Viaggio nel lavoro di cura

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Viaggio nel lavoro di cura
I REF
Istituto di
Ricerche
Educative e
Formative
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
Antiche sapienze e nuova professione
XVIII Assemblea Nazionale ACLI Colf
29-30 Novembre – 1 Dicembre 2013 – ROMA
www.irefricerche.it
V IAGGIO NEL LAVORO DI CURA
Start-up ricerca “Le trasformazioni del lavoro domestico”
Sintesi
A cura di
Gianfranco Zucca*
Istituto di Ricerche Educative e Formative
[email protected]
*
Con la collaborazione di Eleonora Pintore, tirocinante LUISS (Libera Università Internazionale degli Studi Sociali "Guido Carli").
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C ONTINUARE AD ASCOLTARE LA VOCE DELLE LAVORATRICI : LE RAGIONI DELLA RICERCA
Negli anni, Acli Colf si è più volte interrogata sullo status del lavoro domestico. Era il
1977 quando, con una ricerca pionieristica e ancor’oggi citata (“Le casalinghe di riserva”
di Olga Turrini), l’associazione inaugurava un approccio peculiare: il supporto alla
categoria passa, innanzitutto, per la capacità di ascoltare e comprendere il punto di
vista delle lavoratrici. La ricerca sociale quindi non è un fine in sé, bensì rappresenta
l’occasione per incentivare e rafforzare la partecipazione all’interno dell’associazione. A
distanza di 35 anni, il presupposto continua a essere lo stesso: portare la voce delle
lavoratrici domestiche fuori dalle case dove lavorano, dai giardini dove si incontrano,
dalle sedi Acli Colf dove si riuniscono.
In queste pagine, si offre una sintesi di un lavoro di ricerca che si concluderà il 16
giugno 2014, data dell’International Domestic Worker Day. L’indagine prevede una
rilevazione con questionario standardizzato su un ampio campione di lavoratrici
associate alle Acli Colf. Di solito questo genere di azioni di ricerca implicano che lo
strumento di rilevazione sia progettato “a tavolino”, sulla base della letteratura
scientifica e di altre indagini sul tema. In questo caso, si è scelto di lasciare la scrivania
e di mettersi in viaggio per incontrare le lavoratrici e parlare con loro, facendosi
raccontare come sta cambiando il lavoro di cura. Sono stati così organizzati 10 gruppi di
discussione che, nel complesso, hanno coinvolto 74 lavoratrici, in larga parte donne
straniere provenienti da 14 paesi differenti. La quasi totalità delle donne si occupava di
assistenza ad anziani e, in molti casi, svolgeva il suo lavoro coabitando con l’assistito. Il
risultato di questi incontri sono oltre 15 ore di registrazione. Le conversazioni tra le
lavoratrici saranno la base per creare un questionario che sappia realmente cogliere
l’attualità del lavoro di cura.
Il compito di questa sintesi è invece restituire gli elementi essenziali di quella che
può essere definita una narrazione collettiva. Si usa quest’espressione non a caso. Le
lavoratrici hanno trovato nei gruppi di discussione uno spazio nel quale, tramite la
condivisione delle proprie esperienze con altre donne, prendere coscienza del proprio
ruolo professionale e sociale; in alcuni casi, il confronto con le colleghe ha permesso
loro di comprendere le connessioni tra la condizione personale e le forze strutturali che,
in tutto o in parte, la determinano.
Comunanza è la parola che meglio di altre racchiude il senso di quest’esperienza
di ricerca: un episodio, peraltro ricorrente, aiuta a capire cosa si sta intendendo. Uno
dei compiti fondamentali del moderatore di un focus group e far sì che ogni
partecipante ascolti cosa hanno da dire gli altri, evitando soprattutto che si formino
sotto-gruppi intenti a discutere per conto proprio. Chi dovesse avere la pazienza di
ascoltare le registrazioni dei gruppi, si accorgerebbe che questo impegno è stato più
volte disatteso: il commento collettivo, con i vicini di sedia, con l’amica dall’altro lato
del tavolo è stato frequente e ci si è guardati dal contrastarlo. Il “disordine” della
discussione era la misura di un’urgenza narrativa difficile da arginare o irreggimentare
in turni di parola ordinati: quando le lavoratrici si interrompevano non era per
scortesia ma perché, quanto raccontato dall’altra, aveva sollecitato un ricordo,
un’analogia, un esempio che si temeva di dimenticare.
