Il vento e il vortice

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Il vento e il vortice
Ágnes Heller, una delle più grandi filosofe
viventi, si è occupata di identità, diritti umani,
e insegna fra New York e Budapest. È la più
strenua oppositrice di Orbàn.
Riccardo Mazzeo, editor storico della Erickson,
ha pubblicato libri con Zygmunt Bauman, Edgar
Morin e Miguel Benasayag. È inoltre tra gli autori
di Parlare di ISIS ai bambini (Erickson, 2016).
€ 14,50
Heller - Mazzeo
IL VENTO E IL VORTICE
Nel cinquecentenario dalla pubblicazione di Utopia, il grande
classico di Tommaso Moro, Ágnes Heller, una delle più grandi
filosofe viventi, e Riccardo Mazzeo, editor e coautore di volumi con
Zygmunt Bauman, Edgar Morin e Miguel Benasayag, si interrogano
sul significato dell’utopia e del suo rovescio scabroso, la distopia,
descrivendone luci e ombre.
Heller, nella prima parte, offre un inquadramento storico e filosofico dell’utopia a partire dalla «età dell’oro» di Ovidio (nostalgica
di un passato felice che si vorrebbe far rivivere) e dall’Eden della
Bibbia (con lo sguardo rivolto a un futuro di beatitudine, in un altro
mondo), per poi approfondire le opere di Moro e di Campanella, la
Rivoluzione americana e quella francese. Con le derive totalitarie
del Novecento le utopie franano trascinando con sé decine di
milioni di morti, guerre, lager, gulag, in uno svilimento senza limiti
della condizione umana. Passa poi in rassegna le principali distopie
contemporanee, da Huxley a Orwell, fino a Ishiguro.
Mazzeo, nella seconda parte, esamina alcune potenti distopie del
nostro secolo: Il cerchio di Dave Eggers, sul mito così attraente
della trasparenza e della tecnologia; La possibilità di un’isola di Michel Houellebecq, sull’individualismo cinico dei nostri giorni e sulla
clonazione che, pur riservata ai pochi fortunati, non risparmia loro
un destino di solitudine e insignificanza; 2084. La fin du monde,
di Boualem Sansal, che prefigura il mondo desertificato e atroce
dell’Islam al potere. Poi, attraverso le riflessioni di Bauman, Sloterdijk e Žižek, mette in guardia da alcune trappole come il politically
correct, ed esamina gli aspetti propulsivi e benefici, ma anche quelli
totalizzanti e infernali, dell’Utopia di Moro e dell’utopia in generale.
Ágnes Heller e Riccardo Mazzeo
IL VENTO
E IL VORTICE
UTOPIE, DISTOPIE, STORIA E LIMITI
DELL’IMMAGINAZIONE
Ágnes Heller, una delle più grandi filosofe
viventi, si è occupata di identità, diritti umani,
e insegna fra New York e Budapest. È la più
strenua oppositrice di Orbàn.
Riccardo Mazzeo, editor storico della Erickson,
ha pubblicato libri con Zygmunt Bauman, Edgar
Morin e Miguel Benasayag. È inoltre tra gli autori
di Parlare di ISIS ai bambini (Erickson, 2016).
€ 14,50
Heller - Mazzeo
IL VENTO E IL VORTICE
Nel cinquecentenario dalla pubblicazione di Utopia, il grande
classico di Tommaso Moro, Ágnes Heller, una delle più grandi
filosofe viventi, e Riccardo Mazzeo, editor e coautore di volumi con
Zygmunt Bauman, Edgar Morin e Miguel Benasayag, si interrogano
sul significato dell’utopia e del suo rovescio scabroso, la distopia,
descrivendone luci e ombre.
Heller, nella prima parte, offre un inquadramento storico e filosofico dell’utopia a partire dalla «età dell’oro» di Ovidio (nostalgica
di un passato felice che si vorrebbe far rivivere) e dall’Eden della
Bibbia (con lo sguardo rivolto a un futuro di beatitudine, in un altro
mondo), per poi approfondire le opere di Moro e di Campanella, la
Rivoluzione americana e quella francese. Con le derive totalitarie
del Novecento le utopie franano trascinando con sé decine di
milioni di morti, guerre, lager, gulag, in uno svilimento senza limiti
della condizione umana. Passa poi in rassegna le principali distopie
contemporanee, da Huxley a Orwell, fino a Ishiguro.
Mazzeo, nella seconda parte, esamina alcune potenti distopie del
nostro secolo: Il cerchio di Dave Eggers, sul mito così attraente
della trasparenza e della tecnologia; La possibilità di un’isola di Michel Houellebecq, sull’individualismo cinico dei nostri giorni e sulla
clonazione che, pur riservata ai pochi fortunati, non risparmia loro
un destino di solitudine e insignificanza; 2084. La fin du monde,
di Boualem Sansal, che prefigura il mondo desertificato e atroce
dell’Islam al potere. Poi, attraverso le riflessioni di Bauman, Sloterdijk e Žižek, mette in guardia da alcune trappole come il politically
correct, ed esamina gli aspetti propulsivi e benefici, ma anche quelli
totalizzanti e infernali, dell’Utopia di Moro e dell’utopia in generale.
Ágnes Heller e Riccardo Mazzeo
IL VENTO
E IL VORTICE
UTOPIE, DISTOPIE, STORIA E LIMITI
DELL’IMMAGINAZIONE
Indice
Prima parte – Dall’utopia alla distopia. Sogni e progetti
dell’immaginazione storica (Ágnes Heller)
Capitolo primo
La storicità dell’immaginazione
Capitolo secondo
L’età dell’oro: le costruzioni filosofiche dello «Stato giusto» 9
19
Capitolo terzo
Riflessioni sul momento utopico e il nuovo repubblicanesimo.
