Untitled - Bookabook

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Untitled - Bookabook
ELENCO
Prologo
1) The Namesake _ Il destino nel nome (più brutto del mondo)
2) L’amore mangia l’anima (proprio come la dieta e le ex)
3) Una settimana da dio (del male)
4) Myrtle nel paese delle meraviglie (in rima)
5) Ritorno al futuro (forse)
6) Le cronache dello Scettro: il falco, la strega e la nave
7) Breaking bad(ass)
8) Ricomincio da capo (di nuovo)
9) La signora dei fardelli: la compagnia dello Scettro
10) Cantando sotto la pioggia (e i meteoriti)
Epilogo#1
Epilogo#2
F.A.Q. alias Frequenti Adorabili Questioncine di fine libro
Ai perdenti infelici che siamo stati,
e ai perdenti felici che saremo
Prologo.
Ok, il fatto è questo. Ho bisogno di raccontare quello che è successo. Non so se voi avete
bisogno di sentirlo. Ma è questo che farò. E se mi crederete bene. Altrimenti fatti vostri.
Fine del Prologo.
1. The Namesake _ Il destino nel nome (più brutto del mondo)
“Ok, allora ecco la situazione. Io mi siedo, lo fisso negli occhi, schiocco le dita tipo richiamodel-cameriere per svegliarlo dal coma in cui si trova vita natural durante ed assicurarmi che
mi fissi anche lui, prendo un bel respiro e via. E dico: Senti, non ci voglio girare troppo intorno,
non voglio piazzarci entrambi in un’atmosfera alla Beautiful in cui i dialoghi durano più di
tutti e sette i libri di Harry Potter – e comunque almeno lì hanno la pubblicità a stemperarli.
Rapido e indolore, così si dice, no? E ho idea che almeno il secondo attribuito ce lo
conquisteremo senza problemi. È un po’ che ci penso, che lo sento, ecco e sento, insomma mi
sento come se il nostro rapporto fosse diventato, come dire… ecco, hai presente una casa?,
tipo uno di quei bilocali periferici di Milano, quelli a bassissimo costo perché c’è la crisi e
perché i vicini di casa attaccano l’Ave Maria a ogni pasto, quelli in cui all’inizio sei felice perché
ci stai bene e perché è tuo e perché c’è libertà, e tutti quegli effetti collaterali che al principio ti
sembrano positivi, e insomma però dopo un po’ di tempo inizi a sentire freddo, perché ci sono
delle piccole crepe, che forse in effetti erano presenti fin da prima che ci andassi ad abitare, e
forse non le hai mai notate, o forse non c’erano proprio, ma adesso le noti e le noti perché ci
passano degli spifferi, e tu li ignori, perché dopotutto sono solo piccoli soffi di vento,
dopotutto basta metterci qualcosa davanti e non li sentirai più. E invece quelli aumentano, e fa
sempre più freddo, e a un certo punto ti accorgi che quel freddo non può essere annientato da
una stufa, un caminetto o una fiaccola natalizia, che semplicemente non puoi più vivere in una
casa piena di spifferi. Altrimenti, insomma, muori assiderata”.
Silenzio. Silenzio nella sua forma quasi più totale, ad eccezione del vecchio signore con
amabile tosse catarrosa afflosciato al tavolo accanto al nostro.
Mia sbarra gli occhi – proprio come le altre, ma lei ancora di più, come se fosse uno di quei
pupazzetti a cui schiacci la pancia e gli schizzano fuori le orbite (giocattoli abbastanza
diseducativi, se volete sapere che ne penso).
“Quindi, gli hai detto così? Proprio così?” esclama, sbigottita.
Ops. Mi sa che a lei – e a tutte, ho idea – è sfuggito un punto.
“Macché, no”.
“Ah”. Stavolta è Lilly ad intervenire. “Ma allora scusa, com’è la storia? Glielo dirai? Quando?”
“Macché, no”.
Le mie amiche hanno l’aria di chi è stato appena investito da un tir – magari pure due volte
consecutive. Sbuffo, cercando di non apparire troppo scocciata.
“No, ragazze, questo è quello che mi dirà lui”.
“Quello che ti dirà?!”
Scommetto che nemmeno la prima enunciazione teorica del funzionamento della forza di
gravità ha suscitato tanto stupore negli astanti.
“Sì, quello che mi dirà, tra più o meno un paio di mesi secondo i miei calcoli, ovvero quando si
accorgerà che le cose stanno così. Sto ricevendo alcuni segnali che mi portano a pensarla in
questo modo” – perfetto, ora parlo come un agente della Cia – “Mi sto, ci sto, cioè, solo
preparando a questo momento. Capito? In quel che vi ho detto, sostituite ‘me’ con ‘lui’ e ‘lui’
con ‘me’ ed è fatta”.
Jenny ha, letteralmente, le mani nei capelli: da brava aspirante attrice com’è, si impegna per
enfatizzare qualsiasi emozione come se si trovasse perennemente in una recita. Io, a questo
punto, rappresento il palcoscenico ideale.
“No, senti, Marty…”
“Myrtle”.
“Già, vero, scusa, non sono ancora abituata alla tua nuova mania per i nomignoli originali.” –
Qui mi permetto di dissentire: non è una mania, è che io odio il mio nome. Martina. Non so
spiegarvi perché. Forse sono rimasta traumatizzata perché da piccola i miei parenti lo
scambiavano per Melina o Marina, che sono comunque molto più dignitosi. Forse perché è un
mix tra Marte e topolina, due cose che spiegatemi come potrebbero mai venir associate.
