Viaggi del Sentimento_maggio_2014

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Viaggi del Sentimento_maggio_2014
QUADERNI
PARMENIDE
Rivista di cultura e didattica
ANNO IX | 18 | MAGGIO 2014
ISTITUTO SUPERIORE PARMENIDE
VALLO DELLA LUCANIA salerno
QUADERNI PARMENIDE
Rivista semestrale
dell’Istituto di Istruzione Superiore “Parmenide”
Vallo della Lucania
Anno IX – n° 18 – maggio 2014
Direttore
Francesco Massanova
Redazione
Santa Aiello, Eugenia Rizzo
Copyright
Istituto di Istruzione Superiore “Parmenide”
Via L. Rinaldi, 1
84078 Vallo della Lucania
Tel /fax 0974/4147
www. liceoparmenidevallo. it
Stampa Editrice Gaia Srl - www. editricegaia. it
In copertina: Paul Gauguin, Fatata te miti
Indice
Editoriale
Francesco Massanova
pag. 7
Il viaggio di Ungaretti11
Vincenzo Guarracino
Sulla scrittura di Enza Silvestrini19
Carlo Di Legge
Per la poesia di Francesco Massanova23
Santa Aiello
Conversazioni di filosofia29
Carlo Di Legge
Didattica e laboratori
Un breve viaggio di vite spezzate41
A cura di Santa Aiello e della classe v a scienze umane
Laboratorio sulla figura del migrante51
A cura di Teresa Apone e della classe ii a scienze umane
Il viaggio della luna in Leopardi e altro59
Teresa Apone
Viaggio nell’antichità: Elea-Velia65
Rosanna Caiazzo
Velia: viaggio tra antico e moderno69
Marianna Bruzzese
Il sentimento di chi resta e aspetta73
Angela D’Angelo
Un viaggio nella ragnatela del hikikomori da Singapore a Firenze79
Arianna D’Angelo
Un viaggio... appena iniziato85
Giulia Di Leo
Il viaggio della vita
Gabriella Di Lorenzo
93
Camminar si deve!97
Nicola Sagaria
Analisi testuale: “Dialogo della terra e della luna”,
tratto dalle Operette Morali di Giacomo Leopardi101
Eugenia Rizzo
In viaggio con la musica107
Giulia Di Leo
Hanno collaborato a questo numero:
Francesco Massanova
Vincenzo Guarracino
Carlo Di Legge
Enza Silvestrini
Santa Aiello
Maria Teresa Apone
Eugenia Rizzo
Dirigente Istituto
Critico letterario e poeta
ex Dirigente Istituto e poeta
Docente, scrittrice
Docente Istituto
Docente Istituto
Docente Istituto
Studenti:
Classe II A scienze umane; Classe V A scienze umane; Marianna Bruzzese,
Rosanna Caiazzo V A liceo classico; Angela D’Angelo IV B liceo classico;
Arianna D’Angelo IV A scienze umane; Giulia Di Leo III D liceo linguistico;
Gabriella Di Lorenzo III A scienze umane; Chiara Giannella, Marilù Ponzo
V A liceo socio-prico-pedagogico; Nicola Sagaria I B liceo classico.
Francesco Massanova
editoriale
Siamo giunti al termine dell’anno scolastico ed è per me inevitabile ripercorrerlo a ritroso, soffermandomi sulle varie tappe che lo hanno scandito.
Non a caso utilizzo termini riferibili all’attività del viaggiare ed implicanti
movimento, direzione e sosta. La nostra stessa esistenza, per il semplice motivo di svolgersi nel tempo, può essere considerata come un lungo viaggio e lo
stesso pensiero, implicando un percorso, rimanda ad un movimento e quindi
al viaggiare. Quale titolo allora più adeguato – “Viaggi del sentimento” – per
questo numero 18 della rivista «Quaderni Parmenide» che giunge alla fine di
un anno scolastico caratterizzato da significativi cambiamenti e da esperienze
per me sicuramente importanti e formative. Considerando il tema proposto,
mi piace fare una riflessione: se viaggiare significa andare incontro a luoghi
e a persone diverse, affrontare nuove situazioni, ciò accade inevitabilmente
anche senza spostarsi materialmente dal posto in cui ci si trova. Ipoteticamente, per una questione di relatività, è indifferente che Maometto vada alla
montagna o che la montagna vada a Maometto, in tal senso, chiunque, pur
stando fermo, viaggia ed è meta di viaggio per chi incrocia il suo cammino e
per le situazioni nuove che ogni giorno vive. Personalmente allora posso dire
che durante quest’anno scolastico, sebbene non mi sia allontanato spesso da
Vallo della Lucania e dal suo circondario, ho viaggiato molto!
Ed ancora, dice Mario Soldati: “Il viaggio è un sentimento, non soltanto un
fatto”, cosa per me assolutamente vera. Richiamare alla memoria le persone
che ho incontrato sul mio percorso e i momenti vissuti durante questo primo
anno di dirigenza del Liceo Parmenide, implica rivivere le sensazioni provate, assaporarle, libero da ansie ed in una luce che consenta di inquadrarle
nella loro giusta dimensione. Nel rievocare i passaggi principali dell’ultima
giornata dedicata alla poesia, riaffiorano piacevoli alla memoria gli interventi
del prof. Guarracino, del prof. Di Legge e della professoressa Silvestrini, che,
editoriale.
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in vario modo, ci hanno svelato aspetti inediti del mondo poetico e filosofico.
Il prof. Guarracino, in modo ineguagliabile, con la dialettica avvincente che
lo contraddistingue, non ha avuto difficoltà a catalizzare l’attenzione della
folta platea di alunni e docenti. Attraverso l’analisi di alcune liriche, ha inteso
porre in rilievo i tratti essenziali dell’uomo Ungaretti, rafforzandoli con il
racconto di aneddoti ed episodi di vita. Il ritratto emerso non è stato quello
di un poeta chiuso nel suo impenetrabile ermetismo, ma quello di un uomo
con le sue debolezze e i suoi pregi e, alla luce di ciò, le stesse poesie hanno
assunto una connotazione del tutto nuova. L’ amico, poeta e filosofo, Carlo
Di Legge, introducendo le poesie della prof. ssa Enza Silvestrini ha saputo
legare, attraverso la sua logica stringente, animata da vivo sentimento, il tema
del viaggio ai momenti salienti della vita di ciascuno di noi, momenti gioiosi,
ma anche tristi e dolorosi quali quelli che sono stati al centro della tematica
delle poesie di Enza Silvestrini. La poetessa ha trattato in maniera essenziale
ed autentica il tema della partenza, intesa come momento che precede la
morte per chi si trovi a vivere gli ultimi attimi di sofferenza nella malattia.
L’argomento ha indotto tutti i presenti ad un’intensa riflessione dalla quale siamo emersi sicuramente scossi, ma consapevoli dell’ineluttabilità di un
evento che fa parte della vita e che come tale va sentito e vissuto. Ricordo,
inoltre con affetto il breve, ma pregnante intervento dell’amico Omar Pirrera
il quale, declamando una sua lirica, ha gettato uno sprazzo di viva luce sul
sentimento più sublime, l’amore.
