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M.T. NICOTRI – De dote quantitate
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Cercando di assumere un punto di vista
il più possibile oggettivo42, nell’intento di dicome soggetti non i singoli individui, bensì i loro
gruppi di appartenenza e si realizza secondo modalità
che impegnano valori economici, politici e culturali».
Condivide l’impressione, che la dote rivesta anche altri scopi a parte quelli tradizionalmente posti in luce,
il GUARINO (Recensione ad A. SOELLNER, Zur Vorgeschichte, cit., 692) che si esprime in questi termini: «Sono soltanto alcune e scarne suggestioni, le mie. Suggestioni che nascono dopo anni di lavoro, dall’insoddisfazione degli angusti confini che, per timore
di svalutare il nostro tecnicismo, noi romanisti ancora
segniamo ai nostri studi. Eppure anche noi dovremmo avere finalmente il coraggio di mirare ad una
‘nuova frontiera’. Molti di noi lungo la strada, probabilmente cadrebbero. Ma l’importante è che vi sia
qualcuno che arrivi».
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Volendo assecondare l’illuminante considerazione
di P. BOURDIEU, uno dei più grandi sociologi e teorici
sociali del Novecento, Il senso pratico, Roma, 2005, 228
nt. 2: «Gli errori inerenti al giuridismo non sono mai
così evidenti come nei lavori degli storici del diritto e
delle consuetudini, spinti da tutta la loro formazione e
dalla natura dei documenti che utilizzavano (quali gli
atti notarili, combinazione delle precauzioni giuridiche prodotte dai notai professionisti, conservatori di
una tradizione colta, e delle procedure effettivamente
proposte dagli utenti dei loro servizi) a canonizzare in
forma di regole formali le strategie di successione e
matrimoniali» e 230: «Il discorso giuridico, al quale
ricorrono volentieri per descrivere la norma ideale o
per rendere conto di un caso singolare trattato o rein-
DE DOTE QUANTITATE
A PROPOSITO DI CELS. D. 23.3.60 E 32.43
SOMMARIO: 1. Premessa. 2. Matrimonio e dinamiche
familiari. 3. Esegesi di D. 23.3.60. 3.1 Dignitas. 3.2
Facultas. 4. Esegesi di D. 32.43. 5. Conclusioni.
1. Premessa
Il presente studio nasce dall’intento di rileggere alcuni frammenti relativi alla quantificazione della dote. In particolare, due passi
celsini tratti dai libri Digestorum1:
Cels. 11 dig. D. 23.3.60: Quaero, quantae pecuniae dotem promittenti adultae mulieri <curator>
tutor consensum accomodare debeat. Respondit: modus
ex facultatibus et dignitate mulieris maritique statuendus est, quo usque ratio patitur.
1
Su Celso cfr. M. BRETONE, Note minime su ‘Celsus Filius’, in Labeo, IX, 1963, 331 ss.; P. CERAMI, La concezione celsina del ‘ius’, in AUPA, XXXVIII, Palermo,
1985; F. WIEACKER, ‘Amoenitates Iuventianae’. Zur Charakteristik des Juristen Celsus, in Iura, XIII, 1962, 1-21;
F. CASAVOLA, Giuristi adrianei, Napoli, 1980. Circa il
temperamento aggressivo di Celso cfr. Plin. Ep. 6.5.45.
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Cels. 15 dig. D. 32.43: Si filiae pater dotem arbitratu tutorum dari iussisset, Tubero perinde hoc habendum ait ac si viri boni arbitratu legetum sit.
Labeo quaerit, quemadmodum apparet, quantam dotem cuiusque filiae boni viri arbitratu constitui oportet: ait id non esse difficile ex dignitate, ex facultatibus, ex numero liberorum testamentum facientis aestimare.
Obbiettivo della mia indagine è verificare e
ricostruire l’esistenza di criteri per l’individuazione della corretta quantità di dote2 e,
conseguentemente, l’esistenza del concetto
stesso di una corretta misura di dote. La questione appare centrale nello studio della materia dotale. Difatti essa si interseca con molteplici tematiche, di capillare importanza che,
vista la specificità dell’argomento che si è scelto di affrontare, non potremo approfondire,
ma che terremo in debito conto.
La ragione per cui si è inteso attribuire rilievo centrale ai frammenti celsini testè citati,
pur in presenza di ulteriori testimonianze
nell’ambito del Corpus Iuris, risiede, innanzitut2
Sul tema P. BONFANTE, Corso di diritto romano, I, Diritto di famiglia, Milano, 1963, 410, l’A. precisa che «la
dote va commisurata alle sostanze del padre, al numero dei figliuoli, alla dignità del maritaggio»; ivi vd. nt.
1.
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tempo dello stesso, tale assunto è direttamente riconducibile alla evidente connessione che caratterizza dote e matrimonio, ma
è anche sintomatica della funzione cui veniva
ricondotta la costituzione di dote.
Peraltro, accettando la rilevata connessione tra dote e onera matrimonii finché permane la dotis causa40, cioè finché perdura il vincolo coniugale, è nell'interesse dei soggetti che
partecipano alla costituzione di dote regolare
gli interessi correlati alla stessa e più direttamente alla gestione familiare, anche se in un
primo momento nulla si era pattuito.
Il rilievo della posizione socio-economica
delle famiglie di entrambi i nubendi, ai fini
della determinazione della dote, sembra coerente con quella reciprocità dei vantaggi scaturenti dall’alleanza matrimoniale già riscontrati
in dottrina41.
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Paul. 14 ad Sab. D. 23.3.1: Dotis causa semper perpetua
est, et cum voto eius qui dat ita contrahitur, ut semper apud
maritum sit.
41
Cfr. A. ROMANO, Matrimonio, cit., 64, secondo l’A.
vi sarebbe: «L’esigenza comune di concludere, attraverso la reciprocità, un’alleanza che confermi il ruolo
da entrambe occupato nella scala sociale»; 67: «Chiarite le mie riserve su questo specifico punto, mi sembra
che l’intuizione di Hanard sulla non unilateralità dei
vantaggi dello scambio matrimoniale possa essere utilizzata, ma nella prospettiva di una reciprocità che ha
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rappresentano il luogo deputato a regolare e a
dar rilevanza, secondo le esigenze dei paciscenti, non solo alla quantità dei beni costituiti
in dote ma anche alla modalità della consegna,
cioè a tutte quelle circostanze che contribuivano alla modifica dell’assetto patrimoniale
familiare e che accompagnavano le trattative
matrimoniali38.
Il rapporto dotale può essere modificato
anche durante il matrimonio39 e per tutto il
avverte un’ingerenza esterna, l’autonomia privata viene limitata dall'intervento pubblico, teso a privare di
validità quelle pattuizioni che esorbitando dalla causa
dotale siano tali da rendere la donna prope indotatam.
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Non appare conducente obiettare che la dote potesse essere costituita anche dopo il matrimonio, o
che essa potesse essere consegnata in un momento
posteriore o anche non essere mai consegnata. Infatti,
in primo luogo, nulla impedisce che si voglia, o si
possa, regolare l’assetto patrimoniale della famiglia, in
un momento successivo, alla costituzione del vincolo
matrimoniale; in secondo luogo, anche le modalità e i
tempi di consegna possono essere ricondotti a quelle
circostanze che tendono a quantificare in termini
economici la misura della dote, cfr. A. ROMANO, Matrimonio, cit., 68.
39
Vd. Iav. 4 ex Cass. D. 23.4.1: Pacisci post nuptias, etiam
si nihil ante convenerit, licet. 1. Pacta quae de reddenda dote
fiunt, inter omnes fieri oportet qui repetere dotem et a quibus
repeti potest: ne ei, qui non interfuit, apud arbitrum cognoscentem pactum non prosit.
3
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to, nella rilevanza e centralità che assume, a
nostro parere, l’opinione celsina, nel dibattito
relativo alla quantificazione della dote. Celso,
infatti, appare il più fedele interprete della
prassi sociale del tempo.
Deve, in più, essere rilevato che la dottrina
ha un po’ trascurato i frammenti in esame; invero, in genere, il giudizio sulla genuinità di
tali testimonianze è stato ricavato in via deduttiva, in calce a più vasti studi in materia di
arbitrium boni viri, alla fine dei quali si decideva
di volta in volta se salvare o considerare frutto
dell’intervento giustinianeo l’uso dei termini
dignitas e facultas.
Per questa ragione pensiamo che possa risultare fruttuosa una rilettura dei contributi
esistenti in materia, al precipuo scopo di rivisitare la tematica in esame muovendo da una
nuova prospettiva, incentrata sull’analisi del
punto di vista celsino3.
3
Si parla di punto di vista, in quanto si ammette la
possibilità che durante il II secolo d.C. i principi
espressi da Celso non siano ancora pacifici, o meglio
non siano ancora stati formalizzati, ma di questo si
dirà dopo.
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2. Matrimonio e dinamiche familiari.
Mi permetto di richiamare alcune considerazioni note ma utili ai fini dell’esposizione.
Trattando della dote, infatti, non ci si può
esimere dal fare, almeno, un cenno ad alcune
note problematiche, cui si sono già dedicati
molti romanisti, che rappresentano un essenziale tassello logico nella ricostruzione della
materia di cui trattasi. Appare, invero, conducente fare un breve riferimento alle conclusioni, cui è pervenuta la dottrina con riferimento alla sussistenza di un obbligo giuridico
di dotare, senza tralasciare di specificare quale
fosse il peso attribuito alla disciplina giuridica
nell’ambito di quelle concitate dinamiche familiari, innescate dall’approssimarsi dell’età da
marito. Più in generale, si può rilevare che sia
la disciplina ‘familiare’4, sia la disciplina ma4
Cfr. P. BONFANTE, La ‘gens’ e la ‘familia’, in Scritti giuridici vari, I, Torino, 1916, 8 ss. contra E.VOLTERRA,
Sui ‘mores’ della ‘familia’ romana, in Scritti giuridici, II,
Napoli, 1991, 516-534. Appare, inoltre, opportuno
rilevare che la considerazione dei doveri derivanti dal
matrimonio come doveri non giuridici non è estranea
neanche al nostro ordinamento. Infatti, secondo una
tesi tradizionale, da poco sconfessata dalla Corte di
Cassazione con la sent. n. 9801/2005, non è possibile
risarcire la violazione degli obblighi familiari ai sensi
degli artt. 2043 e 2059 cod. civ., in quanto, i doveri
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non può escludersi che nel momento genetico
(del matrimonio) svolgesse anche un’altra
funzione, che, peraltro, rimane immutata nel
passaggio dal matrimonio cum manu al matrimonio sine manu; la dote crea un equilibrio tra
le famiglie degli sposi, tale dato, da alcuni negato perché privo di alcun appiglio nelle fonti
in nostro possesso, potrebbe, infatti, trovare
conferma proprio nei frammenti oggetto del
nostro studio36.
Ciò non basta, in quanto, l’assoluta rilevanza degli accordi economici, rectius degli accordi inerenti alla dote, trova corrispondenza
nella diffusione dei patti dotali37. I patti dotali
36
Contra A. MANZO, Un’ipotesi, cit., 310 ss.
Prima manifestazione storica di autonomia privata
incidente sulla regolamentazione degli effetti patrimoniali scaturenti dal matrimonio sono le cautiones rei
uxoriae, ovvero quelle pattuizioni aggiunte alla costituzione di dote, di cui Servio Sulpicio Rufo raccomandava la stipula, per garantire la restituzione delle sostanze dotali, in un momento in cui pur sopravvenendo un'esigenza di restituzione connessa alla fragilità del vincolo coniugale il diritto non aveva ancora
apprestato efficace rimedio. Introdotta l’actio rei uxoriae, garantita così la restituzione della dote, ove allo
scioglimento del matrimonio sopravvivessero i soggetti legittimati, l’esercizio della autonomia dei privati
non si arresta; viene anzi a condensarsi in quelle convenzioni dotali che finiscono per rappresentare il paradigma dell'incontro tra voluntas e ius. Al contempo si
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Grazie alla dote che, come sappiamo, esiste solo se sussiste il matrimonio viene regolata anche, per così dire, la relazione tra le due
famiglie e tra gli stessi coniugi. Il matrimonio
dà origine ad un’alleanza ma anche ad uno
scambio; senza un giusto corrispettivo35 si verifica una sorta di sottomissione della famiglia
della donna a quella del marito, nel caso di
una dote non congrua, del marito alla moglie,
nel caso di una dote eccessiva.
Se è vero che la funzione della dote in costanza di matrimonio è in un primo momento
quella di compensare le aspettative ereditarie
e, poi, quella di sostenere i pesi matrimoniali,
35
Cfr. A. GUARINO, La condanna nei limiti del possibile,
Napoli, 1975, 53, secondo l’A. : «Occorreva, insomma, per sposarsi ad un certo livello sociale, trattare
l’affare. Il marito (o il relativo paterfamilias) chiedeva
da un lato ciò che poteva (o, se riduceva le pretese,
era solo per i vantaggi di alleanza sociale, politica,
economica che dal matrimonio gli sarebbero potuti
derivare) e, dal suo canto, la moglie (o per lei il relativo paterfamilias, oppure anche un extraneus interessato,
... , a che il matrimonio si facesse) cercava, nei limiti
del possibile, di tirare sul prezzo ed eventualmente di
garantirsi in vista di una fine del matrimonio ... A sua
volta, la moglie aveva interesse solo sino ad un certo
punto a ridurre l’entità del suo contributo, perché la
sua ‘cifra’, in famiglia e di fronte alla società, era in relazione alla cifra di quel suo contributo».
5
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trimoniale5 romana, per molto tempo furono
determinate da regole sociali; il diritto ebbe
solo un ruolo marginale.
La superiore considerazione, tutt’altro che
apodittica, trae origine dalla valutazione della
natura delle regole che disciplinano i rapporti
di natura familiare, in quanto, pur riconoscendo la sussistenza di una disciplina giuridica atta a regolare, in particolare, la dote, non
può tralasciarsi l’evidenza di un forte, se non
maggiore ruolo, affidato alla morale, al costume ed alla religione6.
familiari sarebbero rilevanti solo sul piano etico, morale e sociale.
5
Per una bibliografia essenziale sul matrimonio romano vd. R. ASTOLFI, Il matrimonio nel diritto romano
preclassico, Padova, 2002; Il matrimonio nel diritto romano
classico, Padova, 2006; P. BONFANTE, Corso, cit., 253
ss.; M.J. GARCIA GARRIDO, Derecho privado romano,
Madrid, 1979-1980; M. LAURIA, Matrimonio – dote,
Roma, 1936; R. ORESTANO, La struttura giuridica del
matrimonio romano dal diritto classico al diritto giustinianeo,
in BIDR, LV-LVI, 1952, 185 ss.; G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano, Torino, 1990; S. TREGGIARI,
Roman marriage, ‘Iusti coniuges’ from the time of Cicero to the
time of Ulpian, Oxford, 1991; E. VOLTERRA, voce Matrimonio in diritto romano, in Enc. dir., XXV, Milano,
1975, 726-804; ‘Iniustum matrimonium’, in Scritti giuridici
‘Antiqua’ 59, III, Napoli, 1991, 177-206.
6
Il matrimonio e la dote trovano origine nella società
e, solo in un momento successivo, diventano oggetto
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Posto che la materia dotale si connota per
il particolare rilievo attribuito alla prassi sociale, nel prosieguo si farà, più volte, riferimento
ad alcune fonti non giuridiche pervenuteci,
per avere un’idea, seppur parziale, dell’atteggiamento dei Romani al cospetto di problematiche inerenti ai rapporti patrimoniali fra i
coniugi e, più in particolare, all’istituto dotale.
Per quanto attiene all’obbligo di dotare, si
ricorda, sinteticamente, che in epoca
postclassica-giustinianea come attestato dal
Digesto7 e, più in generale, dall’inclinazione
di disciplina giuridica, la quale il più delle volte si limita a recepire norme di carattere etico, morale, religioso. Per questo, tanti furono i tentativi di arginare
l’involuzione dei valori familiari che iniziò a tormentare Roma fin dal periodo della crisi della res publica.
La dimostrazione di quanto fosse avvertito il problema è data non solo dall’intervento pubblico, teso per
lo più a sanzionare comportamenti contrari ai valori
previsti dai mores maiorum, ma anche dalla sensibilità di
poeti e commediografi che finivano così per mescolare ispirazione artistica ed impegno sociale. Cfr. Horat.
Carm. 3.6.1: Delicta maiorum inmeritus lues,/ Romane, donec templa refeceris/ aedisque labentis deorum et/ foeda nigro
simulacra fumo./..../Fecunda culpae saecula nuptias/ primum
inquinavare et genus et domos:/ hoc fonte derivata clades/ in
patriam populumque fluxit.......
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Cfr. Paul. 64 ad ed. D. 23.3.2: Rei publicae interest
mulieres dotes salvas habere propter quas nubere possunt. Tale
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formulario, entrambi diversi da quelli a noi noti e
propri della mancipatio descritta in Gai. 1.119, dalla
quale conseguiva non una vendita reciproca ma
l’assunzione contestuale di ruoli giuridicamente rilevanti da parte del vir e della uxor che partecipano
all’atto. Sulla ricostruzione della formula della coemptio
cfr. S. RANDAZZO, ‘Leges mancipii’, Contributo allo studio
dei limiti di rilevanza dell’accordo negli atti formali di alienazione, Milano, 1998, 50, il quale ritiene che: «la peculiarità dei risultati da conseguire doveva far seguito alla
pronuncia di verba particolari che, modificando il formulario della mancipatio, consentivano alle parti di acquisire quegli speciali effetti giuridici che queste si
erano prefisse di ottenere ricorrendo all’atto negoziale». Vd. pure A. CORBINO, Il formalismo negoziale nell’esperienza romana: lezioni., Torino, 1994, 16 ss.; B. ALBANESE, Gli atti negoziali nel diritto privato romano, Palermo, 1982, 65 ss. In ultimo, circa la possibilità respinta dalla dottrina maggioritaria di riscontrare nella
formula della coemptio una traccia di una originaria
vendita reale ed effettiva, mediante mancipatio, della
figlia ad opera del padre, che in questo modo la dà in
sposa, si vuol precisare la sostanziale differenza tra il
concetto di vendita e il concetto di alleanza, cui si è
fatto riferimento. Sulla coemptio come vendita vd. B.
ALBANESE, Le persone, cit., 305 nt. 444: «Il fatto che ...
le donne non siano state considerate servarum loco,
quando fossero state mancipate con la coemptio, indica
che la coemptio, forse, non fu mai vendita effettiva. Invece, la condizione di servi loco della persona in mancipio
indica che, in origine, la mancipatio di questo tipo di
persone fu una vendita vera e propria, e non un negozio simbolico come divenne più tardi».
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mento alle modalità in cui la donna usu in manum conveniebat e, poi, con riferimento alla coemptio una nuova
lettura dell’istituto. In particolare, la nuova ipotesi ricostruttiva trae spunto da una rilettura di Gai 1.113.