Tutte le rivoluzioni vengono tradite? Il sogno di una «svolta
antropologica»31
Capitolo quarto
Il momento distopico e le ultime utopie
47
Seconda parte – Le distopie del XXI secolo e l’argine
del pensiero critico (Riccardo Mazzeo)
Capitolo primo
Il cerchio
81
Capitolo secondo
La possibilità di un’isola
99
Capitolo terzo
2084. La fine del mondo
109
Capitolo quarto
Il faro della psicoanalisi sui marosi dell’utopia
123
Capitolo quinto
Qualche riserva sull’utopia
141
Indice dei nomi149
58
Il vento e il vortice
tamente. L’ultima sezione del suo libro è titolata «Karl Marx, la morte e
l’Apocalisse» e, come il titolo suggerisce, ha a che fare più con la Bibbia e
lo Zohar che con l’autore del Capitale.
Nel suo libro Ideologia e utopia, scritto già negli anni Venti, Mannheim
passa dalla profezia all’analisi sociale, dalla fede alla comprensione, per discutere visioni e forme della coscienza come manifestazioni di una posizione
«storica». Non ci sono scenari apocalittici, l’oggetto della sua ricerca non è
il futuro ma il presente.
La vittoria del pensiero distopico e le narrazioni distopiche
Il pensiero distopico non è solo come un «momento distopico». I
momenti distopici, come abbiamo visto, possono avere anche un’interpretazione distopica. Il pensiero distopico, in ogni modo, sbarra la porta
all’immaginazione utopica. Penetra nel territorio della distopia come una
narrazione distopica, e però non è identico alle narrazioni distopiche.
Il pensiero distopico può manifestarsi in scritti sociologici sulla politica
contemporanea, sulla situazione generale del mondo, attraverso libri sulla
storia, sulla storia sociale, sullo stato delle arti e delle scienze, sulle università, sui servizi sanitari, sull’educazione in generale, sulle cosiddette «scienze
empiriche». Soprattutto, afferma di rifiutare le speculazioni.
La pretesa di aderire rigidamente ai dati attuali empiricamente accessibili e confermabili è fasulla. Ogni presente diventa passato in ogni secondo.
Seppure il futuro del presente appare in queste opere, come normalmente
avviene, lo fa come estrapolazione o speculazione. Le estrapolazioni normalmente si rivelano false (non per colpa di chi le compie, ma perché gli
espedienti della storia sono sempre in agguato), mentre le speculazioni
sono fondamentalmente sempre distopiche. Come la distruzione del nostro habitat a causa del riscaldamento globale, l’inquinamento generale, il
ricorso che facciamo sempre di più all’energia nucleare (con la minaccia
di una guerra nucleare), le migrazioni globali, le interminabili guerre. Ci
viene detto quanto siamo folli nel continuare a comprare e riempirci di
cose che non ci servono, nel lasciar morire di fame intere popolazioni della
Terra, nel vivere in un mondo di crescente disuguaglianza. Un mondo in
cui in certe parti non si riesce a sfamare i figli mentre in altre parti non
Il momento distopico e le ultime utopie
59
si fanno più figli, in cui la globalizzazione distrugge il carattere unico di
ciascuna cultura, in cui l’omologazione distrugge le personalità, in cui l’applicazione sostituisce l’innovazione mentre la conoscenza (l’informazione)
rimpiazza il pensiero, e tutto ciò va di male in peggio, ecc. Come la cupa
estrapolazione di tutti i nostri mali, anche il pensiero distopico mobilita
l’immaginazione. Ma, per ritornare alla similitudine del primo capitolo,
l’immaginazione in questo caso non è il direttore d’orchestra, mentre lo è
nelle narrazioni distopiche...
Nessun mondo è uniforme, per certo vi sono anche opere scientifiche empiriche che estrapolano lo stato attuale delle cose con lo sguardo
rivolto a un futuro di progresso e la propaganda di governo naturalmente
ne delinea un’immagine rosea, ma tutto ciò in quanto espressione della
coscienza storica non può essere preso sul serio.
Le narrazioni distopiche non possono essere prese «seriamente», per
quanto siano terribilmente serie, anche per un’altra ragione. Nulla è più
serio delle satire o delle caricature estrapolate dal futuro, ma rimangono
ugualmente satire e caricature.
Adesso formulerò una domanda: che tipo di mondo è il nostro se la
sua immagine più seria è quella delineata da satire e caricature distopiche?
Non sono in grado di rispondere, posso solo cercare di guardare in quegli
specchi e chiedervi di accompagnarmi nelle mie escursioni letterarie.
Per la mia escursione letteraria, fra le diverse narrazioni distopiche
sceglierò le seguenti:
–– Huxley: Il mondo nuovo (1931);
–– Orwell: 1984 (1949);
–– Bradbury: Fahrenheit 451 (1953);
–– Atwood: Il racconto dell’ancella (1985);
–– Harris: Fatherland (1992);
–– Ishiguro: Non lasciarmi (2005);
–– McCarthy: La strada (2006);
–– Houellebecq: Sottomissione (2014).
Sono state scritte centinaia di romanzi distopici dal Ventesimo secolo. Il loro numero è cresciuto esponenzialmente dagli anni Cinquanta e
continua ad aumentare nel Ventesimo secolo. Sono stati trasposti in film
e serie televisive. Ho dovuto sceglierne solo una manciata.