Infine, come dimenticare gli interventi dei ragazzi del Parmenide, linfa vitale del nostro Istituto e vera ragione di essere di tutto ciò che è stato fatto, e
i loro insegnanti, anzi direi maestri, le cui virtù, nelle occasioni meno formali,
emergono vivide ed incondizionate. Un grazie particolare alle mie docenti
collaboratrici Santa Aiello e Eugenia Rizzo che hanno curato la redazione
della rivista. Il mio viaggio a ritroso potrebbe continuare ancora, ma è tempo
di fermarsi ed invertire la marcia. C’è tanto da fare, ma tutti insieme sapremo affrontare il futuro, che come recita il motto del Parmenide ha un cuore
antico.
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FRANCESCO MASSANOVA
Vincenzo Guarracino
IL VIAGGIO DI UNGARETTI
Questo articolo è la trascrizione, ad opera delle alunne Chiara Giannella
e Marilù Ponzo, dell’intevento di Vincenzo Guarracino in occasione della
Seconda Giornata della Poesia.
Mi è piaciuto quello che ha detto il Dirigente Massanova, cioè che solo in certi momenti escono fuori certe parole e certe emozioni. L’emozione si traduce in
scrittura, una traccia d’inchiostro e si deposita nelle parole. Sono stato invitato
all’università del Cairo a parlare di Leopardi. Oggi sono qui a Vallo a parlare
di Ungaretti, un italiano, nato ad Alessandria d’Egitto, figlio di emigranti di
formazione composita. I genitori provenivano dalla Toscana che è molto simile
al nostro Cilento, soprattutto nelle parti di Lucca e nei dintorni di cui lui parla
in una celebre poesia “I fiumi”. Il padre lavorava per la costruzione del canale
di Suez e lui nasce nel 1888, i suoi genitori erano lì in un caos di lingue, di emozioni e d’ideologie. Nella poesia “Il porto sepolto’’ evoca un luogo, dinanzi ad
Alessandria d’Egitto, dove avevano scoperto dei resti archeologici che rimandavano all’antico porto di cui si favoleggiava, il porto di Alessandria d’Egitto,
e lo legge come una metafora di quello che noi abbiamo dentro, sepolto, qualcosa che deve essere dissotterrato attraverso la parola.
Il giovanissimo Ungaretti aderisce a un’istituzione fondata da un emigrante intellettuale italiano, “la baracca rossa” e si capisce che il capannone era
inequivocabilmente di colore rosso, una sorta di anarchia costituzionale. È
difficile essere persone d’ordine in gioventù, infatti quando va a Parigi il giovanissimo Ungaretti vive una situazione di estrema attenzione, di estremo
disordine. Parigi era un altro luogo di grandissimo fervore intellettuale e artistico: Picasso, i grandi movimenti del ‘900.
I suoi genitori, come tutti i genitori di questo mondo, vogliono che il figlio
abbia il meglio della formazione e studi nei luoghi di cultura. I grandi, gli
intelligenti riconoscono le loro esperienze guardandosi a specchio con altri
intellettuali del passato.
Negli anni dieci, Parigi vive un momento difficile, di grande disorientamento
e di guerra, nascono i grandi movimenti che sconvolgeranno l’arte del noveIL VIAGGIO DI UNGARETTI 13
cento: Picasso, i cubisti, Amedeo Modigliani, la figura più importante del ‘900
italiano e Ungaretti conosce questi artisti. Sempre a Parigi nasce il movimento
che rinnoverà l’arte: il Futurismo. Filippo Tommaso Marinetti è legato ad Alessandria d’Egitto, a Parigi fonda il manifesto del Futurismo. Il giovane Ungaretti in questo insieme cerca di studiare, ma studia male, va alla Sorbona insieme
all’amico Moammed Sceab, che si suicida giovane, figura presente nella raccolta “Il porto sepolto” legata proprio alla morte di questo amico.
Un testo in cui Ungaretti spiega il suo concetto di poesia è “Il commiato”,
un saluto, quasi un abbandono, scritto in un luogo che rappresenta un teatro
di guerra, perché tutta la poesia di Ungaretti anche quella precedente alla
prima Guerra Mondiale e prima de “Il porto sepolto”, è legata al tema della
guerra.
Ungaretti combatte come volontario nella prima guerra mondiale. Oggi
guardiamo un volontario in modo strano, ma i volontari venivano anche da
paesi come l’America o da Parigi. Ungaretti, giovane infatuato di idee mazziniane, ha un atteggiamento aggressivo, ma durante la guerra matura una
concezione differente e pacifista. Nella poesia “Il commiato”, scritta il 2 ottobre 1916 in piena guerra, il poeta descrive il luogo del Carso, dove combatté
e scopre il carattere effimero e fragile dell’uomo. Celeberrimo è il testo: “Si
sta come d’autunno sugli alberi le foglie”. Tutti i commentatori concordano
che Omero aveva fatto una simile citazione, e anche Dante nell’Inferno parla
delle foglie che una a una si staccano, però Ungaretti la rinnova totalmente,
anche nella grafia del testo infilando una dietro l’altra queste parole in una
maniera che è singolare e straordinaria.
In Italia aveva fatto scalpore un’invenzione tipografica come quella che operava Ungaretti. Non ideata da Ungaretti, portava per la prima volta a una nuova
dimensione lirica, operazione che avevano già fatto anche i futuristi. In Francia
Guillaume Apollinaire utilizzava i famosi calligrammi, uno dei più importanti è
il testo “Piove” dove le parole scorrono dall’alto verso il basso quasi ad animare
il movimento della pioggia. Nelle scuole medie i professori più sensibili fanno
comporre poesie a forma di fiori, di goccia. Una celeberrima poesia di Pasolini
è a forma di rosa. Ma Pasolini non ha niente a che fare con questo poeta, pur
evidenziando una certa attinenza con questi esercizi formali.
Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie: una frase che a noi sembra disporsi modestamente su un unico verso, graficamente è posta su cinque versi,
perché fa questo? Ungaretti lo spiega al critico Ettore Serra con l’ausilio della
lirica “Il commiato”:
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Vincenzo Guarracino
Gentile Ettore Serra,
poesia
è il mondo l’umanità
la propria vita
fioriti dalla parola
la limpida meraviglia
di un delirante fermento.
Quando trovo
in questo mio silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
come un abisso.
È una poetica questa qui, una definizione del proprio modo di concepire la
poesia, un’indicazione per tutti quelli che vogliono scrivere poesia. Comincia
da qui la poesia del ‘900.
Molti hanno considerato Ungaretti il caposcuola del movimento poetico
che da lì a un decennio, alla fine del 1920, si chiamerà Ermetismo. Ungaretti
rifiutava questa definizione, era troppo orgoglioso e vanesio.
Io ho conosciuto Ungaretti e per questo lo so. Molti del mio tempo, che
hanno la mia età, ricordano Ungaretti quando leggeva, quando interveniva
in tv, quando introduceva delle opere. Tra le tante cose, ha introdotto un
famosissimo sceneggiato televisivo “L’Odissea” e sembrava Omero, qualcosa
d’impressionante.
Ho avuto la sorte di conoscerlo e possiedo anche un suo autografo, importantissimo, l’impronta della sua mano, la sua mano immersa nell’inchiostro e
poi poggiata su un foglio bianco con la sua firma. Ci pensate, in casa mia ho
l’impronta della sua mano incorniciata. Lui si firmava semplicemente: Ungà!