Al termine di ogni gruppo, al momento del congedo, quando il ricercatore
ringrazia i partecipanti per il contributo offerto, alcune volte veniva fatta una richiesta
solo all’apparenza strana: quando facciamo un altro incontro? Nelle due ore precedenti,
le lavoratrici avevano scoperto il senso della comunanza, del mettere in comune le
storie personali, arrivando a capire che la pulsione all’auto-narrazione si era
trasformata in un racconto collettivo, la storia di una era diventata la storia di tutte.
Una sintesi di poche pagine non può rendere ragione delle storie incontrate in
questo viaggio nel lavoro di cura, si è scelto quindi di usare tre analogie per
rappresentare in modo semplice e diretto i percorsi professionali e di vita delle
assistenti familiari.
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Le scienze sociali fanno spesso uso della metafora del gioco. Un gioco è fatto di
regole, strategie, mosse creative e adattamenti; a ben vedere, un qualsiasi gioco ha
molto in comune con la vita in società della quale facciamo esperienza quotidiana. Per
rappresentare, le transizioni in atto nel lavoro di cura si farà riferimento a tre diversi
giochi, ognuno dei quali mette in evidenza come il comportamento delle lavoratrici sia
contrassegnato tanto da condizionamenti (le regole, i tempi e il campo di gioco), quanto
da risposte adattive e creative (le strategie, gli schemi di gioco, le mosse a sorpresa). In
questo senso, le donne che hanno partecipato ai gruppi di discussione con i loro
racconti dimostrano il modo in cui sono “giocate” dal lavoro, ossia come i loro
comportamenti rinforzino e legittimino i vincoli implicati dalle professioni della cura;
ma anche come “giocano” la partita del lavoro, ritagliandosi degli spazi d’azione e
intervento nei quali la loro agency si esplica in modo più libero e creativo arrivando a
modificare il contesto nel quale operano e vivono.
C OME NEL GIOCO DELL ’ OCA : INCERTEZZA E PRECARIETÀ LAVORATIVA
Buona parte dei giochi da tavolo si basa sul principio che per vincere occorra fare un
determinato percorso. Ci sono giochi di percorso molto complessi, nei quali la fortuna è
solo una componente accanto ad intelligenza e strategia, basti pensare al Monopoli. Ci
sono poi giochi molto più semplici dove la fortuna è più importante. Uno di questi è il
Gioco dell’oca: poche regole, molto semplici, un risultato demandato per lo più al caso,
alcuni rischi lungo il percorso come ad esempio la casella “riparti dal via”. Negli ultimi
anni, il mercato del lavoro di cura ha cominciato a funzionare in modo più vicino al
Gioco dell’Oca che al Monopoli.
Non si vince nulla al traguardo: deprezzamento e livellamento delle retribuzioni
La retribuzione è il primo termine di paragone per verificare come è cambiato il
mercato dell’assistenza familiare. Nelle discussioni con le lavoratrici si è riscontrata una
grande varietà di situazioni: con forti differenze retributive anche a parità di condizioni
di impiego. In generale, nel Nord Italia le retribuzioni tendono a essere più alte rispetto
al Mezzogiorno. L’elemento che accomuna le dinamiche salariali è comunque una
diffusa evasione contributiva: la previdenza tende a essere vista come un costo per cui
spesso la negoziazione tra datore e lavoratore converge verso la scelta del lavoro in nero
in modo da recuperare reddito a fronte di un abbassamento generalizzato delle
retribuzioni.
Un esempio concreto è dato dal lavoro di assistenza a una persona non
autosufficiente, svolto a tempo pieno e in coabitazione. A Treviso, così come a Trieste,
per questo tipo di impegno si riescono a ottenere 850/900 euro al mese: in merito a
queste cifre le lavoratrici tengono a precisare che bisogna “lasciare stare il contratto”, in
caso contrario, molte famiglie tendono a scaricare sul lavoratore la gran parte degli
oneri contributivi e fiscali. A Cosenza, invece, si sta tra i 600 e i 700 euro, somma che
scende di almeno un centinaio d’euro fuori città, in un paese: la differenza tra città e
piccoli centri è molto sentita soprattutto al Sud dove tra l’uno e l’altro si perdono
almeno 100/150 euro.
