testimoni di speranza - Arcidiocesi di Lucca

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TESTIMONI DI SPERANZA
L’ATTENZIONE ALLA PERSONA NELL’OTTICA DEL NUOVO ANNUNCIO
LUCCA - SABATO 1 MARZO – 9-13
(GIUSEPPE PASINI)
Premessa
Sono veramente soddisfatto di ritornare a Lucca dopo tanti anni. Mi lega a questa Diocesi
la conoscenza affettuosa con due Vescovi di anni lontani, l’amicizia con Don Bruno
Frediani, con il quale abbiamo lavorato per anni alla Caritas Italiana, e tanti appuntamenti
con il mondo del volontariato.
Nel tema assegnato alla mia riflessione colgo tre parole essenziali: testimonianza,
speranza, attenzione alla persona.
I. La testimonianza
- La “testimonianza” ha assunto, nel corso degli ultimi decenni, un particolare rilievo nelle
programmazioni pastorali della Chiesa italiana e di numerose chiese locali.
- Le ragioni che hanno condotto la Chiesa ad insistere su questa dimensione della vita
cristiana sono ben sintetizzate in un passaggio della nota della CEI, uscita dopo il
convegno di Verona:
“La via della missione ecclesiale più adatta al tempo presente e più comprensibile per i nostri
contemporanei, prende le forme della testimonianza personale e comunitaria; una testimonianza
umile e appassionata radicata nella spiritualità profonda e culturalmente attrezzata, specchio
dell’unità inscindibile tra una fede amica dell’intelligenza e un amore che si fa servizio generoso e
gratuito” (Rigenerati… N. 11).
1. Il documento parla di una “testimonianza”… culturalmente attrezzata”. Trovo
l’inquadramento culturale presentato magistralmente nell’enciclica “Deus Caritas
Est”. Il Papa dà una dignità teologica ad un cammino già percorso dalla Caritas fin
dalle origini.
- Il punto di partenza è l’identità di Dio. Dalla rivelazione sappiamo che Dio è Agape,
amore gratuito. Dio ci ama, ci vuol bene.
Agape è il nome proprio di Dio e la bella notizia è che “Dio ha tanto amato gli
uomini, da dare il suo Figlio Unigenito, affinché chiunque crede in Lui non perisca,
ma abbia la vita eterna” (Gv. 3,16).
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Questa notizia è il cuore dell’evangelizzazione comunicata direttamente da Gesù, e
quindi anche di quella affidata alla Chiesa. Essa viene comunicata attraverso tre
strade privilegiate.
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l’annuncio verbale, ossia il racconto di quello che Gesù ha fatto e detto;
•
i segni sacramentali: “Fate questo in memoria di me”
•
la testimonianza: fate vedere nel vostro amore reciproco, come ama Dio: “Da
questo vi riconosceranno tutti che siete miei discepoli, dal vostro amore
reciproco” (Gv. 13,35).
- Benedetto 16° fa una precisazione importante: “I tre compiti si presuppongono a vicenda
e non possono essere separati l’uno dall’altro”… (DCE 25).
“La testimonianza (l’esercizio della carità) è uno degli ambiti essenziali della Chiesa, insieme con
l’amministrazione dei Sacramenti e l’annuncio della Parola. Praticare l’amore… appartiene alla sua
essenza, tanto quanto il servizio deI Sacramenti e l’annuncio del Vangelo. La Chiesa non può
trascurare il servizio della carità, così come non può tralasciare i Sacramenti e la Parola” (DCE 22).
2. La nota della CEI comprende inoltre una seconda affermazione “La via della
missione della Chiesa più adatta al tempo presente e più comprensibile per i nostri
contemporanei è la testimonianza”.
Questa sottolineatura ci aiuta a capire le ragioni di questa forte accentuazione della
testimonianza.
 Una prima ragione è legata alla sensibilità dei nostri contemporanei. Ne aveva
parlato già Paolo VI, nell’enciclica “Evangelii Nuntiandi”, dove constatava che “Gli
uomini del nostro tempo sono più attenti ai testimoni che ai maestri, e accettano i
maestri se sono anche testimoni“ (E.N.41). In sintesi i nostri contemporanei sono più
attenti a guardare che ad ascoltare. E’ la vita dei credenti ad indicare se la loro fede
è una cosa seria.