“Comunque…” continua Jenny “Ti rendi conto di quello che dici? Quindi stai semplicemente
aspettando di venire mollata? Ma allora perché non lo molli tu direttamente, se sei così certa
che romperete, e almeno ti risparmi l’agonia dell’attesa?”
“Perché semplicemente non voglio mollarlo, io. Non ci penso proprio. Nemmeno per idea”.
Soltanto il pensiero mi fa venire i brividi.
Mi rendo conto che tutte e tre le mie amiche adesso penseranno di trovarsi dinanzi a un caso
umano, e un po’ le capisco, in effetti. Forse avrei dovuto preparare meglio il terreno per il mio
accorato monologo. In ogni caso la frittata è fatta. Tossicchio, e con gesto teatrale sollevo il
menù e lo spalanco alla pagina del dessert.
“Su, chiudiamo questa triste parentesi e ordiniamo!” le invito con una vocina stridula quasi in
falsetto che mi fa sentire la fotocopia di Jenny. Con mio sollievo, il trio pare rasserenato
all’idea di non addentrarsi oltre nei meandri della mia pazzia, e comincia a farsi strada nel
paese delle meraviglie dei dolci e dei frappè del bar.
Capisco di aver appena commesso un errore. Per l’esattezza dopo tre minuti, nel lasso di
tempo tra la mano alzata che oscillava verso di lui e le ultime parole che gli ho rivolto. Lo
capisco, purtroppo, troppo tardi.
“Bene, donzelle, credo di aver compiuto la mia buona azione quotidiana!” esclama Vicky alias
Victor-il-cameriere-col-nome-da-maggiordomo, per poi rivolgersi a me, che devo avere
un’espressione decisamente poco concorde. “Soprattutto tu, Martina, devo dire che mi hai
sorpreso. Di solito il massimo che ti concedi è un succo di frutta, persino qui dove te li portano
in una lattina striminzita dal girovita più inesistente di quello di Jenny. O quasi” aggiunge
scoccando un’occhiata tra l’invidioso e il lusinghiero a Miss-Girovita-Inesistente o se preferite,
Jennifer, alias mia/nostra più recente migliore amica.
Io, invece, sono abbastanza sconfortata dalla mia avventatezza, ma non la esprimo ad alta
voce, consapevole che se esternassi il pentimento per aver appena ordinato una cialda di
proporzioni tragiche, mi sentirei rispondere come al solito “take it easy”. Non voglio fare di
nuovo la figura della lagnosa: ho fatto già la figura della malata mentale, direi che per oggi
sono a posto.
Osservo le mie amiche. Lilly scruta infastidita il vecchio di prima che insiste a tossire
rumorosamente, con una frequenza direi invidiabile, una specie di assolo scatarrante. Mia sta
punzecchiando Jenny, non so bene perché: proprio ora le accenna una linguaccia e Jenny,
rendendo onore al suo nome vezzoso da regina degli Harmony, scuote la testa con un sorriso
languido e fa danzare i capelli – davvero, li fa danzare, perché basta che lo muova appena e il
suo mento direziona armoniosamente il movimento fluido della sua chioma, come se
accendesse una folata di vento tra una ciocca e l’altra con la sola forza della sua figaggine.
Mentre mi sto domandando quale sia la radice dell’ondulazione cinematografica dei capelli di
Jenny, qualcosa mi intralcia la visuale: sbatto le palpebre e mi rendo conto che Lilly mi sta
agitando una mano sotto gli occhi.
“Ehi, ti abbiamo già persa? Guarda che hai il permesso di collassare solo dopo aver ingurgitato
metà del tuo cialdone.”
Sono caduta di nuovo in trance; mi capita spesso di estraniarmi dal contesto in cui mi ritrovo,
come se guardassi il mondo attorno a me da una cortina rarefatta, come se non ne facessi
parte. Ma adesso mi sento collassare, in senso figurato – nel senso proprio di crollare dentro
una voragine che si forma ai miei piedi sul pavimento del locale – soltanto a pensare al nome
di ciò che abbiamo appena ordinato. Che ho ordinato: in un impeto di autodistruzione,
autolesionismo, auto-tutto-ciò-che-è-nocivo, ho ceduto per la prima volta da quando
bazzichiamo questo bar, forse per annegare in migliaia di calorie lo sconforto di aver fatto per
l’ennesima volta la figura della pazza, o forse perché sfogarmi col mio trio non mi ha portato
alcun giovamento. Sapete, è che ho ben presente le dimensioni spropositate delle pietanze che
servono qui, e ogni volta che io e le mie amiche ci rechiamo nella nostra base per spettegolare
l’una sull’altra (e sulle faccende sia dell’una che dell’altra sia sulle faccende, in alcuni rari casi,
di esterni, altrimenti dette gossip), osservo in un misto di ammirazione e disgusto le leccornie
malefiche che si avvicinano sul vassoio al nostro tavolo, un po’ come sta succedendo ora, solo
che so che stavolta sarò io a ritrovarmi nel mirino di quell’imbarazzante bomba calorica e
assassina di pance un tempo dignitose che atterra dinanzi al mio naso con l’invadenza di un
missile incagliatosi nel terreno di un pianeta sconosciuto che non ha nessuna intenzione di
accogliere ospiti. Soprattutto se così alieni.
Vicky oggi pare sfiancato dalle ore di turno: fatta eccezione per il momento di ammiccante
flirting con Jenny, comunque ordinaria amministrazione, si allontana dal nostro tavolo con
stanca lena, probabilmente per evitare che qualcuna di noi attacchi bottone, e non perché,
come sostiene Mia, ha sicuramente “una valanga di altre persone schiamazzanti da servire”.