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Il vento e il vortice
La scelta però non è stata accidentale, benché abbia dovuto tralasciare
qualche narrazione importante.
Ho cercato di includere nella disamina opere che avessero una certa
qualità letteraria, trascurando libri scritti per adolescenti o per adulti bambini. Tuttavia, la qualità estetica delle opere trascelte è diseguale poiché ho
dovuto considerare anche l’impatto e l’influenza di libri provvisti di una
qualità estetica inferiore. Fra essi ci sono libri molto buoni e altri solo rappresentativi. Ci sono parodie, satire, al pari di «normali» storie d’amore di
persone normali in circostanze assurde.
Un altro criterio di selezione è stato che tutti i tipi essenziali di romanzi
distopici dovessero essere rappresentati con almeno un esempio. Di quale
futuro parlano? La fine dell’Europa? La distruzione della cultura occidentale
in generale? La catastrofe dell’intera razza umana?
Inoltre desideravo esemplificare le cause principali, le indicazioni, le
ideologie caratteristiche del mondo di un romanzo distopico. Sono sociali?
Tecnologiche? Biologiche? Ho anche cercato di includere tutti gli obiettivi
più importanti delle narrazioni distopiche: il totalitarismo, sia nazista sia
bolscevico, la manipolazione tecnologica, la biopolitica, la cancellazione
della nostra cultura, la distruzione del mondo (il giorno del giudizio) e
quel che esse hanno tutte in comune: la flessibilità della «natura umana» e
l’importanza di ricordare e dimenticare.
Avevo anche l’intenzione di esemplificare i dilemmi di tutte le utopie
dell’immaginazione distopica. Qual è il fine desiderato? La felicità? La libertà?
L’armonia? La soddisfazione di tutti i desideri o i limiti a tale soddisfazione?
Inoltre, che cos’è la felicità? Che cos’è la libertà? Che cos’è l’armonia? Che
cos’è la giustizia? Che cos’è la spiritualità? Che cos’è l’individualità? Si ha
bisogno di desiderare? Cercando di esemplificare tutte queste questioni
fondamentali sulla base di poche opere trascelte, dovevo anche vagliare
opere scritte in tempi diversi a partire dalla metà del Ventesimo secolo fino
a oggi per poter mostrare i cambiamenti dell’immaginazione storica. Gli
ultimi tre romanzi scritti dopo il 2005 differiscono dai primi per il fatto che
non presentano un’organizzazione della vita sociale alternativa (peggiore),
e sono ancor meno parodie delle utopie tradizionali.
Alla mia ultima osservazione aggiungo un punto interrogativo. Quasi
tutti i romanzi distopici sono stati scritti in inglese. La maggior parte degli
autori sono britannici, canadesi o statunitensi. Perché?
Il momento distopico e le ultime utopie
61
Nessun romanzo distopico parte dal presupposto che tutti gli umani
siano nati dotati di empatia o che siano nati con istinti aggressivi. Nessuna
distopia ci fa credere in una «rivoluzione antropologica», nella possibilità di
un futuro decente e in un’umanità morale senza bisogno di leggi o di regole.
Ciascuna di esse esemplifica la malleabilità della razza umana, pronta a (e
capace di) vivere in quasi qualunque circostanza, di accettare qualunque
modo di vivere come l’unico possibile, giusto, appropriato, di credere in
qualunque cosa in cui credano gli altri.
Questa, di per se stessa, non è una scoperta ma un riferimento ai fatti
storici. Di fatto, l’homo sapiens viveva fra la più grande varietà di organizzazioni sociali. Nessun neonato è programmato per questa o quella particolare
organizzazione sociale, ma per la vita sociale in generale, vale a dire che può
adattarsi a tutto.
Le opere utopiche suggeriscono che noi, persone moderne, abbiamo
accarezzato l’illusione che la condizione umana possa essere differente, che
occupiamo un posto privilegiato nella storia. L’illusione che le donne e gli
uomini moderni siano diventati individui indipendenti, che si siano abituati
a pensare con la loro testa, a scegliere, a capire da soli che cosa sia giusto o
sbagliato. Quella storia continua e tale progresso non può essere rovesciato.
Quel che abbiamo conquistato non possiamo perderlo.
In realtà, i romanzi distopici mostrano, anzi «provano», quanto possiamo perdere. Le istituzioni totalitarie, sia quella bolscevica sia quella nazista,
lo hanno già provato.
L’individualità e la differenza spariscono in fretta allorché le persone
siano condizionate a non essere individui, allorché il pensare con la propria
testa non venga solo punito, ma anche considerato malvagio. In circostanze
del genere o analoghe le persone faranno sempre quel che fanno le altre,
e crederanno in ciò che credono gli altri. C’è una sola condizione per un
lavaggio del cervello riuscito: nessuno deve vedere, o conoscere, alcuna
alternativa allo stato di cose esistente.
L’età del momento distopico, e specialmente delle narrazioni distopiche, è stata anche l’età della popolarità di Freud. In ciascuno di questi
romanzi c’è sempre almeno una singola persona che non quadra, che non
può essere assimilata con un buon esito. Il disagio della civiltà, dice Freud,
è il risultato di una composizione mai interamente compiuta. Qualcosa
rimane fuori luogo, qualche senso di disagio permane.
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Il vento e il vortice
Nelle narrazioni distopiche questo senso di «disagio» è legato all’esperienza o alla conoscenza della «differenza», di essere in qualche modo uno
straniero nel proprio mondo.