 C’è una seconda ragione, più congiunturale: la Chiesa è oggi nel mondo sempre
più minoranza. E’ minoranza la parte dei battezzati che vengono in chiesa, che
sono disposti ad ascoltare la Parola. Di conseguenza, la chiesa, in obbedienza al
comando del suo fondatore, sente il dovere di andare per le strade del mondo, negli
ambienti di lavoro, di studio, di divertimento, a mostrare cosa significhi aver
incontrato Cristo, la gioia, la speranza, la vita nuova, prodotte da questo incontro.
 C’è infine una ragione legata alla natura del messaggio cristiano ossia al
comunicare che Dio è Amore.
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L’amore si comunica più amando che parlando di amore. Giustamente i Vescovi,
hanno usato nel documento del decennio, non il termine evangelizzare ma
“comunicare il Vangelo in un mondo che cambia”. Al povero, al malato, alla persona
sola e disperata, interessa poco la disquisizione sull’amore, quanto piuttosto la
vicinanza sincera, l‘aiuto concreto, l’accompagnamento, la condivisione del tempo e
dei beni: tutto quello che fa loro sperimentare l’amore. E’ la strada seguita da Madre
Teresa, da Don Tonino Bello, da don Luigi Di Liegro: ed è per questo che la gente
continua a sentire vive queste figure.
3. I Vescovi, parlando della testimonianza, affermano che essa deve presentarsi oltre
che al livello personale, anche e soprattutto a livello comunitario. Anche per
l’enciclica “Deus Caritas” la Chiesa è soggetto primario della testimonianza. Non
bastano le testimonianze individuali. Non bastano nemmeno quelle delle
Congregazioni religiose o delle associazioni laicali. La testimonianza di carità
dev’essere espressione qualificante della Chiesa in quanto tale: E’ l’intera comunità
perciò che va coinvolta nella testimonianza dell’amore, così come in tutto il
cammino pastorale.
- Una testimonianza comunitaria implica una nuova valorizzazione della vocazione
dei laici: “Diventa essenziale - scrivono i vescovi – accelerare l’ora dei laici, rilanciandone
l’impegno ecclesiale e secolare, senza il quale, il fermento del Vangelo, non può giungere nei
contesti della vita quotidiana, né penetrare quegli ambienti più fortemente segnati dal processo di
secolarizzazione… Occorre pertanto creare nelle comunità cristiane luoghi in cui i laici possano
prendere la parola, comunicare le loro esperienze di vita, le loro domande, le loro scoperte, i loro
pensieri sull’essere cristiani nel mondo” (Rigenerati per una speranza N. 26).
4. Esiste infine un’ultima sottolineatura nella nota CEI: la “testimonianza dev’essere
umile e appassionata”, giacché l’oggetto della testimonianza è Gesù Cristo stesso,
e il suo amore. Il compito di rendere Dio credibile in questo mondo non è facile ed
esige un grosso cambiamento di vita e anche un cambiamento nelle modalità di
rapporti, superando tristi esperienze passate. Il Card. Ratzinger poche settimane
prima della sua elezione, aveva affermato che “la testimonianza negativa dei
cristiani che parlavano di Dio e vivevano contro di Lui, ha oscurato l’immagine di
Dio e ha aperto le porte dell’incredulità” (Rigenerati N. 29).
Una testimonianza comunitaria di questo tipo esige la presenza di “uomini che
tengano lo sguardo diritto verso Dio, imparando da lì la vera umanità” (Rigenerati N. 29),
che si lascino così penetrare dall’amore di Cristo, per saperlo poi tradurre nella vita
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e nei rapporti quotidiani, senza tradire nessuna delle sue caratteristiche essenziali:
il dono di sé, lo spirito di servizio, la compassione, l’universalità e la scelta
preferenziale degli ultimi, l‘impegno promozionale e liberante, la nonviolenza, la
capacità di perdono, la gratuità.
- Mi ha colpito ad es. quanto Benedetto 16° scrive a proposito della gratuità, nella
sua prima enciclica: “La carità non dev’essere un mezzo in funzione del cosiddetto
’proselitismo’. L’amore è gratuito, non viene esercitato per altri scopi…. Chi esercita la carità in
nome della Chiesa, non cercherà mai di imporre agli altri la fede della Chiesa. Egli sa che l’amore,
nella sua purezza e nella sua gratuità è la migliore testimonianza del Dio nel quale crediamo e dal
quale siamo spinti ad amare. Il cristiano sa quando è tempo di parlare di Dio e quanto è il tempo di
tacere di Lui e di lasciare parlare solamente l’amore” (Deus Caritas Est N. 31/c).