Ungà è diventato fondamentale per tutta la storia poetica del ‘900, soprattutto quando nasce il movimento dell’Ermetismo. Ma cosa voleva dire? Una
poesia ermetica ha qualche cosa dentro che deve essere decifrata, com’era
Ermete Trismegisto, un personaggio dell’antichità, un medico che aveva virtù
taumaturgiche. Anche la parola deve essere come un qualcosa di taumaturgico, qualcosa che ti rinnova e ti salva.
Molti poeti aderiranno a questo movimento, il primo che mi viene in mente
è Salvatore Quasimodo, ma molti altri fiorentini, soprattutto Mario Luzi, poeti che hanno avuto un ruolo, un peso anche nella nostra storia civile. Mario
IL VIAGGIO DI UNGARETTI 15
Luzi, morto nel 2005, era stato senatore a vita. Aveva usato perfino sfidare le
ire del Cavaliere nel Senato. Poeti come Luzi, Boccioni, Alfonso Gatto, un
nostro poeta del salernitano, ti entrano nel sangue e veramente ti nutrono.
Caratterialmente Ungaretti un po’ era orgoglioso e un po’ si faceva indietro. Qualche critico importante ha detto che lui stesso era ermetico, possedeva cioè i caratteri del movimento di cui sarebbe stato il fondatore.
La stagione in cui nasceva l’Ermetismo è la stagione degli anni ‘30 ed è in
quegli anni che si colloca una raccolta importante di Ungaretti “Sentimento
del tempo”. La poesia “L’isola” è il testo emblematico di questa raccolta. Alla
stazione di Vallo – Castelnuovo, ho notato un grande tabellone pubblicitario
con Elea – Velia su cui è citata una frase di Ungaretti, quindi anche alla gente
più comune si può offrire una frase di un poeta così curioso della cultura
antica e di Velia.
Su Palinuro il nostro amico De Marco, scomparso un anno fa, aveva parlato proprio del sorriso di Palinuro e anche un testo di Ungaretti è dedicato a
questo mito e personaggio virgiliano. Ungaretti aveva viaggiato molto e, per
riallacciarmi alla raccolta “Il sentimento del tempo”, c’è da dire che aveva soggiornato con grande interesse a Recanati dove era stato invitato nel 1928 dai
conti Leopardi. In un primo momento aveva nutrito un sentimento di diffidenza nei confronti della modestia, quasi meschinità del natìo borgo selvaggio
e del comportamento della famiglia Leopardi nei confronti del ricordo del
loro antenato, cosa che può constatare chiunque vada a Recanati. Non sono
cambiati molto, li ho conosciuti e frequentati, piccoli, modesti e anche meschini proprietari terrieri di paese, tranne la contessa Anna Leopardi, morta
qualche anno fa, che conservava e aveva il culto della memoria dell’antenato.
La stessa impressione aveva avuto anche Ungaretti. Stando lì e respirando
l’aria del palazzo Leopardi, impregnandosi dello spirito del poeta recanatese
che aveva scritto pagine bellissime, attraverso quel soggiorno, aveva potuto
capire molte cose della poesia, non solo di Leopardi, ma italiana in generale.
In realtà la sua cultura era stata cosmopolita, una cultura straniera, una cultura francese, ma soprattutto una cultura legata a certi movimenti filosofici
che non avevano niente in comune con la filosofia italiana dell’800 e del’900.
Aveva studiato con H. Bergson a Parigi, parlava d’intuizionismo bergsoniano, che non ha niente a che vedere con la filosofia italiana. La prima raccolta,
“Allegria die naufragi”, non la cito, perché aveva una prefazione di Benito
Mussolini e questo fu un disonore per Ungaretti. Il grande Ungaretti era
anche un povero uomo, da un certo punto di vista il poeta non è solo chi ha
l’aureola in testa e la testa tra le nuvole, ma è uno che deve anche mangiare.
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Vincenzo Guarracino
Era come tanti, ma poi dopo, chiaramente, col tempo, capirà molte altre
cose. La conoscenza di Leopardi gli permette di riattraversare la poesia italiana: s’infatua di Petrarca e s’innamora di Dante, dello Stilnovo e di sonetti
come “Tanto gentile e tanto onesta pare”. Rivaluta la poesia italiana, però era
un giovane che si era fatto da sé, aveva letteralmente un grande istinto, ma
non approfondiva e quello che scriveva, anche dal punto di vista critico, rivela che non c’è una grande struttura intellettuale. Per esempio, su Leopardi
ha scritto molte cose, ma nessun leopardista le sottoscriverebbe, insomma, è
un Leopardi a uso di Ungaretti. L’interpretazione che lui fa de “L’infinito” è
assolutamente lontana dai canoni, della filosofia leopardiana, lo legge come
un’esperienza mistica e “il naufragare m’è dolce in questo mare”, è una vera
e propria estasi mistica, uno spiritualismo che non ha niente a vedere con
Leopardi. Noi, però, lo leggiamo con emozione e ci piace leggerlo perché poi
troviamo il riflesso di un altro celebre testo di Ungaretti, forse il più celebre,
scritto anche nei cioccolatini, due versi, che addirittura sembrano un poema:
Mi illumino d’immenso, una pregnanza lirica sbalorditiva, che nessuno può
non conoscere e serve per sintetizzare forse L’Infinito di Leopardi.
Ungaretti, alla fine degli anni ’30, è diventato un autore di punta della casa
editrice di Arnoldo Mondadori. Il vecchio Arnoldo Mondadori, oggi cavaliere, fondò la famosissima casa editrice nonostante fosse uno stagnino, un
uomo che non aveva una cultura molto vasta, piuttosto fragile e superficiale,
ma aveva capito che dalla cultura vera non si poteva non ricavare niente.
Convoca Ungaretti, ormai poeta affermato, e, quando lo vede entrare nello
studio, tutto dimesso, con un atteggiamento da contadinotto, anche perché
nel ’38 era morto il figlio a cui aveva dedicato una straordinaria raccolta,
Arnoldo si alza, allarga le braccia, lo abbraccia, e dice: “Maestro, m’illumino
d’immenso”, citando questi versi un po’ stordito e un po’ emozionato.
Ungaretti dirà: “Conosceva tutta la mia poesia!”.
Tra tutte le raccolte che aveva pubblicato, “Sentimento del tempo” prima e
“Il dio del tempo” dopo sono cosa mirabile, perché più simili e più vicine alla
grande tradizione soprattutto leopardiana.
Ed è proprio durante il soggiorno a Recanati che recupera dentro di sé la
parte migliore del poeta, la parte più preziosa e più sconosciuta. Ricordiamo
che a Parigi ha modo di conoscere piccoli frammenti del freudismo, della
psicanalisi, l’inconscio che attraverso la parola può venire fuori.
“Porto sepolto” e “Allegria di naufragi” rappresentano la scoperta del senso
di essere uomo nella fragilità.
Le poesie legate alla trincea, le parlate e i saluti che i soldati si scambiano
IL VIAGGIO DI UNGARETTI 17
sotto il bombardamento nemico equivalgono alla scoperta dell’essere vivi,
che è fondamentale e assolutamente necessaria; quindi “Allegria di naufragi”
è uno stimolo, mentre “Sentimento del tempo” è il sentimento che anima,
emoziona e ama.
C’è una leggenda, ma vi cito solo un titolo “Il pensiero dominante”, testo
straordinario, assolutamente unico, riferimento ad un altissimo e possente
dominatore. Vi consiglio di leggere anche “Sentimento del tempo”: “Oggi
sono triste e scrivo cose tristi, oggi sono emozionato e scrivo cose emozionanti”,
niente è dato per assoluto ed è anche un cambiamento di prospettiva rispetta
a quel testo che vi ho citato prima.
