POESIE SCELTE (1946-1973)

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POESIE SCELTE (1946-1973)
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BARTOLO CATTAFI
POESIE SCELTE (1946-1973)
MONDADORI
MILANO 1978
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Da «LE MOSCHE DEL MERIGGIO»
OSWALD’S RESTAURANT
«Venerdì prossimo venturo
alle nove post meridiem
la nave partirà»;
sempre accade con fuoco
con stridore di ruggine, con rancido
sentore di salsedine.
Aspettando indugiamo in mezzo ai nostri
nomi coloriti, vino cibo
tabacco calda luce. Come un cieco
ci guarda il volto smaltato della pendola,
Oswald, greco, baffi grossi e neri,
possiede sedie, tavole, ragazze
allenate a sorridere e a guardare
di là dal muro, dai vetri, dalle cose
moleste in movimento
la galleggiante pace del gabbiano
la pura nave a fuochi spenti, ombra
in attesa sul mesto meridiano.
Dov’è il sesso, sorelle?
Esso scompare, è una scusa del cuore,
come una mano che si stringe. E addio,
entriamo sotto le stelle, nelle tenebre e in questa
antica, rovente tempesta che aggroviglia
tenere fibre, i fili, la vermiglia
rete che ci tiene.
(Glasgow, 1952)
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PLAZA DE TOROS
Il gelsomino s’allarga sulla calda
crosta dei muri, un tempo in alto,
intorno, vedette e astrologhi avvistavano
nubi avverse o amiche, le stesse
stelle d’Arabia.
Siamo immagini inscritte senza sosta
in questo cerchio,
manichini, uomini ed emblemi
di due colori, come qui
è la pelle del toro, rossa, nera.
Scuotiamo in tasca l’obolo che avemmo,
l’oro nobile e allegro,
il tetro piombo.
Il toro ha fuoco, ha forza,
fedele a ciò che dice
l’aspra voce del sangue, ci sospinge.
Così accadono i fatti,
si gioca a testa e croce ed una viva
vernice tinge l’arena,
qualcuno esce, di là
dal perimetro, nell’ombra.
Resta un traffico, una festa di formiche
trafelate. Una scena estiva.
(Siviglia, 1953)
LIBERO E TRISTE
E’ ancora primavera. All’alba vedo
verde, fertile, untuosa, la convessa
polpa del mondo.
Più tardi il sole aizza le voraci
colonie di microbi lì inscritte
inserite come un vivo
epitaffio nel cuore delle cose
volte a un biondo colore;
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nel meriggio calano le mosche.
M’appare la bandiera
che non ha medaglie
l’albero brullo, vagante
senza frutti né fronde
lo straniero disceso
da una scala improvvisa una domenica
che può dovunque morire
libero e triste
senza mai dire i nomi
le opere, i motivi
al corvo e all’uomo
a uno sciame deluso di farfalle.
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Da «L’OSSO, L’ANIMA»
DA QUI NON PUOI
Da qui non puoi vederlo
devi ancora salire
o scendere gradini:
rotola perduto,
spinto da qualche vento sulla sabbia
sull’acqua trascorsa
della tua clessidra.
Intanto ami, abbracci, ignori
perché di là dal morbido, dal tenero, dal caldo
avverti un’ambigua rigidezza.
Non sai ch’è morto e ignori
l’anima aguzza, d’acciaio,
che ti scruta e attende
il come il quando il dove.
IL QUARTIERE DOVE ABITO
Il quartiere dove abito
è un quartiere sepolto
sprofondato con gli altri
quartieri del mio mondo.
A volte vengo fuori.
Una boccata d’aria
un po’ di svago
nelle notti d’estate.
Mi bagno la fronte
con la sabbia
respiro la fresca
sabbia notturna
gusto la grana
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differente
la buona molitura
il colore l’aroma
il paragone
con quella consueta.
SULLA TESTA DI TUTTI
Colpi di mano, sonni, soprassalti,
monotone manovre.
Quando qualcuno ci porta notizie
le chiudiamo in busta,
passiamo le linee nottetempo,
le vendiamo al nemico.
A sua volta qualcuno dei nemici
compie il cammino inverso,
parla coi nostri,
disputa sul peso
contratta il prezzo della nostra testa.
Non capita nulla non succede
un giudizio per nessuno,
sulla testa di tutti pende qualcosa.
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Da «L’ARIA SECCA DEL FUOCO»
ARANCIA
Da una salvietta annodata
una scema d’arancia
tonda come la luna
occhieggia e ride
tra il pane secco e la sarda salata.
AMARE LE MORE
Amare le more
e le loro macchie
è un punto d’onore
alla fine d’agosto
quando sulla camicia
quasi non c’è più posto
per le stampe gentili
cominciate in aprile.
TE LA PIANGI
Ammettiamo che tu
abbia due gambe
che ne voglia una sola
vai dal medico e gli dici
Taglia quella che cresce
la sega salta in aria
il taglio non riesce.
Tanti saluti alla tua stampella.
Così infine è per l’anima
non puoi mica mandarla sulla forca
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arrotolarla nella cesta della roba sporca.
Ti arrangi ficcato tra le spine
te la tieni addosso te la piangi.
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Da «LA DISCESA AL TRONO»
IL GUASTO LO SQUARCIO
Lamine e lastre di gelo
cristalli con chiazze d’acqua pura
acqua che un algido cemento regge
e dopo in un turbine di schegge
lo scafo infame
infangato di stige
il guasto lo squarcio
scorcio fulmineo d’abisso
il colore e il calore del catrame
che un dèmone in tuta grigia
sparge da poppa a piene mani.
ENTRO UN CERTO RAGGIO
Il mondo va avanti
se gli metti in faccia
con forza un piede
il formicaio impazzisce
una lastra si rompe
pazzia e frantumi
circondano il piede
poi tutto passa
la pazzia svanisce
entro un certo raggio
piede e frantumi sono
parte del paesaggio.
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IN QUELLA CHIARA
In quella chiara castità dell’aria
c’erano adunate tutte quante
le mie primavere
a decine
a fronte china e grinzosa
dinnanzi alla mia fuga
di giuda ansante
di chi taglia obliquo per la pianura spinosa
in cerca d’un legno dolce
d’un albero a braccia aperte.
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Da «MARZO E LE SUE IDI»
IPOTENUSA
Sfusi e confusi in quella
nebbia di novembre
sentimmo al tatto che l’ipotenusa
era mostruoso errore
audace anomalo lì addosso compartecipe
lato scorretto
d’un angolo retto.
FALSE ACACIE
Un blocco di false acacie
diritte all’apparenza
d’anima invece obliqua
pescano in un mare d’ombra
producono un verde di sott’acqua
supporti d’usignoli e di silenzio
tendono forti braccia
difendono qualcosa
chiuso orto infinito
bel serbatoio di ciò che non appare.
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S’UNISCONO I PEZZI
Sul verde d’un prato
s’uniscono i pezzi staccati
d’un disegno
semplice e complesso
nella sua evidenza
come un’onda o una rosa
ritratta a tutto tondo
e là dentro t’immergi
e dolcemente nuoti
sempre più t’allontani
dalla calda terra
dalla riva del mondo.