Ora passiamo al secondo termine della riflessione: Testimoni di speranza.
II. La Speranza
C’è stata una felice coincidenza fra il tema del 4° Convegno della Chiesa Italiana
“Testimoni di Cristo Risorto speranza del mondo” e la seconda enciclica di Benedetto 16°
“Spe salvi (facti sumus)”.
Sappiamo che Cristo è speranza del mondo perché è “risorto e vivo”: la sua risurrezione è
il fondamento della speranza, giacché celebra il ‘trionfo finale del bene’, della solidarietà,
della giustizia, della pace.
Ma su questa prospettiva di speranza è necessario scavare, evidenziandone tutta
l’ampiezza e la potenzialità, ed eliminando ogni equivoco. In questo ci aiuta il Papa con il
suo acume teologico e con la sua carica sapienziale. Tre aspetti in particolare
dell’enciclica considero pertinenti per la presente riflessione: il rapporto tra futuro e
presente, il carattere personale e comunitario della speranza, le ricadute della speranza
nella trasformazione del mondo.
1. Speranza tra futuro e presente
Nel pensiero diffuso anche tra cristiani, la parola speranza richiama istintivamente una
realtà futura che entrerà in funzione quando terminerà il presente, al termine della vita,
nell’al di là. Sembra che il presente non venga coinvolto. E’ questa visione limitata,
‘futurista’ che ha offerto il pretesto al marxismo di presentare la fede come alienazione,
‘oppio del popolo’.
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Il Papa chiarisce che la speranza cristiana garantirà in cielo un incontro con Dio totale,
definitivo e irreversibile. Ma questa certezza incide anche nel presente e ne determina le
scelte: “Il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto e accettato, se
conduce verso una meta e se questa è così grande, da giustificare la fatica del cammino”
(Spe n. 1).
Non è la stessa cosa vivere pensando che con la morte tutto finisce e vivere sapendo che
la morte è un passaggio verso l’eternità.
Il contenuto della speranza è sintetizzabile in tre verbi: Cristo risorto è vivo, mi ama, mi
attende. Il centro di tutto è: “Mi ama”. La speranza è fondata sull’amore definitivo. E’
questo il legame fra il futuro e il presente. “Non è la scienza che redime l’uomo, l’uomo
viene redento mediante l’amore” (Spes s. N. 26).
Continua il Papa: “Quando uno fa l’esperienza di un grande amore, quello è un momento di
“redenzione”, che da un senso nuovo alla sua vita… ma ben presto egli si renderà conto che quell’amore
resta fragile. Può essere distrutto dalla morte. L’essere umano ha bisogno dell’amore incondizionato… Se
esiste questo amore assoluto, allora l’uomo è veramente ‘redento’, qualunque cosa gli accada” (Spe s. n.
26).
- Il S. Padre porta l’esempio della schiava sudanese Bakita, canonizzata da Giovanni
Paolo II. Rapita a nove anni da trafficanti di schiavi, picchiata a sangue e venduta cinque
volte nei mercati del Sudan. Da ultimo, come schiava, fu comprata da un mercante
italiano, per conto del Console italiano Callisto Legnani che la portò in Italia. Qui incontrò
la fede nel Dio di Gesù Cristo. “Dopo tanti padroni così terribili che la disprezzavano e
maltrattavano, incontrò un padrone totalmente diverso, da cui era amata e attesa. Ora lei
aveva la “speranza”, non la piccola speranza di trovare Padroni meno crudeli, ma la
grande speranza di appartenere totalmente all’amore”
(Spe Salvi n. 3).
Da quel momento
Bakita divenne per tutta la vita, testimone di speranza.
- Il discorso di Benedetto 16° sulla Grande Speranza non deve essere inteso come
disprezzo per le speranze umane. Anzi noi che siamo testimoni della Speranza, abbiamo il
dovere di sostenere e favorire le speranze umane: quelle relative alla salute, allo studio, al
lavoro, alla casa, alla possibilità per tutti di costruire una famiglia, al bisogno di stima, di
compassione. Diventeremo così strumenti della Provvidenza di Dio. Dobbiamo però tutti
autoeducarci a saldare le piccole speranze alla Grande Speranza.
