luna e sbranando chiunque incontrasse sulla sua strada. Un’efficace descrizione della licantropia è anche in un brano del “Satyricon” di Petronio Arbitro (20–26 d.C.) in cui lo schiavo Nicerote racconta a Trimalcione la sua esperienza con un militare licantropo. Versione al femminile del "lupermenaro" era la cosiddetta “janara", che, alla pari dell’omologo maschile, di giorno era una persona normale, mentre nelle notti di plenilunio si trasformava in animale, per lo più in gatto o in scimmia; e così trasformata entrava, attraverso porte e finestre chiuse, talvolta attraverso buchi e serrature, nelle case dove c’erano dei lattanti, li rubava dalle culle e ne faceva scempio. All’opposto la "bella mbriana" era capace di lasciare abbondanti segni della sua bontà se solo quotidianamente era osannata e salutata con una manciata d’incenso su un braciere ardente e con il rituale saluto che così recitava: «Bella mbriana mia, bella mbriana mia! A te massiaranta ricca d’a casa mia, a te meno ncienzo, mirra e oro e a la casa nu bellu tesoro! Sciorta, furtuna e pianeta sta casa mia chiena e muneta!». Franco Pezzella