“Noi saremmo schiamazzanti?” esclama Jenny allibita. “Non mi risulta, mai state”.
Forse solo quando avevamo dodici anni e venivamo qui unicamente per affogarci di risate
sorseggiando innocui succhi di frutta.
Lilly, a sorpresa, fulmina con lo sguardo la schiena di Vicky.
“Arriva, ti fa un complimento, e poi si dilegua. Non va mai a fondo, è solo un codardo. Come
tutti quelli della sua razza.”
Ci giriamo tutte in contemporanea verso Lilly, assumendo lo stesso sguardo sconvolto di
Jenny. Soltanto nel mio, oltre allo shock, c’è una punta di speranza. Lilly di certo non aspettava
altro che tuffarsi a pesce nell’argomento-ragazzi, delusa che sia stato frettolosamente aperto e
chiuso dal mio delirio, e proprio come nasavo fin da quando ci siamo salutate, e a giudicare
dalle poche volte in cui ha controllato il cellulare nell’arco di quest’ora, dev’essere successo
qualcosa con Giò, di conseguenza per la foga e la rabbia anche Lilly dovrebbe, secondo i miei
calcoli, tuffarsi a pesce nel cialdone. Ed è anche giusto lasciare alle ragazze la possibilità di
sfruttare interamente le due valvole di sfogo che hanno a disposizione – le altre ragazze, e il
cibo.
“Oh, ma no!”
L’esclamazione di Jenny mi rilancia nella realtà e dopo un secondo di smarrimento (come se si
fosse rivolta a me, come se improvvisamente fosse diventata una telepate, come se leggendo i
miei pensieri non fosse d’accordo con me) mi rendo conto di essermi persa un pezzo. Al solito.
Mi protendo verso Lilly per sentire meglio, maledicendo la mia vertiginosa e dannosa
tendenza ad esiliarmi mentalmente. Lilly ha impugnato il cucchiaio e sta rovistando all’interno
dei bulbi di gelato, come se tentasse di trovarci la risposta definitiva ai problemi col suo
ragazzo.
O del suo ragazzo, stando a quel che dice.
“Non lo reggo più, giuro. È possibile che tre quarti della sua vita sentimentale li debba passare
attaccato a quel videogioco?”
Jenny scuote la testa. “Come un bambino.”
“O-Em-Gi!” esclama Lilly. La guardo: ogni volta mi lascia interdetta quel suo sillabare
cacofonico Oh My God, O.M.G. appunto. E poi sono io quella drogata di inglese (illazione
apoteotica, io ne capisco una cippa).
Mia s’incazza, nei limiti del consentito affettivo. “Ma tu diglielo, no? Oppure prendi e vai via,
una sera, lascialo lì come un babbeo.”
“Come il babbeo che è, esatto.” Lilly inizia a farsi rotolare biglie enormi di cioccolato e
pistacchio in bocca, facendo una smorfia al contatto con il sapore gelido ma forzandosi ad
imboccarle alla stregua di una medicina presa con rancore e determinazione.
“Non è solo questo. Voglio, dire, tutti hanno le loro piccole dipendenze. Io ogni venti minuti
devo controllare la posta sul cellulare, altrimenti rischio un’emorragia cerebrale. Lui di questo
non si è mai lamentato. Però, capite… cioè, se si lamentasse, non mi darebbe nemmeno tanto
fastidio. Non smetterei di farlo, ovviamente, ma almeno avrei una prova che è sveglio. Che si
accorge delle cose. Che non ha la vista programmata solo intorno a quello che frega a lui.”
Io mi rendo conto di stare sospirando. Le ragazze si voltano meccanicamente, ma quasi
d’istinto, verso di me, visto che sono l’unica che ancora non ha parlato a sfavore di quel
riprovevole soggetto. Mi mordicchio l’unghia del mignolo pensando che se L. si comportasse
così gli lancerei una truppa di improperi a profusione, e poi penso che in realtà non lo farei, o
lo farei sembrare uno scherzo, perché ci manca solo quello.
“No, sai cosa…” comincio, anche se non so esattamente cosa sto per voler dire. Mi capita
spesso ed è frustrante. E dire che se ci riuscissi, ne avrei di fatture da lanciare verso tipi come
Giò. “Appartiene anche lui all’altra categoria, alla fine. Di solito tendiamo a dimenticarcene,
credo per non consumarci l’anima, ma è così”. Alla fine ho propeso per la misandria
generalizzata e sfrenata, un po’ da vigliacca, lo ammetto, avendo un esempio di uomo ideale a
pochi passi da qui. Ma qualcosa mi dice che un’iniezione di ostilità è quello che ci vuole a Lilly
in questo momento.
“L’altra categoria manca di caratteristiche che invece noi subiamo per nascita.”
“Non è del tutto sbagliato, dire che subiamo l’intelligenza, in effetti” riflette Jenny.
“Sì” mi accodo, ormai persa nell’odio massificato, “un’intelligenza emotiva che loro non sono
nemmeno interessati ad imparare. E non lo sanno nemmeno di non essere interessati. Voglio
dire, Lilly…” Mi sporgo verso di lei, ancor più accorata ed empatica verso di lei ora che sta
disintegrando gli ultimi resti del cialdone. “… Che hai perfettamente ragione. Ma non ti
aspettare che Giò capisca che hai ragione, o il perché vuoi impedirgli di accozzarsi a quel
videogioco. Gli piace e allora lo fa. Sente di non nuocere a nessuno, inoltre è convinto che la
dose di coccole di cui ti fa sempre gentilmente onore ti basti e avanzi, quindi non smetterà di
chiedersi con i suoi occhietti confusi quale mai è il tuo problema.”