La situazione riscontrata nel Sud Italia non è certo figlia solo della crisi
economica, tuttavia la corsa al ribasso non sembra aver raggiunto il limite inferiore
massimo: i 500 euro offerti alle lavoratrici di Foggia sono ancora superiori ai 350 che,
stando alle testimonianze delle lavoratrici napoletane, può richiedere un’assistente alla
prima esperienza di lavoro e poco capace di parlare l’italiano. All’abbassamento
generalizzato degli stipendi, si associa poi una riduzione della gamma salariale: non ci
sono poi così grandi differenze tra lavoratrici più esperte e meno esperte. A fare la
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differenza è il contesto socio-economico dove si opera: nei territori più ricchi si
guadagna un po’ di più, in quelli meno ricchi un po’ di meno.
Un altro elemento contribuisce ad accrescere il problema della retribuzione. I
compensi sono quasi sempre onnicomprensivi: la cifra concordata, raramente subisce
delle integrazioni anche a fronte di impegni imprevisti e mansioni aggiuntive.
Sempre più “segnalini” sul percorso: una concorrenza al massimo ribasso
In un periodo a forte disoccupazione, soprattutto femminile, le lavoratrici debbono
sostenere due diverse forme di competizione che spingono le dinamiche di concorrenza
verso situazioni di forte ribasso retributivo. La prima forma di concorrenza è interna
alle famiglie. I familiari degli assistiti a volte assumono il ruolo di care giver
contribuendo con il loro lavoro gratuito al risparmio sui costi dell’assistenza oppure, si
danno anche casi di lavoro retribuito, funzionali a integrare il proprio reddito familiare
con l’introito del lavoro di cura. Figlie e nipoti hanno anche un altro vantaggio
competitivo possono organizzare e ripartire il lavoro di assistenza sulla base delle
proprie esigenze di tempo e di spazio. Più in generale, le lavoratrici straniere debbono
anche sostenere al concorrenza delle donne italiane che tornano nel mercato
dell’assistenza familiare o perché espulse da altri settori o perché a seguito di una
difficoltà economica (magari di un altro membro della famiglia) vedono nel lavoro di
cura l’unico modo per tornare sul mercato del lavoro e recuperare reddito.
Un terzo fronte di concorrenza sono le lavoratrici appena giunte in Italia. Chi si
affaccia ora sul mercato ha esigenze economiche inferiori che possono essere anche
compensate con il solo vitto e alloggio. La concorrenza al ribasso dei new comers è una
dinamica classica di tutto il mercato del lavoro immigrato e quindi anche del lavoro di
cura. Tuttavia questo fenomeno, calato nel contesto della crisi economica e abbinato al
ritorno delle lavoratrici italiane, produce un generale deprezzamento del lavoro di cura
e mette in moto una spirale che risucchia verso il basso sia i lavoratori più vulnerabili
sia coloro che potevano vantare una condizione più solida.
Lancia i dadi e spera nel numero giusto: una de-regulation “casa per casa”
I racconti delle lavoratrici evidenziano una crescente richiesta di flessibilità da parte
delle famiglie: retribuzioni, orari, mansioni sono sempre più oggetto di negoziazione,
pochi sono i punti fermi all’interno di un rapporto di lavoro. Le norme contrattuali
quasi mai rappresentano un vincolo, fungono tutt’al più da termine di paragone per
richiedere adeguamenti e condizioni migliorative rispetto a un punto di partenza
penalizzante. Il rispetto delle regole da pre-condizione si trasforma in un obiettivo da
raggiungere attraverso contrattazioni punto su punto: chiaramente è quasi sempre il
lavoratore a dover insistere affinché il rapporto di lavoro giunga a una configurazione il
più possibile vicina al dettato di legge. È in altre parole in atto una de-regulation “casa
per casa”: i datori di lavoro pongono le loro condizioni in termini di prendere o lasciare,
consapevoli che per ogni rifiuto ricevuto c’è un certo numero di lavoratori disposti ad
accettare.
