visualizza l`intervista
Transcript
visualizza l`intervista
R “CUENTACUENTOS” A SCUOLA Intervista a Teresa Flores Martinez, autrice di “A raccontar storie”, a cura di Giancarlo Cavinato Come raccontare storie con materiali e oggetti tradizionali. Teresa Flores Martinez è una maestra di Granada che fa parte dell’associazione di rinnovamento pedagogico MCEP (Movimento Cooperación Educativa Popular, pedagogia Freinet). Fra i suoi molteplici interessi, ha avuto la possibilità di sviluppare una passione per la narrazione di storie, introducendo nella scuola un’attività tradizionale, quella del cantastorie, cuentacuentos, ancora molto viva in Spagna. A seguito di alcuni anni di insegnamento all’estero, in Svizzera, ha avuto l’opportunità di incontrare Elisabeth Zurbriggen, animatrice di biblioteche interculturali a Ginevra, approfondendo così tecniche e modalità di narrazione presso varie culture e popoli diversi. Ha avuto così modo di verificare sul campo quanto il racconto sia transnazionale e transculturale. Al ritorno in Spagna ha introdotto nelle scuole in cui ha insegnato la funzione del narrastorie affidando a gruppi di alunni la funzione di progettare momenti e angoli per la narrazione a gruppi di coetanei o di più piccoli. L’attività non si è arrestata nella scuola ma si è via via diffusa nelle biblioteche, centri culturali, trasmissioni per ragazzi (un gruppo di alunni ha animato nel corso di un’estate un programma di storie in una TV locale). La scuola è così diventata un vero centro di promozione culturale. Una scuola che narra, con i ragazzi come protagonisti. Teresa ha animato molti laboratori e corsi di formazione per adulti non solo insegnanti ma bibliotecari, volontari in reparti pediatrici, operatori culturali e sociosanitari, educatori di strada, sia in Spagna che in altri Paesi (Italia, Romania, Bulgaria, Senegal, Russia ecc.) trasmettendo ai partecipanti, oltre all’antica sapienza del narrare in situazioni di interazione diretta, anche il piacere di farsi essi stessi formatori e narratori. Animando gruppi di ricerca adulti, è stato così possibile raccogliere materiali documentari di grande interesse sul piano storico e interculturale (per esempio un dossier sulle mille Cappuccetto Rosso). Edizioni Junior ha recentemente pubblicato nella collana “Quaderni di cooperazione educativa” il suo testo A raccontar storie. Con materiali e oggetti tradizionali presentato da lei stessa a Mestre il 29 febbraio scorso, in un incontro presso la libreria “Il libro con gli stivali” che ha visto la presenza di molti dei partecipanti ai laboratori da lei tenuti a Treviso nel 2001, nel 2003 e nel 2006. Nella sua proposta operativa si incrociano tre grandi filoni di ricerca che sono stati campi di indagine di MCE: • la cultura popolare: espressa attraverso la fiaba, la leggenda, la filastrocca, il detto, il proverbio, le storie di vita, le tradizioni legate al ciclo di vita e al ciclo dell’anno, strutture antropologiche fondamentali dell’organizzazione sociale); • la cultura materiale: l’uso di materiali naturali e strumenti quali la sabbia, la terra, la farina, il legno, la carta, la corda, materiali poveri che si prestano duttilmente a molte combinazioni e a R • costituire supporti alla narrazione attraverso operazioni quali l’annodare, l’intrecciare, il piegare, il tagliare, il lanciare, l’avvolgere, lo strappare ecc.); la cultura orale: W. Ong in Oralità e scrittura (Il Mulino, Bologna, 1987) ne individuava le caratteristiche nella vicinanza corporea, nella ripetitività delle formule, nelle ellissi, nelle pause, nel tono di voce, nel ritmo, nella gestualità, nel tono muscolare, nell’impiego di immagini e metafore ecc.). Tali aspetti si concretizzano attraverso tecniche espressive di liberazione della capacità creativa, selettiva e combinatoria e non come semplici aggregati di eventi: i riferimenti sono in Freinet, nelle sue tecniche di vita (la conversazione, il testo libero, il giornale, il libro della classe, la corrispondenza…) e in Rodari (la grammatica della fantasia, la valorizzazione del pensiero analogico accanto a quello logico, i binomi fantastici…). Le proposte didattiche contenute nel libro si configurano come una pedagogia della narrazione, in quanto