Scrive il S. Padre: “Noi abbiamo bisogno delle speranze piccole o grandi – che giorno per giorno ci
mantengono in cammino. Ma senza la grande speranza, esse non bastano. Questa grande speranza può
essere solo Dio, non un qualsiasi Dio, ma quel Dio che possiede un volto umano e ci ha amati sino alla fine”
(31).
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Solo questa speranza–certezza di essere custoditi dall’amore può darci il coraggio di
proseguire, anche quando la nostra vita personale e la storia sono segnati da fallimenti.
2. La speranza bene personale e comunitario
Una seconda sottolineatura dell’enciclica riguarda la dimensione comunitaria e sociale
della Speranza.
Il Papa afferma: “Questa vita vera, verso la quale cerchiamo di protenderci è legata all’unione
esistenziale con un “popolo” e può realizzarsi per ogni singolo all’interno di questo “noi”. Essa presuppone
dunque “l’esodo dalla prigionia del proprio io”, perché solo nell’apertura a questo soggetto universale si apre
anche lo sguardo sulla fonte della gioia e dell’amore, su Dio” (Spe salvi 14).
- Perché questa insistenza sul carattere comunitario della speranza?
Perché c’è il rischio di una privatizzazione della salvezza, mentre “nessun uomo è una monade
chiusa in se stessa. Nessuno vive da solo. Nessuno pecca da solo. Nessuno viene salvato da solo. La mia
vita entra in quella degli altri nel male come nel bene” (N. 14).
- Il rischio però più pesante – ricorda il Papa – di questa interpretazione individualistica e
spiritualistica della speranza, presente anche in molti cristiani devoti, sta nell’interpretare la
salvezza dell’anima come fuga dalla responsabilità della società e implicitamente come
rifiuto di servizio agli altri (13).
Nella conclusione dell’enciclica Benedetto XVI sintetizza questa ottica comunitaria della
speranza così “La nostra speranza è sempre essenzialmente anche speranza per gli altri. Così essa è
veramente speranza anche per me. Da cristiani non dovremmo mai domandarci solamente: come posso
salvare me stesso? Dovremmo domandarci anche: che cosa posso fare perché gli altri vengano salvati?
Allora avrò fatto il massimo anche per la mia salvezza personale” (Spes Salvi 48).
3. Una speranza che cambi le persone e poi le strutture
Di fronte ad una società strutturalmente ingiusta, chi vive nella Speranza, ha l’obbligo di
intervenire, cambiando sia la cultura e le strutture, sia le persone e i meccanismi
economici, politici, burocratici.
Il Papa ricorda che i cambiamenti non finiscono mai, giacché la libertà umana può sempre
svuotare e isterilire l’efficacia dei traguardi raggiunti. Perciò “ogni uomo, ogni generazione
dev’essere sempre un nuovo inizio” (24).
- La priorità e la garanzia di durata va data naturalmente alle persone. La rivoluzione
portata dal cristianesimo prioritariamente non passa attraverso l’abbattimento delle
strutture ma attraverso la conversione delle persone e l’interiorizzazione della fede e della
speranza.
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E il Papa commenta: “Le buone strutture sono importantissime, anzi necessarie. Ma esse funzionano
solo se in una comunità sono vive delle convinzioni che siano in grado di motivare gli uomini a dare una
libera adesione all’ordinamento comunitario” (24/a).
Il rovesciamento delle strutture non serve, quando non cambiano le persone; viceversa il
cambiamento delle persone porta gradualmente al cambiamento delle strutture “Le buone
strutture aiutano ma da sole non bastano. L’uomo non può mai essere redento semplicemente dall’esterno”
(25).
Queste ultime sottolineature ci aiutano ad approfondire il terzo elemento della nostra
riflessione: il servizio alla persona. La testimonianza di speranza infatti spiove sul servizio
alla persona. Quali sono oggi gli aspetti del vivere sociale, che maggiormente reclamano
l’attenzione alla persona?
III. IL SERVIZIO ALLA PERSONA
Parlare di servizio alla persona equivale a porre la persona umana al centro della vita
sociale, quindi della scienza dell’economia, della politica, dell’organizzazione dei servizi,
dei rapporti internazionali… e, naturalmente, anche della vita religiosa ecclesiale.