Nei focus group sono stati fatti diversi esempi di proposte di lavoro irricevibili
perché troppo distanti da qualsiasi standard di lavoro: retribuzioni risibili, orari
massacranti, mansioni sproporzionate rispetto al compenso sono una realtà nel
mercato del lavoro di cura. Le lavoratrici Acli Colf spesso fanno parte della fascia alta
del settore e, in molti casi, si trovano nelle condizioni di poter rifiutare questo genere di
proposte. Tuttavia lo spettro del deprezzamento arriva a toccare anche loro: ogni volta
che si trovano a cercare un nuovo lavoro, la probabilità di mantenere le condizioni
precedenti è sempre più bassa. Ciò mina alle basi il concetto di carriera. Nel recente
passato, i percorsi professionali delle lavoratori tendevano a consolidarsi con il tempo:
le lavoratrici più esperte – e quindi anche dotate di una rete di contatti migliore –
avevano accesso ad occupazioni migliori in termini di retribuzioni e condizioni di
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lavoro. Ciò inizia a non essere più vero. La posizione raggiunta non è definitiva, ogni
volta che si cambia lavoro si rischia di dover ricominciare da zero. L’incertezza –
elemento presente nella vita di tutti i lavoratori, soprattutto migranti – ha un peso
sempre maggiore: da un giorno all’altro, le condizioni occupazionali possono
peggiorare, gli accordi venire meno e le garanzie risultare inefficaci. La conseguenza più
immediata di questa situazione è una generale precarizzazione del lavoro. Un concetto
esemplificato al meglio da un lancio di dadi al gioco dell’oca che porta alla casella
“riparti dal via”.
C OME NELLA CASA DELLE BAMBOLE : CAPACITÀ E COMPETENZE NEL LAVORO DI CURA
La casa delle bambole è per ogni bambina un gioco dove la fantasia corre senza limiti,
un mondo a propria disposizione, dove personaggi, luoghi e attività dipendono
interamente dalla capacità d’immaginazione. Una bambina di fronte a una casa delle
bambole può modificare a suo piacimento ciò che ha creato e, nelle sue mani, le
bambole prendono vita secondo le sue aspettative.
Come se d’improvviso fosse trasportata in una casa delle bambole, un’assistente
familiare entra in un universo creato da un’altra mano e ad esso si deve adattare,
modellando la sua presenza sulla base di una lunga e rispettosa osservazione. Una
buona assistente, allo stesso tempo, deve essere in grado di assumere il ruolo di
creatrice e amministratrice della casa, giocando una partita delicata poiché deve essere
in grado di tenere sotto controllo aspetti banali e altri molto più complessi. La difficoltà
principale è data dal fatto che le richieste cambiano, si moltiplicano e, più in generale,
seguono il decorso della salute della persona assistita. Tenere sotto controllo la
quotidianità di una persona anziana può, però trasformarsi in un compito
particolarmente gravoso, soprattutto quando le responsabilità si scaricano quasi
totalmente sull’assistente. Si tratta quindi di una situazione ambivalente che può essere
letta su tre diversi livelli.
Guadare come giocano gli altri: capacità di adattamento e duttilità relazionale
Lo spirito d’osservazione è una capacità basilare per un’assistente familiare: la
lavoratrice ogni volta che entra in una nuova famiglia è chiamata a comprendere la
forma e i limiti dello spazio che le viene affidato. Deve poi capire quali siano i
corrispondenti margini di azione, deve imparare, in pratica, a muoversi nel nuovo
microcosmo: per quanto possa apparire banale, ogni casa è diversa dall’altra. Nella
perlustrazione del nuovo spazio domestico la lavoratrice deve seguire sia le indicazioni
esplicite fornite dall’assistito e dai suoi familiari, sia decifrare le abitudini, le preferenze
e anche le idiosincrasie di persone sino a pochi giorni prima sconosciute. Come una
bambina invitata nella cameretta di un’amica, l’assistente deve capire come giocare,
quali sono i comportamenti richiesti e ammessi, le regole, i personaggi, i ruoli da
impersonare.