Jenny annuisce grave. “Il nostro problema.”
La conversazione sta diventando una crociata anti-maschi, e pur sentendomi un po’ in colpa,
decido comunque di insistere: meglio girare attorno alla questione riempiendosi di frasi fatte,
che affrontare la situazione di petto, lo sappiamo tutte. Perché la risoluzione rischierebbe di
essere una sola. Ovvero, quella che secondo i miei calcoli L. prenderà tra un paio di mesi-pocopiù.
“Sarebbero finiti se arrivassero a capire che questo problema consiste in una marcia in più”
dice Mia.
“Oh sì. È così, Lilly” rincaro. “Loro sono davvero così elementari, non possono proprio
cambiare.”
“Ma io non voglio che cambino” esclama Lilly. “Solo… non potrebbero solo sforzarsi un po’ di
più?
Non ho replicato e non le risposi anche perché mi sembrava una bella frase con cui chiudere la
discussione, e pure il capitolo.
2. L’amore mangia l’anima (proprio come la dieta e le ex)
Sono sicura che stava guardando me. Storco la bocca e aumento la presa sul manubrio,
sentendo i polpastrelli sfrigolare. Non dico che perdo il controllo della bici, come capiterebbe
se avessi le cuffiette dell’I-pod nelle orecchie e quel tizio fosse comparso all’improvviso nel bel
mezzo di una canzone dei Massive Attack. Quasi quasi, stando all’ostentata maleducazione con
cui mi fa un gestaccio e procede sul marciapiede, sdegnoso delle strisce a due metri dalla
strada e incurante del rischio che ha corso (venir messo sotto dalla bici mezza sfondata di una
quasi-post-adolescente), ecco, mi viene un po’ la voglia politicamente scorretta di averlo
investito davvero. Sempre che la mia povera piccola Gilda (sì, la bici si chiama così, la bici h un
nome, problemi?) abbia questo superpotere. Ecco, se ce l’hai, Gilda, sbrigati a tirarlo fuori: ti
userei nell’immediato come macchina da guerra debella-maleducati – e probabilmente farei
fuori mezza città. Ehi, parlo giusto di un colpetto in testa, per lasciarli appena un po’ intontiti,
così forse, vedendosi passare davanti la loro vita, realizzerebbero quanto è stata poco
gradevole per gli altri. Ne uscirebbero come persone nuove. Migliori. L’averli sballottati un po’
sotto le ruote di Gilda sarebbe una buona azione degna di un’aureola da lucidarsi ogni mattina
davanti allo specchio.
Mi serve la neuro, dite? Uno psicologo, e pure bravo? Devo dire che l’idea non mi dispiace. Così
almeno imbottirei di vaccate qualcun altro oltre alla mia persona, e saremmo in due a
sopportarne il peso e soprattutto la ciccia. Non mi dispiacerebbe avere Woody Allen, come
terapista. Mi sembra già di sentirlo…
“… Dovresti, diciamo, rivedere le tue priorità, ripercorrerle, lì nel tuo cervellino in entrambi gli
emisferi, però non intendo in senso mnemonico…”
Ok, no. E chiedere a The Rock?
“Ma prendi in mano la tua cazzo di vita una buona volta, dannata femmina!”
Meglio di no. Scusa, amico. Magari potrebbe consigliarmi Belle, la mia principessa Disney
preferita?
“Trova la risposta nel vento che accosta, vedrai il tuo futuro e sentirai e amerai…”
D’accordo, le rime non sono il tuo forte. (Ma poi, non era Pocahontas quella fissata con il
vento?... Comunque.)
Di sicuro, mi ripeto mentre continuo a pedalare tentando di riprendere una respirazione
regolare, sarebbe andata peggio se fossi stata alla guida di un’auto. Si fanno incontri molto
peggiori, come credo chiunque abbia una patente sappia, e chi ancora non la possiede – alzo la
mano – possa facilmente immaginare.
Arrivo finalmente a destinazione, ancora una volta la popolazione del mio paesello è sana e
salva dalle mie ruote distruttrici e la mia mente è depurata da pensieri e pulsioni omicide.
Penso sia perché sta per ingombrarsi di tutt’altra grana, e altrettanto poco piacevole.
Ripeto, più meccanica di un robot, la routine di ogni sabato pomeriggio: campanello, domanda
retorica, risposta affermativa, scale, maniglia della porta, porta che si spalanca.
In verità, la porta si socchiude, e uno scalpiccio mi segnala che colui che me l’ha appena aperta
è ritornato lì dove stava prima della mia venuta. Non alzo più nemmeno gli occhi al cielo:
ormai abbiamo un nostro codice di azione-reazione, causa-effetto della semplicità del
quotidiano al punto che nei successivi trenta secondi agisco per inerzia.
Mi sporgo in cucina. Lì, l’uomo dei miei sogni sta sgranocchiando un Tronky. Mi porge un
occhiolino e un sorrisone, e, non so come descriverlo, ma quando sorride tutto va a posto nel
suo viso. Qualsiasi grinza, imperfezione o graffio. Come se i suoi lineamenti fossero fatti
apposta per sorridere e proclamarsi settima bellezza del creato. Buffo, per un tipo un po’
punkettone che ama, ascolta e soprattutto compone musica grunge. L. fisicamente è tipo uno
dei protagonista di Skins, quello metallaro dell’ultima stagione, quello che a un certo punto si
taglia i capelli e diventa bellissimo, un po’ come Anne Hathaway in Pretty Princess.