Oggetto di attenta analisi è l’espressione emit eum mulierem, che secondo una prima ricostruzione lungamente accolta dalla dottrina andrebbe corretta in emit
is mulierem, rendendo così la coemptio una mancipatio attraverso la quale il marito acquista la moglie. Altra
ipotesi ricostruttiva propone, invece, dopo libripende,
‘emit eum <mulier et is> mulierem cuius in manum convenit’,
intendendo, così, la coemptio come un atto di acquisto
reciproco, in cui intervenivano attivamente entrambi i
coniugi. L’Autrice rivaluta la testimonianza di Boezio
(Boeth. Cic. top. 3,14, Tribus enim modis uxor habebatur:
usu farreo coemptione. Sed confarreatio solis pontificibus conveniebat. Quae autem in manum per coemptionem convenerant,
eae matresfamilias vocabantur: quae vero usu vel farreo minime. Coemptio vero certis sollemnitatibus peragebatur, et sese in
coemendo invicem interrogabant: vir ita, an sibi mulier materfamilias esse vellet? Ille respondebat velle. Item mulier interrogabat, an vir sibi paterfamilias esse vellet? Ille respondebat
velle. Itaque mulier viri conveniebat in manum, et vocabantur
hae nuptiae per coemptionem, et erat mulier, materfamilias viro
loco filiae. Quam sollemnitatem in suis Institutis Ulpianus exponit), dalla quale si ottiene un contributo per una migliore conoscenza del rito della coemptio, così come descritto nelle istituzioni ulpianee e dal quale si apprende che tra le formalità dell’istituto vi erano anche delle
reciproche interrogazioni effettuate dal vir e dalla uxor.
Attraverso l’analisi delle fonti che spinge l’A.
all’elaborazione di una ipotesi paleografica, si deduce
che la coemptio aveva un suo schema formale e un suo
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del diritto giustinianeo verso il favor dotis, la
natura di tale officium era, sicuramente, mutata
trasformandosi in obbligo giuridico. Incerta
l’esatta determinazione del recepimento normativo; tre8 sono le ipotesi prospettate: a) l’età
augustea9, in particolare la lex Iulia de maritandis
frammento prova la rilevanza che la dote aveva per il
diritto giustinianeo.
8
Le teorie prospettate appaiono ugualmente verosimili, infatti, non possediamo notizie sufficienti per
datare correttamente l’origine dell'obbligo; in particolare, le prime due tesi si basano su una diversa interpretazione del medesimo frammento: Marc. 16 inst:
D. 23.2.19: Capite trigesimo quinto legis Iuliae qui liberos
quos habent in potestate iniuria prohibuerint ducere uxores vel
nubere, vel qui dotem dare non volunt ex constitutione divorum
Severi et Antonini, per proconsules praesidesque provinciarum
coguntur in matrimonio collocare et dotare. prohibere autem
videtur et qui condicionem non quaerit. Sul brano vd. C.
SANFILIPPO, Corso di diritto romano. La dote, Catania,
1959, 47 ss.; R. ASTOLFI, La ‘lex Iulia et Papia’3, Padova, 1995, 152 ss. Sull’argomento: G. CASTELLI, Intorno
all'origine dell'obbligo di dotare in diritto romano, pubblicato
per la prima volta in Filangieri, 1-2, LVII, 1913, rielaborato in BIDR, XXVI, 1913, 164, e ora raccolto in
Scritti, 129. G. BESELER, Beiträge, 3,14; 30; 202; 4, 127;
Studi Bonfante, II, 69 n. 7; Iuristische Miniaturen, 1930,
124; TR, VIII, 1928, 322.
9
Cfr. A. BECHMANN, Das römische Dotalrecht, I, Erlangen, 1863-1864, 41; C. CZYHLARZ, Das römische Dotalrecht, Giessen, 1870, 172.
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ordinibus10; b) l’età dei Severi11 e precisamente
una costituzione di Severo e Caracalla (Marc.
16 inst. D. 23.2.19); c) l’età giustinianea12, nel
presupposto che i frammenti in materia siano
stati interpolati.
Il suddetto dibattito, invero, mai sopito, rileva solo in parte ai nostri fini; per i romani,
infatti, almeno fino ad un certo momento storico, fu sufficiente la pressione della morale
comune; l’introduzione di uno specifico obbligo giuridico si rese necessario, invece, a seguito del mutare del sentire sociale13.
10
La lex Iulia de maritandis ordinibus, che venne presto
trasfusa nella lex Iulia et Papia, mirava a promuovere i
matrimoni e la nascita di figli legittimi. Chi riconduce
l’introduzione dell’obbligo alla lex Iulia ritiene che lo
stesso fosse finalizzato al raggiungimento degli scopi
della legge. Sulla lex Iulia et Papia vd. R. ASTOLFI, La
‘lex’, cit.; G. PUGLIESE, Istituzioni, cit., 400 ss.
11
Cfr. F. MANCALEONI, L’origine storica dell’obbligo di
dotare in diritto romano, in Archivio giuridico ‘F. Serafini’,
XLVII, 1891, cui si rinvia per la letteratura precedente.
12
Cfr. G. CASTELLI, Intorno all’origine, cit.; P. BONFANTE, Corso, cit., 405; tale opinione è diventata comune successivamente agli studi del Castelli e del Beseler.
13
Sul tema vd. G. CASTELLI, Intorno all’origine, cit., 173:
«finché la compagine della famiglia romana si tenne
salda, il dovere di dotare la figlia, posto sotto la
sanzione venerata del mos, fu profondamente sentito e
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da altre considerazioni, volte all’individuazione di
quelle che potrebbero essere le prove di una, ciclicamente, ipotizzata parità tra la condizione del marito e
quella della moglie e il conseguente rifiuto di una descrizione in termini potestativi della conventio in manum.
In particolare, il campo d’analisi prescelto da chi tende ad enfatizzare le peculiarità della condizione della
donna romana, rifiutando che questa fosse considerata quale oggetto di scambio, è quello della disciplina
della conventio in manum (sul tema è possibile consultare: E. CANTARELLA, Sui rapporti fra matrimonio e conventio in manum, in RISG, X, 1963; E. VOLTERRA, Nuove
ricerche sulla ‘conventio in manum’, in Scritti giuridici, III,
Napoli 1991; R. ASTOLFI, Il matrimonio, cit., e letteratura ivi citata, in più vd. infra) nella forma della coemptio. Posto che le tracce della sussistenza di un ruolo
attivo della donna, in quelle che erano la formalità necessarie per la costituzione della manus attraverso
coemptio, non sono necessariamente prova di una effettiva reciproca vendita posta in essere tra i coniugi,
appare sicuramente più equilibrata la tesi di Albanese
(Note sulla ‘coemptio’, in Iura, LII, Napoli, 2001), il quale
premettendo che allo stato delle nostre conoscenze è
impossibile ricostruire la disciplina della coemptio, si
sofferma su alcuni dati acquisiti (ad esempio il ruolo
della donna ad un tempo soggetto ed oggetto della
coemptio), escludendo che la stessa consistesse in reciproche mancipazioni. Sull’argomento cfr. I. PIRO, Gai
1.113 ed il formulario della ‘coemptio’, in Iuris Vincula –
Studi in onore di M. Talamanca, VI, Napoli, 2001, 361391. La dottrina specialistica ha per lungo tempo sostenuto che l’istituto avesse una chiara logica potestativa. L’autrice ha, invece, offerto, prima con riferi-
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sume il ruolo di esca per ottimi matrimoni se
cospicua, di grande iattura, invece, per i padri
incapaci di offrirne una congrua alle proprie
figlie. La dote, in altri termini, poteva compensare, riequilibrare l’assenza di una pari
condizione sociale.
Come abbiamo già ricordato è possibile
ravvisare nel matrimonio romano un valido
strumento di alleanza tra famiglie32. Dal racconto di Dionigi di Alicarnasso33 apprendiamo, infatti, che Romolo, per conciliarsi
con i popoli che vivevano intorno a Roma,
fece ricorso ai matrimoni, che secondo i veteres
erano uno dei metodi più sicuri per stringere
amicizia.
Attraverso il matrimonio si stringono alleanze o, comunque, si crea un legame tra due
famiglie e la donna acquisisce la stessa dignitas
del marito34.
32
Cfr. A. MANZO, Un’ipotesi, cit., 309; cfr., inoltre, G.
MAC CORMACK, ‘Coemptio’ and marriage by purchase, in
BIDR, LXXXI, 1978, e letteratura ivi citata.
33
Dion. 2.31.1; 6.1.2, in tal senso cfr. Plut. Rom.
29.5.6.
34
Per ragioni di completezza appare opportuna una
breve precisazione. Ciò che si è fin qui voluto sostenere, ovvero la visione della dote, o meglio della sua
misura (o quantità), quale esito della valutazione della
consistenza patrimoniale, nonché dello status sociale,
di entrambi i coniugi, deve essere tenuto ben distinto
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generalmente rispettato. Ma con l’allentarsi dei vincoli
domestici e col deformarsi degli antichi concetti
dell’officium e del mos, le cose mutarono di sana pianta,
onde il legislatore finì per imporre come obbligo
giuridico ciò che prima era abbastanza garantito dalla
pietas paterna.» Anche R. D’ANCONA, Il concetto della
dote nel diritto romano, 1889, 10 ss., analizza la connessione tra corruzione dei costumi e introduzione di
nuovi obblighi giuridici in materia dotale; in particolare, l’A. ritiene che: «La norma giuridica sorge quando
una condizione consuetudinaria di cose non è più rispettata dalla morale positiva, e viene violata; la norma o eleva a diritto il fatto che fu violato, o lo muta, o
lo distrugge secondo che hanno forza, autorità, giustificazione i violatori» (p. 14). Inoltre, R. ASTOLFI, Studi
sull’oggetto dei legati in diritto romano, I, Padova, 1964,
242, dice: «All’inizio, in Roma, il dovere di dotare,
fortemente sentito dalla coscienza sociale, è sufficientemente garantito dal profondo senso della famiglia e
dalla venerazione per i mores. Ma quando l’evolversi
dei costumi rende insufficienti queste forze extragiuridiche, intervengono la giurisprudenza del principato
e gli stessi imperatori a dare rilevanza giuridica a tale
dovere. Giustiniano sottolinea il fondamento morale
di questi interventi e li estende, trovandoli conformi
alla propria formazione culturale e spirituale e alle sue
direttive in materia di legislazione dotale». L’autore
espone, poi, la propria ricostruzione dell’obbligo giuridico di dotare, concentrandosi sulla distinzione tra
padre e pater familias. Nello stesso senso M. LAURIA,
Matrimonio-dote, cit., 66; 130. Vd. anche P. COGLIOLO,
Saggi sopra l’evoluzione del diritto privato, 1885, 109.
M.T. NICOTRI – De dote quantitate
10
3. Esegesi di D. 23.3.60.
Il primo frammento che si è scelto di affrontare, ribaltando così l’ordine, in genere,
scelto dalla letteratura precedente, al fine di
affrontare il testo in maniera obiettiva, adottando un punto di vista scevro da eventuali
pregiudizi, relativi alla validità di una disposizione che rinvii all’arbitrium boni viri e nello
specifico di una costituzione indeterminata di
dote, è il seguente:
Cels. 11 dig. D. 23.3.60: Quaero, quantae pecuniae dotem promittenti adultae mulieri <curator>
tutor consensum accomodare debeat. Respondit: modus ex facultatibus et dignitate mulieris maritique statuendus est, quo usque ratio patitur.
In questo modo si segue l’ordine del Digesto e dei libri Digestorum di Celso, ma si sceglie
anche un ordine di priorità logica. Il frammento, infatti, costituisce un prius logico rispetto a quanto affermato in D. 32.43. Ci si
propone, primariamente, di valutare la classicità dei criteri di determinazione enunciati da
Celso per, poi, stabilire se sia verosimile un riferimento agli stessi in sede di analisi del legato indeterminato di dote.
23
TSDP – IV 2011
famiglie, ovvero la dote poteva assumere il
ruolo di fattore di equilibrio30.
Il matrimonio romano rappresenta, infatti,
un rilevante strumento di alleanze31, nasconde
innumerevoli interessi politici e patrimoniali,
che si appalesano proprio nel momento della
costituzione della dote, che per questa via as30
Vd. A. ROMANO, Matrimonio ‘iustum’, Napoli, 1996,
62 ss.; A. GUARINO, Recensione ad A. SOELLNER, Zur
Vorgeschichte und Funktion der ‘actio rei uxoriae’, 1969, in
Iura, XX, 1969, 692.
31
Cfr. E. CANTARELLA, Passato prossimo, Milano, 1998,
111 ss., la quale definisce il matrimonio come accordo-alleanza. L’Autrice esclude che si possano applicare all’istituto concetti come ‘coppia’ ‘amore’. Il matrimonio romano rappresenta l’estrinsecarsi di una relazione tra famiglie, è un accordo che suggella un’alleanza, motivata prevalentemente da ragioni di carattere economico. Spesso le fonti letterarie ci mostrano
come il consenso al matrimonio fosse prestato per la
presenza di una dote ingente, ma anche per un interesse sociale e politico. L’Autrice sottolinea tale aspetto ponendolo a fondamento della prassi della cessione dei ventri, il fine di organizzare una ordinata e razionale riproduzione dei gruppi familiari veniva perseguito attraverso la cessione delle mogli gravide. Infatti, la comunanza di figli, così costituita, garantiva i
rapporti di alleanza e di amicizia tra le due famiglie e
le alleanze familiari a loro volta rinsaldavano lo Stato.
Tale argomentazione tra l'altro era stata usata da Ortensio nella vicenda che lo legò a Marzia e Catone
(Plut. Cato minor 25).
M.T. NICOTRI – De dote quantitate
22
Cic. pro Cluent. 35: Nihil posse iam ad hanc
improbitatem addi videtur: attendite exitum. Quae
mulier obtestatione viri decem illis mensibus ne
domum quidem ullam nisi socrus suae nosse debuit,
haec quinto mense post viri mortem ipsi Oppianico
nupsit. Quae nuptiae non diuturnae fuerunt. Erant
enim non matrimonii dignitate, sed sceleris societate coniunctae.
Peraltro, che il termine dignitas debba essere riferito alla posizione sociale della famiglia
di appartenenza, oltre ad apparire chiaro dal
frammento in analisi e dagli altri che si citeranno, può desumersi anche dall’uso che di
esso si fa in alcune opere non giuridiche29.
Il ricorso al criterio della dignitas appare verosimile anche in considerazione della funzione di scambio attribuita in epoca romana al
matrimonio, invero, la presenza di una congrua dote finiva per agevolare le unioni tra
29
Cfr. Ap. Met., 3.15: Sed melius de te doctrinaque tua
praesumo, qui praeter generosa natalium dignitatem. In altri
casi il termine è riferito non tanto al contesto
familiare quanto alle caratteristiche del soggetto, Ap.
Met. 9.26: iamque perdita nuptae dignitate prostitutae sibi
nomen adsciverit; Plin. ep. II. 4: Sunt quidem omnino nobis
modicae facultates, dignitas sumptuosa; Ap. De magia 75.1: et
omnia insigna dignitatis abicit.
11
TSDP – IV 2011
Ad una prima lettura, si rileva, immediatamente, che il frammento, nella versione
giustinianea, utilizza il lemma curator. Pacificamente14, si ritiene che si tratti di una sosti14
Cfr. E. ALBERTARIO, L’‘arbitrium boni viri’ del debitore,
in Studi di diritto romano, III, Milano, 1936, 292 s.; Promessa generica e legato generico di dote, in Mélanges Cornil, I,
1926, ora in Studi di diritto romano, I, Milano, 1933, 345
s.; R. ASTOLFI, Studi, cit., 266. Cfr. Vat. Fragm. 110:
Paulus respondit etiam post nuptias copulatas dotem promitti
vel dari posse, sed non curatore praesente promitti debere, sed
tutore auctore. Vd. pure G. CERVENCA, Osservazioni sul
‘curator’ della donna minore di venticinque anni, in Iura, XL,
1989, 24-40, circa la sostituzione di tutor con curator da
parte dei Compilatori, nonché con riferimento
all’origine classica del curator ad dotem della donna minore, l’A. (34 ss.) ritiene che «un indizio in favore
dell’origine classica del curator ad dotem della donna
minore lo si può ricavare indirettamente da un noto
testo di Paolo, tratto dai Vaticana Fragmenta 110 ... appare quanto meno eccessiva la tesi secondo la quale in
tutti i testi della Compilazione in cui è nominato un
curatore a proposito di una costituzione di dote la
menzione del curatore sarebbe stata sostituta a quella
del tutore»; sul curator ad dotem vd. B. ALBANESE, Le
persone nel diritto privato romano, Palermo, 1979, 526 nt.
495; secondo P. ZANNINI, Studi sulla ‘tutela mulierum’,
I, Torino 1976, l’auctoritas tutoris era, invece, richiesta
in ogni ipotesi di costituzione di dote, in qualunque
modo venisse fatta, e qualunque ne fosse l’oggetto. A.
ORTEGA CARRILLO DE ALBORNOZ, ‘Dotis dictio’,
Bolonia, 1975, 98, con riferimento a Tit. Ulp. 11.20;
M.T. NICOTRI – De dote quantitate
12
tuzione operata dai compilatori dei Digesta al
fine di adeguare15 la testimonianza celsina al
Gai 1.178; Vat. Fragm. 110, dice: «Textos estos de
Ulpiano, Gayo y Paulo, que habiendo llegado hasta
nosotros al margen de la compilación justinianea, no
es probable que hayan sufrido manipulaciones, y en
los que se afirma la necesidad de dar un tutor y no
curator a la mujer que debe constituirse una dote, ya
sea a través de una datio, mediante una promissio, o
bien a través de una dictio, y cuyo tutor habitual esté
imposibilitado por razones de edad, ausencia, o
enfermedad». Su Vat. Fragm. 110 vd. anche S. SOLAZZI, Le nozze della minorenne, in Scritti di diritto romano,
II, 162, il frammento sarebbe l’eco di un contrasto
«probabilmente alimentato dalle consuetudini giuridiche provinciali, fra il tutore del sesso, un istituto in
decadenza, e il curatore della minorenne, un istituto
in piena evoluzione progressiva ... Il curatore tende
già a sostituire il tutore, aggiungendo alle sue funzioni
di amministratore quelle anticamente riservate al tutore. E più tardi il curatore ha vinto: donde il problema
se il diritto di consentire alle nozze della minorenne,
che non compete invece al tutore del diritto greco, sia
sorto primieramente nel curatore dell’epoca romanoellenica o sia stato da lui raccolto insieme con l’eredità
trasferitagli dal tutore».
15
Viene generalmente riconosciuto come frutto di
un’interpolazione anche il termine adultae, cfr. S. SOLAZZI, Le azioni del pupillo e contro il pupillo, in BIDR,
XXV, 103; vi è anche chi sostituisce auctoritas a consensum, cfr. E. ALBERTARIO, Promessa, cit., 345 s.;
L’‘arbitrium’, cit., 292 s.; S. SOLAZZI, Le azioni del pupil-
21
TSDP – IV 2011
Una testimonianza di quest’ultimo tipo di
impiego, nonché della classicità del ricorso al
termine dignitas con riferimento al matrimonio
si trova in Cicerone:
in sposa senza dote. Un’unione senza dote, infatti, era
percepita nel sentire comune come concubinato. Cfr.
Plaut. Trin. 688-691: Nolo ego mihi te tam prospicere, qui
meam egestatem leves sed ut inops infamis ne sim, me mihi
hanc famam differant me germanam sororem in concubinatum
tibi sic sine dote dedisse, magis quam in matrimonium. Sempre sulla rilevanza sociale della dote. Cfr. Val. Max.