Questo sforzo iniziale è sovente complicato da una pre-informazione falsata sulle
reali condizione di salute dell’assistito: più volte le lavoratrici hanno raccontato di come
i familiari tendano a minimizzare l’impegno richiesto. Nei fatti ogni nuovo impiego ha il
suo carico imprevedibilità: non è infrequente che assunte per assistere una persona
parzialmente autosufficiente, le lavoratrici si ritrovino a dover assistere due persone,
magari il coniuge del datore di lavoro, con gravi deficit di mobilità e autonomia.
Nel primo approccio alla nuova famiglia è comunque necessaria una spiccata
duttilità relazionale: l’anziano è una persona che – oltre al proprio carattere – può con
l’avanzare dell’età, aver accentuato comportamenti e abitudini ai quali è necessario,
almeno inizialmente, conformarsi. Creare un legame non è facile: l’intransigenza
rispetto alle proprie abitudini (anche se sbagliate o poco salutari) è uno ostacolo
difficile da superare, occorre aggirarlo con circospezione facendo attenzione a non
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offendere una suscettibilità che può essere più delicata del normale in caso di malattie e
forme di demenza senile.
Allargare i confini della casa: il moltiplicarsi delle mansioni extra-domestiche
Anche se assunte con compiti di assistenza alla persona, le lavoratrici tendono a
diventare il cardine delle attività domestiche, dalle più futili e routinarie a quelle più
complesse legate alla salute della persona anziana. Lo spettro delle mansioni è molto
ampio: l’ordine e la pulizia della casa, l’igiene personale, la preparazione dei pasti, la
somministrazione di farmaci. Il sostegno necessario al benessere dell’anziano può
anche andare al di fuori delle mura di casa. Spesso il lavoratore subentra anche nella
gestione di pratiche extra-domestiche come, ad esempio, andare dal medico, recarsi
alla posta, seguire le procedure necessarie per l’accesso a servizi e indennità,
consultarsi con i medici. In alcuni casi, è la stessa assistente a indirizzare verso questo o
quel servizio, a prendere per mano la persona anziana quando è necessario confrontarsi
con quello che c’è fuori di casa. Al di là della porta c’è un mondo complicato che
l’anziano ormai non si sente più in grado di gestire e decide di delegare a una persona
di fiducia.
La condivisione continua e profonda dei diversi aspetti della vita quotidiana può
condurre al punto nel quale è l’assistente a prendere la maggior parte delle decisioni
che riguardano l’assistito. In questi casi, gioco forza bisogna farsi carico anche delle
pre-esistenti relazioni dell’anziano: tenere i rapporti con la famiglia, qualora viva
lontano o non si interessi in modo continuo, oppure gestire i contatti con i medici e gli
operatori dei servizi sociali. Non sempre questo ruolo di supplenza viene riconosciuto:
ad esempio, i medici, con grande sorpresa delle lavoratrici, continuano a chiedere ai
familiari ragguagli sulla condizione dell’anziano, anche quando è evidente che sia
l’assistente l’unica persona a conoscere nel dettaglio il decorso della malattia. In sintesi,
la casa non è l’unico spazio di gioco: la relazione di sostegno va al di là dell’ambiente
domestico e arriva ad abbracciare tutte le sfere di vita. Come la bambina che non può
fare a meno della sua bambola preferita anche quando si trova fuori casa, l’anziano
dipende dall’assistente, anche perché spesso rappresenta il suo unico punto di
riferimento.
Una bambola sempre migliore: la professionalizzazione del lavoro di cura
Le famiglie richiedono al lavoro di cura di specializzarsi poiché l’assistenza a persone
non autosufficienti implica l’applicazione di procedure e tecniche specifiche. Grande
importanza assumono nei colloqui precedenti l’assunzione eventuali esperienze
pregresse, magari supportate da referenze specifiche o certificazioni di corsi di
formazione. La professionalizzazione è sempre più un fattore premiante nel mercato
del lavoro domestico. Il problema semmai è un altro: raramente le competenze, anche
se formali e certificate, implicano un adeguamento della retribuzione.