“Che fai?” mi chiede, come se non fosse ovvio.
“Sto sulla soglia della cucina, ad osservare quanto sono deliziose le tue mascelle che si
muovono ritmicamente”, rispondo.
Lui ride, ma di una risata pienissima, come se avessi appena pronunciato la battuta del secolo
e non una cazzata che pare il prodotto nervoso e vagamente isterico di una prepuberale al
primo appuntamento.
“No, cioè: che facevi prima di venire qui? Solito drink con le tue friends?”
Vi prego, qualcuno faccia una strage della lingua inglese in Italia. Un flagello.
“Ci hai preso”.
“Lilly è ancora in vena di buttarsi giù da un dirupo per quell’ameba del suo tipo?”
“Wow, non sbagli un colpo”.
Lui scuote la testa. “Guarda che lei è più rinco di lui. Lui ha trovato il suo habitat perfetto:
playstation come se non ci fosse un domani e morosa che se la rode in silenzio, ma non gli
rompe le palle neanche a pagarla. Il paradiso in terra”. Solleva le sopracciglia, esasperato, poi
mi prende la mano, mi schiocca un bacio in mezzo al palmo e mi trascina in camera.
L. è fatto così, perennemente sulla cresta dell’onda delle cose. Dell’attimo, del momento.
Prende tutto di pancia, come se lo riguardasse in prima persona, come se Lilly fosse qualcuno
che gli sta tremendamente a cuore, tanto da poterla insultare ma solo perché vuole il meglio
per lei, quando l’avrà vista si e no mezza volta a un brunch e il massimo di dialogo che hanno
avuto è stato “Per favore, puoi passarmi i taralli?”.
Devo dirlo, anche se istintivamente difendo Lilly e ho parolacce riservate solo al suo ragazzo,
io adoro questo lato di L. In effetti, adoro qualsiasi suo lato. Letteralmente.
Eppure, mentre ci accoccoliamo stretti stretti sul divanetto, e lui accende il computer per
guardare qualche video musicale punk su un canale simil-YouTube – il suo hobby preferito –
prima di riservarci un film francese introvabile sottotitolato in inglese – il mio hobby preferito
– per poi sbaciucchiarci non stop – il nostro hobby preferito –, io, come al solito, non mi sento
davvero qui.
Lo guardo e penso che è veramente super bello, quel genere di bellezza tutta originale e
irriproducibile che anche se uno “non è il tuo tipo” perché non è palestrato o non è lo sportivo
casual col sorriso smagliante prestampato, non può non stregarti completamente al primo
sguardo. Lo ripeto: super, ultra, iper bello, pure troppo, quantomeno considerato che sta con
una “normaluccia” come me – so che non esiste come definizione ma rende il concetto.
E io me ne sto qui, abbracciata a cotanto splendore, e inizio ad intristirmi, come ogni volta che
dovrei toccare il cielo con un dito, come ogni volta che sento di poter essere assolutamente
felice ma so che c’è qualcosa che presto romperà l’incanto, come un incantesimo che spezza la
maledizione – nel mio caso, la benedizione.
Lo ammetto: un po’ sciroccata, lo sono fin da bambina. Quando avevo sette anni i miei
compagnucci delle elementari, appurato che di calcio non me ne fregava un’emerita cippa e
che non credevo alla resurrezione perché mi faceva strano immaginarmi quel simpaticone di
Gesù in veste zombi, ebbene loro mi chiamarono così, sciroccata, con tanto di ghigno
compiaciuto perché era una di quelle parole destinate ad essere pronunciate soltanto dagli
adulti. Io non me la presi: mi piaceva il suono, sciroccata, quando me la rigiravo in bocca, come
una parola da sgranocchiare. Croccante. Da allora me la sono sempre sentita addosso, anche
se non con lo stesso incauto, ingenuo piacere.
Con la coda dell’occhio osservo L. che finge di strimpellare una chitarra immaginaria a tempo
di musica, mormorando alla perfezione lessicale il testo della canzone che sta passando, e
intrecciando di continuo le dita dell’altra mano alle mie.
Ve lo dico, io con la sua musica ho un problema, o meglio, con le sue canzoni. Non solo la
musica e le canzoni che strimpella, ma anche con musica e canzoni che ascolta. Di solito, i
brani che piacciono alla sottoscritta devono avere con un testo drastico e comprensibile –
ergo canzoni italiane, e brani inglesi con testi pressoché elementari e ovviamente brevi.
La seconda categoria di canzoni che apprezzo sono quelle il cui sound mi porta in un’altra
dimensione, scattante, elettrica, lontana dal mondo: mettiamola in questo modo, che mi
stimolano la creatività. E dunque magari capita che mi ascolti per settimane una canzonaccia
tamarra solo perché la musica mi manda in fibrillazione i neuroni. O che un brano diventi il
mio preferito ma non ne approfondisca il gruppo perché non è tanto il loro stile che mi
appassiona – non ho mai avuto idoli su cui sbavare e per cui fare file di giorni e giorni sotto la
pioggia – quanto quella canzone in particolare in quel particolare momento.