Qui abbiamo idee scavate nella vita come in un abisso, come qualcosa che
preesiste nel sentimento anche leopardiano, con la consapevolezza che io
vivo e devo vivere i principi di responsabilità, è una grande lezione.
“Sentimento del tempo” ci appare frammentario, essenziale e scheletrico.
Ungaretti muore nel 1970 e non vi dico in che circostanze se no sarebbe
scandaloso per l’udito delle nostre ascoltatrice.
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Vincenzo Guarracino
Carlo Di Legge
Sulla scrittura di Enza Silvestrini
Il successo di Sulla soglia di piccole porte, (Napoli, 2008; II edizione, Napoli
2012) è tale che il libro (nel 2011-12 - ora alla seconda edizione) è divenuto
un piccolo caso letterario e risulta esaurito e introvabile (p. 9).
Le parole, scritte a p. 20, “sento come una maledizione biblica”, sono pienamente giustificate anche nel contesto del libro di poesia Partenze (Lecce 2009).
Con questo libro di poesia così essenziale l’autrice ha vinto il premio “San
Vito al Tagliamento” nel 2010: un significativo successo, per dire che un’autrice meridionale vince un premio nel profondo nord – sarà forse un’eccezione che conferma la regola, può darsi: e perché?
L’ ultimo libro tratta la delicata materia dell’omosessualità e s’intitola Diversi amori (Napoli 2013). È ancora in corso di presentazione.
Rispetto al primo libro (p. 155, ), Aldo Masullo, il noto professore di filosofia teoretica e morale della Federico II di Napoli, definisce la modalità della
scrittura di Enza Silvestrini come fenomenologica.
Credo che sia così, e devo precisare – per tutti – che la fenomenologia non
è soltanto luogo di essenze e di oggettività, ma anche, in quanto rivolta al
nostro modo di esperire (intenzionare) tali oggettività, luogo di differenze:
proprio come quando si fa poesia e letteratura.
Perciò credo che la scrittura di Enza dica, inevitabilmente, qualcosa, in
modo molto diretto, pur nella distaccata modalità che lei usa, – non tanto
della sua vita, perché ciò è ovvio – e che Partenze si possa leggere sulla stessa
linea del precedente Sulla soglia di piccole porte; ma qualcosa della sua maniera di vedere la propria vita e quella degli altri: della sua anima, dunque.
Sulla soglia è una cronaca “a tratti secchi” di un’esistenza, con “aderenza
stretta (…) al (…) presente” (ivi, 157).
Un io può parlare di sé e far parlare il sé senza concessioni al sentimento o
Sulla scrittura di Enza Silvestrini
21
al sentimentalismo. E comunque qui non si vedono concessioni alla retorica.
L’io che parla è impersonale, per una sorta di “distanziamento dal sé” (155).
Ma tale distanziamento viene a rendere in modo efficace, incisivo, la propria
vita: restituisce i tratti inconfondibili e unici della propria esperienza. Di sé.
Anzi, come dice Masullo, il segreto della riuscita sembra risiedere nella tensione tra “rigore di stile narrativo” e “inguaribile memoria del dolore” (p. 156).
In Partenze, si vedano i versi della separazione dal padre, in al padre (15),
l’eco biblica delle ossa (19), la pietas filiale (23 sgg. ) e quella per un figlio
perduto prima della nascita (35 sgg. ).
Nella bellissima prefazione, si spiegano di questa poesia e della poesia in
genere due cose: perché la poesia salva la vita e perché nella poesia l’indicibile prende forma.
La scrittura e la poesia di Enza Silvestrini dicono cose che ci sono; e le dicono nella maniera di chi parla, che parla in prima persona. Nella scrittura,
anche poetica, non dobbiamo attenderci soltanto il piacevole, ma tutto: perché la poesia parla di tutto e abita in tutti i luoghi.
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Carlo Di Legge
Santa Aiello
Per la poesia di Francesco Massanova
…ho raggiunto le lontane terre dei miti
e le foci dei grandi fiumi
irti di ibridi animali…
Sono i versi centrali di Viaggio, una delle tre poesie presenti in questo articolo, di Francesco Massanova. Evocano, oltre al tema del viaggio, un uomo
Odisseo, la più antica testimonianza del mondo greco, le cui carni smembrate
e dilaniate hanno nutrito infiniti poeti alla ricerca della celeste Itaca. Trasmettono immediatamente l’effetto dell’emozione della meraviglia per il mondo.
Francesco Massanova è musicista, compositore, direttore d’orchestra e suona il clarinetto. Ma, anche un autodidatta, che ha amato e coltiva la poesia e
la lettura. Musica e poesia come i grandi della musica: Bach musicista poeta,
Richard Wagner musicista, poeta ed esteta, Ildebrando Pizzetti compositore,
poeta, critico, per citarne solo alcuni.
Francesco Massanova è nato a Stella Cilento un borgo di 800 abitanti che
sorge ai piedi del Monte Stella, in provincia di Salerno. Sulla cima si trova
una piccola chiesa risalente all’anno 1000, dedicata alla Madonna del Monte Stella. Nella località Castelluccio sono ancora visibili i resti del Castello,
vecchia residenza dei Guastaldo. Il paese conserva un aspetto arcaico e la
flora è caratterizzata da lecci, fichi d’india, carrubi, corbezzoli, mirti, stelline
calabresi, ginestre, ontani e castagni.
Viaggio
Un refolo di vento
ha gonfiato la tenda della mia stanza azzurra,
dal pavimento dorato
i putti hanno levato l’ancora
e sono salpato
con la mia ciurma di silenziose larve
per mari dai colori surreali.
Per la poesia di Francesco Massanova
25
In un batter di ciglia
Ho raggiunto le lontane terre dei miti
E le foci dei grandi fiumi
Irti di ibridi animali.
Ho affrontato gli uragani dei ricordi
E le tempeste di memorie di alberi sfibrati:
sono stato sopraffatto,
ho trovato la salvezza aggrappandomi
ad una fortunosa zattera odorosa di lavanda
e chiudendo, in extremis,
il balcone della mia stanza dorata nel sole del meriggio.
Il 21 agosto 2010 Massanova si trovava a soggiornare a Cuciniello, piccolissimo borgo di Stella, nella casa paterna. La fonte d’ispirazione del componimento è da ricercare sicuramente nel suo paese, di impianto medievale
e di cultura arcaica. Il componimento incentrato sul viaggio è caratterizzato da una forte aggettivazione. Gli aggettivi: azzurra, dorato, silenziose,
lontane, grandi, sfibrati, fortunosa, odorosa, dorata amplificano l’atmosfera
calda, dorata e suggestiva della poesia. Parole chiavi sono il viaggio, il mito
e il vento. Un refolo di vento, che levandosi improvvisamente e a intermittenza, ma sempre nella stessa direzione, dà subito l’idea del desiderio di
ritrovare i valori di cui viene privato dallo squallore e dalla meschinità della
vita quotidiana e del mondo che lo circonda. Il poeta guidato da angelibambini conosce il mondo dei miti1 in compagnia di larve silenziose. Ma
quale significato ha attribuito il poeta alle larve? Letterale: spettri maligni
tormentatori dei vivi come credevano i Romani, o in senso figurato l’“errar
larve maligne” di Tasso, “quel traditore in sì mentite larve” di Petrarca, “se
tu avessi cento larve / sovra la faccia” di Dante o, più semplicemente, è una
metamorfosi per mettersi al sicuro da gli uragani dei ricordi? Al rigo 13
gli alberi sfibrati fanno ricordare l’albero mutilato di Ungaretti. Gli alberi
sfibrati sono paesaggio esteriore, ma anche dimensione interiore. La spossatezza degli alberi è spossatezza dell’anima causata dal modernismo del
vivere quotidiano che diventa sempre più spesso guerra per vita. Il poeta
– Odisseo torna alla sua Itaca – stanza dorata non solo nel pavimento, ma
nella sua interezza, è il sole del meriggio, quel meriggio pallido e assorto di
A proposito del concetto di analogia e mitologia in poesia, si veda come tratta l’argomento
Carlo Di Legge in Ontologia, Marcus Edizioni, pag, 109.