4.4.10, Itaque, cum secundo Punico bello Cn. Scipio ex
Hispania sanatui scripsisset petens ut sibi successor mitteretur,
quia filiam virginem adultae iam aetatis haberet, neque ei sine
se dos expediri posset, senatus, ne res publica bono duce careret,
patris sibi partes desumpsit consilioque uxoris ac propinquorum Scipionis constituta dote summam eius ex erario erogavit
ac puellam nuptum dedit. L’episodio dimostra quanto
fosse avvertito tale officium paterno. Cneo Scipione
chiese, infatti, di poter rientrare in patria per costituire
la dote alla figlia, il Senato, al fine di non pregiudicare
il buon andamento delle operazioni belliche, decise di
dare alla donna una dote a spese pubbliche. Interessante sottolineare che il senato costituì la dote con il
parere della moglie e dei parenti. L’antichità della rilevanza sociale della dote è attestata anche da Dionigi
(2.10.2) che attribuisce a Romolo una legge secondo
la quale i clienti avrebbero dovuto contribuire alla
formazione della dote delle figlie dei patroni nel caso
che questi non avessero avuto sufficienti ricchezze.
M.T. NICOTRI – De dote quantitate
20
3.1 ‘Dignitas’.
Per quanto attiene alla dignitas, occorre
porre in rilievo un dato particolarmente interessante. Già ad una prima lettura dei lessici
latini emerge in tutta evidenza come il ricorso
al termine sia il più delle volte associato alla
descrizione di qualità maschili27.
L’uso del lemma con riferimento all’universo femminile è, invece, sempre riconducibile alle particolari qualità derivate alla donna
dall’inserimento in un determinato contesto
familiare28.
27
Cfr. Reth. Her. 3.12.22, ad muliebrem potius vociferationem quam ad virilem dignitatem in dicendo; Cic. de off.
1.130, Cum autem pulchritudinis duo genera sint, quorum in
altero venustas sit, in altero dignitas, venustatem muliebrem
ducere debemus, dignitatem virilem.
28
Cfr. Vat. Fragm. 104 Paulus respondit dignitatem mulierum ex honore matrimonii et augere et minui solere. Celebre, poi, la formula rituale Ubi tu Gaius ego Gaia. La
formula, a noi nota grazie al racconto di Plutarco
(Quaest. Rom. 30), veniva recitata dalla uxor durante il
rito della deductio in domum, per indicare l’assunzione
da parte della moglie della dignità familiare del marito.
La dote, che nasce come istituto sociale, era utile a
verificare la sussistenza del matrimonio e l’assunzione
da parte della donna della dignitas maritale, costituire
un’adeguata dote per le donne della propria famiglia
era sì un dovere morale, ma particolarmente sentito,
era segno di estrema miseria che una donna andasse
13
TSDP – IV 2011
mutato assetto giuridico, ovvero all’involuzione della tutela del sesso ed alla assimilazione della condizione femminile a quella maschile (cura dei minori dei venticinque anni).
Dunque, è lecito ritenere che originariamente
si analizzasse l’ufficio del tutore16, quindi, la
consistenza del suo dovere, individuando dei
parametri atti a quantificare il giusto ammontare della dote.
A tal proposito, è bene ricordare che la tutela17 del sesso, nel corso dei secoli, ha subito
lo e contro il pupillo, in BIDR, XXIII, 126 nt. 1; 25, 103;
F.P. BREMER, Jurispr. antehadr., II, 2, 499.
16
Tale libro doveva essere, intuitivamente, destinato
all’analisi dell’istituto tutelare visto il tenore e l’argomento trattato dagli altri frammenti presenti nel Digesto anch’essi ricondotti al l.11 dig. (D. 16.3.22; 23.3.60;
26.1.3.4; 26.5.11; 26.5.12.1), tale considerazione è
condivisa da O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, I, Roma, 2000, col. 142, che raccoglie i frammenti sotto la
rubrica de tutelis.
17
Sulla tutela: B. ALBANESE, Le persone, cit., 431 s.; B.
BIONDI, Aspetti morali della tutela, in Festschrift Fritz
Schulz, Weimar, 1951; G. MELILLO, Le istituzioni di
Giustiniano e la storia della tutela, in ‘Iuris Vincula’,V,
Napoli, 2001, 351 ss; P. ZANNINI, Studi, cit.; G. CERVENCA, Osservazioni sul ‘curator’ della donna minore di venticinque anni, in Iura, XL, 1989; S. SOLAZZI, La minore
età nel diritto romano, Roma, 1912; P. BONFANTE, Corso,
cit., 551 ss.; A.WATSON, The law of persons in the later
roman republic, Oxford, 1967, 149 ss.
M.T. NICOTRI – De dote quantitate
14
una completa involuzione18, fino alla totale
dissoluzione. L’istituto nasce come un potere,
18
Il processo di involuzione cui si faceva cenno ebbe
inizio nel 210 a.C. con la lex Atilia che introdusse il
tutore dativo, proprio a questo momento può ricondursi la nuova funzione assunta dall’istituto, ovvero il
passaggio dalla funzione potestativa alla funzione assistenziale. Cfr. B. BIONDI, Aspetti, cit., 53: «A misura
che questi arcaici concetti tramontano, la tutela è organizzata nell’interesse della persona che vi è soggetta, come dimostra, tra l’altro, la introduzione della tutela dativa e la progressiva decadenza della tutela muliebre ... ». Intervenne, poi, la lex Iulia et Papia Poppaea,
che conferì a determinate condizioni il ius liberorum e
di conseguenza la liberazione dalla tutela (Gai 1.145;
1.194). Efficacia sostanziale e rigore si conservò solo
per i legitimi tutores, in epoca storica questi sono i veri e
genuini rappresentanti dell’antico istituto, ma come
attesta sempre Gaio (Gai 1.171), la tutela legittima ridotta ai soli agnati fu abolita dall’imperatore Claudio
(La lex Claudia, 44-49 d.C., abolì la tutela legittima
dell’agnatus proximus, cfr. Gai 1.157). Cicerone (Cic. pro
Mur. 12.27: Nam, cum permulta praeclare legibus essent constituta, ea iure consultorum ingeniis pleraque corrupta ac depravata sunt. Mulieres omnis propter infirmitatem consili
maiores in tutorum potestate esse voluerunt; hi invenerunt genera tutorum quae potestate mulierum continerentur.....), poi,
commentando l’attività dei giureconsulti, lamenta la
presenza di nuove categorie di tutori soggetti alla volontà della donna più di quello che essa sia soggetta
alla loro autorità. Ma con l’abolizione della tutela
agnatizia non v’è altro tutore legittimo all’infuori del
patrone o del parens manumissor. Ogni altro tutore,
19
TSDP – IV 2011
Il giurista all’esito delle proprie considerazioni individua due criteri di riferimento: la dignitas e la facultas. Ciò detto, diventa indispensabile, ai nostri fini, ricostruire il significato
dei termini dignitas e facultas per comprendere
in quali altri luoghi dei Digesta ricorra l’uso di
tali lemmi e verificare, inoltre, se gli stessi
vengano adoperati nella medesima accezione
al di fuori della compilazione giustinianea.
Cercherò, quindi, di comprendere quale sia
stato il campo indagato dal giurista per trarre i
suddetti termini di riferimento.
ro auctoritas per la costituzione della dote»; inoltre, 263
«A differenza del pater familias, i tutori non possono
giustificare il rifiuto, adducendo il motivo che le nozze non sono convenienti alla donna: manca, infatti,
nel testo la limitazione iniuria che invece compare in
D. 23.2.19. Inoltre, se il magistrato costringe i tutori a
prestare l’auctoritas, non potranno eluderne praticamente l’intervento, assegnando alla donna una dote,
che secondo le convenienze sociali risulti insufficiente. Saranno cioè costretti a usare, nella determinazione della quantità, gli stessi criteri che avrebbero usato,
se avessero deciso spontaneamente di prestar
l’auctoritas. Ciò significa, anche, che come non possono scendere sotto il minimo, così non possono oltrepassare il massimo che la consuetudine stabilisce, tenendo conto del patrimonio e della posizione sociale
dei due coniugi».
M.T. NICOTRI – De dote quantitate
18
indispensabile la sua auctoritas. Può ipotizzarsi
che il giurista si domandasse quando il rifiuto
del tutore a prestare il proprio consenso fosse
‘legittimo’ e non potesse, quindi essere forzato dal pretore26.
1971, 581: «Com’è noto, nel periodo classico, il paterfamilias era tenuto moralmente o socialmente a dotare
le figlie. Dal canto loro i tutori sostituivano, per quanto era possibile, il paterfamilias anche in tutto ciò che
concerneva l’educazione, la sistemazione, in una parola, l’avvenire dei figli» e ivi nt. 14-15. Cfr. Paul. 38 ad
ed. D. 26.7.12.3: Cum tutor non rebus dumtaxat, sed etiam
moribus pupilli praeponatur, inprimis mercedes praeceptoribus,
non quas minimas poterit, sed pro facultate patrimonii, pro dignitate natalium constituet, alimenta servis libertisque, nonnunquam etiam exteris, si hoc pupillo expediet, praestabit, sollemnia munera parentibus cognatisque mittet sed non dabit dotem sorori alio patre natae, etiamsi alter ea nubere non potuit:
nam etsi honeste, ex liberalitate tamen fit, quae servenda arbitrio pupilli est. Cfr. A. BECHMANN, Das römische Dotalrecht, cit., II, 64; E. ALBERTARIO, L’‘arbitrium boni viri’
del debitore, nella determinazione della prestazione, in PUC,
1924, 9: «Il costume sociale, come faceva obbligo al
padre di costituire una dote alla figliuola che andava
sposa, così gli faceva obbligo di costituirgliela in relazione al suo patrimonio e alla posizione sociale dello
sposo».
26
Sul tema cfr. R. ASTOLFI, Studi, cit., 262, secondo
l’A. «Analogamente la costrizione, che può subire il
pater familias a dotare la donna in potestate, trova il suo
corrispondente nella costrizione, cui possono essere
sottoposti i tutori della donna sui iuris a prestare la lo-
15
TSDP – IV 2011
un diritto dell’investito, non, quindi, una funzione esercitata nell’interesse della persona
protetta, ma una potestas non dissimile a quella
del pater familias. La tutela muliebre, almeno in
un primo periodo, si distingue dalla tutela impuberum, invero, per un carattere spiccatamente potestativo ed egoistico19; non possono ravvisarsi, infatti, profili altruistici nella
quando si fosse rifiutato, avrebbe potuto essere costretto dal magistrato ad interporre l’auctoritas, sicché
l’intervento del tutore rappresentava un puro cerimoniale compiuto dicis causa (Gai 1.190, Feminas vero perfectae aetatis in tutela esse fere nulla pretiosa ratio suasisse videtur; nam quae vulgo creditur, quia levitate animi plerumque
decipiuntur et aequum erat eas tutorum auctoritate regi, magis
speciosa videtur quam vera; mulieres enim quae perfectae aetatis
sunt, ipsae sibi negotia tractant et in quibusdam causis dicis
gratia tutor interponit auctoritatem suam, saepe etiam invitus
auctor fieri a praetore cogitur).
19
Cfr. Paul. 38 ad ed. D. 26.1.1 pr.: tutela est, ut Servius
definit, vis ac potestas in capite libero ad tuendum eum, qui
propter aetatem sua sponte se defendere nequit, iure civili data
ac promissa. Il frammento, presumibilmente, nella versione genuina doveva fare riferimento anche alla tutela muliebre, in questo senso: P. BONFANTE, Corso, cit.,
553 e nt. 1; per una completa citazione della letteratura conforme cfr. F. BRIGUGLIO, Servio Sulpicio e la definizione di tutela, in Studi in onore di Antonino Metro, I, Milano, 2009, 164 nt. 3 e 178 nt. 43.
M.T. NICOTRI – De dote quantitate
16
volontà di un gruppo di impedire la dispersione del patrimonio familiare20.
Nel diritto romano classico, in particolare,
la funzione essenziale del tutore può identificarsi nell’auctoritas, ovvero nell’integrazione
della volontà della donna con il proprio intervento all’atto21.
La donna sui iuris, pur amministrando da
sé il proprio patrimonio, non poteva, senza
l’auctoritas del tutore compiere alcuni atti22 tra
cui la costituzione di dote23. Il tutore legittimo
20
Gaio evidenzia proprio tale caratteristica, 1.192 Sane
patronorum et parentum legitimae tutelae vim aliquam habere
intelleguntur eo, quod hi neque ad testamentum faciendum neque ad res mancipi alienandas neque ad obligationes suscipiendas auctores fieri coguntur, praeterquam si magna causa alienandarum rerum mancipi obligationisque suscipiendae interveniat; eaque omnia ipsorum causa constituta sunt, ut, quia ad
eos intestatarum mortuarum hereditates pertinent, neque per
testamentum excludandur ab hereditate neque alienatis pretiosioribus rebus susceptoque aere alieno minus locuples ad eos hereditas perveniat. Cfr. R. ASTOLFI, Studi, I, cit., 264.
21
In origine, quindi, la tutela poteva essere considerata come un surrogato della patria potestas, cfr. A.
MANZO, Un’ipotesi sull’origine della dote, in Index, XCVII,
318.
22
Cfr. P. BONFANTE, Corso, cit., 560.
23
Ulp., Frag. 11.27; Cic. pro Caecina 25.73: Iste vester testis qui ausus est dicere fecisse videri eum de quo ne cuius rei
argueretur quidem scire potuit, is ipse numquam auderet iudi-
17
TSDP – IV 2011
non poteva essere forzato dal pretore ad interporre la sua auctoritas se non per gravi motivi24.
Ciò premesso, possiamo immaginare che
Celso approfondendo le tematiche relative alla
tutela si sia preoccupato di ricostruire il contenuto dei doveri attribuiti al tutore, anche
con riferimento a quegli atti come la costituzione di dote25, per cui era assolutamente
care deberi viro dotem quam mulier nullo auctore dixisset. Cfr.
A. WATSON, The law of persons, cit., 149.
24
I descritti caratteri si conservarono nella tutela legittima e patronale, vd. Cic. Ad. Att. 1.5.6; Pro Fl., 34.84;
Gai 1.192; inoltre, Gaio ci informa che le res mancipi
alienate senza l’auctoritas degli agnati non erano res habiles per l’usucapione quindi non potevano essere
usucapite né dal primo acquirente né da un terzo cui
fossero pervenute (come per le res furtivae o vi possessae,
le res sacrae o religiosae). Gai 2.47-49, Res mulieris quoque,
quae in agnatorum tutela erat, res mancipi usucapi non poterant, praeterquam si ab ipsa tutore auctore traditae essent: et
ita lege XII tabularum cautum est. Item liberos homines et res
sacras et religiosas usucapi non posse manifestum est. Quod ergo vulgo dicitur furtivarum rerum et vi possessarum usucapionem per legem XII tabularum prohibitam esse, non eo pertinet,
ut ne ipse fur quique per vim possidet, usucapere possit – nam
huic alia ratione usucapio non competit, quia scilicet mala fide
possidet - ; sed nec ullus alius quamquam ab eo bana fide emerit usucapiendi ius habeat.
25
Cfr. F. GALLO, Nuovi spunti nell’interpretazione di C.
5.11.1, in Studi in onore di Edoardo Volterra, IV, Milano,
M.T. NICOTRI – De dote quantitate
64
prodotto dell’equità pretoria, troverebbe la
sua unica ragione giustificatrice nell’adfinitas,
ovvero nel vincolo che, successivamente alla
conclusione del matrimonio, legava gli ascendenti paterni e materni della moglie nonché la
moglie stessa al marito86.
In altri termini, il pretore avrebbe ritenuto
di fornire un rimedio a tutela del promissor dotis, teso a mitigare gli effetti scaturenti dalla
stipulatio, infatti, secondo il ius civile, il costituente avrebbe dovuto essere condannato a
quanto promesso. La condanna avrebbe potuto avere conseguenze infamanti, per evitare le
quali, caso per caso, il pretore poteva decidere, manente matrimonio, di limitare la condanna
all’id quod facere potest.
et Proculus scribunt hoc iustum esse. Paul. 6 ad Plaut. D.
42.1.21: Sicut autem cum marito agitur, ita et cum socero, ut
non ultra facultates damnetur. an si cum socero ex promissione
dotis agatur, in id quod facere potest damnandus sit? quod et id
aequum esse videtur: sed alio iure utimur, ut et Neratius scribit. Con riferimento alla mulier: Paul. 7 ad Sab. D.
24.3.17.1: Item si mulier ex promissione dotis conveniatur,
magis placuit defendendam eam per exceptionem: idem et Proculus ait: sicuti cum socia fuit, dabitur ei exceptio, quamvis iure civili sit obligata.
86
A. GUARINO, Il ‘beneficium competentiae’, cit., 28,
«l’adfinitas non fu uno dei motivi che spinsero alla
concessione del nostro beneficio, bensì il motivo
fondamentale, unico, determinante di esso».
33
TSDP – IV 2011
mostrare come l’assegnazione di tale ruolo alla
dote, nascondesse un motivo antropologico43,
terpretato dal notaio, riduce a regole formali le strategie complesse e sottili di cui si servono le famiglie,
uniche competenti in queste materie ... ».
43
Bourdieu si è occupato di sociologia familiare ed ha
studiato la società cabila algerina e la società contadina del Béarn. Dalla lettura dell’analisi, effettuata dallo
studioso, di una società semplice per molti versi simile a quella romana, emergono molti dati che portano
a ritenere che i fattori individuati da Celso, lungi
dall’essere espressione del favor dotis tipico della legislazione giustinianea siano piuttosto espressione di
una tendenza per così dire umana, evidentemente fagocitata dal diritto, che si limita in questo caso a recepire un fattore sociale. Il capitale simbolico e sociale
caratterizza anche le strategie matrimoniali della società algerina studiata dall’autore, Il senso, cit., 229:
«poiché le strategie matrimoniali mirano sempre, almeno nelle famiglie più agiate, a fare un ‘buon matrimonio’, e non solo un matrimonio, cioè a massimizzare i profitti economici e simbolici associati all’instaurazione di una nuova relazione, esse sono determinate in ogni caso dal valore del patrimonio materiale e simbolico che può essere impegnato nella transazione, e dal modo di trasmissione, che definisce i sistemi d’interessi dei pretendenti alla proprietà del patrimonio assegnando loro diritti diversi su di esso secondo il sesso e il rango di nascita. In breve, il modo
di successione specifica in funzione del sesso e del
rango di nascita, le possibilità matrimoniali genericamente legate ai discendenti di una stessa famiglia in
funzione della sua posizione sociale, individuata prin-
M.T. NICOTRI – De dote quantitate
34
prima di assumere forma giuridica, nonché la
cipalmente, ma non esclusivamente, con il valore economico del suo patrimonio». Interessante, poi, la seguente notazione: «una ‘piccola casa’ può dissanguarsi
per sposare una delle sue figlie a un ‘grande primogenito’, mentre il primogenito di una ‘grande casa’ può
respingere un partito più vantaggioso dal punto di vista economico per sposarsi secondo il proprio rango».
Tale affermazione ricorda il rapporto di proporzionalità inversa, sussistente tra consistenza economica e
posizione sociale di cui si parlerà oltre. Infine, l’autore
descrive le conseguenze che si profilano per un ragazzo che si sposi ‘dal basso in alto’: egli sarà soggetto
all’autorità della moglie e si esporrà ad un serio pericolo, la restituzione della dote in caso di scioglimento
del matrimonio, queste considerazioni ricordano moltissimo i moniti di Plauto (cui davano voce i suoi personaggi) e di Catone, vd. oltre. Bourdieu si esprime
così, Il senso, cit., 241: «Infatti, il matrimonio ‘dal basso in alto’ minaccia la preminenza che il gruppo riconosce ai membri maschi, tanto nella vita sociale che
nel lavoro e negli affari domestici», inoltre, 242: «la
società di Béarn suggerisce che la sociologia della famiglia, così spesso abbandonata ai buoni sentimenti,
potrebbe essere solo un caso particolare della sociologia politica: la posizione dei congiunti nei rapporti
di forza domestici e le loro possibilità di successo nella concorrenza per l’autorità familiare, cioè per il monopolio dell’esercizio legittimo del potere negli affari
domestici, non sono mai indipendenti dal capitale
materiale e simbolico (la cui natura può variare secondo le epoche e le società) che detengono o che
hanno portato».