Oggi il cittadino dispone di una rete di servizi più fitta che in passato: sanità, assistenza,
scuola, trasporti, poste, telefoni, nettezza urbana, sicurezza ecc.. Si potrebbe dire che
siamo circondati da servitori. Eppure, mai come nel nostro tempo, la gente si sente
insicura, malservita, quasi tradita nelle proprie aspettative. Le ricorrenti denunce di
scandali e le scoperte di profittatori aumentano il senso diffuso di sfiducia e di impotenza,
e, insieme, accrescono il desiderio di rifondare la società su basi nuove, più umane,
partendo appunto dalla centralità della persona.
- Penso che ogni comunità di credenti debba interrogarsi sul problema e sul contributo che
essa può dare al cambiamento, conservando e diffondendo il senso della speranza.
Seguendo l’insegnamento delle due ultime encicliche, si possono cogliere alcune
indicazioni che come cristiani possiamo offrire a questa prospettiva: educarci al servizio
alla persona nella vita quotidiana, assicurare un’attenzione preferenziale alle persone più
deboli, saldare la solidarietà spontanea con la giustizia.
1. - Il servizio alla persona nella vita ordinaria
La vita ordinaria è lo spazio accessibile a tutti, dove ognuno può contribuire a rendere la
convivenza più serena e perfino gioiosa. E’ lo spazio della prossimità.
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- Prossimità di famiglia anzitutto: trattando i familiari con rispetto, preferendo il
convincimento alla prova di forza; abituandoci a ringraziare, a chiedere scusa quando
abbiamo offeso o umiliato; rendendoci disponibili all’ascolto, praticando la generosità nella
rinuncia ad es. un programma televisivo o a soddisfare un desiderio dell’altro.
- Prossimità nella vita civica: rispettando i diritti degli altri, ad es. evitando di occupare
abusivamente i posti riservati agli invalidi; moderando il volume della radio o della
televisione per non disturbare il riposo notturno dei condomini; evitando di usurpare la
precedenza agli sportelli degli uffici o alle rotonde delle strade; usando i cestini dei rifiuti
per non sporcare le strade e gli ambienti comuni. In sintesi siamo invitati ad attuare la
massima: “Non fare agli altri quello che non vorresti che gli altri facessero a te”.
In positivo, la prossimità ci stimola a coltivare rapporti umani tra coinquilini del caseggiato:
il saluto, il sorriso, le piccole attenzioni, che rompono l’isolamento e impediscono
l’estraneità; rendersi disponibili per piccoli servizi (il passaggio in auto, il pagamento delle
bollette della luce per anziani che hanno difficoltà a muoversi, l’accompagnamento del
bambino della vicina di casa alla scuola materna.
Si tratta in sintesi di adattare alle varie situazioni di vita il principio tradizionale: “Fa agli
altri quello che vorresti gli altri facessero a te”.
In maniera più stringente, la centralità della persona, va salvaguardata quando il servizio è
dovuto per dovere professionale.
•
E’ il caso ad es. del medico o dell’infermiera nei confronti del malato: trattano alla
stessa maniera - con uguale diligenza, uguali tempi di attesa, uguali riguardi per i
familiari – i malati che si presentano nelle strutture pubbliche e quelli che accedono
alle strutture private a pagamento?
•
E’ il caso dell’insegnante nella scuola nei confronti degli alunni: cosa suggerisce il
senso del servizio alla persona sul piano della propria formazione permanente,
della
presenza
continuativa
dell’accompagnamento
senza
personalizzato.
Gli
assenze
alunni
che
facili
ingiustificate,
riescono
a
vedere
nell’insegnante un esempio da imitare, accrescono assieme alla propria scienza
anche la speranza nella vita e la fiducia nelle istituzioni.
•
Servire non significa fare qualcosa per gli altri, bensì fare quello che gli altri ci
chiedono o di cui oggettivamente hanno bisogno. S. Vincenzo De Paoli traduceva
queste espressioni con una frase:”I poveri sono i nostri padroni”.
2. Il servizio alla persona attraverso la scelta preferenziale degli ultimi
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Il servizio alla persona ha un’apertura universale: significa disponibilità a servire tutte e
singole le persone. Alla luce della fede tutti sono figli di Dio. Anche sulla base della
Costituzione tutti i cittadini sono uguali. Sappiamo però che nella vita concreta le persone
non vengono né percepite né trattate come uguali. Ci sono le persone fisicamente e
psichicamente autonome e quelli disabili, le persone colte e quelle analfabete, le persone
con professioni creative e quelle con ruoli puramente esecutivi e umili.