La tensione fra il condizionamento riuscito, da un lato, e il senso
di «disagio» che si sviluppa lentamente in un qualche tipo di resistenza,
dall’altro, è già descritta nel romanzo di Huxley Il mondo nuovo. John, il
selvaggio, figlio non voluto di persone del «mondo nuovo», viene portato
in una riserva del Nuovo Messico e si abitua al modo di vivere di questi
«selvaggi». Huxley è onesto. Non c’è alcun paradiso perduto. Il «mondo
vecchio» è abbastanza brutto, brutale, cattivo e sporco. È solo differente,
meno meccanico, più organico, meno ipocrita.
Due turisti provenienti dal «mondo nuovo» visitano la riserva, lo
identificano come loro compatriota (Signor Livingston, se non erro) e lo
riportano a casa. Tuttavia, poiché John conosceva un diverso modo di vita,
rimarrà uno straniero nel «mondo nuovo» così come lo era fra i «selvaggi».
Un outsider. Per lui questo «eccellente mondo nuovo» diventa sempre meno
«eccellente». Cerca così di vivere al di fuori di qualunque società ma, poiché
ciò si rivela impossibile, finisce per impiccarsi.
C’erano anche altri che provavano «disagio» nello stesso mondo nuovo
(fra loro un giovane di nome Bernard Marx) ma alla fine saranno felici poiché il «mondo nuovo» sa come gestire il disagio. Dispone infatti di un’isola
dove tutte le persone «strane» vengono mandate (deportate) a vivere fra di
loro per non inquinare l’ambiente con le loro idee.
Lo stesso modello caratterizza tutte le narrazioni distopiche. Nel romanzo di Margaret Atwood Il racconto dell’ancella la protagonista ricorda
di avere avuto un marito in passato. Benché tale ricordo sia tutt’altro che
piacevole, è il segno dell’esistenza di un altro mondo. Alla fine viene tratta
in salvo dai «ribelli» che la portano via dalla «Repubblica di Galaad», ma
non ci è dato conoscere come si concluda la sua fuga. Montag, il pompiere
di Fahrenheit 451, è un funzionario, un vero credente, un uomo di potere
che comincia a provare disagio dopo l’incontro accidentale con una giovane
donna.
Nei romanzi sopra menzionati il sentimento del «disagio» si sviluppa
lentamente attraverso ciascuna storia. Invece in 1984 incontriamo Winston,
un uomo che è già in parziale dissonanza con il mondo totalitario in cui vive
e che cerca di trovare qualche diversità, reminiscenze, ricordi di un’altra vita.
Il momento distopico e le ultime utopie
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Verrà sconfitto con mezzi brutali, con una tortura sul corpo e sullo spirito
di cui non dispongono i padroni delle altre distopie.
Da che cosa può dipendere l’insoddisfazione o il disagio? Dove possono
attingere gli uomini e le donne alieni o alienati dal «mondo nuovo» la fioca
immagine di un altro mondo? Un mondo alternativo? E, forse, un mondo
migliore? Dalla storia e dalla poesia.
I padroni del «mondo nuovo» lo sanno bene. Nessuno, nel loro regno,
deve poter avere accesso alla storia e alla poesia. Tutti i libri dovrebbero essere
bruciati, non ne deve restare neanche uno solo: è questa la ragione per cui
i pompieri occupano una posizione così elevata nel romanzo di Bradbury.
Il Grande Fratello (1984) è più radicale. Nel suo mondo non è sufficiente
proibire i libri di letteratura e dimenticare la storia, si devono anche scrivere
nuovi libri che cambiano la storia. Nel regno del Grande Fratello, ogni anno
vengono inventati una nuova storia, nuove cospirazioni, nuovi nemici e,
naturalmente, nuove vittorie. Tutti i romanzi devono essere riscritti ad uso
della propaganda di apparato.
Fino a che la storia rimane sconosciuta o sostituita da un’altra inventata
di sana pianta, vi sarà un unico modo di vita buono e vero. La possibilità di
sottrarsi alle bugie del «mondo nuovo» riposa nella possibilità di scoprire la
verità della storia, di riconoscere le falsificazioni per quello che sono: bugie.
La storia della scoperta della verità su crimini commessi nella storia
può diventare la trama di un thriller poiché è incentrata, come tutti i
thriller, sulla scoperta di un delitto. L’eroe di Fatherland è un investigatore
che lavora a Berlino un quarto di secolo dopo che la Germania nazista ha
vinto la Seconda guerra mondiale. L’intera Europa è governata da Hitler,
ora settantacinquenne, l’America è un suo alleato e il presidente si chiama
Joseph Kennedy (il padre di John e Robert Kennedy simpatizzarono per la
Germania nazista per qualche tempo), solo il Canada resta neutrale. Berlino
è stata costruita sui progetti del famoso architetto di Hitler. C’è ancora una
guerra in Siberia, e mandarvi qualcuno equivale a condannarlo a morte. Per
il resto la vita procede normalmente.
Un giorno un investigatore di nome March, che ha accettato il mondo
in cui è stato cresciuto come autoevidente e appropriato, si trova a indagare
su un caso di omicidio in cui possono essere stati implicati alti ufficiali
nazisti. A mano a mano che l’indagine va avanti, lottando contro tutti gli
ostacoli che si trova di fronte, come fanno tutti gli investigatori in tutti i
64
Il vento e il vortice
thriller, scopre che un tempo lì c’erano persone chiamate ebrei. Nessuno sa
niente di loro, il passato è stato eliminato. March comincia allora a cercare
di scoprire che cosa sia accaduto loro. Vuole trovare il «delitto originario».