63
TSDP – IV 2011
il marito che pretendeva l’adempimento della
promissio, infatti, gli spettava il beneficio della
condemnatio in id quod facere potest. In particolare,
l’ordine di condanna conteneva una taxatio
avente lo scopo di limitare la sentenza alle
possibilità economiche del debitore84.
Sembra coerente con la lettura da noi proposta quanto ipotizzato da Guarino circa la
disciplina del beneficium competentiae85. L’istituto,
ficium competentiae’, in Studi in onore di Andrea Arena, III,
Padova, 1981; J. GILDEMEISTER, Das ‘beneficium competentiae’ im klassischen römischen Recht, Göttingen, 1986
(recensito da Marrone, Iura, XXXVII, 1986); A.
WACKE, Zur Einrede des Notbedarfs (‘ne egeat’) bei Schenkungsversprechen und im Dotalrecht, in Studi in onore di Antonino Metro, IV, Milano, 2010, 447-479; il quale ipotizza l’interpolazione di Paul. 6 ad Plaut. D. 50.17.173
pr.
84
Sul tema G. LONGO, Diritto romano, diritto di famiglia,
Roma, 1953, 209 ss.; D. CAMICI, Del regime patrimoniale
nel matrimonio romano, Firenze, 1882, 80 ss.; M. LAURIA, Matrimonio-dote, cit., 163.
85
Rilevano ai nostri fini i frammenti che attestano la
concessione del beneficio al socer ed alla mulier. Pomp.
21 ad Q. Muc. D. 42.1.22 pr.: Sed hoc ita accipiendum est,
si a socero dos ex promissione petatur soluto matrimonio: verum si manente matrimonio dos ab eo petatur, succurrendum
utique est, ut ne maioris summae condmnetur, quam quantum
facere potest. Paul. 7 ad Sab. D. 24.3.17 pr.: Ex diverso si
socer ex promissione dotis a marito conveniatur, solet quaeri,
an idem ei honor habendus sit: Neratius libris membranorum
M.T. NICOTRI – De dote quantitate
62
tur81). Il fondamento della soluzione risiede
nella considerazione di ciò che è più razionale
e logico nella situazione determinata82.
Per questa ragione il curatore (rectius tutore) non potrà sicuramente oltrepassare il limite massimo dato dal patrimonio della donna.
Nella cura degli interessi patrimoniali del
gruppo agnatizio, prima, e della donna, poi,
dovrà tener conto anche di altre variabili quali
la dignitas del futuro sposo, in caso contrario il
ruolo del tutore verrebbe svuotato di ogni
contenuto. Questo riferimento alla capacità
patrimoniale del padre (o della sposa) appare,
peraltro, coerente con il beneficio accordato
al promissor dotis. Infatti, il costituente la dote
godeva del c.d. beneficium competentiae83; contro
81
Cfr. P. CERAMI, La concezione, cit., 60 ss. L’A. ritiene
che con il termine ratio Celso faccia riferimento alla
rispondenza di ogni soluzione: «al principio dell’equilibrio fra gli opposti interessi e, più in generale
dell’equilibrio fra utilità dei singoli e l’utilità comune».
82
Secondo M.D. PARRA MARTÍN, La argumentación,
cit., 156: «El fundamento de la solución se encuentra
en la consideración de lo que es más racional y lógico
ante la situación determinada».
83
Sul tema A. GUARINO, Il ‘beneficium competentiae’ del
‘promissor dotis’, contributo storico-dommatico alla teoria del
così detto ‘beneficium competentiae’, in RISG, XVII, 1939;
La condanna nei limiti del possibile, 1975, 2° ed. Napoli
1978; M. MARRONE, Note di diritto romano sul c.d. ‘bene-
35
TSDP – IV 2011
coerenza del riferimento alla dignitas nella
quantificazione della misura della dote, appare
particolarmente rilevante la produzione plautina44.
44
Prima di analizzare nello specifico i brani che ci interessano, è necessario, però, superare i problemi interpretativi che attengono alla affidabilità giuridica
delle informazioni che ci offre Plauto, rinviando per
una più attenta analisi a ricerche (ad. es.: U.E. PAOLI,
Comici latini e diritto attico, Milano, 1962) che hanno affrontato il tema nello specifico, sarà sufficiente evidenziare che: a) in primo luogo, è ormai accertato che
Plauto, pur traendo la trama delle sue commedie da
opere greche, adattasse le stesse alla società romana.
Infatti, per raggiungere l’obbiettivo di ogni commedia
ovvero provocare l’ilarità degli spettatori (risum movere)
è necessaria l'immediatezza del messaggio che può essere raggiunta solo grazie alla ricostruzione di situazioni familiari, dunque, deve ritenersi che la produzione plautina non sia un mero plagio, in quanto è
pur sempre ravvisabile una innovazione dell’autore,
seppure rivolta, esclusivamente, all’adeguamento del
contesto. Quanto detto corrisponde all’opinione che i
contemporanei ebbero di Plauto, le sue capacità comiche erano indiscusse, tanto da consentire la dedica
di un epitaffio così formulato: Postquam est mortem aptus Plautus, Comoedia luget, Scaena est deserta, dein Risus,
Ludus Iocusque et Numeri innumeri simul omnes conlacrimarunt (l’epitaffio ci è giunto attraverso Gellio, Noctes Atticae 1.24.3; Varrone attribuì l’epitaffio allo stesso
Plauto, ma per opinione comune esso deve essere
ascritto all’opera di altri); b) in secondo luogo, nel ca-
M.T. NICOTRI – De dote quantitate
36
Infatti, più di una volta, Plauto, imbastendo le sue commedie manifesta attraverso i
suoi personaggi le preoccupazioni che la dote
procurava alla gente comune, ovvero testimonia l’importanza che la dote rivestiva a cavallo
tra il III ed il II sec. a.C., periodo in cui, peraltro, non è ancora ravvisabile alcun tipo di obbligo giuridico di dotare e, ciononostante, avvertito come tale dai romani, tanto da considerare impossibile o quanto meno disdicevole
un matrimonio senza dote.
In particolare, è possibile ricavare interessanti notizie, in merito alla questione che ci
occupa, da alcune famose commedie annoveso di specie, gli spunti offerti da Plauto non attengono ad istituti a noi sconosciuti, ma al contrario si innestano in un contesto già sufficientemente delineato
da fonti giuridiche ed hanno il solo scopo di precisare
le informazioni in nostro possesso, consentendoci di
comprendere al meglio le istanze del vivere sociale
che tanto influirono sull'istituzione matrimoniale.
Non può tacersi l’opinione di chi considera Plauto
mero traduttore di commedie greche, supportando la
propria teoria attraverso dati testuali tra cui il riferimento, individuato nel corpo dell’Aulularia, ad una
istituzione tipicamente greca come il protettore dei
costumi delle donne, gunaikonomos (Aul. 503-504). Tale figura è assente nella società romana che affiderà il
giudizio sulla morale femminile al iudicium domesticum
prima ed al iudicium de moribus poi.
61
TSDP – IV 2011
questo privo di razionalità (quousque ratio patitrimoniali, per questo un accordo che preveda la conversione dei frutti in dote è invalido. Per volontà delle
parti non si può porre l’iniquum al posto dell’aequum; il
nesso dote-oneri deve essere sempre presente nelle
intenzioni dei contraenti indipendentemente dall’accertamento concreto che, durante il matrimonio, il
marito di fatto disponga della dote e dei suoi proventi. Per far si che non si disperda la causa dotis non potrà essere pregiudicata la condizione della donna, ma
ove questa sia migliorata dovrà comunque raggiungersi un equilibrio tra le condizioni dei coniugi.
80
Sul concetto di aequitas vd. P. BONFANTE, Corso,
cit., 396: «il senso di aequitas nella lingua latina e negli
usi veramente romani non è, come comunemente
viene inteso, ..., quello della nostra equità e della Billigkeit tedesca, ma semplicemente quello della giustizia,
e ciò posto, l’argomento piuttosto evanescente, svanisce del tutto». Da ultimo, ‘Aequitas’ giornate in memoria
di Paolo Silli, a cura di G. Santucci, Padova, 2006. Cfr.
L. VACCA, La giurisprudenza nel sistema delle fonti del diritto romano, Corso di lezioni, Torino, 1989, 139: «Possiamo constatare che anche in questo periodo (classico)
l’aequitas opera come criterio interno all’interpretatio,
nel senso che non rappresenta un fattore di eterointegrazione dell’ordinamento giuridico ma si esplica come criterio ispiratore delle soluzioni giurisprudenziali,
interno al diritto, nel momento in cui i giuristi individuano la necessità di superare la lettera delle disposizioni normative vigenti per affermare soluzioni che
siano maggiormenti conformi alla natura dei fatti,
quale risulta dalla valutazione sociale e giuridica di
quel momento».
M.T. NICOTRI – De dote quantitate
60
redduntur. 2. Si usus fructus in dotem datus sit, videamus,
urum fructus reddendi sunt nec ne. Et Celsus libro decimo digestorum ait interesse, quid acti sit, et nisi appareat aliud actum,
putare se ius ipsum in dote esse, non etiam fructus qui percipiuntur, dove si afferma che la destinazione dei frutti
dotali è quella di sostegno agli oneri del matrimonio.
Secondo l’aequitas i frutti della dote spettano al marito.
L’interrogativo cui deve rispondere Ulpiano è il seguente: è valido un patto con il quale le parti convengano che i frutti vengano convertiti in dote? Il giurista, così come era già stato affermato da Marcello (libro octavo digestorum) afferma seccamente che il patto è
invalido. Non è concesso convertire i frutti in dote
perché la donna sarebbe come indotata. Ulpiano non
si limita ad una lapidaria enunciazione di un principio,
precisa, infatti, che devono essere operati dei distinguo, ciò che rileva anche qui è che vi sia la volontà dei
contraenti di costituire una dote. Quindi, un accordo
di questo tipo sarà nullo se si è costituito in dote un
fondo, sarà, invece, corrispondente alla causa dotis se
oggetto della dote sono i frutti di questo. Il marito
potrà, infatti, provvedere alle spese familiari con gli
interessi maturati sui frutti capitalizzati. Valido è pure
il patto che preveda la conversione dei frutti in dote
quando la donna si sia impegnata a provvedere al
proprio mantenimento (sul punto vedi anche Imp.
Antoninus A. Theodotae C. 5.14.2, a. 213: Fructus
praediorum in dotem datorum, si secundum pactum sumptibus
tuis tuorumque servierunt, repeti non posse, ambigere non debes. Ed in relazione allo stesso, F. GLÜCK, Commentario, cit., 925 ss.). La dote non solo deve essere costituita ma deve anche essere idonea al raggiungimento
del suo scopo principale, il sostegno degli oneri ma-
37
TSDP – IV 2011
rate tra le cosiddette fabulae Varronianae45:
l’Aulularia, l’Asinaria, il Miles Gloriosus e il Trinummus.
Da una attenta analisi dell’Aulularia è possibile trarre molteplici spunti utili ad una più
profonda comprensione della materia de qua.
Già nell’argumentum acrostico46, che precede il prologo, sintesi della trama della commedia, viene dato adeguato rilievo agli elementi fondamentali della narrazione. Tra essi
oltre all’elemento che dà il nome alla commedia, ovvero la pentola d’oro, ritrovata dall’avaro Euclione, vengono poste in luce quelle vicende che angosciano il protagonista in quanto padre. Proprio attraverso le preoccupazioni
di Euclione percepiamo l’importanza dell’istituto dotale, nonché della stessa quantità della
45
Gli antichi attribuirono a Plauto molte commedie
(erano centotrenta, tra originali, falsi ed imitazioni).
Varrone cercò di individuare le commedie realmente
riconducibili a Plauto, ne riconobbe ventuno che per
giudizio unanime furono considerate autentiche. Il
canone varroniano è il risultato di questa classificazione. Le commedie ritenute autentiche furono raccolte in un corpus sotto l’imperatore Adriano, prendendo il nome di fabulae Varronianae. Sull’argomento
Le commedie di Tito Maccio Plauto, a cura di G. Augello,
Torino, 1995, 9 ss.
46
L’autore degli argumenta acrostici presenti in alcune
commedie Plautine è un grammatico del I sec.d.C.
M.T. NICOTRI – De dote quantitate
38
dote. Infatti, il protagonista, il cui più grande
vizio è l’avarizia, si lamenta della sua miseria e
dell’impossibilità di dotare la propria figlia in
età da marito che, quindi, non sa come collocare; in tal senso appare interessante il sintagma utilizzato: dote cassam atque inlocabilem47.
Il dato incontestabile che si evince dalla
narrazione è l’imprescindibilità della dote nel
sentire sociale. La dote era un elemento necessario per il matrimonio, una donna non
adeguatamente dotata con difficoltà avrebbe
trovato marito.
Interviene nel tessuto narrativo un ulteriore personaggio, Megadoro, che si offre di sposare la figlia di Euclione.
Attraverso il personaggio di Megadoro48,
Plauto introduce nella commedia un motivo
caro agli antichi; il comico latino osserva che
se le mogli non avessero dote sarebbero di
costumi migliori e che le grandi doti portano
spese intollerabili, solo la donna senza dote è
sottoposta al marito, quelle che hanno dote gli
portano, invece, oltre al danno anche le beffe.
47
Plaut. Aul. 190-192: EUCLIO Meam pauperiem conqueror. Virginem habeo grandem, dote cassam atque inlocabilem,
neque eam queo locare quoiquam.
48
Plaut. Aul. 238-239: EUCLIO At nihil est dotis quod
dem. Megadorus: Ne duas. Dum modo morata recte veniat,
dotata est satis.
59
TSDP – IV 2011
et si usum fructum in dotem pacto dedit. quod si convenisset de
fructibus reddendis, hoc est ut in dote essent fructus quosque
percepisset, et fundus vel fructus fieret dotalis, sed ut fructus
perciperet dotis futuros, cogendum [de dote] <rei uxoriae> actione fructus reddere. erunt igitur in dote fructus et frueretur iste
usuris, quae ex fructibus collectis et in sortem redactis percipi
possunt. ego utrubique arbitror interesse, qua contemplatione
dos sit data, ut, si ob hoc ei maiorem dotem mulier dedit, quia
fructus volebat esse dotis, contento marito ea pecunia quae ex
usuris redituum colligitur, posse dici conventionem valere: nec
enim videtur sterilis esse dos. finge quadragena annua esse reditus apud eum, qui non acciperet in dotem, nisi hoc convenisset,
plus trecentum: uti boni consuleret tam uberem dotem consecutus. et quid dicimus, si pactum tale intervenit, ut maritus fructus in dotem converteret et mulier se suosque aleret tuereturve et
universa onera sua expediret? quare non dicas convetionem valere? Sul frammento: P. BONFANTE, Corso, I, cit., 393,
396, 439; M.J. GARCIA GARRIDO, ‘Ius uxorium’, cit., 65
nt. 32; M. LAURIA, Matrimonio – dote, cit., 152; C. SANFILIPPO, Corso, cit., 101; P.E. CORBETT, The roman law
of marriage, Oxford, 1969, 199; sull’interpretazione del
frammento cfr. F. GLÜCK, Commentario alle Pandette,
XXIII, Milano, 1898, 925 ss., M. MAGAGNA, I patti
dotali nel pensiero dei giuristi classici, Padova, 2002, 95 ss.
Il frammento, secondo la ricostruzione palingenetica
del Lenel (Palingenesia, II, cit., 1133), è immediatamente successivo a Ulp. 31 ad Sab. D. 23.3.7 pr.: Dotis fructum ad maritum pertinere debere aequitas suggerit: cum enim
ipse onera matrimonii subeat, aequum est eum etiam fructus
percipere. 1. Si fructus constante matrimonio percepti sint, dotis
non erunt: si vero ante nuptias percepti fuerint, in dotem convertuntur. Nisi forte aliquid inter maritum futurum et destinatam
uxorem convenit. Tunc enim quasi donatione facta fructus non
M.T. NICOTRI – De dote quantitate
58
fermato da Celso79 è il risultato di una interpretazione conforme all’aequum80ma non per
irrita sit. Nec est ignotum, quod, cum probari non possit, unde
uxor matrimonii tempore honeste quaesierit, de mariti bonis
eam habuisse veteres iuris auctores merito credidissent. Ciò per
significare che difficilmente potevano essere individuate ulteriori fonti di reddito della donna sui iuris che
avesse costituito in dote l’intero patrimonio. Vi è,
inoltre, un’ulteriore profilo di interesse; l’istituto sembra, infatti, tendere alla tutela dell’honor dell’istituto
matrimoniale. L’honor come la dignitas sembra ancora
una volta ispirare il diritto di famiglia, in altre parole,
la centralità riconosciuta all’istituzione matrimoniale
influisce anche sulle conseguenze patrimoniali delle
unioni coniugali. Cfr. M.G. SCACCHETTI, La presunzione Muciana, Milano, 2002; U. VINCENTI, Presunzione
Muciana e divieto di donazione tra coniugi, in Opuscola, XV,
1997, 11-30.
79
Il motivo dell’aequum, ricorre spesso in materia dotale o, comunque, familiare (vd. infra), ad esempio in
tema di conversione dei frutti in dote. Dall’analisi della materia tra l’altro apprendiamo che la dote, quando
consistesse nell’intero patrimonio muliebre, non poteva accrescersi neanche ricorrendo alla conversione
dei frutti in dote. Le pattuizioni concernenti la conversione dei frutti in dote incidono direttamente sul
regime dotale, in particolar modo sulla dote stessa,
sulla sua consistenza. Ulp. 31 ad Sab. D. 23.4.4: Si convenerit, ut fructus in dotem converteretur, an valeat conventio?
et Marcellus ait libro octavo digestorum conventionem non valere: prope enim indotatam mulierem hoc pacto fieri. Sed ita distinguit, ut, si quidem fundum in dote dederit mulier ita, ut
maritus fructus redderet, non esse ratum pactum: idemque esse
39
TSDP – IV 2011
Ricche doti corrispondono ad ingenti spese, in quanto le mogli riccamente dotate hanno maggiori pretese49, che fondano sulla loro
superiorità economica rispetto ai mariti.
Si contrappongono così due modelli: da
una parte la donna che si sposa senza dote dipendente interamente dal marito, dall’altra
quella che riccamente dotata lo danneggia50.
La fondamentale rilevanza della dote tra il
III e il II sec. a.C. è, perfettamente, testimoniata dalla sorpresa e dal sospetto con cui Euclione accoglie la proposta di Megadoro, tanto
da precisare più volte che l’accordo veniva
concluso in assenza della dote.
Euclione51 riconosce la propria inferiorità
sociale, rispetto all’ipotetico futuro genero, e
49
Plaut. Miles Gloriosus, 685-701.
Plaut. Aul., 534-536: Nam quae indotata est, ea in potestate est viri; dotatae mactant et malo et damno viros. Sed eccum
adfinem ante aedis. Quid agis, Euclio?