Poter vantare titoli e attestati serve a contenere la competizione proveniente dal
segmento basso del mercato del lavoro, occupato da colleghe neo-immigrate o da donne
italiane in cerca di impieghi part-time. I salari offerti dalle famiglie sono però
contingentati da disponibilità economiche più limitate, per cui il mercato richiede
un’assistenza qualitativamente migliore a un prezzo sempre più basso. Le lavoratrici
più esperte non potendo competere solo sul prezzo puntano quindi sulla qualificazione
e sulle referenze. Non è un caso che insistano sulla necessità di un riconoscimento
specifico delle qualifiche ottenute. Sempre sul fronte della qualificazione, non è
secondaria l’esigenza espressa da molte che la distinzione tra mansioni inerenti il
lavoro d’assistenza familiare e quelle relative alla cura della casa sia più netta.
C’è da dire che non tutte le lavoratrici possono far valere competenze derivanti da
percorsi formali: molte hanno fatto dell’esperienza la loro scuola. Specialmente le
competenze infermieristiche, sono di sovente acquisite osservando l’operato di
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professionisti o personale qualificato nell’assistenza a domicilio. Non sono infine
infrequenti le forme di collaborazione tra personale infermieristico assistente familiare,
con quest’ultima che si sostituisce al professionista nel caso in cui la famiglia non sia in
grado di pagare il servizio o l’ente che lo eroga non abbia la capacità di coprire la
totalità dei bisogni dell’anziano.
C OME NEGLI SCACCHI : IL SOVRACCARICO PSICO - FISICO DEL LAVORO DI CURA
Nel gioco degli scacchi il pedone è la pedina dell’avanscoperta, il pezzo che ha il più alto
rischio di essere “mangiato”. Un buon giocatore di scacchi sa bene che i pedoni sono
pezzi importanti, spesso risolutivi ma non si azzarderebbe mai ad impostare tutta una
partita solo sui di essi. L’assistenza a una persona può essere vista come una partita a
scacchi giocata con un solo pedone, sulle spalle del quale si caricano tutte le possibilità
di vittoria. Le assistenti familiari condividono quasi ogni momento della vita con
l’anziano: fanno fronte alle esigenze materiali così come a quelle emotive e relazionali,
su di loro si accumulano compiti, mansioni, responsabilità. L’assistente si trova quindi
costretto a calcolare le proprie mosse per salvaguardare, allo stesso tempo, il benessere
della persona assistita e il proprio. Sotto l’aspetto psicologico il lavoro di cura può
diventare una situazione schiacciante: l’eccessivo coinvolgimento personale da parte
del lavoratore o la richiesta di una relazione esclusiva e totalizzante da parte
dell’assistito sono due rischi concreti; si tratta di situazioni che nella loro carriera molte
assistenti hanno provato e dalle quali non sempre sono uscite agevolmente.
Due pedine in stallo: la condivisione delle condizioni di vita
Un assistente familiare arriva a condividere gran parte della sua vita con la persona
della quale si occupa, anche i disagi e le ristrettezze economiche. Più di una lavoratrice
ha riferito di aver avuto difficoltà nell’alimentarsi a sufficienza: ritrovarsi in una
famiglia, spesso uni-personale, che vive una situazione di povertà alimentare non è un
evento poi così remoto. È capitato e comincia a capitare sempre più di frequente, che il
cibo sia un problema: quando l’assistito non può far conto su una pensione adeguata, è
necessario risparmiare su tutto compreso il mangiare. C’è anche da ricordare che un
reddito da pensione è una risorsa sulla quale può darsi faccia affidamento più di un
nucleo familiare: accade che figli e nipoti, magari disoccupati, prelevino parte del
reddito dell’anziano per i propri bisogni. In questi casi, è ovvio che il budget si assottigli
ancor di più. Per cui non sorprendono neanche i divieti legati all’utilizzo dei servizi più
elementari, come luce o acqua calda: i costi delle utenze, assieme ai farmaci, sono le
altre grandi voci di spesa di una famiglia di anziani.
Sotto scacco: il lavoro di cura come esperienza totalizzante
Una delle limitazioni più difficili da sopportare in un lavoro in coabitazione è
sicuramente la poca quantità di tempo libero e privacy. I datori di lavoro tendono
spesso a pretendere orari fuori contratto o a ridurre progressivamente il tempo libero
che sono disposti ad accordare al lavoratore, quando non addirittura a controllarlo,
pretendendo informazioni sugli spostamenti e reperibilità continua. Tale situazione
pone, in alcune circostanze, le basi di rapporti morbosi da parte dell’assistito che
diventa emotivamente incapace di separarsi dall’assistente.