Se si vuole perseguire l’obiettivo della reale uguaglianza, è necessario riservare alle fasce
più deboli un trattamento preferenziale, Questo, oggi, non avviene a livello civile; sta
avvenendo in maniera insufficiente anche a livello ecclesiale.
- A livello civile è presente e persistente una fascia elevata di cittadini, economicamente
poveri, nonostante che il nostro Paese sia tra i più ricchi del mondo. Sette milioni e mezzo
di cittadini vivono sotto la linea della povertà: il 13% circa della popolazione italiana.
Negli ultimi anni poi è aumentato il numero di famiglie “impoverite”, cioè con reddito
insufficiente a coprire le spese ordinarie. Esse sono oggi, secondo i dati dell’EURISPES,
due milioni e mezzo. Solo alcuni anni fa’ erano non più di novecentomila.
Non è crollata la ricchezza complessiva del nostro Paese: semplicemente essa risulta
distribuita secondo criteri che creano forti disuguaglianze. Secondo i dati di Bankitalia, il
10% delle famiglie italiane possiede il 45% della ricchezza nazionale, con un incremento
del 2% registrato negli ultimi due anni. Anche il reddito dei lavoratori risulta sperequato:
dall’entrata in funzione dell’€uro, i lavoratori dipendenti hanno visto aumentare il loro
reddito solo dello 0,13%, mentre i lavoratori autonomi hanno aumentato il loro reddito del
13,1%, (43 volte in più).
Finora non si è fatto quasi nulla per combattere la povertà e molto poco è stato fatto per
ridurre le disuguaglianze. Se fossero mancati gli interventi delle Caritas e del volontariato,
la situazione dei poveri oggi risulterebbe ancora più drammatica.
- Anche a livello ecclesiale, dove pure sono numerosi e importanti gli interventi
assistenziali e promozionali a favore dei poveri, si devono registrare dei ritardi, soprattutto
nell’assunzione comunitaria di responsabilità nei confronti di chi vive nella povertà o
nell’esclusione sociale. Oggi la scelta preferenziale dei poveri da parte della Chiesa è
tanto più importante, in quanto siamo immersi in un contesto culturale che considera la
povertà come una fatalità, un dato inevitabile, quasi un tributo da pagare alla società per
garantire il suo progresso economico.
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Come può la Chiesa tradurre pastoralmente, l’opzione preferenziale per i poveri e gli
ultimi? E’ un interrogativo al quale ogni diocesi e ogni parrocchia devono dare una risposta
davanti al Signore. Tale scelta infatti caratterizza la Chiesa in quanto Chiesa di Cristo.
Io mi limito a tre suggerimenti.
- Anzitutto i primi che possono dirci se stiamo facendo o meno questa scelta sono i poveri
stessi. Essi devono poter sperimentare, nell’ambito della vita ecclesiale di essere uguali
agli altri e di venir trattati alla pari nell’ascolto, nell’amministrazione dei Sacramenti, in
particolare nei Matrimoni, nelle Prime Comunioni, nella fruizione dei servizi della Chiesa,
(scuole cattoliche, servizi sanitari, centri di assistenza) nella catechesi, nelle associazioni
sportive, educative ecc.)
- Inoltre la scelta prioritaria per essere realmente ecclesiale dev’essere realizzata
trasversalmente, cioè deve riguardare non solo le attività caritative, ma tutte le espressioni
della vita di chiesa.
Si tratta di “partire dagli ultimi” cioè di riservare ai più deboli e bisognosi un’attenzione
particolare. Cosa può significare questo ad es. nella catechesi (chi ha maggior bisogno di
annuncio?) Cosa significa nella liturgia? Cosa significa nella predicazione? (il linguaggio
usato è capito anche dalle persone meno acculturate?) Cosa significa la scelta dei poveri
nell’organizzazione del patronato? Quale incidenza ha nella composizione del Consiglio
pastorale?
- Infine la misura della vera scelta preferenziale è data dall’impegno per la promozione
umana. Per aiutare gli esclusi, bisogna creare una concreta loro inclusione. Il tipo di aiuto
e le modalità devono essere funzionali all’acquisizione dei diritti di cittadinanza anche nella
società civile. Qui però tocchiamo un aspetto nel quale i protagonisti sono soprattutto i
fedeli laici.