percorso di: • costruzione dell’individuo; • rafforzamento dell’identità personale e culturale; • acculturazione (interiorizzazione di valori e atteggiamenti verso la realtà); • valorizzazione del ruolo delle emozioni nei processi conoscitivi. La struttura dell’opera è composta da sette unità operative ricche di suggerimenti, spunti didattici e di esemplificazioni attraverso storie: 1. narrare con le mani, le carezze, le nenie, le filastrocche, le conte; 2. narrare con le corde; 3. narrare con la carta (strappata, piegata ecc.); 4. narrare con la sabbia, le terre, realizzando “racconti in scatola”; 5. narrare con mazzi di carte da gioco e carte per la costruzione di racconti; 6. il kamishibai (teatrino giapponese); 7. la televisione di cartone. Ciascuna unità è preceduta da un inquadramento storico-culturale a cui fa seguito una esemplificazione del percorso in classe. Molte altre proposte, che non trovano spazio nell’opera, costituiscono il patrimonio di risorse cui fa ricorso l’autrice nelle sue animazioni (tappeti, grembiuli, coperte, pupazzetti con le dita, matrioske, gruppi di animali da far interagire, uso di ballate e canzoni popolari per tradurle in rappresentazioni di gruppo ecc.) e troveranno posto in un successivo lavoro. Durante il suo recente soggiorno in Italia per l’uscita del libro, abbiamo intervistato l’autrice. Ti basi su una tipologia di narrazioni? Ci sono moltissime varietà di storie, ma ogni racconto è un caso a sé, ha proprie caratteristiche e non si presta a classificazioni astratte. Sono manifestazioni di sapere popolare, difficilmente inquadrabili in schematizzazioni “colte”. Ma molte strutture narrative sono state analizzate per le complicazioni interne su cui sono costruite, ad esempio scene che si succedono, storie dentro altre storie, pause, rallentamenti… Io mi baso molto sulla narrazione orale, meno facilmente definibile: sono i bambini stessi, nell’interlocuzione con il narratore, a chiedere che le storie si complichino sempre di più. Nella nostra scuola si insegna a costruire storie utilizzando molto spesso quadri analitici quali le funzioni di Propp o lo schema attante-azione ecc. Pensi che non abbia valenza didattica una tale metodologia di “montaggio”, “smontaggio” e “rimontaggio” di testi? R Le analisi di Propp non vanno rifiutate, hanno una valenza essenziale per comprendere e accostare storie anche molto diverse e lontane nel tempo e nello spazio. Sono una specie di repertorio storico di forme dell’immaginario popolare. Ma sono, se applicate alla lettera e sistematicamente, alla fine un po’ noiose. L’assunzione di dati della ricerca teorica, anche nel caso di sistemi molto elaborati ed esplicativi, non consente di divertirsi con le storie. Chi maneggia direttamente i racconti, molti racconti, arriva alle stesse conclusioni dei formalisti o degli strutturalisti. Le analisi sono utili per i narratori come un appoggio per creare sempre nuove situazioni e storie, e ci confermano in quanto stiamo facendo. Ci sono frasi emblematiche, ricorrenti, per esempio, che creano il senso della ciclicità, della sorpresa, della magia, la suspense, che sono efficaci e funzionano da espressioni-chiave per dare il senso dell’evoluzione della storia e delle molteplici possibilità che contiene, e fanno nello stesso tempo sentire che “si sa”, si può prevedere quanto accadrà. Per esempio: “apriti sesamo!” oppure “ucci ucci sento odor di cristianucci”… Erano, e possono essere, narratrici formidabili le madri, le zie, le nonne, che un tempo narravano intorno al fuoco. Non si avvalevano di teorie, ma di un tempo di dedizione e di voglia di inventare, di variare, di rafforzare ripetendo, di giocare sulle aspettative, di far arrabbiare chi credeva che la storia avrebbe preso un piega prevedibile e invece improvvisamente ne prende un’altra. Riuscivano così a creare un pubblico assorto, che chiedeva sempre di più (“raccontamene un’altra… e un’altra ancora…”). Perché è importante narrare? Tutti abbiamo necessità di raccontare e di ascoltare i racconti altrui, narriamo via via gli eventi che ci succedono, quanto ci colpisce in positivo o in negativo. Alcuni sono noiosi e iterativi, altri, qualsiasi cosa raccontino, anche che gli è caduta la padella con