1
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Santa Aiello
Eugenio Montale.
Racconta un viaggio immaginario in un giorno a ridosso del ferragosto
quando la mente è a metà tra il riposo e la ripresa del lavoro.
Ispirazione
Corpuscolo estraneo
Nelle valve di un’ostrica
persa nell’inconscio mare.
Sottile dolore pulsante,
innesco di un fuoco accecante,
nucleo spigoloso di una perfetta forma unitaria
catalizzatore delle secrezioni dell’anima
concrete in preziose perle di linguaggi diversi,
eterei monili al collo di una disorientata umanità.
Ancora il viaggio. È il viaggio di un’umanità disorientata.
Il componimento Ispirazione è un’analogia tra l’essere di una perla coltivata, ottenuta mediante l’introduzione di un corpo estraneo nella conchiglia
e l’essere dell’uomo soggetto al dolore pulsante della vita. Mentre la perla si
perde nel mare inconsapevole del suo dolore, l’uomo per non perdersi nel
mare della sofferenza catalizza le reazioni e le inconsapevolezze e le sovrappone a piccoli strati nelle cavità dell’anima come a guisa di rocce. Tanto la
perla quanto il mare veicolano un concetto di vastità e immensità. Questa
vastità concorre, inoltre, all’idea di ambiguità: il pensiero non è direzionato
verso un obiettivo preciso, ma naufraga in un immenso mare che ricorda
quasi l’Infinito di Leopardi. In questo mare vi è poi un’ostrica, che potrebbe
simboleggiare ogni ostacolo alla ricerca del Vero. La perla può essere, perciò, il simbolo di questa verità, che tutti vogliono e cercano, tanto preziosa
quanto rara, come una perla del mare. Questo vero viene, poi, trasfigurato
poeticamente nell’immagine di eterei monili.
Un chiasmo chiude la descrizione del componimento: l’umanità, anche se
disorientata, rimane sempre una preziosa perla; mentre monili al collo parlano
linguaggi diversi. Il termine eterei dell’ultimo rigo evoca Foscolo: “vide/ sotto
l’etereo padiglion rotarsi/più mondi.
Dubbi
Nella luce incerta del mattino,
Per la poesia di Francesco Massanova
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quando le parvenze non sono ancora definite,
mi gocciano in petto leggere
le stille amare dei perché irrisolti,
dilavando il sottile velo che involge l’incoscienza,
allora vago confuso tra le pieghe dell’anima,
fino allo sfolgorare glorioso dell’invitto sole
che ogni dubbio oscura, ridandomi la sicurezza dell’illusoria certezza.
Sia lode al dubbio! scriveva Bertolt Brecht. Il dubbio è un prezioso unguento;
/ benché bruci, / esso guarisce. / Io ti dico, invita il dubbio / quando il desiderio
t’incalza, / invoca il dubbio / quando la tua ambizione / sorpassa gli altri in
pensiero […] scriveva Krishnamurti.
Quest’ultimo è un componimento metafisico, in cui il sole sinonimo di luce
eterna è parola chiave.
Dubbi è il viaggio dell’io tra le pieghe dell’anima, l’alter ego del poeta che
si stupisce per la bellezza del mondo, per le sue immagini e si emoziona per
quello che c’è e per quello che si vede e che non si vede. È suggestiva l’immagine dell’io che vaga e rimane quasi imbrigliato tra le pieghe dell’anima, e si
contrappone allo sfolgorare dell’invitto sole. Dopo il sorgere del sole, i dubbi
si dissolvono: i perché sono meno amari, incoscienza diventa consapevolezza,
e la certezza del divino, anche se a volte illusoria, dà sicurezza.
Si conclude qui questa breve presentazione delle poesie di Massanova. Si
chiede venia all’autore e ai lettori per la semplicità dello scritto. L’intento era
di dare visibilità ad un altro poeta cercato dalla poesia, come scriveva Pablo
Neruda: La poesia venne/ a cercarmi. Non so, non so da dove /sia uscita, […]
e scrissi la prima riga incerta […] sciocchezza/ pura saggezza/di chi non sa nulla, e incuriosire i lettori. Marcel Proust scriveva: Ogni lettore, legge se stesso.
L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico, che egli offre al
lettore per permettergli di discernere quello che senza libro, non avrebbe forse
visto in se stesso.
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Santa Aiello
Carlo Di Legge
CONVERSAZIONI DI FILOSOFIA
Queste note si considerano introduttive alle conversazioni con gli studenti
di filosofia dell’I. I. S. “Parmenide” di Vallo della Lucania, che avranno luogo
la mattina di mercoledì 23 aprile 2014.
Ontologia
Ontologia è la scienza dell’essere in quanto essere – nel modo in cui la filosofia può essere scienza. Cosa vuol dire questo?
Anzitutto, il termine ontologia certamente non nasce con Parmenide; tuttavia la testimonianza prima è di Parmenide, nel senso che egli è il primo,
com’è noto, a pensare e a porre il problema dell’essere.
La filosofia è in generale il campo del pensabile in quanto pensabile, non è
scienza come le altre scienze, nel senso che la filosofia non delimita il proprio
oggetto nella maniera delle scienze, ma in generale delimita e, nel caso, illimita; certamente, se la filosofia s’interessa alla mente, allora viene a contatto
con le scienze che si occupano della mente, comunque questa venga intesa,
e dialoga con quelle, entrando come potenza analitica e sintetica di pensiero
nei loro ambiti, nei presupposti, nei metodi, nelle conclusioni; ma, certo, la
filosofia non s’interessa solo alle scienze della mente, bensì, potenzialmente,
a tutto il pensabile.
L’ontologia è quell’ambito o campo filosofico che si occupa dei presupposti
dell’essere, ovvero di quei caratteri che l’essere non può fare a meno di avere, se debba considerarsi tale, cioè essere; e per essere s’intende, in qualche
senso preciso, il presupposto di ciò che è. Di conseguenza l’ontologia, in generale, contiene delle indicazioni su cosa sia da vedere come necessario alla
realtà, e cosa sia da considerare accessorio o non necessario.
CONVERSAZIONI DI FILOSOFIA
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Il senso preciso dell’essere di ciò che è va precisato di volta in volta.