Arriva così ad Auschwitz. Nell’ultima scena lo vediamo con una pistola in
mano, ma non sappiamo né come né contro chi la userà.
La storia, i crimini storici, non possono restare nascosti, dimenticati,
non per sempre. (Il libro del rinomato autore nordamericano Philip Roth
Il complotto contro l’America, del 2004, è la versione americana del romanzo
di Harris.)
La fonte preferita della conoscenza liberatoria della «diversità» è, in
molte opere letterarie distopiche, Shakespeare. (In un romanzo distopico
tedesco avrebbe potuto essere Goethe.) John, «il selvaggio» (Il mondo nuovo),
entra in possesso di un vecchio volume di Shakespeare nella riserva del Nuovo
Messico e lo serba. Ed è dalla poesia di Shakespeare che riesce a vedere la
miseria della sua vita «selvaggia» e a salutare gli ospiti del «mondo nuovo»
con le parole di Miranda («eccellente mondo nuovo»). Anche Montag (Fahrenheit 451) trova due testi del mondo perduto: uno di Shakespeare, l’altro
della Bibbia. Questi testi lo liberano dalla sua beata ignoranza.
Kierkegaard disse (benché gli autori di queste narrazioni con ogni
probabilità non lo conoscessero): l’ignoranza è ignoranza. E nondimeno
l’ignoranza è innocenza? In una conoscenza del mondo totalitario, perfino
l’intelligenza è sospetta, e può essere un crimine. Solo l’ignorante può credere
di essere innocente, anche se non lo è. Chi rimane un abitante ignorante
dell’eccellente mondo nuovo non crescerà mai...
Tuttavia, neppure sull’ignoranza, neppure sulla stupidità si può fare pieno affidamento in un mondo manipolato o totalitario. In tutte le narrazioni
distopiche dal libro di Huxley (1931-1932) in poi, i mezzi di indottrinamento (radio, televisione, incontri) sono attivi notte e giorno. Gli apparati
ripetono costantemente gli stessi testi, trasmettono per televisione le stesse
immagini, dicono a ciascuno quel che è giusto, quel che è bello, quel che è
vero. Dopo essere state ripetute mille e una volta, queste verità diventano
autoevidenti e in quanto tali anche noiose. La potente droga (soma) allevia i
dolori fisici e psichici. La «neolingua» salva dalle complicazioni del pensiero.
Il condizionamento, o lavaggio del cervello, non è un gioco fatto una
volta sola, continua per tutto il corso della vita. Si è continuamente condizionati anche dal coniuge e dai membri della propria comunità.
Secondaparte
Le distopie
del XXI secolo
e l’argine del
pensiero critico
Riccardo Mazzeo
Capitolo primo
Il cerchio
«Sogna!»
Il vialetto serpeggiava tra alberi di arance e limoni, e al posto dei pacifici
ciottoli rossi c’erano, ogni tanto, mattonelle con accorati appelli all’ispirazione. «Sogna» diceva uno, con la parola incisa dal laser nella pietra rossa.
«Partecipa» diceva un altro. Ce n’erano a dozzine: «Socializza», «Innova»,
«Immagina». Per poco non calpestò la mano di un giovanotto con una tuta
grigia; stava installando un’altra mattonella che diceva: «Respira».1
È questa una delle prime immagini del romanzo di Eggers che racchiude in un involucro incantato — leggiadro, odoroso di «ambrosia e
nettare vermiglio» e foriero di speranze e visioni capaci di arrampicarsi fino
al paradiso —, in un involucro di zefiro e meraviglia come quello di ogni
utopia, un mulinello infernale di distopia, di devastazione e annientamento.
Al termine della nostra conversazione a Pordenonelegge, Ágnes Heller
e io avevamo annunciato questo libro ancora tutto da scrivere e avevamo
detto che «in ogni utopia cova una distopia». L’annuncio di una grande
filosofa e di un piccolo editor, una promessa da mantenere, comunque, e
credo sia senz’altro possibile proprio prendendo le mosse da una delle tre
grandi distopie contemporanee, Il cerchio di Eggers, che troneggia inquie Dave Eggers, Il cerchio, Milano, Mondadori, 2014, p. 7.
1
82
Il vento e il vortice
tante insieme a La possibilità di un’isola di Houellebecq e 2084 di Boualem
Sansal pubblicato nell’ottobre 2015 da Gallimard.
Ho scelto tre opere distopiche contemporanee molto distanti sotto i
profili geografico e culturale perché credo esista una matrice comune nel
pericolo della distopia che si cela in ogni utopia, una matrice trasversale,
inaggirabile, che affonda nella natura umana condivisa — che si parli di
statunitensi ipnotizzati dalla tecnologia e dalla trasparenza, della decadenza
analoga a quella dell’impero romano che caratterizza la nostra vecchia Europa
e la Francia in particolare, o della riproposizione della distopia di Orwell,
1984, in chiave islamica.
All’inizio del tempo sulla Terra le creature viventi erano immortali.
Gli organismi unicellulari potevano sopravvivere grazie alla loro semplicità.
Erano come un’acqua cristallina, non raggelabile, non estinguibile, che
scorreva come ignara di se stessa, in un flusso inarrestabile, incoercibile,
sovrano.
