2. Il neorazzismo
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2. Il neorazzismo
2. Il neorazzismo La crescente immigrazione, dopo l’89 proveniente anche dall’Est Europa, trasforma in poco tempo la composizione sociale di molti paesi. Nazioni con lunghe tradizioni di emigrazione di massa – e l’Italia tra queste – si trovano impreparate ad affrontare la sfida. Nuovi conflitti tra «nativi» e migranti (forzalavoro sfruttata e priva di ogni tutela) esplodono nel quadro di una crisi economica strisciante, contribuendo ad aggravare un disagio sociale già profondo. La situazione offre ampi margini di manovra agli «imprenditori politici del razzismo»: partiti e movimenti xenofobi che promuovono una lettura dei conflitti sociali in chiave identitaria ed essenzialista, indicando nei migranti i colpevoli della disoccupazione e dell’insicurezza metropolitana. Bombardata dalla propagan154 IL RAZZISMO OGGI da securitaria, la «gente» introietta la paura, impara a temere per la propria identità, esposta all’attacco di «orde» di invasori. Questi movimenti etnicizzano i conflitti sociali ed economici, trasformando legittime rivendicazioni di diritti (lavoro, assistenza sanitaria, casa) in conflitti «etnici» e nella rivendicazione di un riconoscimento diseguale. A loro volta normative sempre più restrittive impongono a migliaia di immigrati una condizione di illegalità, alimentando un clima di guerra. Il risultato è che, mentre la collettività si chiude in una spirale di paura e rancore, milioni di lavoratori deboli e ricattabili si vedono costretti a offrirsi «in nero» alle imprese, come manodopera sottopagata e priva di qualsiasi tutela giuridica. Non si tratta soltanto del nostro paese. Di fronte alla nuova immigrazione tutta l’Europa ha reagito, nel corso degli ultimi vent’anni, con un atteggiamento di ferma chiusura. Sono stati rafforzati dispositivi di controllo, di reclusione e di espulsione dei migranti, in spregio alla loro dignità di persone, mentre poco o nulla si è fatto per contrastare, nell’opinione pubblica, il radicarsi di pregiudizi ostili e di propensioni violente. L’Europa si è arroccata come una fortezza, respingendo in modi sempre più duri i diseredati che tentavano di attraversare il Mediterraneo. Il numero di morti durante gli attraversamenti ricorda la contabilità di una guerra. I media, inclini alla criminalizzazione e alla discriminazione, fanno poi la loro parte nel rendere ancor più pesante l’aggressione alla dignità dei migranti. Di per sé non è, questo, un dato di assoluta novità. La sindrome dell’invasione o dell’assedio, con il suo 155 CAPITOLO QUARTO portato di reattività ostile e aggressiva, è quanto di più classico vi sia nelle relazioni tra comunità. Ma un elemento nuovo merita di essere registrato per quanto attiene alle forme espressive che connotano il «nuovo razzismo» che ha preso piede, in particolare in Europa, nella seconda metà del secolo scorso. Come si è avuto più volte modo di osservare, le tragiche esperienze della seconda guerra mondiale hanno segnato in profondità la coscienza europea e, per conseguenza, le forme della cultura e del discorso pubblico. Una delle conseguenze più vistose della crisi morale apertasi a seguito di quella immane tragedia è stata la generale – benché tacita – «tabuizzazzione» del tema «razziale», intorno al quale, durante gli anni del delirio nazifascista, si erano verificati gli orrori più sconvolgenti. Di «razza» si è sostanzialmente smesso di parlare per una ventina d’anni, dopo la fine della guerra e, soprattutto, dopo la scoperta di quanto era avvenuto all’interno dei campi di sterminio. Paradossalmente, a non far più uso di una terminologia esplicitamente razzista erano proprio i movimenti neofascisti e le formazioni della destra «radicale» che, pure, sopravvivevano e riconquistavano vigore in tutti i paesi occidentali. In una battuta, di «razze» non parlavano più nemmeno i razzisti (che non per questo, tuttavia, erano scomparsi). Chi per primo si avvide della cosa ed ebbe il merito di lanciare l’allarme fu il sociologo francese Pierre-André Taguieff. Nel 1987 egli pubblicò un testo ormai classico nella letteratura critica del razzismo contemporaneo – La force du préjugé – che mette lucidamente a fuoco le strategie mimetiche del razzismo post-bellico: l’impiego di termini, metafore, re156 IL RAZZISMO OGGI gistri lessicali e retorici profondamente diversi da quelli usuali, al fine di formulare teorie analoghe in forme accettabili, appunto perché non immediatamente riconducibili alla tradizione (ormai inaccettabile e per di più screditata sul terreno scientifico) del razzismo europeo. Come sappiamo, le classificazioni razziste hanno un carattere marcatamente dinamico. Funzionali alla legittimazione di rapporti di forza storicamente determinati, esse sono necessariamente soggette a continui adattamenti. Abbiamo visto che la descrizione di un gruppo umano come «razza» è un artificio, un’invenzione, una costruzione di nessi rigidi tra elementi fisici (reali o presunti) e aspetti morali e culturali (altrettanto fittizi o deformati). In sostanza, lo sguardo razzista isola le differenze (più o meno immaginarie) per naturalizzarle (per strutturarle, cioè, nel soma), attribuendo loro un valore gerarchizzante di segno negativo o positivo. Ora, l’analisi di Taguieff ha mostrato come questo stesso dinamismo, questa notevole capacità di adattamento dell’ideologia razzista alle situazioni sociali, politiche, culturali più varie, sia entrata in gioco, a partire dagli anni sessanta, generando un nuovo lessico razzista sotto mentite spoglie. La