La questione sembra più complessa di come viene posta da Parmenide:
1)Parmenide è il primo a porre la tesi dell’essere ma, sulla strada da lui
indicata, sembra non si possa dire e pensare altro che l’essere. Si potrebbe
dire così: il movimento della filosofia, se vuol dire l’essere del mondo e non
l’essere, passa dalla posizione della pura contraddizione di Parmenide (l’essere è; il non-essere non è) a quelle della contrarietà e della sub-contrarietà
(tra due opposti, possono esservi molte sfumature o posizioni possibili).
2)La corrispondenza pensiero-essere già nel pensiero antico – con Gorgia
– viene decisamente posta in discussione. Ed è tutt’altro che un sofisma, nel
senso che non si tratta affatto un trucco retorico o dialettico. Si evidenzia
così, accanto alla dimensione dell’essere, posta da Parmenide, quella non
corrispondente del pensiero – e, nello stesso brano di Gorgia, anche l’altra,
quella del linguaggio e della difficoltà della comunicazione di ciò che è.
Ma l’ontologia è, in senso generale, l’affermazione del fondamento e il pensiero sempre la presuppone. Ogni pensiero che si affaccia alla successione
storica del pensiero filosofico evidenzia dei presupposti, in base ai quali –
sulla base dei quali, è il caso di dire – il pensiero può sostenere ciò che poi
intende affermare. Questi presupposti sono i presupposti dell’essere, quindi
costituiscono l’ontologia di quel pensiero.
Nella storia del pensiero noi possiamo assistere a tanti tipi di manifestazione del pensiero, che si basano su diversi tipi di presupposto. Ad esempio,
l’ontologia di Democrito si fonda su atomi e vuoto e si dirà, con una certa
ragione, che si tratta (ma non è proprio così) di un’ontologia materialistica;
quella di Platone, che si fonda sulle idee, viene detta idealismo, e le due ontologie appaiono, almeno se così definite, come contrapposte.
Sulla ragione della contrapposizione e delle differenze tra ontologie diverse
e filosofie diverse non è il caso, qui, di insistere.
Basti dire, per introdurre il discorso del libro Ontologia. Elenchi della terra
e una specie di oceano, che qui si parla di presupposti del nostro mondo, ovvero dei fondamenti di ciò che è importante per la nostra vita e ne determina
la forma: non, quindi, del mondo in generale. Questo libro non afferma – vi si
trova scritto – i presupposti generali della realtà, perché di questi si occupano
oggi la fisica delle particelle o grandezze subatomiche e l’astrofisica. Anche
questo è vero fino a un certo punto, ma verrà forse chiarito nella discussione.
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CARLO DI LEGGE
Etica
Etica è la scienza filosofica della formazione del carattere, dunque il campo
del pensabile in quanto pensabile, la filosofia, che si occupa della vita singola
rispetto a sé e agli altri (mentre la politica si occupa della vita associata e delle
forme dello stato), e, analogamente che per l’ontologia, indica all’uomo ciò
che è preferibile fare e ciò che è preferibile evitare. Analogamente: ovvero
sulla base di un’ontologia, in genere, perché nel pensiero di un pensatore ciò
che viene pensato in generale mostra una certa coerenza, e dunque l’etica dovrebbe fondarsi sull’ontologia, per quanto è scritto sopra, alla voce ontologia.
Ma il titolo di questa etica delle passioni è eros e paradosso e il sottotitolo
va letto un po’ ironicamente, nel senso che per un’etica delle passioni si deve
intendere nel senso che l’etica appartiene alle passioni, e non, come si trova
nella tradizione classica della filosofia, alla ragione. Il genitivo, in etica delle
passioni, va inteso come un genitivo soggettivo.
Si tratta di un sovvertimento del punto di vista, rispetto alla tradizione del
pensiero filosofico. L’etica non viene pensata e scritta da un soggetto – l’autore – che si qualifica come soggetto prevalentemente pensante e razionale, ma,
come tutti gli uomini, come uomo-mente caratterizzato dalla grandi passioni
che ne formano la personalità e lo spingono a scrivere, a fare e a dichiarare
quel che fa, sente e pensa. Perché questo è l’uomo in generale, e lo si descrive
così perché le psicologie del profondo, da oltre un secolo, lo descrivono in
questo modo. La filosofia deve dialogare con le scienze, si è detto: di conseguenza deve anche tener conto di alcune acquisizioni delle psicologie, senza
limitarsi a ignorarle nel nome del mito della razionalità pura.
L’uomo è struttura di personalità psico-fisica il cui carattere viene dato
dalle grandi passioni che lo costituiscono – ogni uomo porta le sue, e lo si
riconosce altrettanto facilmente da quelle che dal volto – e la formazione
del carattere non è di natura razionale, se si pensa che la ragione, secondo
questi modelli, è solo la punta emersa della personalità psico-fisica. Dunque
il pensiero ne viene condizionato, ma questo non è in sé negativo, perché
le passioni, di cui il pensiero fa parte, possono spingere l’uomo alle sue più
grandi conquiste.
Ne deriva che, se l’etica tradizionale è in prevalenza prescrittiva – ovvero descrive l’uomo in generale (antropologia, psicologia) ma soprattutto gli
indica una strada del cambiamento, valori e fini del lavoro su di sé – l’etica
delle passioni è soprattutto descrittiva – in prevalenza, cioè, offre una visione
CONVERSAZIONI DI FILOSOFIA
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dell’uomo, e ben poco si occupa della sua modifica: le passioni vanno coltivate, quando sono positive; combattute con ogni mezzo, se sono negative. Il
carattere in linea di massima è già dato e vi si può intervenire ben poco.
Ma esiste una serie di gradi intermedi tra le grandi passioni e i comportamenti, su cui di fatto le psicologie del rimedio e della cura – le psicoterapie
– e la psichiatria con le neuroscienze cercano, con qualche successo, di intervenire.
Questi sono solo alcuni degli argomenti di eros e paradosso, che mostra una
struttura piuttosto complessa e ottiene riconoscimenti, anche da parte di autori molto qualificati, a causa della innovativa maniera di vedere il rapporto
ragione-passioni o emozioni.
Presentazione dei due libri di filosofia
Carlo Di Legge, Eros e paradosso. Per un’etica delle passioni, Marcus Edizioni, Napoli 2014
Carlo Di Legge, Ontologia. Elenchi della terra e una specie di oceano, Marcus Edizioni, Napoli 2014
Lettura iniziale:
Vengo dai puri, o pura regina degli Inferi,
o Euklès ed Eubulèus e voi altri, dèmoni e dèi:
mi vanto di appartenere anch’io alla vostra stirpe
(Lamina orfica di Turi, trad. di Vincenzo Guarracino)
1. L’uomo ha qualcosa di divino
A prescindere dalla realtà dell’etero riferimento, ovvero la comunanza qualcosa/nulla con Dio, v’è qualcosa nell’uomo che possa far parlare del divino in
lui? Di segreto, quasi ineffabile, di creativo?
Alludo al cervello-corpo come inconscio, qualcosa come nulla, nulla come
qualcosa; ma nulla influente e ne vorrei discutere in analogia con i tentativi
esperiti nel corso della storia dello spirito che parla dell’ignoto: in analogia
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CARLO DI LEGGE
con i tentativi teologici (s’intende che, viceversa, tuttala teologia può essere
ricondotta a un discorso sull’uomo).