Nei casi di assistenza a persone con gravi forme di non autosufficienza, il
contributo offerto dall’assistente è determinante per la qualità di vita dell’ammalato. Il
rapporto di cura è talmente continuativo e intenso che, in alcuni casi, si crea un legame
così stretto per il quale l’assistente non può essere sostituita in alcun modo, neppure
per brevi periodi. Come è stato riferito, nei casi più gravi, si arriva al punto che la
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persona ammalata riconosce solo la voce della propria assistente; in altri casi, quando i
disturbi interessano i sensi come ad esempio la vista e l’udito, l’assistente offre un
particolare supporto, raccontando quello che la persona ammalata non riesce a vedere e
a sentire. Questa forma di simbiosi è sotto il profilo emotivo difficile da sostenere,
anche se, a detta dei lavoratori, rappresenta anche una forma di gratificazione e serve a
dare senso al proprio lavoro.
“Viviamo la vita degli anziani pur essendo giovani” è la frase che meglio sintetizza
questo disagio: l’assenza tempo libero, l’isolamento nella realtà domestica, la
struggente lontananza dai propri affetti assume, a volte, caratteri patologici. Alcune
lavoratrici hanno raccontato di momenti della loro vita professionale nei quali la
pressione psicologica si era fatta talmente pesante da essere state seriamente
preoccupate per la propria salute psico-fisica. L’elemento da evidenziare è che non si
tratta di casi sporadici: chi più chi meno, ha esperito situazioni di sovraccarico psicofisico e super lavoro. Il motivo è semplice: le famiglie richiedono una presenza
continuativa e le lavoratrici spesso hanno l’interesse di lavorare di più.
Quando poi si presta assistenza a persone affette da malattie cronicodegenerative lo stress psicologico è ancora più elevato: la ripetitività di alcune
mansioni, così come i ritmi di vita e la sorveglianza continua affinché il malato non
faccia del male a se stesso o al lavoratore, implicano un rischio di burn-out, eventualità
che aumenta quando l’assistenza viene svolta senza alcuna forma di supporto da parte
della famiglia o della rete dei servizi. Collegato a questa situazione c’è anche il senso di
impotenza derivante dal fatto che, nonostante le cure, le condizioni di salute
dell’assistito non possono che peggiorare.
Il rischio è di cadere in un vortice di lavoro e prostrazione psicologica tale da
rendere quasi impossibile un’inversione di rotta. La “Sindrome italiana”, così come è
stata ribattezzata, è una forma di depressione che matura in una situazione del tutto
particolare nella quale l’estraniamento dagli affetti personali si mescola con
l’isolamento sociale e il mancato adattamento al contesto culturale nel quale ci si è
trasferiti.
Finale di re e pedone: combinazione delle risorse emotive e mutuo aiuto
Fare vita comune significa anche essere in grado di gestire i saliscendi emotivi: la
comprensione e la pazienza sono il presupposto di qualsiasi relazione di convivenza,
specialmente tra individui di diversa origine e cultura, o con un forte stacco
generazionale. Il riconoscimento reciproco degli sforzi fatti è fondamentale da
entrambe le parti affinché si instauri un rapporto comprensivo. Non si deve poi fare
l’errore di pensare che debba essere solo l’assistente a “sopportare”. Le lavoratrici
raccontano di esperienze di mutuo aiuto, di sostegno reciproco: curare una persona,
aiutarla a superare le difficoltà di ogni giorno significa rendere meno intima la
sofferenza, gioire assieme dei momenti di relativo benessere, dei piccoli progressi e
miglioramenti. Laddove la persona assistita ha ancora un minimo di controllo sulle
proprie facoltà psicologiche, la vicinanza prolungata si può trasformare in affetto
sincero. In questa sorta di simbiosi non è raro che l’assistente inizi a considerare
l’anziano come un proprio congiunto: essendo distante dai propri affetti familiari,
curare un’altra persona può lenire il dolore di questa lontananza.
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