La morte si affaccia nel mondo con la comparsa di esseri viventi più
complessi e in particolare l’umano. L’essere umano è discreto, fatto di asimmetrie, di scarti, sommovimenti, mutamenti continui. La specie umana
presenta un 99 per cento di aspetti comuni e un 1 per cento di differenze,
il che fa sì che siamo tutti fatti della stessa pasta eppure tutti diversi, finanche i gemelli monozigoti. Questa discontinuità, questa complessità rende
gli umani meravigliosamente e tragicamente sia imperfetti sia mortali. E
le utopie sgorgano dal desiderio di vincere sia l’imperfezione sia la morte.
Eduardo Galeano nella sua poesia sull’utopia diceva che se ti avvicini
di due passi la vedi compiere a sua volta due passi, se ti precipiti e accorci
la distanza di dieci passi la vedi balzare d’un sol colpo di dieci passi: non la
prendi, non puoi raggiungerla, si sottrae sempre e comunque. E allora, a
che cosa serve l’utopia, l’idea stessa di utopia? Galeano risponde: «L’utopia
serve a camminare».
È intrinseco alla nostra natura il desiderio imperioso di camminare,
di evolvere, di costruire nuovi mondi migliori di quello in cui viviamo. È
questo impulso invincibile che ci ha trasformati da cavernicoli in coltivatoriallevatori e poi via via in quella sequenza di nuove figure umane sempre più
perfezionate, ma il punto di notte di questa evoluzione, di questa crescita,
di questo miglioramento si annida nella dimenticanza — che incessantemente si affaccia — della nostra condizione di esseri imperfetti e mortali.
Il cerchio
83
L’imperfezione, quella che i musulmani chiamano il «tributo ad Allah» e
che celebrano tangibilmente introducendo almeno un difetto nei tappeti
che costruiscono con infinita perizia, e la morte che è la condicio sine qua
non perché la specie umana possa perpetuarsi attraverso l’avvento di nuove
vite che prendono il posto di quelle precedenti, non sono problemi risolvibili attraverso un’evoluzione morale o tecnica o grazie alla fantasia della
clonazione, ma sono gli elementi che costituiscono la vita stessa.
Dalle costrizioni delle ideologie alla gioiosa autoimmolazione
Viviamo in un tempo orfano delle grandi ideologie del Novecento,
quelle utopie/Doctor Jekyll che si erano trasformate in altrettante distopie/
Mister Hyde.
Il comunismo aveva sognato un mondo senza più classi, senza più
povertà, senza più umiliazione, quasi riprendendo in modo naturalmente
«perfezionato» l’utopia di Thomas More che prevedeva sei ore di lavoro al
giorno per ciascuno, per poi ammazzare 25 milioni di persone sotto Stalin e
imprigionarne un numero incalcolabile in condizioni subumane nei gulag.
In proposito Kundera ha scritto:
Chi pensa che i regimi comunisti dell’Europa Centrale siano esclusivamente opera di criminali, si lascia sfuggire una verità fondamentale: i
regimi criminali non furono creati da criminali ma da entusiasti, convinti
di aver scoperto l’unica strada per il paradiso. Essi difesero con coraggio
quella strada, giustiziando per questo molte persone. In seguito, fu chiaro
che il paradiso non esisteva e che gli entusiasti erano quindi degli assassini.2
E che dire della svastica nazista? La croce uncinata era un simbolo
solare di molteplicità, lo swastika, che figurava già nella Grecia e nella Roma
antiche, e i nazisti ne rovesciarono il significato attribuendogli il nome
di Hakenkreuz e facendolo assurgere a simbolo di razzismo distruttivo. Il
nazismo aveva sognato un mondo «purificato» dagli agenti sporchi e inquinanti come venivano considerati gli ebrei, gli zingari, gli omosessuali e
i disabili. Un progetto che portava alle estreme conseguenze l’operato della
Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, Milano, Adelphi, 1985, p. 190.
2
84
Il vento e il vortice
figura cardinale dell’Illuminismo, secondo la lezione di Bauman: quella del
giardiniere che deve ripulire il parco (della vita) dalle erbacce e da tutte le
specie vegetali inappropriate affinché possa risplendere in tutto il suo fulgore
e manifesti la più grande vitalità, armonia, bellezza. I «valori» del nazismo
erano, oltre alla purezza della razza, la bellezza, la salute, la forza, ma il
corollario di queste caratteristiche altamente desiderabili consisteva nella
ferocia devastatrice verso tutto quanto non fosse conforme a tali canoni: la
guerra al mondo intero e i sei milioni di morti nelle camere a gas sono stati
l’oscena testimonianza della follia di un simile progetto.
Alle grandi costruzioni del secolo scorso si sono avvicendate visioni
imperniate sulla salvezza personale, maggiormente conformi al mondo individualizzato in cui viviamo, in cui si confida nei prodigi e nelle innovazioni
della tecnica. Mae, la protagonista del romanzo citato in apertura, ha speso
234.000 dollari per la sua istruzione e si ritrova a svolgere un lavoro incolore
e deprimente fino a che la sua amica Annie la fa assumere in questa struttura
avveniristica in cui si trovano le menti migliori, gli ingegni più propulsivi,
e che le sembra un paradiso.