È un po’ complicato da spiegare, soprattutto perché una risposta come “Adoro Nick Cave
perché è uno tosto che ha cambiato l’ambiente musicale” o “Farei follie per Bruce Springsteen
perché i suoi testi sono una radiografia politica e sociale dell’America”, soprattutto se fosse
una risposta sincera, mi faciliterebbe le cose piazzandomi in una condizione di figaggine,
consapevolezza musicale e, soprattutto, mi renderebbe etichettabile. Incasellabile sotto la lista
dei tizi che ascoltano buona musica, o musica impegnata, o semplicemente, di tizi che “ne
sanno”. Acculturati, insomma. Sarei molto meno credibile se mi dimostrassi capace di
snocciolare a memoria il motivetto di un album dei New Order senza sapere una riga di testo
semplicemente perché quel sonoro “mi fa bene alle orecchie”. Sarei meno credibile, ma
almeno onesta. Personalmente, però, questo tipo di onestà mi metterebbe in una situazione di
disagio, meglio conosciuto come “inevitabile imbarazzo”, figuriamoci con uno come L. che
ascolta e fa un tipo di musica in cui non c’è nemmeno la possibilità che mi piaccia una canzone,
che la capisca o che mi incanti, nemmeno per sbaglio. Ed è per questo che con L. persevero a
pormi in una condizione per cui il mio I-pod è sempre perennemente fuori dal suo campo
visivo, per cui quando in radio passa una canzone deficiente di Miley Cyrus mi mordo la lingua
per non mettermi a canticchiare il ritornello storpiando tutte le parole perché non ho idea di
che cosa stia blaterando, e per cui quando mi chiede se mi piacciono i Ramones io tergiverso o
cerco di cambiare argomento per non essere costretta a dirgli che, magari, adoro un singolo
ma ho rimosso i restanti album. Il mio gusto musicale è peggio di uno scolapasta: scivola via
tutto, resta qualche nota appiccicata sul fondo. E allora è meglio tacere, o sorvolare: lo so per
esperienza.
Con L., purtroppo, un po’ per solleticargli l’ego un po’ per pavoneggiarmi ad oltranza, qualche
sparata l’ho fatta. Oh, sì, certo che li conosco i Bad Religion. E questa canzone? Ah, davvero, è
tratta da un singolo misconosciuto? Wow. Ah, dici che avrei dovuto conoscerla essendo una
loro fan? Eh, sai, padroneggio giusto quelle tre. Bellissime, eh. Troppo mainstream, dici? Già.
Mi sa che mainstream è il mio secondo nome.
E via dicendo. Ragazzi, non solo ho una memoria di pastafrolla: rispetto al punk rock,
l’universo totalizzante di L. per cui dovrei nutrire curiosità, sono musicalmente pigra. Aspetto
che la canzone giusta, il gruppo giusto, la cosa giusta mi venga incontro a braccia aperte. Che
venga da me, insomma. Finora non è successo, nemmeno con la musica che L. compone
insieme alla sua band.
“Ehi”. L. mi fa un cenno, come per controllare segni di vita. “Gufetta, ti spiace scendere dal tuo
pianeta e riapprodare nel mio? Nel nostro, magari?”
Stiracchio il sorriso più accomodante che riesco. Si diverte un sacco a chiamarmi ‘Gufetta’, dal
momento che, sostiene, i gufi sono dei raminghi solitari e a volte come vi ho detto anche io
sparisco nel nulla, zac, facendomi un voletto in solitaria lontano dalla terra. Poi si è reso conto
che il nomignolo poteva essere applicato anche alla mia tendenza a “gufare” le belle cose:
tradotto, a fare un po’ la guastafeste e un po’ la pessimista. Non vi dico le risate.
Be’, io questo soprannome lo detesto. Non gliel’ho mai detto, chiaramente, perché ho idea che
non capirebbe: dopotutto, lui lo usa nella maniera più dolce possibile. Dal suo punto di vista.
Siamo arrivati al punto in cui inizio a trovarmi insopportabile, perché trovo insopportabili
cose che sono così dolci, e belle. Di solito vuol dire che non ti piace stare insieme a qualcuno,
insomma, se le belle cose che fa ti urtano inspiegabilmente. Ma ecco il fatto. Per tutta la
settimana, io non penso ad altro che al momento in cui la mia bici sterzerà sulla via dove abita
L., e io salirò su da lui e per l’intera giornata di sabato – be’, l’intera serata e la mattina di
domenica nel caso particolare di questo weekend – ci svaccheremo sul divano, balleremo in
cucina ascoltando MTV mentre cuciniamo frittelle, e passeggeremo mano nella mano fino allo
sgangherato parchetto abbandonato dietro casa della mia ex prof di liceo. Quando arriva il
momento, tutto dentro di me si placa. Sono dove voglio essere. Sono felice, diciamo. Ma poi
lentamente smetto di stare bene. E ripenso all’ultimatum dei tre mesi, l’ultimatum di cui mi
sono convinta, il tempo massimo entro il quale, dopo questi quattro mesi passati insieme, si
renderà conto che non c’azzecca proprio un acca lui, con me, lui venticinquenne maturo e
pieno di esperienza e di certezze sul futuro con una diciottenne che ancora tiene il diario
segreto e piange con i film tratti da Nicholas Sparks (ok, è vero, ma è successo una volta sola.
Giuro).