S’intende qui che il problema dell’inconscio nell’uomo è analogo al problema del divino per l’uomo, in questo stesso senso, perché ineffabile/creativo
e ignoto
– se l’individuo è supposto avere qualcosa di creativo che viene dal niente, in quanto nulla, MA di cui possiamo dire – la mia tesi è che qui s’illumina
tutta la scena della praxis e della poiesis umana – come archeologia e ricerca
ontologica della genesi della invenzione/scoperta (l’intuizione, d’improvviso: si manifesta in immagine” Relatività, la mela di Newton, l’éureka…),
– e di relazionale, collettivo, dunque analogo ad altri che me, non solo
nella sfera cosciente, come intuisce Jung; non soltanto la possibilità della
comprensione consapevole e della comunicazione presuppone l’analogia
ma anche la parte inconscia: per la quale, pur nelle enormi differenze tra
individui, siamo come un tutt’uno, anche quando si realizzi in un solo individuo, che risulta solo un prestanome con un nome in apparenza “proprio”… (anche i prodotti dell’inconscio sono dotati di comprensibilità e
comunicabilità … la poesia come l’invenzione elettronica).
2. Di tali presupposti, assimilati al divino, come si parla?
Come della nostra personalità intera, in circolo – in tre concetti e una struttura logica o discorsiva (assieme alla logica/dialettica):
– il tema-concetto dell’immagine – cosa intendo per immagine? Non
come un’etichetta, anzitutto. Ma: le immagini che si presentano all’esperienza – diciamo, in primo luogo, quelle percettive ma non solo: immagini (ipotizzate) profonde o nascoste e influenti, immagini sacre, immagini
come circuiti neurali: Damasio perviene a dire che gli stessi sentimenti
sono immagini, nella modalità in cui egli, empiricamente, descrive e definisce le immagini. (due per la descrizione, uno per la cosa/sostanza),
– Se la filosofia può e deve fondarsi sulla mente, sarà della sua parte
cosciente come del suo fondamento inconscio; dunque deve occuparsi
CONVERSAZIONI DI FILOSOFIA
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dell’emozione, e questa può essere indagata e descritta. Intendo per emozione secondo come definisce I. Matte Blanco. Si veda come la filosofia
contemporanea ancora manchi in questo: proprio S. Natoli, un mio riferimento importante, ma anche altri, afferma che l’emozione è irrazionale (p.
74 etica: “le passioni sono irrazionali. Per non essere distruttive è necessario che vengano ordinate”). Ciò che è non razionale è irrazionale e dunque
non indagabile? Non è questo il punto, secondo me: perché nel trattare le
questioni secondo l’ordine di idee razionale/irrazionale si rischia ormai un
falso dilemma (Heidegger: “l’odio” Etica p. 65). Ma la passione, le emozioni, non il logos, ci muovono ad agire nel mondo.
– E questo aspetto, per me e per noi, è associato alla sfera del significato
(Hillman: dove c’è emozione, c’è significato); non si tratta di significati indifferenti, che si esauriscono in un dato tecnico – perché, se questo
mondo di cui parlo è mondo-per-me, allora, perché il mondo divenga per
me significativo, è necessario che intervengano le motivazioni e quindi le
passioni, che ci raccolgono e rendono lucidi ai fini dell’azione nel mondo.
– Dunque: le immagini si presentano sempre dotate di una qualità, ovvero associate alle emozioni e al significato (l’esempio citato da Damasio a
p. 59 Ontologia, quello analogo di Oda a la flor azul di Neruda): perciò le
immagini non sono un catalogo di oggetti numericamente distinti: questa è
un’immagine di, quella è una foto di …; ma il problema dell’associazione tra
immagini, emozioni e significati è anche il problema della qualità dei nostri
stati rappresentativi (qualia), che tanto appare importante, per quanto esso
resti tuttora inspiegato e quindi sia di imbarazzo per il filosofo come per il
neuroscienziato. Resta che “l’intensità dell’emozione è il marcatore somatico dell’importanza relativa dell’immagine” (Damasio, in Ont. , 64).
Se è così, cosa s’intende propriamente oggi per pensiero? E come la filosofia
pensa e come si occupa dell’ontologia e dell’etica, in quali strutture di pensiero/
linguaggio?
– In prima approssimazione: si tratta di una ragionevolezza che si fonda su una logica certa, a partire dall’ individuazione di figure, nel mare
della dissimiglianza, o delle eccessive e sfumate somiglianze, di cui alcune,
poche figure, riescono universalmente note come simmetrie di fondo al
pensiero e al discorso, e non sono, a rigore, né razionali né irrazionali, né
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CARLO DI LEGGE
logiche né illogiche. Ma queste strutture usano immagini. Il procedimento
o STRUTTURA di pensiero/linguaggio CHE FONDA nel discorso l’uso
delle immagini è l’analogia. I caratteri generali dell’analogia sono questi:
che si serve di immagini e che ha una struttura.
– l’analogia si serve di metafore o parole-immagine, e del procedimento
del traslato metaforico – per non dire che genericamente: metaphéro, trasferisco con la parola-immagine, significati; ma, di conseguenza, soprattutto, genera emozione … con le buone o potenti analogie e azione.
– La struttura dell’analogia è quella della proporzione sia a due o a quattro termini, del tipo 2:4 = 4:8 (la vera e propria proporzione matematica);
tuttavia su questa vengono costruite le analogie metaforiche di cui sempre
nel quotidiano ci serviamo, p. e. (A:B = C:D “Io sono la vite voi siete i tralci”
– Giovanni, XV. 5 – p. 93 ont. ).
Si verifica anche qui la proporzione tra due coppie di termini – La vite
(Cristo): alla Chiesa = i tralci: ai fedeli ovvero Io:voi = la vigna: i tralci – e si
potrebbe continuare …); si tratta della forma aristotelico-tomista dell’analogia di proporzionalità metaforica, che presuppone le differenze tra i due
ambiti piuttosto che la somiglianza – non si tratta qui di presupporre un’appartenenza dei termini, come nel filone Agostino-Bonaventura del rapporto
modello/copia, dunque dell’uomo imago dei); la somiglianza è da trovare tra
gli abissalmente distanti.
Ma solo da questo dipende la possibilità di parlare della divinità come essente (ente) IN ANALOGIA CHE PER L’UOMO… e il “suo” inconscio. Dunque l’analogia entis fonda la possibilità di dire l’ignoto nel discorso/pensiero:
altrimenti, solo la teologia negativa (che comunque ricorre a similitudini …).
– L’analogia fonda, con la logica e la dialettica, tutta la filosofia, campo
del pensabile in quanto tale, da Eraclito e Parmenide in poi e in generale
ogni discorso che abbia significato per noi, a meno che la filosofia non si
occupi specificamente di logica o di logica formale. Tale è il senso delle
invenzioni platoniche. Nel Settecento Vico indaga le figure, fondamento
dell’analogia; e la presenza di analogie, ieri come oggi, risulta fondamentale in tutte le correnti filosofiche di maggiore impatto. Nel nostro tempo
i filosofi hanno trattato del valore conoscitivo dell’analogia: cf. Melandri,
nel suo imponente studio del 1968.
CONVERSAZIONI DI FILOSOFIA
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3. Conseguenze per la filosofia
Ed ecco cos’è filosofia: un pensiero
– che implica, insieme, la modalità logico/dialettica e quella analogica,
e non il falso dilemma razionale/irrazionale, che supera, al fine di dire
anche dell’inconscio/emozioni, in quanto decisiva per l’esistenza;
– per cui dà, ovviamente anche una logica del pensiero analogico come
v’è una logica del traslato, di cui quello si serve; ma si veda la bi-logica
individuata da I. Matte Blanco, della quale riferisco nei testi: si tratta di
strutture della mente, caratterizzate da presenze di immagine-emozionesignificato; posizioni alquanto eccentriche rispetto alla tradizione di separazione tra pathos/logos; e nulla che non possa giustificarsi anche in base
agli studi sul sistema nervoso centrale;
Tra analogia entis e teologia negativa è la nostra storia e il nostro futuro.
