L`autobus come ambiente di lavoro - Archivio Fondazione Istituto per

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L`autobus come ambiente di lavoro - Archivio Fondazione Istituto per
Documento di presentazione della Ricerca “L’autobus
come ambiente di lavoro”.
Carlo Bonora
– Fondazione Istituto per il Lavoro
Comincio con alcune domande che rivolgo a tutti noi. Quando si
affrontano i temi di salute e sicurezza negli ambienti di lavoro si può stare
“sopra le righe”? Si può, cioè, ragionare e scrivere al di là, o anche solo “a
lato” della situazione reale che i lavoratori incontrano e vivono? A che
cosa serve ragionare sui “fattori di rischio” se non si ha ben presente il
dovere di confrontare lo studio e la ricerca con l’integrità socio-psicofisica del lavoratore, nella sua specificità lavorativa e di come questa è
organizzata?
Questa ricerca ha avuto esito qualitativo in quanto chi l’ha scritta ha
misurato il proprio pensiero sulle “condizioni di lavoro” reali, in cui il
conduttore di autobus vive la “qualità” della propria “vita lavorativa”,
ponendosi in sintonia con gli indirizzi europei, alla cui elaborazione ha
contribuito la Fondazione Europea che ha sede a Dublino ( La Fondazione
Europea che studia e propone il miglioramento delle Condizioni di Lavoro
e della qualità della vita lavorativa). Tali indirizzi aprono una prospettiva
innovativa quando si devono affrontare i problemi che si oppongono al
benessere lavorativo; infatti essi sono orientati non più (o non solo) a
comprendere l’incidente sul lavoro nella logica “causa-effetto”, sulla
salute dell’uomo ma anche nell’ambito più profondo della vita
lavorativa che comunque si svolge in un ambito di relazioni e di
azioni.
Agendo quindi sui sistemi di sicurezza sul lavoro e del modo di lavorare
occorre avere in mente che la gestione della sicurezza passa attraverso un
grande sforzo di intermediazione culturale che coinvolge, insieme, il
management e i lavoratori. Ma perché ciò avvenga è necessario che
vengano definiti e tenuti in primo piano “i determinanti sociali” del
lavoro, orientando così tutti coloro che si occupano di prevenzione e
salute/sicurezza (compresi i lavoratori) nel e sul lavoro ad un impegno
concreto e coinvolgente che abbia come obiettivo l’integrità socio-psicofisica del lavoratore stesso.
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Ponendoci in questa prospettiva si è incontrato un primo scoglio da
superare: il posto di guida è posto di lavoro o non lo è? Sembra uno
strano quesito in quanto fa riferimento ad un paradosso, ma non lo è. Vi
sono addirittura cause legali in atto (e non solo in Italia) che affrontano il
problema in modo controverso. Le Aziende negano, i lavoratori e i
sindacati dei lavoratori lo affermano. Tutto ciò è paradossale. Anche noi
qui ci stiamo occupando della salute e della sicurezza di lavoratori (gli
autisti dei bus “urbani”) di cui non esiste, o potrebbe esistere, il posto di
lavoro.
Il dubbio nasce anche dalla distorta interpretazione dell'art. 30 comma 2
del D.Lgs 626/94 che recita"le disposizioni del presente titolo (Titolo II Luoghi di lavoro) non si applicano: a) ai mezzi di trasporto..." estendendo
tale esclusione a tutto il D.L.gs 626/94.Il titolo II chiaramente NON PUO'
essere applicato ai mezzi di trasporto perchè elenca una serie di condizioni
igieniche e strutturali che devono essere rispettate per i luoghi di lavoro
tipo altezza, cubatura, ricambi d'aria, ecc. che nel caso dell'autobus sono
vincolate da altre norme quali quelle della Motorizzazione.
Mentre l’art.1 (Campo di applicazione) recita “1. Il presente decreto
legislativo prescrive misure per la tutela della salute e per la sicurezza dei
lavoratori durante il lavoro, in tutti i settori di attività privati o pubblici…
.”. Quindi il datore di lavoro di una azienda di trasporti, sia pubblica che
privata, deve eseguire la Valutazione del Rischio anche per gli autisti e di
conseguenza sottoporre i lavoratori, se nella Valutazione ne emerge la
necessità, ad accertamenti sanitari mirati su indicazione del Medico
Competente.
Uno dei fattori di rischio ai quali sono esposti i conducenti di autobus e
che determina il “mal di schiena” è il rischio vibrazioni. Da poco è stata
recepita la direttiva europea sulle vibrazioni con il D.Lgs. 187/2005. A tal
proposito si fa presente che sul sito dell’ISPESL all’indirizzo
http://www.ispesl.it/test/index.htm è attiva la Banca Dati Vibrazioni utile ai fini
della valutazione di rischio. E' noto che l’esposizione umana a vibrazioni
meccaniche può rappresentare un fattore di rischio rilevante per i
lavoratori esposti come i conducenti di autobus. Basti pensare che il mal di
schiena causato da vibrazioni è diventato nel 2004 la prima causa di
malattia professionale nella Repubblica Federale Tedesca e in Italia si
stima che il 21% dei lavoratori sia esposto a vibrazioni .