La sua città natale, e il resto della California, il resto dell’America,
sembravano la caotica babele di un paese in via di sviluppo. Fuori dalle
mura del Cerchio tutto era rumore e lotta, disastro e sporcizia. Ma lì ogni
cosa era perfetta. […] Chi poteva creare l’utopia se non degli utopisti? 3
Le avvisaglie dell’esistenza, in quel paradiso, di uno scenario perturbante non mancano fin dall’inizio: la nostra eroina viene subito dotata di
un nuovo tablet e di un nuovo telefono cellulare che recano entrambi inciso
il suo nome in cui vengono riversati tutti i suoi dati, le sue canzoni, le foto,
i messaggi, che in una manciata di minuti sono divenuti accessibili a tutto
il resto del Cerchio e che resteranno indelebili anche nei secoli a venire. Ed
è curioso come una situazione distopica come quella descritta sia già parte
della realtà in cui viviamo senza rendercene troppo conto, una realtà in cui
tutto quanto viene postato su Facebook risulta fin d’ora incancellabile e
accessibile a chi possa e voglia trarne profitto.
Eggers, cit. p. 30.
3
Il cerchio
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Torna alla mente la vera protagonista de L’insostenibile leggerezza
dell’essere,4 Tereza, figlia non voluta di una madre che pretendeva la piena
visibilità dell’esistente, l’esibizione del corpo e delle sue manifestazioni:
A casa non esisteva pudore. La madre girava per l’appartamento con
indosso soltanto la biancheria intima, talvolta senza il reggiseno, talvolta,
d’estate, nuda. Il patrigno non girava nudo ma entrava nel bagno tutte le
volte che Tereza era nella vasca. Una volta che lei si era chiusa dentro a
chiave, la madre aveva fatto una scenata. […] Una volta, in inverno, la madre
stava girando nuda con la luce accesa. Tereza corse immediatamente a tirare
le tende perché non la vedessero dalla casa di fronte. Dietro le spalle sentì
la sua risata. […] Rise, e tutte le donne risero con lei. La madre disse poi:
«Tereza non vuole rassegnarsi al fatto che il corpo umano piscia e scoreggia».5
Tereza non accetta una realtà «dove l’intero universo non è che un
enorme campo di concentramento di corpi identici fra loro e con l’anima
invisibile». Tereza è una sacca di resistenza nello scenario della trasparenza
socialista. Tereza non crede che la verità delle persone si manifesti attraverso
l’esibizione disinibita del proprio corpo e desidera «vedere sulla superficie
del proprio viso l’equipaggio dell’anima irrompere dal ventre della nave».6
Kundera insiste nei suoi libri sull’inestimabilità della «piccola percentuale di
inimmaginabile» che contrassegna ciascun essere umano e lo rende unico.
Tereza lo chiama «anima», Lacan «oggetto piccolo (a)», ma in definitiva si
tratta pur sempre di ciò che è irriducibile all’ordine del linguaggio e all’ordine
in generale, qualcosa che resiste e non si uniforma.
L’ossessione della permanente esposizione di sé era una costante del
Grande Fratello di 1984, era il Leitmotiv del film Le vite degli altri,7 dove
nella DDR le autorità spiavano tutti, ma è davvero illusorio credere che
adesso, nelle nostre democrazie, tutto ciò sia soltanto un lontano ricordo.
Il massimo esperto mondiale di sorveglianza, David Lyon, e Zygmunt
Bauman, hanno scritto insieme un libro che non lascia dubbi in proposito: «Nel contesto fluido della modernità liquida il potere si sposta
alla velocità dei segnali elettronici, e la trasparenza aumenta per alcuni e
6
7
4
5
Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, Milano, Adelphi, 1985.
Ibidem, p. 57.
Ibidem, p. 59.
Das Leben der Anderen è un film del 2006 di Florian Henckel von Donnersmarck.
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Il vento e il vortice
nello stesso tempo diminuisce per altri».8 Già Foucault aveva identificato
una sorta di doppio legame, di doppia personalità, di una compresenza
antitetica di atteggiamenti in chi veniva sorvegliato: «Colui che è sottoposto a un campo di visibilità, e che lo sa, si fa carico delle costrizioni del
potere; spontaneamente, le lascia agire su se stesso; inscrive in se stesso il
rapporto di potere nel quale gioca simultaneamente i due ruoli; diviene
il principio del proprio assoggettamento».9 La differenza con gli scenari
distopici del Novecento risiede nel fatto che allora era in atto il dispositivo
foucaultiano del Panopticon giustificato dall’ideologia vigente: si doveva
essere sorvegliati per un fine superiore, per realizzare un mondo migliore, e la consapevolezza di poter essere intercettati nelle proprie deroghe
costituiva un deterrente formidabile, senza che però venisse mai meno la
consapevolezza di essere assoggettati a uno strapotere che non era dato non
percepire come soverchiante e minaccioso. Ora che invece le ideologie si
sono zittite e che la panacea è soltanto il progresso tecnologico, la nostra
costante autodenuncia, il nostro beato e beota consenso entusiastico alla
confessione di tutto quanto facciamo si estrinseca nel disinvolto uso delle
carte di credito, nei post su Facebook, nelle dichiarazioni che facciamo
nei social network.
Bauman nella sua conversazione con Lyon cita Étienne de la Boétie e
il suo Discorso sulla servitù volontaria:
[…] preconizzò lo stratagemma che la società liquido-moderna dei consumatori ha portato quasi alla perfezione diversi secoli dopo. Tutto sembra
puntare nella stessa direzione: il modello di dominio, la filosofia e i precetti
pragmatici di gestione, i veicoli di controllo sociale e lo stesso concetto
di potere, inteso come modo per manipolare le probabilità accrescendo
l’eventualità di comportamenti appropriati e riducendo al minimo quelle
contrarie. Tutta l’attenzione si sposta dall’imposizione alla seduzione, dalla
regolazione normativa alle Pr, dalla polizia alla creazione del desiderio; e
tutto concorre a trasferire il ruolo di protagonisti (ai quali spetta raggiun-
Zygmunt Bauman e David Lyon, Liquid Surveillance. A Conversation, Cambridge, Polity
Press, 2013, trad. it. Sesto potere. La sorveglianza nella modernità liquida, Roma-Bari,
Laterza, 2014, p. XXII.