Di conseguenza, questa paura mi rende perennemente umbratile e umorale, anche contro ciò
che è fatto con innocenza ma in cui riesco a leggere un’invisibile minaccia: una volta, mi
rivoltai contro lo pseudonimo dichiarandogli ufficialmente che era un sottile insulto perché i
gufi sono brutti, arruffati e hanno il becco adunco. L. si è spanciato dal ridere, ripetendo come
un mantra “becco adunco” per il resto della giornata. In effetti, non era stata un’uscita
intelligente se volevo litigare e affrontare la questione. Ma io non volevo fare nessuna delle
due cose. Perciò in realtà ero fortunata che L. prendesse i miei capricci come ininfluenti,
bislacchi raptus della sua fidanzatina sciroccata. Magari, un giorno (presto) sarebbe rinsavito
e mi avrebbe dato una pacca sulla spalla insieme al numero di uno strizzacervelli locale –
sempre che si chiamino ancora così.
Alla fine del segmento musicale, scorro l’elenco dei dvd che ho appena noleggiato, e alla fine
troviamo il compromesso di un thriller orientale dai toni onirici, che guardiamo in due
momenti – prima e dopo una cena a base di hamburger, perché se manca la carne manca tutto
il gusto secondo L. – e che ci piace abbastanza, o meglio di sicuro piace a me: L., come al solito,
esattamente a metà film crolla addormentato. Devo sempre raccontargli il finale di ciò che
vediamo e in qualche modo il finale lo delude sempre. Forse è per come lo racconto. O forse
perché non gli piacciono i finali in generale. Be’, nemmeno a me. Sarà per questo che i miei
riassunti mancano di verve.
In seguito alla visione, rigenerata dalle immagini e rallegrata dalle battute sferzanti che nella
prima parte il ragazzo ha rivolto tanto al killer quanto al protagonista, oltre che divertita dal
suo russare cronico che lui altrettanto cronicamente nega, sento che quell’ombra
d’inquietudine apocalittica che mi bracca senza riposo mi sta concedendo una tregua, e inizio
a ricoprire il nasino di L. di baci. Lui sorride e mi abbraccia, mi fa il solletico, io gli passo le dita
fra i bellissimi capelli rossi che si ritrova, pensando a quanto cribbio sono fortunata e a che
diavolo di problemi continuo a farmi. Insomma, carpe diem, blablabla.
Prima di addormentarci, ci sfidiamo a un gioco tutto nostro che, non ho problemi ad
ammetterlo, costituisce sempre per me il momento migliore della giornata passata insieme
(non c’entrano calze a rete o bondage vari, rilassatevi). L’abbiamo inventato un pomeriggio di
qualche mese fa, dopo poco che avevamo iniziato a frequentarci, è nato quasi per caso (a
random, direbbe Lilly) e devo dire che sta raggiungendo livelli di densità strutturale e
tematica davvero ragguardevoli.
Ok, la smetto. Il gioco è il seguente.
“C’era una volta… una ragazza” comincia L. con nonchalance. Io mi rannicchio su di lui
appoggiando la testa sulla sua spalla.
“Era molto, molto malata” continuo.
“Ah. Va bene” accetta L. alzando gli occhi al cielo. “Che drama queen. Dunque, era malata, ma
suo fratello trovò una cura”.
“Romanticismo familiare, che noia. La cura però era un’erba speciale che giaceva sul fondo
dell’oceano”. Incastrato, tac.
“Si dia il caso però che il bravo fratellino fosse un sub provetto”.
“Ma era anche cieco, poverino”.
L. si passa l’indice sul collo, come a indicarmi ‘sei morta!’. “Gran sfiga, sì. Ma il suo… delfino da
caccia personale non lo era”.
“Delfino da…”
“E aveva persino un gran fiuto, pensa un po’. Quindi, non ebbe problemi a trovare l’erba
taumaturgica dopo un paio di immersioni”.
“Peccato che ce ne fosse davvero poca, e non bastava per curare il terribile malanno che
avrebbe ucciso la sorella da lì a una settimana” sogghigno.
“Vero. Eppure” si infervora L., “il ragazzo dalle mille risorse conosceva uno scienziato che
avrebbe potuto replicarla. Si recò da lui e gli chiese di fare almeno dieci copie di quella dose, in
modo da curare tutti coloro che soffrivano di quella malattia”.
“Che eroe. Lo scienziato acconsentì e tempo qualche giorno, l’erba era duplicata”.
Preso alla sprovvista, L. si interrompe. “Giusto… bene, a questo punto…”
Faccio il segno di un countdown con le dita. Chi ci mette troppo a proseguire la storia, è
eliminato. E io vinco.
“Aspetta, ci sono!… A questo punto, al fratello giunge notizia che la sorella è peggiorata.
Potrebbe non fare in tempo”.
“Quindi decide di mettersi in viaggio. Peccato che la sua… barca non parta. Lo scienziato l’ha
manomessa. Vuole tenersi l’erba tutta per sé”.
“Questa è cattiveria!” protesta L. “Sei diabolica. La verità è che anche lo scienziato ha una
persona che ama molto e che sta male, sua figlia, indi per cui vuole guarirla”.
“Ma il ragazzo tiene ovviamente molto di più a sua sorella che alla sconosciuta, perciò ecco che
parte una colluttazione con lo scienziato…”
“… che un attimo prima di uccidere il nostro eroe, scopre che la sorella del ragazzo altri non è
che sua figlia, proprio la persona che voleva aiutare”.
“Bella svolta” mi complimento. “Entrambi corrono al capezzale della fanciulla, proprio un
attimo prima che esali l’ultimo respiro…”
“E la salvano.”
“E vissero tutti e tre felici e contenti”. Annuisco. “Bella partita”.
“Pareggio?” propone L., porgendomi la mano. Gliela prendo e gli schiocco un bacio sul palmo.
“Pareggio!”