(Attualmente l'Italia partecipa ad un progetto europeo denominato
VIBRISKS, di cui è responsabile il prof. M.J. Griffin dell’Institut of Sound
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and Vibration dell’Università di Southampton. Il responsabile del progetto
in Italia è il prof. Massimo Bovenzi - Università degli Studi di Trieste- che
svolge la sua attività in collaborazione con la dott.ssa Iole Pinto Responsabile del Laboratorio Agenti Fisici della ASL 7 di Siena. Tale
progetto è iniziato nel febbraio 2003, ha la durata di quattro anni e
prevede sia studi epidemiologici che ricerche sperimentali. L’obiettivo
principale è quello di fornire all’UE dati significativi sull’appropriatezza
dei valori limite e delle metodiche valutative adottate per la prevenzione
del rischio vibrazioni in ambito europeo. Per quanto riguarda il corpo
intero, lo studio prende in esame circa duemila lavoratori addetti a
differenti tipologie di mezzi, utilizzati in differenti realtà produttive:
autobus, camion, pale meccaniche, escavatori, trattori, carrelli elevatori,
automobili e veicoli fuoristrada. La ricerca non si limita solo ad indagare
la relazione delle vibrazioni meccaniche con il mal di schiena in zona
lombare, ma anche altri tipi di disturbi quali ad esempio disagio della
persona esposta o “mal di trasporti”. Questi ultimi effetti sono presi in
esame nell'ambito dello standard ISO 2631 (appendici C, D) e
generalmente possono inquadrarsi nell'ambito della valutazione dei
requisiti ergonomici del luogo di lavoro richiesti dal D.L.gs 626/94).
La ricerca impegnava su due aspetti che riguardano la salute del
conducente di automezzi nel traffico urbano: gli aspetti ergonomici della
guida in una visione organizzativa “tecnica” e l’assorbimento di inquinanti
da traffico (con un’attenzione particolare al benzene e all’ Ossido di
Carbonio).
Nell’affrontare i temi offerti dal progetto di ricerca il gruppo dei ricercatori
hanno reso possibile il rapporto nella forma (e nella sostanza) che oggi si
presenta, condividendo alcuni valori a cui fare riferimento.
La ricerca scientifica fa riferimento a conoscenze specifiche consolidate
che però non possono essere fine a sé stesse. Accanto alle certezze (di cui
il “metodo” è emblema) vi sono stimolanti incertezze che vanno colte con
coraggio e intelligenza in quanto mettono in discussione ortodossie
metodologiche e sistemi consolidati di riferimento. In particolare, nel caso
di questa ricerca scientifica, insieme al difficile e delicato compito di
argomentare intorno a fattori ergonomici e ad insorgenze di malattie
professionali a causa della presenza di sostanze chimiche e “fisiche”, si è
ricondotta l’argomentazione alle valutazioni del rischio per il lavoratore (il
conducente di bus di servizio urbano) e al complesso concetto di
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benessere/malessere nel lavoro. Insieme alla rigorosità scientifica si è
dunque perseguito l’obiettivo di “aggiungere” valore sociale. La ricerca
scientifica, quando affronta il problemi del lavoro (perché di questo si
tratta) non può prescindere dal fare riferimento a fattori che ne devono
indirizzare scelte di metodo e di perseguimento di obiettivi. Tali fattori
possono essere riassunti in due macrosistemi culturali: l’antropologia (e il
fattore antropocentrico, in primis) e l’organizzazione del lavoro. Si è
pensata e condivisa l’idea che se i ricercatori si collocano in una
dimensione intra partes e si muovono in questi ambiti, arricchiscono il
loro approccio e rendono ancora più “rigorosa” la scientificità del risultato
del loro lavoro. Inoltre essi propongono con chiarezza il loro pensiero,
rendendolo comprensibile non solo ai loro pari ma a tutti gli stakeholders
della ricerca, ed in particolare a coloro che sono più interessati ai problemi,
in quanto da loro stessi vissuti nella quotidianità: i lavoratori.