la frittata sulle ginocchia, sono piacevoli: si tratta di posizioni di fronte alla vita che così emergono. Narrando si riordinano fatti, si inseriscono in copioni. Come far divertire con le storie e nello stesso tempo costruire un sapere attorno e su di esse, nella funzione conoscitiva che avevano presso le culture tradizionali? Il maestro non sarà mai un buon narratore se non perde la paura del ridicolo. La gente mi dice che io racconto perché ho questa abilità, che le stesse storie raccontate da altri non hanno l’effetto di curiosità, ricerca, emulazione che io provoco. In realtà io racconto così perché non ho riserve, non ho paura del giudizio. L’insegnante deve sapere dove e quando inserire una storia perché smuova degli stereotipi, motivi alla ricerca personale, stimoli l’espressione e la creatività. Un ruolo fondamentale ha la consapevolezza dell’importanza dell’errore. Rodari ha insegnato molto al riguardo. Una scuola che ammette l’errore, che lo rovescia in elemento positivo di riflessione sulle strategie e sulle molteplici procedure possibili per risolvere situazioni, è una scuola che prepara alla vita. È una scuola in cui si dà vita alla sedia che cade, alla borsa della maestra che si rifiuta di aprirsi, al biglietto che capita alla persona sbagliata, all’elefante nel negozio di cristallo, al problema con un solo dato che non sa che pesci pigliare… Pensi che oggi si possa tornare a narrare, al piacere di narrare e di ascoltare? La famiglia di oggi afferma di non avere più il tempo sufficiente. Ci sono però momenti in cui anche una famiglia nucleare condivide delle situazioni che possono essere utilizzate. Si tratta di situazioni che io definisco “dei racconti da sala d’aspetto”: dal medico, al supermercato, in stazione aspettando un treno, durante un viaggio, in auto lungo un percorso particolarmente noioso, momenti in cui si può inventare, dare vita a oggetti e personaggi presenti nella situazione stessa prendendo spunto dai colori e dagli assortimenti degli abiti (per esempio durante una passeggiata). Nel libro, la storia di Cintra, la bambina che passa lunghe ore da sola per gli orari di lavoro dei genitori, e che si costruisce un mondo di facce di carta, fornisce in modo indiretto alcuni suggerimenti a ai genitori dai ritmi assillanti. L’ho inventata per utilizzarla in corsi R brevi di formazione rivolti a genitori di scuola dell’infanzia e dei primi anni della primaria. Mentre si racconta, loro sono invitati a ritagliare facce, a colorarle, ad appenderle a strutture in equilibrio come certi scacciapensieri orientali, ad arricchirle con nastri, perline, fili di lana, adesivi ecc. Non è la quantità ma la qualità del tempo ad essere formativa e costruttrice di identificazioni in storie. Anche brevi momenti possono essere significativi se portatori di contenuti validi. È il problema del vivere al presente, dell’essere con, dell’esserci. Se ho venti minuti da condividere con mio figlio, li impiego totalmente, non penso ad altre cose contemporaneamente, al bucato, alla lavastoviglie, al collega di lavoro, alla spesa. Per esempio sono importanti quelli che chiamo i racconti del riconoscimento, della burla, dello scherzo, fatti di giochetti con e sulle mani, con le dita, che finiscono con una coccola (“manina bella… dove sei stata? Cos’hai mangiato? ...ato ato ato…”). Momenti in cui, riconoscendo quello che verrà, il piccolo è percorso da un brivido di piacere, pregusta il precipitare della situazione verso il gesto atteso, e quindi prolunga la sua attenzione, rievoca, anticipa… tutte operazioni che si ritroverà in seguito. Sono momenti importanti per la prossimità della pelle dei due interlocutori, per le ripetizioni che si attendono, e che costituiscono apprendimento. Chi non ha avuto la possibilità di provarli in questa fase della propria vita li dovrà recuperare in altri momenti e in altre forme: ma quando e come? È l’aspetto del racconto come terapia, come integrazione di parti di sé sconnesse. Puoi soffermarti un attimo su questo aspetto terapeutico, particolarmente delicato? Naturalmente è una terapia come arte popolare del cucire-ricucire-sanare piccole ferite inferte dalla vita, non si tratta di analisi. Affrontare attraverso storie con persone “di fiducia” temi di cui “si può” concedersi di avere paura (il deserto, la solitudine, le punture di animali, l’abbandono, la separazione, la malattia…) implica il poter dire per bocca dei protagonisti cose che non si sarebbero potute dire personalmente, che non si sarebbero confidate a nessuno. Sta qui il potere di riconoscimento di sensazioni che mai ci si sarebbe consentito di esternare. Sta qui anche l’importanza dello spazio a scuola del parlare, del narrare. È verificabile che oltre il 60% delle cose che raccontiamo sono cose che ci sono successe, eventi che ci hanno colpito, che sentiamo la necessità di affidare a qualcuno, di esternare in un ambiente rassicurante e protettivo ma che nel contempo ci aiuta a relativizzare perché sono situazioni comuni condivisibili con altri. L’ambiente dev’essere ovviamente scevro da giudizi. È un bisogno dei giovani, ma lo è di tutte le fasce di età. In questo senso è terapeutico. Il tuo è un progetto di scuola, in qualche modo, configura una identità di scuola, non solo della singola classe. La scuola può far proprio un importante progetto che dalla narrazione si estenda all’animazione alla lettura come scoperta di mondi, come avventura, come piacere, come interscambio. Le classi possono iscriversi a una biblioteca pubblica, costituire una rete, fruire di momenti di lettura significativi ma anche proporne di propri. Si inizia da racconti semplici, da qualche oggetto, come si diceva un tempo, che esce da una tasca, che è nel borsellino, che è abbandonato in un angolo, recuperando: • un contatto con i bambini che rischia di non esserci più (catturati come sono dai videogiochi, dai Nintendo, dalle PlayStation, tanto rassicuranti per noi adulti perché “sono impegnati”, ma in che cosa?); • un mondo di fantasia, che significa allontanare il quotidiano dalla banalità, intravedere molte possibili fuoriuscite da situazioni che sembrano bloccate, superando gli stereotipi. Bisogna creare la convinzione che la scuola può essere divertente. R È facile a dirsi… È necessario togliere dalla testa dei maestri che viene in qualche modo compromessa la loro dignità. Occorre dare spazio a elementi nuovi, alla sorpresa, all’imprevedibile. Sono prioritari l’atteggiamento di ascolto, la pazienza, l’attesa, anche il silenzio. Se questi in partenza non producono grandi effetti bisogna sapersi accontentare e continuare a stimolare: all’inizio le storie saranno di 6-7 secondi, poi di 10, via via si amplieranno in durata e varietà di situazioni. La didattica e la storia narrata o letta costituiscono un matrimonio che facilmente può trasformarsi in un divorzio. Se la storia è finalizzata a un apprendimento tecnico viene facilmente uccisa. Molte buone storie vengono sprecate perché vengono utilizzate per far leggere o per esercitare, sintetizzare, riassumere, fare prove di comprensione. Invece per produrre interesse e piacere ci vuole ascolto, attenzione, dimostrare e suscitare passione. È un mestiere e un’arte, non a caso ha radici profonde e antiche, sapienziali. La scuola purtroppo è ossessionata da quello che vuole ottenere, così da raggiungere il risultato di vanificare e sterilizzare gli strumenti che impiega. È un progetto di scuola che deve vedere parallelamente un’alleanza con le famiglie. Auspico la costituzione di movimenti di genitori che raccomandino come urgenza la necessità di un avvicinamento ai bambini, oggi ipernutriti in tutti i sensi ma non considerati interlocutori attendibili. I bambini sono oggetto di una preconizzazione e uno snaturamento, mentre hanno bisogno di cura della relazione e di stimoli (non risposte) alla creatività, di un avvicinamento profondo contro l’attuale, sottile istituzionalizzazione della disumanizzazione (potremmo dire “deinfantilizzazione”?). Ci pare di poter concludere con le belle parole che Vinicio Ongini, nella prefazione al libro di Teresa rivolge al “signor ministro della pubblica istruzione”: Se fossi il ministro della pubblica istruzione, anzi il signor ministro, chiederei alla commissione di esperti di mettere nei nuovi programmi (le famose Indicazioni per la scuola), l’obiettivo prioritario che si pone Teresa Flores in questo libro: “insegnare agli alunni e alle alunne a raccontare storie”.