3. La Chiesa sale della terra nel servizio all’uomo
L’ultimo ambito di impegno ecclesiale per il servizio alla persona è quello sociale-politico.
Io mi limito ad indicare il contributo che può e deve dare la Chiesa come tale, sul piano dei
valori e dell’educazione delle coscienze.
Colgo due emergenze.
- Il primo contributo che può dare la Chiesa è aiutare i cristiani a ricuperare il senso di
appartenenza attiva alla società civile. Vedo in proposito due grosse falle: la tendenza ad
escludere dal quadro etico i doveri fiscali. Abbiamo raggiunto nel corso degli anni livelli di
evasione fiscale altissimi rispetto ala media europea.
L’Agenzia delle Entrate ha calcolato l’evasione fiscale in oltre 200 miliardi di €uro all’anno.
C’è tanta gente che considera l’evasione una pura infrazione amministrativa, da saldare
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con una multa “se ti pescano”. In realtà essa è una forma di furto alla società civile, in
quanto vengono sottratte alla disponibilità comune risorse necessarie per i vari servizi
(sicurezza, sanità, assistenza, scuola ecc.). Senza queste risorse, lo Stato è costretto a far
pagare i servizi stessi (a danno dei più poveri) oppure a ridurre i servizi essenziali.
Può darsi che i poveri riescano ad ottenere i servizi negati dallo Stato attraverso qualche
ente di beneficenza. Ma non è la stessa cosa. Quando li fornisce lo Stato, il servizio è
percepito come diritto, è una fornitura di giustizia, non una elargizione graziosa. E il
Concilio ci ricorda che non dobbiamo dare per carità quello che è già dovuto per giustizia.
La seconda falla è costituita dall’assenteismo in occasione degli appuntamenti elettorali.
In ambedue i casi è chiamato in causa il senso di appartenenza. I cristiani vanno educati a
considerare i doveri civici come espressione del dovere di solidarietà e di carità cristiana.
Sono doveri che non si compensano con le elemosine e neppure con il volontariato.
- Il secondo contributo che può offrire la Chiesa è quello di educare i fedeli ad impostare
correttamente l’esercizio della politica. Veniamo da un‘esperienza pluriennale, in cui la
politica è stata vissuta come contrapposizione frontale, in cui si è consolidato il costume di
demonizzare l’avversario politico e con lui deprezzare tutte le sue scelte e i suoi
programmi. Questo stile ha caratterizzato credenti e non credenti.
Diverso dovrebbe essere lo stile del cristiano. Prima delle proprie opinioni politiche o
ideologiche viene la verità. S. Tommaso D’Aquino affermava che “la verità, chiunque la
dica, proviene dallo Spirito Santo”, che è la fonte della verità. Conseguentemente, anche
nell’ambito politico il cristiano dovrebbe apprezzare e riconoscere quanto di vero e di
positivo ha fatto il suo avversario, anche se questo gli fa perdere qualche punto in simpatia
o qualche voto nelle elezioni.
Se questo avvenisse, il clima sarebbe più respirabile e più facilmente si attuerebbe il “bene
comune”, più facile sarebbe per politici o amministratori interrogarsi su quello che
costituisce un servizio alle persone.
A lato di questi contributi educativi si collocano all’interno dello Stato sociale, anche i
servizi realizzati dalla Chiesa. Essi dovranno avere le caratteristiche della esemplarità,
della prontezza e della profezia. Soprattutto si qualificheranno per quella che il Papa
Benedetto XVI° chiama “l’attenzione del cuore” (D.C.E 31/b) per la semplicità e l’umiltà
secondo quanto dice il Vangelo:”Quando avrete fatto tutto quello che dovevate, dite:
’siamo solo dei servitori,abbiamo fatto esattamente il nostro dovere “
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Conclusione
Testimoni della speranza. Il contesto sociale e politico nel quale viviamo esprime un
grande bisogno di speranza. Recenti indagini d’opinione hanno espresso una caduta
verticale di fiducia della gente nelle istituzioni pubbliche: si è salvato solo il Capo dello
Stato. E’ stato evidenziato anche un calo di fiducia nella Chiesa. Io non so se queste
valutazioni siano oggettive o siano il risultato di qualche manipolazione. Non possiamo
però prenderci il lusso di non essere credibili giacché ciò andrebbe a scapito del Vangelo.
La credibilità passa attraverso la testimonianza.
Lucca 01.03.2008/Testimoni Speranza Lucca
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