Ci è sembrato utile proporre, nella prima parte del rapporto, la cultura
ergonomica nella sua dimensione innovata, non più gravitante sulle
“protesi” tecnologiche ma sul “migliore” governo delle condizioni in cui il
lavoratore esplica e rende visibili i suoi saperi e la sua capacità di
dominare il processo lavorativo in un sistema di relazioni e di
cooperazione. Si propone di intervenire sulle situazioni in “modo più
sistemico”1, tenendo in considerazione tutte le variabili della realtà presa in
esame e di cui si propongono soluzioni per il miglioramento delle
condizioni di lavoro. L’approccio sistemico chiarisce il piano di intervento
in quanto esso è attento a tutte le parti che compongono il “sistema
lavoro”. Si crea quindi la possibilità di individuare al meglio sia ciò che
deve fare il lavoratore, sia quali sono gli aspetti fisici della macchina ( o
del macchinario) su cui intervenire. Quindi, la via che si propone,
attraverso questa ricerca, è quella rappresentata dall’ “ergonomia di
concezione che, invece di aggiustare il sistema strada facendo (ergonomia
di correzione), agisce a monte…”2, coinvolgendo tutti gli stakeholders del
sistema3. La cultura ergonomica si pone nella prospettiva di prevenire il
danno ma anche il rischio, molto spesso presente nel modo in cui è stato
organizzato il lavoro; essa fa questa scelta in una visione antropocentrica:
nel sistema lavoro il lavoratore sta al centro in quanto soggetto in grado di
comprendere e rappresentare la realtà che lo circonda.
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Vedi: Paola Cenni, Applicare l’ergonomia; Franco Angeli 2003
Paola Cenni. ibidem
3
Fabio Strambi, Claudio Stanzani, Massimo Bartalini, Manuela Cucini (a cura di), Ergonomia e norme tecniche di
sicurezza:il contributo degli utilizzatori, Franco Angeli 2001
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La medicina del lavoro si cimenta da tempo con il paradigma della
prevenzione e non solo, come troppo spesso continua ad avvenire, della
cura e della riabilitazione dell’incidentato o del malato. Ciò porta ad una
valutazione non frammentaria ma “globale” del rischio, se pur attenta e
analitica per tutti i fattori che, a volte singolarmente, a volte (e molto
spesso) in sinergia, ne dimensionano gli effetti sull’uomo. Per questo la
ricerca condotta nella seconda parte del rapporto fa riferimento a tutti gli
inquinanti da traffico urbano, che possono avere effetti sui conducenti
degli autobus, comprese le “polveri fini”.
Nell’elaborazione dei due temi prioritari di ricerca, assegnati alla
Fondazione Istituto per il Lavoro dall’ISPESL (le problematiche
ergonomiche e gli effetti sulla salute degli autisti da inquinanti da traffico),
i ricercatori fanno continuamente emergere la necessità di avere, come
elemento di misura di efficacia, l’aspetto sociale del lavoro. Trattandosi di
valutare le ricadute sulla salute e sulla sicurezza dei lavoratori, la ricerca
non può che essere propositiva. Essa, dunque, deve sapersi integrare con
cognizione di causa negli aspetti organizzativi del lavoro, trasformandosi
da ricerca teorica in ricerca-intervento. Gli aspetti sociali ed organizzativi
del lavoro assumono rilevanza e portano, accanto alla “verticalità
valoriale” rappresentata dagli “specialisti” la dimensione del sociale.
Questa, integrandosi e interagendo continuamente su ciò che bisogna
conoscere, aiuta a progettare “benessere organizzativo” nel luogo di
lavoro.
La terza parte del rapporto dà un contributo sociologico che si ritiene
indispensabile quando occorra affrontare il “che fare?” per cambiare. In
tal modo si è reso ancor più evidente il taglio psico-sociale; esso acquista e
porta valore innovativo in una prospettiva di miglioramento delle
condizioni di lavoro e di vita lavorativa che non può più essere
rappresentato soltanto dalla “difesa” dell’equilibrio psico-fisico in
ambiente socio/tecnico. Vi è un punto di criticità, in tutto questo, che
comunque va rilevato, anche se presenta aspetti contradditori non privi di
interesse, sia dal punto di vista del sistema aziendale di sicurezza (regolato
dalle norme correnti, per esempio la D.Lgs 626/94) sia da quello
dell’organizzazione del lavoro. Qual è la questio? La si descrive con una
domanda aperta: è possibile la definizione del mezzo di trasporto
(autobus) in relazione all’obbligo di inserimento dello stesso nel
documento di valutazione dei rischi?
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Dalle argomentazioni che sono state trattate in questo rapporto si può
ragionevolmente dedurre che se ci si deve preoccupare di migliorare le
condizioni lavorative e di qualità di vita sul mezzo di trasporto (ergonomia
del posto di guida, interventi di miglioramento per garantire all’autista un
microclima decente, tutela del benessere psico-sociale, ecc.) la conduzione
di un mezzo di trasporto avviene in un “luogo/posto di lavoro”. D’altra
parte, dalla lettura del D.Lgs 626/94 e degli orientamenti CEE in materia
di valutazione dei rischi contenuti nella linee guida della stessa D.Lgs
626, si può anche intendere che il mezzo di trasporto è più assimilabile
all’attrezzatura di lavoro che al luogo di lavoro; pur tuttavia tutta la
regolazione nazionale ed europea sembra portare alla conclusione che i
mezzi di trasporto sono soggetti alla valutazione dei rischi.
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