La mattina dopo, L. ci mette circa tre quarti d’ora a svegliarsi del tutto, quindi io mi porto
avanti preparandogli un tè – sempre troppo caldo – mentre lui si sforza, ma nemmeno troppo,
di uscire dalla fase letargica. Quando torno dal ragazzo, con la mega tazza oscillante purché
saldamente stretta da entrambe le mani, lui sta giocherellando su Facebook col suo mega IPad. Tutte quelle applicazioni per decerebrati, dalla fattoria al labirinto zuccherato (Candy
Crush?) o quel che sono, lo fanno impazzire. Ci si ingegna un po’, poi fa una pausa, e
sorseggiando il tè fa un giro sulla bacheca Facebook.
Io, mentre mando un sms a mia sorella, lancio una pressoché involontaria occhiata allo
schermo: e zac, intercetto proprio quel che non vorrei. Lissa, ultra-amica di L. da sempre,
classe 1996 – come me –, vocalist figacciona della loro band, super fanatica di punk e di scarpe
All Star – non proprio come me – e soprattutto gran bel pezzo di pupa – decisamente non
come me –. Compare sullo schermo all’improvviso, mentre L. scorre ignaro tra i contatti,
apparentemente senza degnarla di uno sguardo, mentre a me la sua nuova foto tra batteria e
casse con microfono spietato tra le mani e camicia dell’Hard Rock strategicamente scollata,
be’, è un’immagine che mi sfreccia in faccia dritta e precisa come uno schiaffo.
Devo confessarlo: provo un perverso interesse per le ex dei ragazzi che ho frequentato. A
volte penso che Zuckerberg abbia inventato Facebook apposta per titillare la mia fissazione.
Una volta, con la complicità di Lilly sotto il cui giudizio da boia (“Questa è brutta! Anche lei!
Ma che bestia!”) nessuna si salvava, ho passato un pomeriggio a mordermi le mani mentre
sbirciavo tra le foto pubbliche delle tizie che prima di me avevano accarezzato le guance lisce
del mio ragazzo, che si sono appallottolate con lui su questo stesso divano e magari hanno
cantato a memoria assieme a lui i singoli di James Hetfield. Le odio per partito preso e ne sono
retroattivamente gelosa. Ciò fa di me un mostro, temo. E pure autolesionista. Anche perché la
cara vecchia Lissa, una ex non è, o almeno non esattamente: è stata, secondo me, quelle duetre volte sul punto di diventarlo, cioè, di passare la base per cui sei un’amica e poi una
fidanzata e poi una ex in potenza. Il che me la rende ancora più odiosa. Almeno le altre sono, in
teoria, un capitolo chiuso, una porta chiusa a doppia o tripla mandata a seconda del caso. Lei
se ne sta lì sul ciglio della soglia, dondolante, col microfono in mano a cantargli fianco a fianco,
con la sua insopportabile perfezione da principessa azzurra che le esplode tutt’intorno, ad
aspettare infida il momento giusto per fare irruzione nel mio paese delle meraviglie e dargli
fuoco.
Mi comporto in maniera noncurante, tuttavia, per il resto della mattinata, ma questa mia
interna furia selvaggia da amazzone in cerca di vendetta (impossibile da concretizzare)
persiste anche dopo che ho salutato L., e mi acceca la vista, evidentemente, perché dopo aver
inforcato la bici e aver pedalato con fastidio oltre qualche isolato, ebbene mentre rallento
riflettendo se fare una pausa al Mc Drive vicino casa, mi sembra di vedere gli edifici saltellare.
Pochi istanti dopo afferro: non sono loro che sballonzolano, sono io. O meglio la mia bici.
Shit, penso, sentendomi inglesizzata come Lilly ma molto meno cool. Le ruote della bici sono
andate. Sgonfie come il mio umore. Bene. Ma non gli ho chiesto io di adattarsi al mio stato
d’animo.
Tant’è.
Salto giù dal mio trabiccolo, afferro il manubrio e trascino il mio ronzino decadente lungo le
strade, calcolando che adesso mi ci vorrà almeno il triplo del tempo per arrivare a casa, e che
ho davvero pochi eurini rimasti sull’altrettanto disastrato cellulare, quindi non è il caso di
spendere un sms per avvisare mia sorella del ritardo, tenuto conto che se per caso venissi
aggredita quell’unico sms mi sarà molto più utile, per avvisarla di chiamare polizia, ambulanza
e parenti vari. Caracollo sul marciapiede, scoccando occhiatacce agli automobilisti che mi
sfrecciano accanto strombazzando e facendo rombare i motori come se fossero re tirannici e
supponenti su troni a quattro ruote.
Avendo con me la bici, devo per forza passare per strade diciamo così ad ampio raggio, e
quindi dal parchetto delle Tre Querce. Non è quello che frequentiamo io e L., anzi, le rare volte
che l’ha proposto io mi sono opposta utilizzando le scuse più astruse e terrorizzate dai tempi
di John Belushi nei Blues Brothers.
Del tipo:
Quale parco? Quello? Quello in cui ho beccato la sifilide a quattro anni?
Che? Vuoi andare alle Querce? Sei impazzito, l’ultima volta ci hanno intercettato un insetto
velenosissimo della foresta Amazzonica fuggito da un laboratorio di genetica accanto al
negozio di H&M…
Che ci credesse o meno, L. una cosa l’aveva capita: odiavo quel parco e non avevo intenzione
di metterci piede.
E aveva ragione. L’importante era che non ne scoprisse mai il motivo: mi sarei comprata un
biglietto per un volo solo andata direzione Honolulu.