51
Plaut. Aul. 226: EUCLIO Venit hoc mihi, Megadore, in
mentem, ted esse hominem divitem, factiosum, me item esse hominem pauperum pauperrumum; nunc si filiam locassim meam
tibi, in mentem venit te bovem esse et me esse asellum: ubi tecum coniunctus siem, ubi onus nequeam ferre pariter, iaceam
ego asinus in luto, tu me bos magis hau respicias, gnatus quasi
numquam siem. Et te utar iniquiore et meu’ me ordo inrideat,
neutrubi habeam stabile stabulum, si quid divorti fuat: asini
me mordicibus scindano, boves incursent cornibus. Hoc magnum est periculum, ab asinis ad boves trascendere.
50
M.T. NICOTRI – De dote quantitate
40
replica alle rassicurazioni di Megadoro rilevando che egli non è neppure in grado di dare
una dote alla figlia, tale unione avrebbe dei rischi enormi. Manifestare l’intenzione di elevarsi ad un’altra classe sociale potrebbe avere,
infatti, conseguenze dannose, interessante
l’immagine usata da Plauto «nunc si filiam locassim meam tibi, in mentem venit te bovem esse et me
esse asellum».
Dal dialogo appare chiaro come, fin
dall’età repubblicana, si riconoscesse una
connessione tra classe sociale (o meglio la differenza di classe sociale dei nubendi) e consistenza della dote.
57
sto, è anche vero che tali criteri più che regole
di validità sono regole di comportamento. Infatti, nulla impedirà alla donna di costituire in
dote l’intero patrimonio, come avveniva di diritto nei matrimoni cum manu, ma non potrà
mai costituire una dote superiore alle sue capacità, ciò sarebbe contrario al ius e non sono
ammesse convenzioni che travolgano principi
di diritto inderogabili o contrastanti con il ius
civile. Inoltre, non si vede quale altra fonte di
reddito avrebbe consentito alla donna di
adempiere a quella parte della promissio esorbitante rispetto al suo patrimonio78. Quanto af78
EUCLIONE: Caro Megadoro sto considerando che tu
sei un uomo ricco, pieno di relazioni importanti,
mentre io sono il più povero tra i poveri. Se io ti concedessi mia figlia, mi immagino che tu faresti la parte
del bue e io quella dell’asino. Quando fossimo aggiogati insieme, e io non potessi portare un carico uguale
al tuo, io, povero asino, cadrei lungo disteso nel fango, e tu, il bue, non mi degneresti nemmeno di uno
sguardo, come se non esistessi. I miei rapporti con te
peggiorerebbero e la classe dei miei pari si farebbe
beffe di me. Se dovessimo separarci non troverei da
nessuna parte un rifugio sicuro: gli asini mi dilanierebbero a morsi e i buoi mi assalirebbero a cornate. È
un rischio enorme volersi elevare dalla classe degli
asini a quella dei buoi. (Trad. it. Le commedie di Tito
Maccio Plauto, cit.).
TSDP – IV 2011
A tal proposito, appare opportuno ricordare la
praesumptio muciana, istituto che, secondo un’interpretazione, avrebbe la funzione di proteggere l’onorabilità della donna e in base al quale nel caso in cui
non si riesca a dimostrare la provenienza delle cose
nella disponibilità della moglie, si ritiene che queste
provengano dal marito o da chi abbia la potestà su di
lui. In questo senso: Pomp. 5 ad Q. Mucium D.
24.1.51, Quintus Mucius ait, cum in controversiam venit, unde ad mulierem quid pervenerit, et verius et honestius est
quod non demonstratur unde habeat existimari a viro aut qui
in potestate eius esset ad eam pervenisse. Evitandi autem turpis
quaestus gratia circa uxorem hoc videtur Quintus Mucius probasse. Imp. Alexander A. Nepotiano C. 5.16.6 (a. 229):
Etiamsi uxoris tuae nomine res quae tui iuris fuerunt depositae
sunt, causa proprietatis ea ratione mutari non potuit, etsi donasse te uxori res tuas ex hoc quis intellegat, cum donatio in
matrimonio facta prius mortua ea quae liberalitatem excepit
M.T. NICOTRI – De dote quantitate
56
sio è nulla perché supera il patrimonio muliebre ed è epressione del dolo del tutore», che
unico criterio di riferimento per il diritto classico fosse la facultas, equivale a dedurre dalla
seguente affermazione: «il contratto è nullo in
assenza di causa», che il contratto sia nullo solo in assenza di causa.
Invero, tale frammento è fondamentale
per la corretta lettura dell’opinone di Celso
per cui se consideriamo quale limite superiore,
in nessun caso superabile, nella determinazione della dote, il patrimonio complessivo della
donna, il criterio della dignitas soccorrerà quale
limite ulteriore che nel caso concreto impedirà
la costituzione di una dote che, pur congrua
rispetto al patrimonio muliebre, appaia del
tutto sproporzionata in relazione alla dignitas
del marito. Tale ricostruzione, peraltro, è
tutt’altro che estranea al pensiero classico ove
si consideri che già Catone esigeva che le
donne non portassero doti eccessive, inoltre,
ciò è anche coerente rispetto alla funzione dotale di sostegno ai pesi matrimoniali. Ciò pol’Albertario, il fatto che tutto il patrimonio sia stato
costituito in dote. Questo non prova, però, che il tutore fosse sempre obbligato a prestare l’auctoritas e
quindi il suo intervento potesse essere privo di ogni
intervento pratico, quando si trattava di costituire la
dote».
41
TSDP – IV 2011
Peraltro, una delle motivazioni, della parametrazione della dote alle sostanze del marito, potrebbe riscontrarsi anche nella possibilità che avrebbero in questo modo le donne di
ricattare i propri mariti, forti del conferimento
di una dote molto maggiore rispetto alle sostanze di questi52.
Anche nel Miles Gloriosus, ritorna la connessione tra matrimonio e condizione sociale
e patrimoniale dei nubendi, il vecchio Periplectomeno precisa, infatti, che avrebbe potuto sposare una donna assai nobile e ricca
(uxorem dotatam genere summo ducere) grazie alla
propria ricchezza (propter divitias meas), ma che
ha preferito non farlo per non dover assecondare i capricci di una donna53.
52
Plaut. Aul. 498: MEGADORUS Nulla igitur dicat
«Equidem dotem ad te attuli maiorem multo quam tibi erat
pecunia; enim mihi quidam aequomst purpuram atque aurum
dari, ancillas, mulos, muliones, pedisequos, salutigerulos pueros, vehicla qui vehar».
53
Plaut. Miles Gloriosus, 673: PERIPLECTOMENUS Morus
es. Nam in mala uxore atque inimico si quid sumas, sumptus
est, in bono hospite atque amico quaestus est quod sumitur: et
quod in dinis rebus sumas sumpti sapienti lucrost. Deum
virtute est te unde hospitio accipiam apud me comiter: es, bibe,
animo opsequere mecum atque onera te hilaritudine. Liberae
sunt aedes, liber sum autem ego; me volo vivere. Nam mihi,
deum virtute dicam, propter divitias meas licuit uxorem
M.T. NICOTRI – De dote quantitate
42
La rilevata connessione tra l’autorità maritale e l’entità del patrimonio muliebre viene
ribadita esplicitamente anche in un’altra commedia plautina: l’Asinaria. L’autore attraverso i
suoi personaggi afferma che gli uomini finiscono per vendere la propria autorità in cambio dei quattrini54.
Dai testi di Plauto, fin qui esaminati,
emergono, quindi, due elementi. Gli uomini
nello scegliere le proprie mogli davano peso
alla consistenza della loro dote che, dunque,
in piena età repubblicana55, rappresenta un
elemento imprescindibile per il matrimonio.
dotatam genere summon ducere, sed nolo mi oblatratricem in
aedis intro mittere.
54
Plaut. As. 87-90: DEM Argentum accepi, dote imperium
vendidi. Nunc verba in pauca conferam quid te velim viginti
iam usust filio argenti minis: face id ut paratum iam sit.
55
Anche da una commedia di Terenzio (190/185 a.C.159 a.C.), commediografo appartenente al circolo degli Scipioni il quale abbracciava ideali filoellenici, percepiamo la rilevanza della dote. La commedia che ci
interessa è il Phormio: un servo asseconda gli amori di
Fedria ed Antifone i ragazzi che gli vengono affidati,
uno di questi si innamora di una fanciulla priva di dote, nonostante ciò rappresenti un problema viene
combinato con uno stratagemma il matrimonio, il lieto fine arriva grazie ad una scoperta: la ragazza non è
povera, non rimarrà quindi indotata, ed è di condizione libera.
55
TSDP – IV 2011
trebbe essere indice di una soluzione dubbiosa la presenza della parola quaero, termine che
introdurrebbe un’ipotesi con carattere di ambiguità retorica76.
Ritengo, però, che l’opinione di Terenzio
Clemente sia suscettibile di un’altra interpretazione. Il giurista, infatti, nel commentare la
legge Iulia et Papia Poppaea afferma la nullità
della promissio dotis della donna che abbia ad
oggetto una dote superiore al patrimonio della
stessa; non dice, invece, che l’unico parametro
da osservare per individuare il giusto ammontare della dote sia la facultas. Ciò significa,
semplicemente, che la norma augustea, in
considerazione delle particolari caratteristiche
che contraddistinguono l’ufficio del tutore e
dei generali principi di diritto (sanzione delle
condotte dolose), riteneva invalide le promesse di dote che eccedevano il limite delle facoltà patrimoniali della donna, quando il tutore
avesse prestato l’auctoritas, ‘sapendo’ che la dote costituita fosse superiore alla facultas della
donna77. Dedurre dall’affermazione: «la promis76
Cfr. M.D. PARRA MARTÍN, La argumentación retórica
en Juvencio Celso, Madrid, 2005, 243.
77
Cfr. R. ASTOLFI, Studi, I, cit., 265: «Il tutore presta
l’auctoritas per la costituzione di una dote che egli sa
essere superiore al patrimonio della donna. Il dolo del
tutore inficia la costituzione: non, quindi, osserva
M.T. NICOTRI – De dote quantitate
54
43
TSDP – IV 2011
te indeterminata considerandola corrotta, o
meglio espressione della politica giustinianea
ispirata al favor dotis. L’opinione dell’Albertario, celebre esponente dell’indirizzo interpolazionistico è stata più volte confutata73. Invero, molti studiosi hanno denunciato l’errore
prospettico compiuto dall’Albertario74, il quale
dimentica che non di rado si registrarono forti
contrasti tra i giuristi classici, insomma era
molto frequente in materia il c.d. ius controversum. Non vi è, infatti, alcun dubbio che la risposta di Celso manifesti una certa ambiguità,
conseguente alle incertezze che caratterizzavano la questione, ma non solo, il giurista
manifesta ancora una volta il proprio tratto
personale di scrittore non conformista75.
Soprattutto in materia dotale, i molteplici
interessi in gioco – sociali, economici, giuridici – e la scarsa regolamentazione legislativa
hanno dato adito ad una molteplicità di interpretazioni tutte, peraltro, conformi al dato
normativo. Inoltre, come è stato rilevato, po-
Altro dato che emerge con forza è, poi,
l’influenza che la misura della dote acquistava
nei rapporti coniugali tanto da poter determinare un capovolgimento dei ruoli; le donne,
infatti, forti della loro ricchezza tendevano a
sottomettere i mariti.
La rilevanza di una congrua dote, di una
dote che tenesse conto del peso sociale delle
famiglie che, attraverso il matrimonio, venivano in contatto, è attestata anche dal Trinummus. La commedia spesso citata per suffragare l’esistenza di un dovere sociale di dotare le donne della propria famiglia, affinché
tali unioni non fossero considerate concubinato, credo possa fornire ulteriori spunti di
riflessione, peraltro, coerenti con quanto già
detto a proposito dell’Aulularia.
Invero, appaiono estremamente significativi i timori associati alle conseguenze sociali
di un’unione senza dote, il motivo di apprensione non è, peraltro, esclusivo della famiglia
della sposa56 ma riguarda anche lo sposo57. Se
73
56
S. RICCOBONO, ‘Traditio ficta’, in ZSS, XXXIV,
1913, 180 ss.; P. CERAMI, La concezione, cit., 60 ss.
74
Singolare che l’Albertario, abbia in altri suoi scritti
sostenuto la classicità dei riferimenti alla dignitas, vd.
‘Honor Matrimonii’ e ‘affectio maritalis’, in Studi Albertario,
I, Milano, 1933, 200 ss.
75
M. BRETONE, Note minime, cit., 345.
Tale apprensione si avverte dal citatissimo passo, in
cui Lesbonico esprime il proprio timore che l’unione
tra l’amico e la sorella sia ritenuta concubinato: Plaut.,
Trin. 688-69: LESBONICUS Nolo ego mihi te tam prospicere,
qui meam egestatem leves, sed ut inops infamis ne sim, me mihi
hanc famam differant, me germanam sororem in concubinatum
tibi, sic sine dote, dedisse magis quam in matrimonium. An-
M.T. NICOTRI – De dote quantitate
44
da una parte Callicle si preoccupa di conservare, quanto meno, la somma necessaria per dare una dote alla figlia dell’amico, che le consenta di sposare una persona di condizione
degna di lei58, dall’altra Lisitele amico di Lecor più rilevante il seguito: Quis me improbior perhibeatur
esse? Haec famigeratio te honestet, me conlutulentet, si sine dote
duxeris: tibi sit emolumentum honoris, mihi quod obiectent siet.
Socialmente un’unione senza dote da quanto ci dice
Lesbonico, farebbe guadagnare rispettabilità allo sposo mentre la famiglia della sposa sarebbe vista con disprezzo.
57
Secondo Lisitele accettare in dote l’unica fonte di
sostentamento di Lesbonico sarebbe segno di grande
avarizia, in altre parole, è socialmente riprovato accettare in dote più di quanto la famiglia della sposa possa
permettersi in relazione alla effettiva capacità patrimoniale.
Plaut. Trin. 698-704: LYSITELES Scio equidem te animatus ut sis; video, subolet, sentio: id agis ut, ubi adfinitatem inter
nos nostram astrinxeris atque eum agrum dederis nec quicquam hic tibi sit qui vitam colas, ecfugias ex urbe inanis, profugiens patriam deseres, cognatos, adfinitatem, amicos factis
nuptiis: mea opera hinc proterritum te meaque avaritia autument. Id me commissurum ut patiar fieri ne animum induxeris.
58
Plaut. Trin. 152-159: CALLICLES Nummorum Philippeum ad tria milia. Id solus solum per amicitiam et per fidem.
Flens me obsecravit suo ne gnato crederem. Neu quoiquam unde ad eum id posset permanascere. Nunc si ille huc saalvos revenit, reddam suom sibi; si quid eo fuerit, certe illius filiae,
quae mihi mandatast, habeo dotem unde dem, ut
53
TSDP – IV 2011
che il Solazzi71: «I tutori muliebri non amministravano né potevano essere costretti a prestazioni patrimoniali; neppure vi era ragione
di impedire che la donna si costituisse in dote
l’intero patrimonio .... Ma nella dote quantitativa Celso doveva riconoscere al tutore il diritto di controllare che la pecunia promessa corrispondesse al valore del patrimonio posseduto dalla donna».
In passato, partendo dal presupposto che
D. 23.3.61 pr. fosse espressione del pensiero
classico, si è arguito che conseguentemente la
testimonianza celsina (D. 23.3.60) fosse portatrice del pensiero giustinianeo, ovvero del
principio della dos moderata. L’opinione è stata
espressa con forza dall’Albertario72, il quale
rifiutando l’assunto che il diritto classico abbia
ammesso la validità di una promessa indeterminata o di un legato generico di dote, ha cercato di espungere dal corpus iuris ogni traccia
che potesse considerarsi testimonianza di criteri oggettivi per la determinazione della dote
e, quindi, della possibilità di costituire una do71
S. SOLAZZI, Studi sulla tutela, in Pubblicazioni della Facoltà di Giurisprudenza della R. Università di Modena, IX,
1925, e XIII, 1926, ora in Scritti, III, Napoli, 1960,
147 nt. 6.
72
E. ALBERTARIO, Promessa, cit., 345 s.; L’‘arbitrium’,
cit., 292 s.
M.T. NICOTRI – De dote quantitate
52
renzio Clemente ad legem Iuliam et Papiam ed è,
probabilmente, riconducibile al titolo De tutore
dotis constituendae causa dato69 o de dote costituenda70. Nel merito appare verosimile che la lex
Iulia avesse previsto l’invalidità dell’auctoritas,
se prestata con dolo. Terenzio Clemente analizza le ricadute conseguenti alla condotta del
tutore (generalis o dotis dandae causa) che abbia
prestato l’auctoritas per una dote superiore a
quanto le facoltà della donna consentano. Tale pattuizione appare invalida di diritto; subito
dopo il giurista motiva tale affermazione: non
ha alcun valore l’auctoritas prestata con dolo. Si
esprime così una sorta di equivalenza; dunque, sembra ritenersi che la promessa di una
dote superiore al patrimonio della donna debba considerarsi condotta dolosa. Circa l’esistenza di tale limite in relazione alla costituzione della dote rappresentato dalla consistenza patrimoniale della donna concorda an-
den». cfr. C. CZYHLARZ, Das römische Dotalrecht, cit.,
165 ss. La ricostruzione dell’autore è facilmente confutabile attraverso l’esame di Gai 1.190, cfr. B. ALBANESE, Le persone, cit., 529 ss. ed ivi nt. 564 dove
l’Autore ipotizza l’interpolazione di D. 23.3.60.
69
R. ASTOLFI, La ‘lex’, cit., 367 ss.
70
O. LENEL, Pal., II, cit., col. 336.
45
TSDP – IV 2011
sbonico in segno di amicizia si offre di sposarne la sorella senza dote.
Lisitele, in un primo momento, nonostante
abbia indicato l’ottima famiglia da cui proviene la sposa, incontra le resistenze del padre, il
cui stupore emerge con estrema chiarezza dal
dialogo con il figlio, cui continua a chiedere
«Sine dotem uxorem?»59
eam in se dignam condicionem conlocem. CALSi tratta di circa tremila filippi. Carmide mi ha
scongiurato piangendo, da solo a solo, in nome della
nostra amicizia e fedeltà, che non confidassi il segreto
a suo figlio né ad alcun altro, da cui potesse trapelare
e giungere al ragazzo. Ora, se il mio amico torna in
patria sano e salvo, gli riconsegnerò quel che è suo; se
invece gli capita qualcosa, ho almeno il modo di dare la dote a sua figlia, in modo da poterla maritare a una persona di una condizione degna di lei.
(Trad. it. Le commedie di Tito Maccio Plauto, cit.).
59
Lo stesso sdegno e la stessa incredulità, all’idea di
una unione senza dote, verranno espressi da altri personaggi della nostra commedia, ritenendo addirittura
un fatto scandaloso (flagitium) che non venga data una
dote alla ragazza, ancor più grave che la ragazza venga
collocata senza dote in una famiglia così ricca. Plaut.
Trin. 606: CALLICLES Sine dote ille illam in tantas divitias
dabit? Non credibile dicis. 612-614: CALLICLES Flagitium
quidem hercle fiet, nisi dos dabitur virgini. Postremo edepol ego
istam rem ad me attinere intellego. Ibo ad meum castigatorem
atque ab eo consilium petam LICLE
M.T. NICOTRI – De dote quantitate
46
Lisitele riuscirà a convincere il padre ad
acconsentire al matrimonio, sostenendo che
da tale unione otterrà grande riconoscenza, è,
infatti, un modo per aiutare un amico, e porterà alla famiglia una bella fama60.