9
Michel Foucault, Surveiller et punir: Naissance de la prison, Paris, Gallimard, 1975, trad.
it. Sorvegliare e punire, Torino, Einaudi, 1976, p. 221.
8
Il cerchio
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gere i risultati auspicati e graditi) dai capi ai subordinati, dai controllori ai
controllati, dagli ispettori agli ispezionati.10
In sostanza, mentre prima la scelta della servitù, dell’assoggettamento, era qualcosa di obbligato per non incorrere in una punizione, i nuovi
strumenti di potere fanno leva sull’instillazione irrazionale di una volontà
presuntamente autonoma di andare proprio nella direzione che ci si lusinga di avere scelto. D’altro canto, le nuove modalità di dominio sono
infinitamente più economiche di quelle passate, poiché l’esercizio della
sorveglianza aveva costi consistenti e il fatto che i lavoratori di un’azienda
si ritrovassero sulla stessa barca implicava una solidarietà fra i dipendenti,
insieme a una coscienza di classe, e una certa solidarietà ancorché più ruvida fra i capi e i sottoposti, visto che una fabbrica per andare avanti aveva
bisogno che il lavoro, in un modo o nell’altro, venisse portato a termine.
Ma adesso, nel nuovo mondo globalizzato, una persona come Marchionne
si può permettere di rifondare la Fiat negli Stati Uniti e di pagare le tasse
nello staterello che ne esige di meno, e allora un dipendente non può far
altro che trasformarsi nel controllore e nel manager di se stesso, sperando
che il suo lavoro possa soddisfare le aspettative del suo boss, sospirando di
preoccupazione e impegnandosi allo spasimo per non essere cacciato dal
posto che occupa. Io credo che si possa intendere in termini allargati anche
questa nuova prassi oltre a quella che Lyon delinea come «Ban-opticon»,
riprendendola da Didier Bigo, per designare «un sistema finalizzato alla
“messa al bando” di questi marginali globali […], a definire chi è gradito e
chi non lo è, creando categorie di esclusi che non vengono banditi da un
determinato Stato-nazione, ma da un cluster amorfo e non unificato di poteri
globali. Esso opera virtualmente, utilizzando una serie di basi dati in rete
per incanalare flussi di dati, specialmente dati su fatti non ancora avvenuti,
come nel film e libro Minority Report».11 Senza contare che la volontaria
esibizione di quanto una volta sarebbe stato considerato strettamente privato
coadiuva chi manovra le leve del potere nell’effettuare il social sorting, nello
stabilire cioè chi vada vezzeggiato e coltivato in virtù della sua propensione
a consumare adeguatamente (l’equivalente contemporaneo di quel che una
Bauman e Lyon, cit., pp. 44-45.
Ibidem, pp. 48-49.
10
11
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Il vento e il vortice
volta si definiva «una vita degna») e chi al contrario debba essere oggetto
di attenzioni più aggressive, di controlli più frequenti e molesti, come gli
islamici.
Il mostro a tre teste
Torniamo al nostro Cerchio. Tutto ha avuto inizio con una mente
geniale e innovativa, quella di Tyler Alexander Gospodinov, detto Ty, sociopatico e forse affetto dalla sindrome di Asperger. Ty, stufo di dover ricordare
tutte le password e i codici di identificazione che si moltiplicano come tutti
sappiamo per gestire le nostre vite sempre più governate e veicolate dalla
rete, a un certo punto riesce a ideare lo Unified Operation System, che
consente di armonizzare e concentrare quanto prima era frammentato, e
una modalità, TruYou, grazie alla quale ciascuno può eseguire qualunque
operazione in prima persona collegandosi direttamente e facendo tabula rasa
sia delle complicazioni sia dei furti d’identità, delle truffe, delle ansie legate
alla navigazione in rete. Ty però è solo un inventore, non un uomo d’affari.
Così assume altri due Saggi, Eamon Bailey e Tom Stenton, che coprono i
due tasselli imprescindibili di un’azienda: il volto persuasivo, rassicurante,
amichevole e sorridente del primo, che tutti chiamano «zio Eamon», e la
potenza imprenditoriale del secondo. Con la triarchia l’impresa decolla e
sono sempre più numerosi gli inventori che vanno a vendere la loro merce
al Cerchio, innescando un processo inarrestabile di creazioni e soluzioni
sempre nuove.
Sembrerebbe perfetto, più vantaggi per tutti, meno disagi per tutti. Il
problema, naturalmente, è che se una cosa esiste diventa obbligatorio servirsene. Tutte queste persone che devono comunicare e adeguarsi a standard
di trasparenza, salute e bellezza sono entusiaste ma qualche resistenza si
manifesta, qualche rumore nel sistema si fa udire. Quando Mae, la nostra
protagonista, incontra Josef, che ha «una dentatura di una comica bruttezza»,
strabuzza gli occhi, incredula.
«Mi sta già guardando i denti!» gemette indicando Mae. «Voi americani
siete ossessionati! Mi sento un cavallo messo all’asta.»
«Ma tu hai veramente dei brutti denti» disse Annie. «E noi qui abbiamo
cure dentarie convenzionate così buone...»