confutazione scientifica del concetto di «razza» e il tabù del razzismo instauratosi dopo la catastrofe dello sterminio nazista hanno fatto sì che la forma del razzismo mutasse profondamente, senza che ne venisse tuttavia disattivata la logica funzionale. Taguieff definisce questo fenomeno «svolta culturalista» o «differenzialista» del razzismo, o insorgenza di un «neorazzismo» incline a riconoscere (o inventare) ed essenzializzare le differenze culturali (tradizioni, lin157 CAPITOLO QUARTO gue, religioni, stili di vita e, appunto, «culture») piuttosto che quelle fisiche (somatiche, fenotipiche o genotipiche). La parola «razza» è tendenzialmente bandita, e sostituita con la più innocente (a prima vista) «etnia», all’interno di una retorica che – in apparenza – dismette qualsiasi intento inferiorizzante e gerarchico, sostituendovi la disposizione al mite riconoscimento delle specificità, delle peculiarità e, appunto, delle differenti identità. Dov’è il veleno di questa posizione, apparentemente antitetica a quella razzista? Lo scopriamo se, superato il piano delle parole, accediamo a quello dei significati che esse assumono all’interno del discorso «neo-razzista». Le differenze che esso tematizza e di cui esige il riconoscimento sono irriducibili, fisse, in sostanza naturali. Il che comporta che le «culture» poste a confronto non hanno in realtà nulla di storico, di mobile, di aperto al reciproco confronto. (Utilizzando la polarità funzione/struttura, potremmo dire che le funzioni culturali vengono arbitrariamente tradotte in fattori strutturali.) Tra quelle «culture» si teorizza una insuperabile incomunicabilità. E, come in una reazione a catena, la stessa scoperta di significati nascosti (tanto più insidiosi in quanto dissimulati dietro le parvenze di un lessico benevolo) coinvolge la nozione di «etnia». Nella Grecia classica ethnos era il nome con cui veniva designata una popolazione priva di istituzioni politiche. In questo senso, si contrapponeva a demos, che indicava, al contrario, il popolo della città (polis), la comunità politica. L’accezione negativa, difettiva, del termine «etnia» si è conservata nel corso del tempo, connotando la prospettiva tendenzialmente natu158 IL RAZZISMO OGGI ralistica delle scienze etnografiche. Eccezion fatta per quei saperi critici polemicamente autodefinitisi «etnografia urbana», l’idea è che si dia etnografia ogni qualvolta non vi sia materia per uno studio storicamente orientato di istituzioni sociali e politiche. In buona sostanza, l’etnografo studia i gruppi umani in quanto «primitivi» (se non propriamente animali), ed è superfluo osservare quanto su tale prospettiva gravi ancora la massa di pregiudizi che tra Cinque e Settecento – ma allora con ben maggiori ragioni – informavano di sé lo sguardo europeo sul Nuovo mondo. «Etnia» definisce i soggetti collettivi per sottrazione. Nell’accezione contemporanea, invalsa nei mezzi di informazione e nella retorica politica, designa gli «altri» gruppi umani, «culturalmente» diversi (da noi), tacitamente svalorizzandone costumi e modelli di vita. In generale «etnico» allude a tribale, «alla preminenza di legami di sangue, all’originarietà, ancestralità, spontaneità» (Gallissot, Rivera, 1997: 78). Ecco perché «etnici» sono sempre gli altri («i gruppi e le culture che si discostano dalla norma delle società e della cultura maggioritarie» [ivi: 79]), mai noi. Ma se questo è vero, si tratta di non fermarsi alla superficie delle parole, e di cercare di raggiungere il terreno del significato. In molti casi non è difficile intravedere sotto l’etichetta dell’«etnia» la sostanza della «razza»: la nozione rigida dell’alterità come differenza culturale assoluta di valori, di abitudini, di sguardi sul mondo e – in ultima analisi, di natura. Come la «razza», anche l’«etnia» e la stessa «cultura» sono in definitiva concepite non già come prodotti della storia e delle dinamiche sociali, bensì come elementi primari, deterministicamente produttivi delle specifi159 CAPITOLO QUARTO cità di individui e gruppi. A sua volta, anche l’etnicizzazione di un gruppo sortisce il medesimo effetto riduzionistico della razzizzazione: le differenze interne (di classe, di genere e di potere) sono mascherate e sommerse in una sintesi essenzializzata («gli albanesi», «i somali», «i rom», «gli islamici» ecc.), volta a giustificarne la subordinazione e l’emarginazione rispetto al corpo sovrano della società locale o globale (ivi: 79). 3. «Etnie» marginali Il tabù della «razza», o anche solo l’idiosincrasia europea per il lessico esplicitamente razzista, non si estendono egualmente dappertutto. La dimostrazione più eclatante del fatto che in molte parti del mondo la vecchia tentazione del razzismo biologico persiste, e che il luogo comune pseudoscientifico della differenza genetica tra le «razze umane» e della trasmissione ereditaria dei loro (presunti) tratti caratterizzanti non è affatto accantonabile come un’anticaglia (bensì sopravvive, non soltanto sottotraccia e nelle pieghe del pregiudizio popolare, ma nelle stesse sedi accademiche) è lo straordinario e durevole successo «di critica e di pubblico» incontrato da un’opera intitolata The Bell Curve, apparsa in prima edizione, negli Stati Uniti, nel 1994. La tesi sostenuta dai due autori (lo psicologo Richard J. Herrnstein e il politologo Charles Murray) con dovizia di «prove» statistiche e psicometriche è – né più né meno – che le differenze sociali e culturali hanno una base biologica. Non sorprenderà sapere che decine di grafici e istogrammi «dimostrano inoppugnabilmente» l’inferiorità mentale dei neri ame160