Lesbonico invita Filtone, padre di Lisitele,
a cercare una parentela diversa61, in quanto la
sua posizione e le sue condizioni economiche
non possono essere paragonate a quelle del
suo interlocutore62; emergono – così anche se
in termini diversi, Plauto usa, infatti, il costrutto ‘factiones atque opes’ – i concetti di dignitas e facultas e della comparatio tra le famiglie dei
nubendi.
Filtone cerca di convincere Lesbonico ad
acconsentire alle nozze, spiegando che si tratta di un caso particolare; dice, infatti, che ‘in
60
Plaut. Trin. 373-379: LYSITELES Scin tu illum quo genere natus sit? PHILTO Scio, adprime probo. LYSITELES Soror
illi est adulta virgo grandis: eam cupio, pater, ducere uxorem
sine dote. PHILTO Sine dote uxorem? LYSITELES Ita; tua re
salva hoc pacto ab illo summam inibis gratiam neque commodius ullo pacto ei poteris auxiliarier. PHILTO Egone indotatam te uxorem ut patiar? LYSITELES Patiundumst, pater; et
eo pacto addideris nostrae lepidam famam familiae.
61
Plaut. Trin. 451-453: LESBONICUS Mearum me rerum
novisse aequomst ordinem cum vostra nostra non est aequa factio. Adfinitatem vobis aliam quaerite.
62
Plaut. Trin. 466-467: PHILTO Ita tu nunc dicis, non esse
aequiparabilis vostras cum nostris factiones atque opes?
51
TSDP – IV 2011
ducaires, et l’on sait que l’une d’elles, la loi Julia de maritandis ordinibus, prescrivait de nommer un tuteur à la
femme pour lui permettre de constituer une dot à son
mari». Contra A. BECHMANN, Das römische Dotalrecht,
cit., che ritiene il termine curator non interpolato, 22:
«Dagegen handeln von dem Consense des Curators
zum Dotalversprechen der minderjährigen Frau zwei
Pandektenstellen, die Ll. 60 und 61 D. h.t., jene von
Celsus, diese von Terentius Clemens. Zum Zweche
einer näheren Erörterung derselben ist vor allem die
Vorfrage zu erledigen, ob sie, insofern sie vom Curator sprechen, als interpolirt zu betrachten seien oder
nicht. Nach meiner Meinung ist diese Frage entschieden zu verneinen. Zunächstwird uns für die entgegengesetze Ansicht der Umstand nicht bestimmen
können, dass in der zweiten Stelle von auctoritas die
Rede ist, wo vielmehr nach correkter Redenauen
Sprachgebrauches liegt ja doch wohl zu nahe, als dass
diesem Argumente eine andere als höchstens adminiculirende Bedeutung zukommen könnte ..... Nun ist
aber nach dem oben Gesagten klar, dass alle diese
Bestimmungen auf die auctoritas des Geschlechtstutors keine Anwendung finden können, da diesen die
materielle Seite des Geschäftes durchaus nichts angeht, da er vielmehr gar nicht einmal in der Lage ist,
jene Prüfung, welche in den beiden Stellen angeordnet ist, vorzunehmen. Denn als Tutor hatte er gar keine Gelegenheit, sich einen genügenden Einblik in die
Vermögensverhältnisse der Frau zu verscaffen, und
wenn er daher bei einem Versprechen. welches die
Kräfte derselben übersteigt, gleichwohl auctorirte, so
konnte daraus wohl in keiner Weise der Vorwurf des
dolus oder der culpa lata gegen ihn abgeleitet wer-
M.T. NICOTRI – De dote quantitate
50
Ter. Clem. 3 ad legem Iuliam et Papiam D.
23.3.61 pr. Sive generalis curator (tutor) sive dotis
dandae causa constitutus sit et amplius doti promissum (dictum) est quam facultates mulieris valent, ipso
iure promissio (dictio) non valet, quia lege rata non
habetur auctoritas dolo malo facta. quaerendum
tamen est, utrum tota obligatio an quod amplius
promissum est, quam promitti (dici) oportuit, infirmetur? Et utilius est dicere id quod superfluum est
tantummodo infirmare.
Come si evince dall’inscriptio, il frammento è stato escerpito dal commentario di Te68
68
Il frammento presenta sicure tracce di interpolazione, tra parentesi le correzioni proposte dal O. LENEL,
Pal., II, col. 336 nn 2-5. Tra le possibili ricostruzioni
del testo genuino cfr. C. FERRINI, I commentari di Terenzio Clamente e di Gaio ‘ad legem Iuliam et Papiam’, in
Opere, II, Milano, 1929, 253, il quale ricalca la critica
proposta dal Lenel. Si riporta la ricostruzione proposta dal Ferrini: sive legitimus tutor sive dotis constituendae
causa datus sit et amplius doti dictum sit quam facultates mulieris valeant, ipso iure dictio non valet, quia lege (Iulia?) rata
non habetur auctoritas dolo malo facta. quaesitum tamen est,
utrum tota obligatio an quod amplius dictum est, quam dici
oportuit, infirmetur..... ; H. APPLETON, Des interpolations
dans les pandectes et des méthodes propres a les découvrir, rist.
anast. 1895, 1967, 144, «Dans le pr., où la commission des Pandectes remplace tutuer par curateur, elle
laisse subsister le mot auctoritas, qui est révélateur.
Puis ce text est tiré d’un commentaire sur les lois ca-
47
TSDP – IV 2011
questo caso’ non contano prestigio e ricchezza, contano solo i buoni rapporti63, in altre parole, ‘in genere’ la dote e le valutazioni necessarie alla quantificazione della stessa erano di
fondamentale importanza.
Dalle parole di Lesbonico, fratello della
sposa, emerge anche il dovere di non comportarsi con leggerezza nei confronti dei propri
familiari, da ciò deduciamo che tra i doveri di
un fratello figura anche la costituzione di una
dote per la propria sorella64.
Appare, inoltre, opportuno rilevare come,
in tutte le commedie, la ragazza indotata si
scopra, alla fine, sempre, ricca e di ottima famiglia; tale nota non fa che confermare
l’assurdità, per i romani, di un matrimonio
senza dote e con una donna di diverso ceto
sociale.
Come si è potuto constatare le battute
pronunciate dai personaggi plautini tendono,
molto spesso, ad evidenziare il vuoto forma63
Plaut. Trin. 497-500: PHILTO Nunc ut scias hic factiones
atque opes non esse neque nos tuam neglegere gratiam, sine dote
posco tuam sororem filio. Quae res bene vortat – habeon pactam? Quid taces?
64
PLAUT. Trin. 681-683: LESBONICUS ... Meam ut sororem tibi dem suades sine dote. Aha! Non convenit me, qui
abusus sum tantam rem patriam, porro in ditiis esse agrumque
habere, egere illam autem, ut me merito oderit ...
M.T. NICOTRI – De dote quantitate
48
tosi nella morale romana e la dissolutezza dei
costumi, fattori che vengono ricondotti alla
diffusione dei modelli greci nella civitas.
L’esigenza di introdurre opportune norme
giuridiche, a tutela dei membri della familia
proprio iure conseguirà proprio alla constatazione dell’intervenuta insufficienza della sola
morale.
Autorità maritale e ricchezza della donna e
di conseguenza facultas e dignitas si troverebbero, quindi, in un rapporto di proporzionalità
inversa; il marito, scelta la moglie in ragione
delle sue sole sostanze senza trovare un giusto
equilibrio che tenesse in opportuna considerazione rango sociale e patrimonio, vedeva lesa la propria autorità perché le donne, forti
della propria superiorità patrimoniale, finivano per voler sottomettere gli uomini.
3.2 ‘Facultas’.
Il termine facultas deriva da facilitas , in altre parole, fa riferimento a qualcosa che il
soggetto può fare senza eccessivo aggravio di
Paul. Fest. de significatione verborum 87, Facul antiqui
dicebant et faculter pro facile; unde facultas et difficultas videntur dicta. Sed postea facilitas morum facta est, facultas rerum.
TSDP – IV 2011
mezzi e di tempo; con riferimento ad una res
assume, invece, il significato di patrimonio66.
Nei frammenti de quibus il termine ricorre
proprio in tale ultima accezione.
Non vi sono particolari dubbi in dottrina
circa la classicità della parametrazione della
dote al patrimonio familiare o muliebre67; ulteriore conferma di tale commisurazione deriverebbe tra l’altro dal frammento che segue
immediatamente D. 23.3.60, specifico oggetto
del nostro lavoro. Il fr. 61 pr., infatti, la cui
paternità è attribuita a Terenzio Clemente,
può essere considerata una conferma della rilevanza di uno dei parametri già individuati da
Celso, ovvero la facultas del costituente.
Nel commentare la legge Iulia et Papia Poppaea, il giurista descrive una delle possibili
cause di invalidità della promissio dotis.
66
65
65
49
ERNOUT & MEILLET, Dictionnaire etymologique de la
langue latine, Paris, 1959, 210.
67
In tal senso, G. VIARENGO, Il caso e la legge in Nov.
97.5, in D@S, VI, 2007, nt. 24: «Il principio che la
quantificazione della dote si dovesse basare sulle facoltà del costituente ha radici antiche, e la sua applicazione nella legislazione giustinianea ne rappresenta
una continuazione, pur con l’accentuazione dei profili
costrittivi relativi all’obbligo di costituzione della stessa».
65
TSDP – IV 2011
Questa scelta, come si diceva, appare perfettamente coerente con quei dati che abbiamo prima messo in evidenza, analizzando
l’opera di Plauto, in particolare, torna alla
mente un brano del Trinummus:
Plaut. Trin. 698-704:
LYSITELES Scio equidem te animatus ut sis; video, subolet, sentio: id agis ut, ubi adfinitatem inter nos
nostram astrinxeris atque eum agrum dederis nec
quicquam hic tibi sit qui vitam colas, ecfugias ex urbe
inanis, profugiens patriam deseres, cognatos, adfinitatem, amicos factis nuptiis: mea opera hinc proterritum te meaque avaritia autument. Id me commissurum ut patiar fieri ne animum induxeris.
Anche il pretore, dunque, traendo ispirazione dal sentire sociale, ha ritenuto di correggere gli effetti dell’applicazione del ius civile.
I criteri individuati da Celso non devono
essere considerati alternativi. Essi mirano ad
una valutazione globale del costituendo rapporto coniugale che tenga in debito conto
non solo la capacità patrimoniale della nubenda o del di lei pater familias, ma anche, ponendo nel giusto rilievo la funzione sociale
della dote, nonché gli effetti sociali del matrimonio, la dignitas del marito, dunque, la nuova
posizione sociale assunta dalla nupta.
M.T. NICOTRI – De dote quantitate
66
Quindi, al fine di determinare nel caso di
specie la giusta misura della dote dovranno
essere prese in considerazione più variabili87.
Per cui l’effettivo ammontare della dote
tenderà, in funzione della concreta valutazione della dignitas paterna nonché di quella del
marito88, verso il limite minimo ogni qual volta al marito sia riconosciuta una dignitas per
così dire minima (minore), verso il limite massimo quando non via sia differenza tra dignitas
natalium e dignitas del marito o quando
87
In altre parole, se poniamo come limite massimo
l’ammontare del patrimonio muliebre (p.m.) saremo
in presenza di un ventaglio di soluzioni che andranno
da 0 a p.m.. Secondo l’opinione del Cujacio (Opera ad
parisiensem fabrotianam editionem diligentissime exacta auctoria atque emendatoria in tomos X distributa, tomus quartus,
ad tit. de legat. III ad l. XLIII, 697), rigettata, però, dalla
dottrina, anticamente sarebbe stato vietato portare in
dote più di diecimila centinaia in rame. Tale opinione
appare far riferimento a Giovenale, Satyr. X; Marziale,
Epigram., 2, 65 e 11, 24; Seneca ad Helv. 12; D.
22.1.6.1.
88
GOTHOFREDUS, ad legem D. 23.3.60, Modus is dicitur,
censeturve, quem ratio patitur omnibus circumstantiis putatis;
BALDI UBALDI PERUSINI, ad lib. XXIII Digestorum, tit.
de iure dotium, l. LXI: Nobiles mulieres indigent maiori dote
quam ignobiles, hoc est verum nubendo pari, secus se inferiori
no.
95
TSDP – IV 2011
ful relation between families and in preserving
alliances build through marriage.
Keywords: indeterminate dowry; indeterminate dowry 's legacy; familiy alliances.
MARIA TERESA NICOTRI
Assegnista di ricerca
Università degli Studi di Palermo
E-mail: [email protected]
M.T. NICOTRI – De dote quantitate
94
ABSTRACT
Il contributo approfondisce l’opinione celsina in materia di quantificazione della dote.
Dalla ricerca emerge che il termine ‘dos’ indicava non un’entità astratta ed indeterminata,
bensì un’entità concettualmente determinata.
Appaiono, invero, chiari i criteri cui ispirarsi
nella quantificazione della dote: la dignitas e la
facultas degli sposi. La misura della dote veniva
stabilita a seguito di un procedimento di
comparazione delle sostanze e della classe sociale dei nubendi, ciò affinché rimanesse stabile il rapporto di forza tra le due famiglie e si
preservassero le alleanze costituite attraverso
il matrimonio.
Parole chiave: dote indeterminata, legato
indeterminato di dote, alleanze familiari.
This study analyzes Celso’s opinion about
dowry quantification. From the research rises
up that the word ‘dowry’ means not an abstract or indeterminate entity but a conceptually determinate entity. Indeed the criteria to
quantificate dowry are clear: spouse’s facultas
and dignitas. Dowry’s measure is the result of a
comparison between spouses’s heritage and
social class; the reason in maintaining a peace-
67
TSDP – IV 2011
quest’ultima sia addirittura superiore89. Il giurista si limita ad estendere l’applicazione dei
89
Grazie ai Fragmenta Vaticana conosciamo un episodio paradigmatico, che appare utile ai nostri fini: Vat.
Fragm. 115.... L<u>cia Titia cum pubere Septicio maioris
dign<itatis viro, ei> .... milia in dotem dedit, cum non amplius in bonis ha<beret ... num> ve<r>um est, quod a quibusdam dicitur, omnia in dotem da<ri posse? Paulus respondit
recte dotem> da<ta>m; dari posse argumento esse in manu<m> conventione<m>. È il caso di una donna che
sposa un uomo di condizione sociale superiore e che
costituisce in dote il suo intero patrimonio. Ci si interroga, quindi, se lo possa fare, Paolo propende per
la soluzione affermativa e motiva la propria opinione
con un riferimento alla conventio in manum. Cfr. R.
ASTOLFI, La ‘lex’, cit., 120 s.; Studi, cit., 264; vd. anche
C. 5.12.4: Nulla lege prohibitum est universa bona in dotem
dare; Cic. pro Flacco 34.84: At enim Androni Sextilio gravis
iniuria facta est et non ferenda, quod cum esset eius uxor Valeria intestato mortua, sic egit eam rem Flaccus quasi ad ipsum
hereditas pertineret. in quo quid reprehendas scire cupio. Quod
falsum intenderit? Qui doces? «Ingenua» inquit «fuit». O peritum iuris hominem! Quid? Ab ingenuis mulieribus hereditates
lege non veniunt? «In manum» inquit «convenerat». Nunc audio; sed quaero usu an coëmptione? Usu non potuit; nihil enim
potest de tutela legitima nisi omnium tutorum auctoritate deminui. Coëmptione? Omnibus ergo auctoribus; in quibus certae
Flaccum fuisse non dices. 35.86: «Doti» inquit «Valeria pecuniam omnes suam dixerat». Nihil istorum explicari potest,
nisi ostenderis illam in tutela Flacci non fuisse. Si fuit,
quaecumque sine hoc auctore est dicta dos, nulla est. Sul tema
anche E. VOLTERRA, Nuove ricerche sulla ‘conventio in
manum’, in Scritti giuridici, III, 342 ss. e nt. 147.
M.T. NICOTRI – De dote quantitate
68
criteri comuni, cui ogni pater familias faceva riferimento in sede di costituzione della dote.
Per ragioni di completezza, è necessario
soffermarsi, almeno un attimo, su un altro
frammento. Invero, l’intreccio tra materia tutelare e individuazione della giusta misura della dote ritorna in un altro passo90, questa volta
attribuito a Papiniano:
90
Secondo R. ASTOLFI, Il fidanzamento nel diritto romano, Padova 1994, 101, il frammento avrebbe una forma sufficientemente corretta, l’A. dice: «Ma la forma
del testo è perfetta. Esso ha una struttura logica e sintattica così unitaria e coerente, che non permette di
supporvi intrusioni di estranei, a meno che non
l’abbiano totalmente riscritto e riformulato. Il che
sembra un assurdo». Vd. pure R. ASTOLFI, Studi, cit.,
266; inoltre P. VOCI, Le obbligazioni romane, Milano,
1969, 223, così si esprime: «Ed entra nella sua (del tutore) competenza stabilire l’ammontare della dote, secondo i criteri che il testo menziona: si tratta di criteri
oggettivi, e di una determinazione che il tutore compie sotto sua responsabilità, giacché essa deve risultare giustificata in sede di rendiconto tutelare. Il padre e
il tutore debbono costituire la dote per la figlia o per
la pupilla: il primo perché a ciò che detta l’affetto paterno si aggiunge un obbligo giuridico; il secondo
perché, tra i doveri di provvedere nel miglior modo
possibile agli interessi della pupilla, rientra anche quello di costituire la dote. La prassi degli organi addetti
alla sorveglianza sull’adempimento di questi doveri
deve aver reso stabili alcuni criteri, che sono quelli cui
alludono genericamente i giuristi».
93
TSDP – IV 2011
principio, poi, applicato nei vari casi di specie:
tutela, legati.
Credo, dunque, si possa ritenere che il
termine ‘dos’ indichi non un’entità astratta ed
indeterminata, bensì una quantità concettualmente determinata. Sono chiari, infatti, i criteri cui ispirarsi nella quantificazione della dote:
la dignitas e la facultas degli sposi. Peraltro, è
mia opinione che individuare la misura della
dote applicando i suddetti criteri, servisse, a
salvaguardare, non solo i rapporti di forza tra
le famiglie di provenienza degli sposi, ma anche la loro posizione all’interno della società
civile.
Alla fine del presente contributo sembra,
dunque, di aver formulato un’ipotesi che potrebbe, quanto meno, essere un punto di partenza nella ricostruzione dell’articolato pensiero celsino in materia dotale.
M.T. NICOTRI – De dote quantitate
92
L’interpretatio del giurista interviene per
perpetuare il ricorso a quei criteri (facultas, dignitas) che appaiono del tutto ovvi, finché
permane la tutela muliebre, tutta tesa alla protezione degli interessi patrimoniali del gruppo
di appartenenza; Celso opera, infatti, una sorta di interpretazione estensiva di quelle coordinate, che come abbiamo dimostrato apparivano, già in epoca risalente, consolidate nella
prassi, applicandole al fine di determinare, a
contrario, la giustezza di un eventuale rifiuto da
parte del tutore di prestare la propria auctoritas
alla costituzione di dote.
Possiamo ipotizzare che il discorso di Celso sia stato, poi, ulteriormente sviluppato per
conferire validità alla costituzione di dote indeterminata. Infatti, l’individuazione dei sopra
descritti parametri sembra causata dall’obbiettività degli stessi, sono i criteri che un bonus vir
saprebbe trovare; proprio per questa ragione
vengono ripresi nel caso di dote indeterminata, cioè nella diversa, e sicuramente di più difficile soluzione, eventualità che il pater familias
abbia disposto un legato di dote senza specificarne l’ammontare. Siamo, quindi, indotti ad
ipotizzare che Celso abbia enunciato, in un
primo momento, un principio generale, circa
la determinazione della giusta quantità di dote,
69
TSDP – IV 2011
Pap. 4 respons. D. 23.3.69.5: Nuptiis ex
voluntate patris puellae cum filio tutoris jure contractis, dos pro modo facultatium et dignitate natalium
recte per tutorem constitui potest.
Contratte le nozze conformemente al diritto per volontà del padre della fanciulla con il
figlio del tutore, la dote, in ragione del patrimonio e della dignità dei natali, può essere
correttamente costituita per mezzo del tutore.
In questo caso, si ritiene possibile la determinazione della dote ad opera del tutore
(impuberum) anche nel caso eccezionale, derogatorio del divieto introdotto da un senato
consulto, emanato sulla base di una oratio di
Marco Aurelio e Commodo91, di nozze con il
figlio dello stesso, grazie alla preventiva individuazione del marito da parte del padre della
sposa. Anche qui, vi è un esplicito riferimento
al patrimonio ed alla dignità della donna e del
marito; è necessario, quindi, contemperare la
posizione sociale della donna e la condizione
sociale del marito per determinare il limite
massimo del modus, ovvero dell’ammontare
91
Vd. D. 23.2.20; 23.2.60; 23.2.66 pr.; 23.2.67.3;
24.1.32.28; Vat. Fragm. 201 e 202; Cfr. B. ALBANESE,
Le persone, cit., 481 nt. 268; C. FAYER, La ‘familia’ romana. Aspetti giuridici e antiquari, II, Roma, 2005, 205
ss.
M.T. NICOTRI – De dote quantitate
70
della dote. Dunque, valutata la condizione sociale della donna, il quantum della dote era determinato con riferimento ad una forbice di
valori che avrebbe visto una tensione verso
l’alto proporzionale alla dignitas del marito.
Anche Papiniano, quindi, trattando della
tutor impuberum ed, in particolare, dell’intervento del tutore in sede di costituzione della
dote, fa riferimento ai criteri della dignitas e
della facultas.
Il giurista ritiene idoneo l’uso di questi parametri di commisurazione della dote, anche
in questo particolare caso, dove appare chiaro
il conflitto di interessi tra il tutore, che partecipa con la sua auctoritas alla costituzione della
dote ma che è anche padre del futuro sposo, e
la donna soggetta alla sua tutela. Da questa ulteriore applicazione, possiamo, senz’altro, desumere, ancora una volta, l’obiettività dei criteri di cui ci stiamo occupando, che mutuati,
in un primo momento, dalla prassi sociale,
sono ormai assurti, al tempo di Papiniano, a
indiscussi canoni giuridici.
La deroga al divieto matrimoniale sembra
essere giustificata dalla preventiva designazione paterna. La volontà del padre, infatti, deve
essere assecondata, perché questi è in grado di
individuare ciò che è meglio per la propria figlia ed è, poi, in base ai medesimi criteri cui
91
TSDP – IV 2011
ginariamente riservata al costume, le cui peculiarità conducevano di frequente ad elaborazioni eccentriche, ad un divergere dal sistema,
ad un allontanamento dai principi generali.
Ciò premesso, ritengo, a termine dell’analisi esegetica fin qui condotta, di potere così
concludere: partendo dall’analisi di due frammenti celsini (23.3.60 e 32.43) si è dimostrata
la classicità del riferimento alla dignitas e alla
facultas in materia dotale, questo risultato è stato raggiunto attraverso un’approfondita analisi di alcune testimonianze giuridiche e letterarie. Dal raffronto è emersa una sostanziale
corrispondenza tra le opinioni giurisprudenziali e la prassi economico-sociale, ormai consolidata nel periodo classico, quale emerge ad
esempio dalle opere di Plauto.
Si è, inoltre, appurata la coerenza dei
frammenti nel mettere in evidenza la rilevanza
dei criteri oggettivi individuati, in conformità
alla prassi, nella facultas e nella dignitas.
Ricapitolando, il tutore ha il compito di
preservare gli interessi della famiglia agnatizia
e di ispirarsi a quegli stessi criteri cui avrebbe
fatto riferimento lo stesso pater familias, prototipo del bonus vir117.
117
Hor. Epist. I 16, 40 s., il vir bonus è specificamente, agricola, civis, pater familias, miles, orator, senator, imperator
bonus.
M.T. NICOTRI – De dote quantitate
90
partire da singoli casi concreti, caratterizzati
da particolari circostanze, conducevano al
formarsi di un indirizzo comune. Giustiniano
operò un tentativo di riordino sistematico della materia de qua116, scegliendo l’opinione idonea a supportare la propria visione dei rapporti familiari. La materia dotale e la disciplina
per la stessa elaborata è caratterizzata dall’imbarazzo di dover incidere su una materia, ori116
Sul tema S. RICCOBONO, ‘L’arbitrium’, cit., 312,
questa l’opinione dell’A.: «Io insisto nel ritenere, al
contrario, che, essendo i motivi delle interpolazioni
svariatissimi, per necessità legislative, le alterazioni dei
testi nulla provano in ordine alla genuinità delle regole
e delle decisioni, le quali anzi si debbono ritenere
sempre d’origine classica sino a che non sia data una
precisa dimostrazione del contrario. Infatti l’ordinamento giuridico romano era assai complesso, le trattazioni dei giuristi varie, ampie, particolareggiate, e di
riscontro le manipolazioni dei testi da parte dei Compilatori del sec. VI necessarie e multiformi a tal segno
da non permettere un’illazione così semplice, dall’interpretazione formale all’innovazione sostanziale.
Si debbono tener presenti, in primo luogo, i tre ordinamenti: ius civile, ius gentium, ius honorarium, che avevano principi, norme, esigenze diversi. Si devono inoltre
distinguere iudicia stricta e iudicia bonae fidei; e infine la
valutazione degli atti e le decisioni che han luogo nel
processo ordinario o in quello extra ordinem. Situazioni
assai diverse, dunque, debbono essere considerate da
cui derivavano decisioni multiple e contrarie».
71
TSDP – IV 2011
sarebbe ricorso egli stesso, che il tutore determinerà la misura della dote. In altre parole,
l’obiettività dei criteri, non consente al tutore
di determinare la misura della dote in modo
da pregiudicare le ragioni della donna sottoposta alla sua tutela.
4. Esegesi di D. 32.43.
L’altro frammento celsino di cui, come già
anticipato, ho deciso di occuparmi, al fine di
ricostruire il pensiero del giurista, circa la dote
come entità determinata, è:
Cels. 15 dig. D. 32.43: Si filiae pater dotem arbitratu tutorum dari iussisset, Tubero perinde hoc habendum ait ac si viri boni arbitratu legetum sit. Labeo quaerit, quemadmodum apparet, quantam dotem
cuiusque filiae boni viri arbitratu constitui oportet: ait
id non esse difficile ex dignitate, ex facultatibus, ex
numero liberorum testamentum facientis aestimare.
Il fr. presenta molti profili di problematicità . Si tratta, infatti, di un legato93 di dote94, la
92
92
Sul fr. vd. R. ASTOLFI, Studi, cit., 269; G. GROSSO,
Obbligazioni3, Torino, 1969, 138; P. VOCI, Le obbligazioni, cit., 220 ss.; F. GALLO, Nuovi spunti, cit., 577 s.;
G.P. SOLINAS, A proposito dell’‘arbitrium boni viri’, in
M.T. NICOTRI – De dote quantitate
72
Studi in onore di Gaetano Scherillo, II, Milano, 1972, 539
s. Secondo G. SCADUTO, Gli arbitratori nel diritto privato, in AUPA, XI, 1923, 29 s., gli indicativi apparet e
oportet avrebbero dovuto essere dei congiuntivi e
l’ordine logico più ampio, nonostante alcune mende
formali, l’A. reputa il fr. sostanzialmente genuino, da
tale testimonianza si potrebbero intuire i termini del
contrasto, tra scuola sabiniana e proculiana, in tema di
a.b.v.; F. GALLO, Nuovi spunti, cit., 580, sospetta la parola cuiusque, l’inserzione sarebbe riconducibile all’esigenza di adeguare il testo alla nuova disciplina; E.
ALBERTARIO, Promessa, cit., 345 s.; L’‘arbitrium’, cit.,
292 s., reputa, invece, che il testo sia completamente
guasto.
93
Sui legati vd. R. ASTOLFI, Studi, cit.; P. VOCI, voce
Legato (dir. rom.), in Enc. dir., XXIII, Milano, 1973, 707
s.; Diritto ereditario romano, II, Parte speciale, Milano,
1963, 882, l’Autore a proposito della volontà del disponente, dopo aver affermato che la stessa deve essere personale, ammette che in alcuni casi ed in misura, comunque, assai limitata lo stesso possa rimettersi
alla volontà di altri. «L’unico caso sicuro è quello del
leg. dotis in favore della figlia, arbitratu tutorum: già Tuberone riteneva che l’arbitrio dovesse essere inteso
nel senso di arbitrium boni viri; Labeone indicò alcuni
criteri per l’interprete. D. 32.43 Celso 15 dig., 116,
connesso con D. 17.2.75: i due brani erano parte di
una trattazione più ampia. Le mende formali del fr. 43
non possono condurre a negarne la genuinità». vd. D.
CAMICI, Del regime, cit., 76: «La causa dotis in questi casi
è un modus che bisogna adempiere: altrimenti si annulla il legato», ivi nt. 2; M. LAURIA, Matrimonio-dote, cit.,
168: «L’oggetto della dote promessa o legata doveva-
89
TSDP – IV 2011
rosimile che i compilatori abbiano scelto i
frammenti celsini114, perché in quel dibattito
giurisprudenziale, svoltosi durante l’età classica, circa la determinazione della prestazione e
il ricorso all’arbitrium merum o boni viri, ed attestato, tra l’altro, dallo stesso D. 32.43 nel quale Celso riporta le opinioni di Tuberone e Labeone, l’opinione del giurista fosse effettivamente quella mediana.
Ai nostri fini, il riferimento all’arbitrium rileva, in quanto ci permette, ancora una volta,
di individuare una spia dell’esistenza di criteri
oggettivi, ovvero ci lascia intendere che con il
termine ‘dos’ si facesse riferimento ad una entità determinata115.
5. Conclusioni.
L’inclusione nella compilazione giustinianea priva, parzialmente, i frammenti, in esame, del significato originario e rende difficoltosa la ricostruzione della disciplina classica e
del suo articolarsi in opinioni che sviluppate a
114
Peraltro, tutti tratti dai libri Digestorum, dato che ancora di più spinge a ritenere che fosse effettivamente
quella l’opinione di Celso.
115
Cfr. A. BECHMANN, Das römische Dotalrecht, II, cit.,
68.
M.T. NICOTRI – De dote quantitate
88
soprattutto per l’individuazione di criteri oggettivi112, mutuati dalla pratica sociale, tali da
permettere di cogliere il contenuto della prestazione che resta così valida.
Tali frammenti non sono rimasti esenti da
dubbi circa la loro genuinità; in altre parole, è
opinione di molti113, che attraverso questi testi
i giustinianei abbiano inteso preservare la volontà del disponente o delle parti, nonché la
fiducia che questi riponevano nel terzo designato.
Appare, però, una strana coincidenza: tale
ruolo di ‘conciliatore’ spetta, sorprendentemente, sempre al Nostro. Invero, appare ve32.43, nonché la circostanza che il giurista si occupasse della determinazione dell’obbligazione da parte del
terzo mi spinge a ritenere che la rilevanza della determinazione del terzo fosse riconducibile, nel testo
originale, a delle particolari qualità dallo stesso possedute.
112
P. VOCI, Le obbligazioni, cit., 191: «Rinviare all’arbitrium boni viri significa rimettersi a una volontà, ma anche limitarla, stabilendo un adeguamento di essa al
criterio prescritto: ciò vuol dire obbedienza a un precetto. L’arbitrium boni viri è dunque un modello di
condotta .... Ciò significa: compiere un atto col criterio che è proprio del vir bonus. Più specificamente si
dice, a volte, che a taluno è richiesto un comportamento che, giudicato da un vir bonus, sarebbe approvato».
113
Primo tra tutti l’Albertario, vd. sopra.
73
TSDP – IV 2011
cui determinazione per espressa volontà paterna viene rimessa alla volontà dei tutori95.
Il passo, viene, in genere, analizzato nella
ricostruzione di quel dibattito giurisprudenziale, svoltosi in età classica e recepito nel Corpus
Iuris, innescato dalla possibilità di ricorrere
all’arbitrium boni viri nella determinazione della
prestazione, con particolare riferimento alla
costituzione della dote96. La fonte viene
no determinarsi precisamente a pena di nullità, C.
5.11.1».
94
Cfr. P. BONFANTE, Corso, cit., 417: «La dote viene
costituita al marito o al suo pater familias o mediante la
trasmissione effettiva dei beni o mediante l’assunzione di un obbligo. Al riguardo v’era nel diritto classico una tripartizione tecnica, la dotis datio, la dotis dictio
e la dotis promissio (Ulp., Fragm. 6.1-2): la prima significava la costituzione reale di dote, le altre due erano
forme della costituzione obbligatoria. Vi è però un
modo che può costiture ora una trasmissione reale,
ora un’obbligazione: il legatum dotis (32.43)».
95
Cfr. S. SOLAZZI, Tutoris ‘auctoritas’ e ‘consortium’, in
SDHI, XII, 1946, ora in Scritti di diritto romano, IV,
Napoli, 1963, 535 nt. 27, «l’arbitratus sull’ammontare
della dote non sarà di uno qualunque dei tutori testamentari, ma di tutti; perché il padre mostra di volere
così, discorrendo di arbitratu tutorum».
96
Cfr. G. GROSSO, Obbligazioni3, cit., 137 s.; L. ARU,
Osservazioni sulla promessa generica di dote in diritto romano,
in Scritti Mancaleoni, Sassari, 1938, 35 s.; R. ASTOLFI,
Studi, cit., 269 s.; C. SANFILIPPO, Corso, cit., 86 s.; P.
M.T. NICOTRI – De dote quantitate
74
usualmente analizzata insieme a D.
23.3.69.497; C. 5.11.198 e C. 5.11.399 evidenVOCI, Le obbligazioni, cit., 221 s., G. LONGO, Diritto
romano, III, Diritto di famiglia, Roma, 1940, 167 ss.; D.
JOHNSTON, Roman law in context, Cambridge, 34; K.
VISKY, La prova per esperti nel processo civile romano, in
Studi Senesi, LXXX, fasc.1, 1968, 59 s.; G. DONATUTI,
Mandato incerto, in BIDR, XXXIII, 1924.
97
Pap. 4 resp. : Gener a socero dotem arbitratu soceri certo die
dari, non demonstrata re vel quantitate stipulatus fuerat: arbitrio quoque detracto stipulationem valere placuit, nec videri simile, quod fundo non demonstrato nullum esse legatum vel stipulationem fundi constaret, cum inter modum constituendae
dotis et corpus ignotum differentia magna sit: dotis enim quantitatas pro modo facultatium patris et dignitate mariti constituti
potest. C. SANFILIPPO, Corso, cit., 88, adduce quale spia
di interpolazione dal punto di vista formale la presenza di nec videri senza il dativo del termine di paragone e
la superfluità del constataret. Non sarebbe, poi, logicamente coerente arbitrio quoque detracto perché ritenendo
non apposta la menzione dell’arbitrium nella stipulatio,
la obbligazione dotale risulterebbe assolutamente indeterminata, e quindi nulla. Il richiamo alle facultates
del debitore e alla dignitas del creditore sarebbero, invece, dei compilatori. F. GALLO, invece, Nuovi spunti,
cit., 584, ritiene il frammento sostanzialmente genuino. Vedi B. WINDSCHEID, Diritto delle Pandette, trad. C.
Fadda e E. Bensa, II, Torino 1904, 519 nt. 4; G. BESELER, Miszellen, in ZSS, 1925, 443; S. RICCOBONO,
L’‘arbitrium boni viri’ nei fedecommessi, in Mélanges Cornil,
II, Gand, 1926, 314.
98
Imp. Alexander A. Claudio (a. 231): Frustra existimas
actiones tibi competere, quasi promissa dos tibi nec praestita sit,
87
TSDP – IV 2011
l’effettiva decisione del terzo è, infatti, presupposto indispensabile. Diversamente, in
materia di legato indeterminato di dote, i vincoli derivanti dall’officium del tutore, nonché
l’esistenza di criteri inequivocabili rendono,
quasi automatica, la determinazione della dote. La diversa soluzione offerta dal giurista in
materia di dote costituisce, invero, un’ulteriore conferma dell’obbiettività dei criteri individuati da Celso attraverso l’osservazione della
prassi sociale.
Accogliendo l’opinione del Grosso110, secondo il quale: «tutta questa materia (arbitrium
boni viri) veniva elaborandosi in rapporto ai
singoli negozi, alle loro esigenze, al carattere
dei giudizi, anche attraverso notevoli divergenze di opinioni fra i giureconsulti», devono
rilevarsi alcune peculiarità che sembrano caratterizzare l’opinione celsina. Il giurista pare,
infatti, distinguersi non solo per la semplice
presenza di un riferimento all’arbitrium boni viri
o per il riferimento al soggetto cui è demandata la determinazione della prestazione111, ma
110
Obbligazioni3, cit., 104.
Infatti, nei testi celsini emerge sempre, in qualche
modo, l’importanza delle qualità personali o, comunque, del rapporto tra i soggetti dell’obbligazione: Pater-tutor-mulier;Titius-socii-societas. La rilevata connessione (LENEL, Palingenesia, cit., 116) tra D. 17.2.75 e D.
111
M.T. NICOTRI – De dote quantitate
86
Cels. 15 dig. D. 17.2.75 Si coita sit societas ex
his partibus, quas Titius arbitratus fuerit, si Titius
antequam arbitraretur decesserit, nihil agitur; nam id
ipsum actum est, ne aliter societas sit, quam ut Titius
arbitratus sit.
Celso vincola l’efficacia del contratto di
società all’effettiva determinazione delle quote
sociali da parte di Tizio; dunque, se Tizio
muore prima di determinare le quote sociali il
contratto è inefficace. Il giurista ha un atteggiamento più cauto rispetto a quello assunto
da Proculo109; egli, infatti, non ammettendo
che la decisione di Tizio possa essere sostituita da quello che avrebbe deciso un bonus vir,
valorizza la circostanza che la determinazione
sia rimessa ad uno specifico soggetto. Vengono così in rilievo i rapporti tra a.b.v. e arbitrium
di un individuo determinato; per Celso
l’‘arbitrium boni viri’, cit., 549: «sembra di poter sostenere ... che la riduzione all’arbitrium boni viri vada interpretata come sostituzione del criterio obbiettivo
alla determinazione del terzo designato, per cui
l’efficacia decisiva del criterio oggettivo non viene
meno anche in mancanza di determinazione del terzo;
qualora invece la riduzione si limiti ad una semplice
correzione di una determinazione ingiusta, la determinazione della persona designata rimane presupposto indispensabile».
109
D. 17.2.76; 78; 80.
75
TSDP – IV 2011
cum neque species ulla nec quantitas promissa sit, sed hactenus
nuptiali instrumento adscriptum, quod ea quae nubebat dotem
dare promiserit. La dicotomia tra le opinioni espresse
con riferimento a questo rescritto possono essere efficacemente sintetizzate attraverso il rinvio alle tesi
elaborate da Albertario e Gallo. Secondo l’ALBERTARIO, Promessa, cit., 345 s.; L’‘arbitrium’ , cit., 292 s.,
questo rescritto sarebbe l’unico genuino in materia,
attraverso tale testimonianza l’autore ricostruisce il
pensiero dei classici e giudica interpolati tutti gli altri
testi che al fine di far salva l’obbligazione rinviano
all’a.b.v. Gallo, invece, Nuovi spunti, cit., 575 s., sviluppando la tesi già espressa da A. BECHMANN, Das römische Dotalrecht, cit., II, 71 ss. e C. CZYHLARZ, Das römische Dotalrecht, cit., 100 s., ritiene che nel rescritto non
siano contemplati due diversi motivi di nullità, ma
uno solo ovvero il mancato uso della stipulatio. Conseguentemente il rescritto non offre alcun elemento a
favore dell’opinione secondo cui, durante tutta
l’epoca classica, non si ammisero né la promessa né il
legato generico di dote. Secondo l’A. sarebbe, dunque, inattendibile l’impostazione dell’Albertario, il
quale aveva, invece, visto nel rescritto in esame il parametro per giudicare della classicità di ogni altro testo a noi pervenuto in materia. Secondo Gallo, nel sistema del codice, il rescritto assume un significato diverso da quello originario, 597 «Si spiega quindi come, almeno a partire dalla compilazione del secondo
Codice, i maestri bizantini siano stati concordi
nell’interpretare il rescritto di Alessandro Severo nel
senso che esso disponeva la nullità della promissio dotis,
da parte della donna, senza indicazione della species o
della quantitas. Per essi la soluzione enunciata nel re-
M.T. NICOTRI – De dote quantitate
76
ziando le incongruenze, allo stato presenti, tra
le testimonianze pervenuteci grazie all’opera
di Giustiniano.
Anche Celso partecipò a quel dialogo giuridico inerente alla possibilità di ricorrere
all’arbitrium boni viri100 nella determinazione
della prestazione, non solo come si vedrà tra
breve, in materia dotale.
scritto costituiva il logico corollario dell’esistenza, a
carico del padre, e dell’inesistenza, a carico della donna, dell’obbligo legale di costituire la dote». Cfr. S.
RICCOBONO, ‘Traditio’, cit., 180 s. Secondo Riccobono la decisione di Alessandro Severo (C. 5.11.1) negava l’azione per la dote in quella fattispecie, ma ciò
solo perché: hactenus nuptiali instrumento adscriptum. Secondo l’A. Giustiniano avrebbe aggiunto una nuova
motivazione al rescritto la frase: cum neque species ulla
nec quantitas promissa sit. G. GROSSO, Obbligazioni3, cit.,
137 s., invece, distingue la promessa del padre dalla
promessa della figlia.
99
Imp. Gordianus A. Claudio (a. 240): Si cum ea quae
tibi matrimonio copulata est nuberet, is cuius meministi dotem
tibi non addita quantitate, sed quodcumque arbitratus fuisset
pro ea daturum se rite promisit et interpositae stipulationis fidem non exhibet, competentibus actionibus usus ad repromissi
emolumentum iure iudiciorum perveniens: videtur enim boni
viri arbitrium stipulationi insertum esse. Per la bibliografia
su questo rescritto vd. ntt. 96, 97 e 98. Vd. F. GALLO,
Nuovi spunti, cit., 597 s.
100
Sul tema vd. F. BONIFACIO, voce Arbitrio e Arbitratore in diritto romano, in NNDI, I, Torino, 1958, 927 s.
85
TSDP – IV 2011
dal seguente frammento107, in tema di società108:
107
Sul fr. vd. G. GROSSO, Obbligazioni3, Torino, 1969,
100 s.; P. VOCI, Le obbligazioni, cit., 207; G.P. SOLINAS, A proposito dell’‘arbitrium boni viri’, cit., 547 s.; F.
GALLO, La dottrina di Proculo e quella di Paolo in materia
di arbitraggio, in Studi Grosso, III, Torino, 1969, 479542.
108
Inoltre per ragioni di completezza si riferisce
dell’esistenza di un altro testo celsino, escerpito dai
libri Digestorum, in materia di promissio iurata liberti, anche questo fr. si occupa di arbitratus: Cels. 12 dig. D.
38.1.30 pr.: Si libertus ita iuraverit dare se, quot operas patronatus arbitratus sit, non aliter ratum fore arbitrium patroni
quam si aequum arbitratus sit. Et fere ea mens est personam
arbitrio substituentium, ut, quia sperent eum recte arbitraturum, id faciant, non quia vel immodice obligari velint. La
promessa è valida se il patrono aequum arbitratus sit, la
richiesta delle opere deve quindi limitarsi al giusto e al
normale. Cfr. G. LAVAGGI, Nuovi studi sui liberti, in
Studi De Francisci, II, Milano, 1956, 82; G. GROSSO,
Obbligazioni3, cit., 101 s.; G.P. SOLINAS, A proposito
dell’‘arbitrium boni viri’, cit., 548 nt. 23; E. ALBERTARIO,
Promessa generica e legato generico di dote, in PUC, 1924,
11, ora in Studi di diritto romano, III, Milano, 1936, 296,
ritiene il frammento interpolato. Sembra venire in rilievo il particolare rapporto patronus-libertus. Ricordiamo, infatti, che anche dopo la liberazione si conserva
un legame tra il liberto e il patronus, legame che impedisce che lo schiavo liberato possa essere considerato
un extraneus. Cfr. inoltre R. QUADRATO, voce Rappresentanza (dir. rom.), in Enc. Dir., XXXVIII, Milano,
1983, 429. Secondo G.P. SOLINAS, A proposito del-
M.T. NICOTRI – De dote quantitate
84
sua capacità di valutare gli interessi della famiglia e dei singoli, surrogando, così, come si ricordava trattando dell’istituto tutelare, la patria
potestas.
Invero, il ricorso all’arbitrium boni viri è
possibile proprio perché sono rinvenibili dei
criteri oggettivi106 che rendono, quanto meno
mediatamente, determinata la prestazione. Da
quanto detto, emerge in maniera decisa che è
possibile rimettere la determinazione della dote all’arbitrium tutorum, proprio perché sono
rinvenibili dei criteri oggettivi. Questa lettura
del frammento è, peraltro, perfettamente coerente con la soluzione prospettata in D.
23.3.60. Possiamo ottenere un’ulteriore conferma di quanto abbiamo fin qui ipotizzato
106
Possiamo ipotizzare l’esistenza di un percorso evolutivo teso ad individuare dei criteri obiettivi: tale
processo potrebbe sovrapporsi idealmente a quello
che ha caratterizzato l’istituto della manumissio cum amico, infatti, l’esistenza di criteri obiettivi nella determinazione della sfera degli amici impedisce lo sfruttamento del liberto (Cfr. B. ALBANESE, L’‘amicitia’ nel
diritto privato romano, in Jus, XIV, 1963, ora in Scritti
Giuridici, I, 319). Da rilevarsi, però, una fondamentale
differenza; ovvero mentre per la manumissio esistevano
dei criteri precisi, definibili in modo certo, lo stesso
non poteva dirsi per la quantità della dote, da qui
l’affastellarsi delle opinioni dei giuristi classici.
77
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Fin da subito, mi preme precisare che non
mi occuperò, in modo specifico, dell’annoso
dibattito in tema di arbitrium boni viri, quanto,
piuttosto, dell’opinione celsina e del riferimento a tale principio nella determinazione
della misura della dote. Non mancherò, ad
ogni modo, di far riferimento ad alcune testimonianze celsine estranee alla materia dotale,
ma utili nella ricostruzione dell’opinione del
Nostro.
Con riferimento ai frammenti oggetto del
presente studio, occorre, in primo luogo, sintetizzare l’esito dell’approfondimento di D.
23.3.60.
Come abbiamo ampiamente dimostrato,
anche attraverso il confronto con fonti esterne alla Compilazione giustinianea, non è aliena al periodo classico l’idea che il matrimonio
rappresenti lo strumento atto a costituire
un’alleanza, in tale contesto la dote rappresenterebbe il mezzo attraverso il quale, anche a
seguito di una comparazione101 del peso so101
Cfr. D. 39.5.31 pr.= Vat. Fragm. 253b (... an autem
maritalis honor et affectio pridem praecesserit, personis comparatis, vitae coniunctione considerata perpendendum esse respondi: neque enim tabulas facere matrimonium); D. 34.9.16.1.
Cfr. E. ALBERTARIO, ‘Honor’, cit., 197 ss., R. ASTOLFI,
‘Femina probosa concubina, mater solitaria’, in SDHI,
XXXI, 1965, 43 s.; La ‘lex’, cit., 33 s.; G. CASTELLI, Il
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78
cio-economico delle due famiglie, se ne regolano i rapporti.
La fattispecie descritta, nel fr. in analisi, è
la seguente: un padre lega alla propria figlia la
dote affidandone la determinazione all’arbitrato dei tutori. Ci si interroga a questo punto
sulla validità di tale costituzione di dote, Tuberone102 risponde affermativamente all’interrogativo e a questa tesi sembra aderire Celso;
Labeone chiede quanta dos possa essere costituita; la risposta non sembra essere difficile ex
dignitate, ex facultatibus, ex numero liberorum testamentum facientis aestimare. In questo caso, notiamo subito la presenza di un ulteriore criteconcubinato e la legislazione augustea, in Scritti Giuridici, Milano, 1923, 62 s.; C. CASTELLO, In tema di matrimonio e
concubinato nel mondo romano, Milano, 1940, 186; A. EHRHARDT, ‘Consortium omnis vitae’, in ZSS, LVII, 1937,
364; R. ORESTANO, La struttura giuridica del matrimonio
romano, in BIDR XLVII, 1940, 348; in BIDR LV-LVI,
245; A. SICARI, ‘Leges’, cit., 229 nt. 67; S. SOLAZZI, Attorno ai ‘caduca’, in Scritti di diritto romano, IV, Napoli,
1963, 345; ‘Consortium omnis vitae’, in Scritti di diritto romano, III, Napoli, 1960, 315 nt. 10.
102
Vd. F. CASAVOLA, Giuristi, cit., 122: «Celso è un
lettore ammirato di Tuberone. Di tredici citazioni e
frammenti tuberoniani superstiti, ben cinque li dobbiamo a Celso». Sul legame del giurista con la tradizione giuridica più antica cfr. M. BRETONE, Note minime, cit., 336.
83
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ni viri, così si riempie di contenuto questa
formula cui, più volte, ricorre la giurisprudenza classica, sia nel caso di negozi di buona fede, sia nel caso di negozi peculiari come la dote, per far salva un’obbligazione che sarebbe,
altrimenti, indeterminata. Ancora una volta,
viene in rilievo il particolare ruolo del tutore,
la fiducia che lo lega al testatore105, nonché la
contribuire effettivamente al sostegno del’economia
familiare. È importante che nell’intenzione delle parti
sussista il nesso dote-oneri del matrimonio, pur esistendo la possibilità, come nel caso esaminato in D.
23.4.11, che il marito non goda in concreto della dote
(cfr. M. MAGAGNA, I patti, cit., 78). Dunque, deve ritenersi che questi criteri siano il frutto di una interpretazione giurisprudenziale cui contribuì certamente anche Celso piuttosto che il frutto di un esclusivo intervento dei compilatori ispirato al favor dotis.
105
P. FREZZA, ‘Ius gentium’, in RIDA, II, 1949, 288
«Nel secondo caso la possibilità della decisione arbitrale è ammessa, a differenza che nel primo, perché la
fattispecie consente la ricerca di un criterio oggettivo
di decisione: presenza di tutori (testamentari) di fiducia del testatore e non direttamente interessati nel patrimonio ereditario. Labeone approfondisce la ricerca,
suggerendo gli elementi da tener presenti nell’arbitrato. La conseguenza dell’aver ammesso l’arbitrium
boni viri è, se non m’inganno, la possibilità di non parere
all’arbitrato iniquo; e questa possibilità trovava verosimilmente la sua protezione giudiziale nell’accusatio
suspecti tutoris».
M.T. NICOTRI – De dote quantitate
82
rescritto è adeguatamente motivato con riferimento
alla pietas paterna ed alla voluntas contrahentium (torna
quindi il criterio che Ulpiano aveva già introdotto per
i patti in generale in D. 2.14.7.8). Una diversa opinione avrebbe separato i frutti della dote dagli oneri del
matrimonio, così da rendere la dote come non costituita. Dall’interpretazione adeguatrice effettuata dal
principe scaturiscono le seguenti conseguenze: se vi è
scioglimento del matrimonio per morte della donna o
per divorzio non imputabile alla stessa nulla si potrà
esigere dal pater; morto quest'ultimo durante il matrimonio la dote potrà essere pretesa. Il pericolo dell’inesistenza della dote è aggirato da un’interpretazione più favorevole; l’imperatore sceglie di alterare il
significato letterale del patto, presumendo così, a prescindere da un qualsiasi accertamento effettivo della
volontà, che le parti volessero che la dote ci fosse. I
criteri ermeneutici cui si ricorre sono due: la pietas paterna e la voluntas contrahentium. La pietas paterna richiama i doveri familiari, quell’officium che compete al
padre di dotare la figlia affinché possa sposarsi; in ragione di ciò, secondo l’id quod plerumque accidit, in ossequio ai costumi cittadini si ritiene, si presume, che la
volontà delle parti fosse quella di costituire la dote.
L’imperatore diventa interprete della verità verosimile
(Cfr. P. VOCI, voce Interpretazione del negozio giuridico
(dir. rom.), in Enc. dir., XXII, Milano, 1972, 259 ss.). I
pacta de non petendo, in alcuni casi, separano la dote dagli onera matrimonii, svilendo la causa dotale; il patrimonio dotale non è più idoneo al proprio scopo; la
donna è quasi indotata. Dall’interpretazione offerta da
Ulpiano si intravede quanto rilevasse per l’ordinamento che l’intenzione dei contraenti fosse quella di
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rio, che manca, invece, in D. 23.3.60: il numerus liberorum103. L’aggiunta appare giustificabile
con le diverse circostanze che caratterizzano il
caso esaminato dal giurista. Celso, ricordando
in qualche modo le opinioni di Tuberone e di
Labeone, tiene conto delle peculiarità che caratterizzano le vicende successorie. In altri
termini, il tutore per rispettare i doveri inerenti al suo officium, ovvero nel salvaguardare le
ragioni della famiglia, preservando anche, per
così dire, le possibilità per la donna di concludere un matrimonio consono alla sua posizione e alle sue sostanze, dovrà tenere in debito
conto anche il numero dei figli, garantendo
che la ripartizione delle sostanze rispetti la volontà, verosimile, del pater. Il tutor deve ricorrere agli stessi criteri cui farebbe riferimento il
pater che secondo un’idea innata di affectio paterna non farà alcuna differenza tra i propri
discendenti104. In ciò si sostanzia l’arbitrium bo103
Vd. F. GALLO, Nuovi spunti, cit., 585, secondo l’A.
le differenze che si riscontrano in D. 32.43 e
23.3.69.4, ovvero l’assenza del riferimento, nel fr. papinianeo, al numerus liberorum, sarebbe dovuta ad una
evoluzione, sarebbero cambiati i criteri di determinazione tratti dal costume.
104
Sull’affectio e sulla parità di trattamento riservata ai
discendenti, cfr.: Tryph. 9 disp. D. 23.2.67.1: De uno
dubitari potest, si avus tutelam gessit neptis ex filio emancipato
natae, an nepoti ex altero filio eam collocare possit sive emanci-
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80
pato sive manenti in potestate, quia par affectionis causa suspicionem fraudis amovet. sed etsi senatus consultum stricto iure
contra omnes tutores nititur, attamen summae affectionis avitae
intuitu huiusmodi nuptiae concedendae sunt; sull’argomento
vd. A. SICARI, ‘Leges’, cit., 234 s. Invero, la pietas paterna o affectio paterna emerge spesso in materia matrimoniale e dotale. A questi criteri interpretativi fa riferimento anche Alessandro Severo, con riferimento ai
pacta de non petendo. Ulpiano approfondisce il caso di
un patto de non petendo apposto ad una costituzione
obbligatoria di dote (Ulp. 34 ad ed. D. 23.4.11): Cum
pater dotem [pollicitus fuerit] <promiserit> et paciscatur, ne se
vivo petatur neve constante matrimonio dos petatur, ita pactum
interpretandum Divus Severus constituit, quasi adiectum esset
se vivo: hoc enim ita accipiendum esse contemplatione paternae
pietatis et contrahentium voluntatis, ut posterior quoque pars
conventionis ad vitam patris relata videatur, ne diversa sententia fructum dotis ab oneribus matrimonii separet quodque indignissimum est, inducat ut non habuisse dotem existimetur. quo
rescripto hoc effectum est, ut, si quidem vivo patre decesserit filia
aut sine culpa sua divorterit, omnimodo dos peti non possit,
constante matrimonio mortuo padre peti possit. (Secondo alcuna dottrina promiserit dovrebbe essere sostituito da
dixerit. Sulla tematica G. ROMANO, ‘Conventio e consensus’ (a proposito di Ulp. 4 ad ed. D.2.14.1.3), in AUPA,
XLIII, 2003, 260 nt. 71, con letteratura. Cfr. anche
Index itp., ad h.l). Il frammento descrive una promissio
dotis, con la quale il padre si obbliga a dotare la figlia,
cui si aggiunge un patto de non petendo con conceptio in
personam (ciò si rileva dalla presenza della dizione ‘se
vivo’ che rende chiaro il carattere personale dell’accordo, cfr. M. MAGAGNA, I patti, cit., 142), in base al
quale la dote non sia pretesa nei suoi confronti, fin-
81
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ché viva o durante il matrimonio. Secondo la formulazione del patto, dunque, il padre avrebbe potuto
opporre l’exceptio pacti (con riferimento ai pacta de non
petendo ed alla trasmissione della relativa eccezione
all’erede cfr. Pomp. 26 ad Sab. D. 23.4.10: Avus pactus
est, cum dotem pro nepote suscepisset, ne a se, neve, a filio dos
peteretur: ab alio vero, quam filio herede, ut dos peteretur: exceptionem conventionis filius tuendus erit: quippe heredi nostro
cavere concessum est nec quicquam obstat, quo minus certae
personae, si heres erit sibi, caveri possit: quod non idem et in
caeteris heredibus cavetur: et ita Celsus scribit. Sull’argomento vd. M. MAGAGNA, I patti, cit., 134 e dottrina
ivi citata, vd. anche G. GROSSO, L’efficacia dei patti nei
‘bonae fidei iudicia’, in Studi urb., I, 3-4, 1927, 29 ss., ripubblicato in Scritti storico giuridici, III, Torino, 2001,
58) se chiamato all’adempimento dell’atto costitutivo
di dote, in vita e per tutta la durata del matrimonio.
Ulpiano a questo punto riferisce un rescritto dell’imperatore Settimio Severo, in base al quale la seconda
parte del patto andava interpretata come se fosse presente la dizione ‘se vivo’. Ovvero, l’exceptio pacti avrebbe
potuto essere opposta durante il matrimonio solo nel
caso in cui fosse vivo il padre. Le due condizioni andavano intese, secondo l’interpretazione imperiale,
congiuntamente e non alternativamente (il patto ne dos
constante matrimonio petatur ha effetti liberatori, in quanto, sciolto il matrimonio la donna o il padre maturano
il diritto alla restituzione; il marito, infatti, a questo
punto non può più richiedere ciò che è obbligato a
restituire. Sul punto si ravvisa una analogia tra la situazione descritta in D. 23.4.11 e quella di Iav. 6 ex
Post. Lab. D. 23.4.32.1, cfr. P. BONFANTE, Corso, cit.,
439 nt. 3 e 4; M. MAGAGNA, I patti, cit., 55 nt. 87). Il