Una indicazione con Plotino, e Agostino, in questo senso, ma Spinoza, Schopenhauer e Schelling, Bergson …
La contemporanea edizione del divino nell’anima, nel cervello/mente, meraviglia e mistero. La filosofia è allora definita come lavoro del rendere il
nulla ineffabile che è potente, sul piano del dicibile.
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CARLO DI LEGGE
DIDATTICA E LABORATORI
a cura di
Santa Aiello e della classe V A scienze umane
UN BREVE VIAGGIO DI VITE SPEZZATE
Questo lavoro è dedicato
…a tutti i viaggi spezzati
e a tutti i familiari che devono
affrontare un viaggio di dolore…
Premessa di Santa Aiello
Le alunne della V A del Liceo S. P. P. hanno aderito al “Progetto di solidarietà e sensibilizzazione al Rispetto della Vita”, e hanno partecipato al concorso “Adotta un segnale stradale” promosso dalla Fondazione “La Casa di
Annalaura” onlus di Vallo della Lucania in collaborazione con la Fondazione
“Elisabetta e Mariachiara Casini” onlus di Firenze. La classe è stata divisa in
gruppi, ogni gruppo ha adottato un segnale e ha prodotto un elaborato. Sono
stati presentati tre elaborati riportati di seguito ed è stato premiato il primo.
UN SEGNALE SI RACCONTA
Un pallone che rotola… freni che stridono… fari abbaglianti… rumore
assordante… pozza di sangue… sirene… sangue, sangue, sangue… immagini
che insidiano di continuo la mia mente… «Ero stato installato da poco su
quel tratto di strada molto pericoloso, poiché strada urbana, come “limite di
velocità 50”. Ero orgoglioso di essere stato posizionato proprio in quel tratto
perché il mio ruolo è quello di ricordare ai conducenti di essere prudenti, di
rispettare se stessi e soprattutto gli altri. Ma quel giorno l’uomo alla guida
della sua Fiat bianca non sembrò accorgersi di me e nemmeno di quello che
stava accadendo: pochi secondi dopo avrebbe stroncato la spensieratezza e
DIDATTICA E LABORATORI
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l’innocenza di un bambino. Una tragedia che colpì un intero paese! Tanti
ne ho visti dopo, ma gli occhi sorridenti e inconsapevoli di quel bambino
non mi lasceranno mai in pace. » “Grida… pianti… incredulità… strazio…
vuoto, vuoto, vuoto…” «Io non so come coloro che hanno spezzato tanti
cuori possano vivere la loro vita con i loro sensi di colpa, con le loro paure, la
loro quotidianità, pensando alle tante famiglie distrutte. Nella vita come sulla
strada bisogna porsi dei “limiti” per rispetto di noi stessi ma soprattutto per
coloro che ci circondano. Oggigiorno tutti sentiamo l’esigenza di andare “più
veloce” degli altri e andare oltre i “limiti”. La fretta di andare veloce ci rende
vuoti, quasi degli automi, tanto che i “segnali” che ci obbligano a rallentare
ci appaiono invisibili e permettiamo alla fretta di nascondere i piccoli e rari
attimi di felicità e bellezza. Allora, voglio invitarvi a rallentare, se necessario
fermarvi, per permettere a voi stessi di fare tesoro di quelle poche belle emozioni che la vita regala!»
Il gruppo Cuori battenti
Francesca Accarino
Alessandra Di Sevo
Sara Niglio
Simona Ogliaruso
IL SENSO DI COLPA
C’era una volta un segnale generico accompagnato dal relativo pannello
integrativo indicante che quel tratto di strada era soggetto a sbandamento a
causa di ghiaccio, ma era come se non esistesse. Un giorno, si accorse che le
persone non erano interessate a ciò che voleva realmente indicare, quindi si
sentì in profonda solitudine. Non si riusciva a spiegare perché a tutti gli altri
segnali veniva data importanza e a lui, quelle innumerevoli auto non gli rivolgevano neppure un umile sguardo. Era sconfitto. Pensava di avere un ruolo
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DIDATTICA E LABORATORI
fondamentale, infatti, stava ad indicare il pericolo a cui le auto andavano
incontro. Era diventato agli occhi degli altri qualcosa di banale, un semplice
cartello senza alcun significato. Era sempre lì sempre lui, più solo che mai.
Allora si chiese: “perché esisto?, che ruolo ho?”. Tante potrebbero essere le
risposte ma nessuna è realmente apprezzata; basti pensare allo stretto rapporto con la vita, perché posso metterla in pericolo. La gente, infatti, ignora
che i pericolo possono trovarsi dietro ad ogni angolo, ed essere inaspettati,
proprio come accadde quella famosa notte del primo gennaio. La strada era
deserta e ghiacciata più che mai, il silenzio regnava, ma ad un tratto una musica assordante si udì e una luce lo abbagliò intensamente. Capì che qualcosa
stava per accadere, perché oltre alla sensazione strana che lo assaliva notò che
la velocità dell’auto aumentava sempre di più man mano che si avvicinava.
Erano quattro ragazzi sui vent’anni, appena ritornati dalla discoteca per festeggiare il capodanno. L’auto slittò sul ghiaccio, schiantandosi su un solido
muretto al lato destro della carreggiata, dopo che l’auto si era girata ripetutamente su se stessa. In quel momento quell’ indifeso segnale avrebbe voluto
a tutti i costi che la cosa non fosse successa. Si sentiva in colpa, responsabile,
era come se non avesse adempito al suo compito. L’unica cosa che poteva
fare era starsene lì, immobile ad assistere a quell’orribile scena che lo rese
unico “testimone”. Fu da lì che iniziarono i tumultuosi e assordanti rumori
fatti da grida, sirene di ogni genere, alternate al pianto generale. Il senso
di colpa sempre più grande, pensava e ripensava al suo crudele ruolo da
spettatore impotente confinato sempre in quell’orribile e pericoloso posto.
Da una parte si sentiva pienamente responsabile, ma dall’altra si rassicurava
pensando al compito che comunque doveva continuare a svolgere, ovvero,
essere d’aiuto ad altre auto che transitavano su quel deprimente tratto di
strada. Avrei voluto sapere quale fosse stato il destino di quei poveri ragazzi,
ma dopo quel tumulto di urla, il silenzio calò di colpo. Passarono giorni, settimane, un mese. Ma quel fatidico primo febbraio, vide avanzare verso di lui
una donna, bassa, esile con un’immensa tristezza trapelante dal viso stanco e
sciupato. In mano aveva dei fiori; non volevo pensare al peggio, ma quando i
suoi occhi iniziarono a lacrimare, un forte sgomento mi travolse. Bisbigliava
parole senza senso e una frase mi colpì: “non è giusto”. All’ improvviso i nostri sguardi si incrociarono, la donna si inginocchiò ai miei piedi, ma io non
potevo in alcun modo consolarla. Con tremoli parole iniziò a raccontare singhiozzando la sua triste storia: “il destino ha voluto che quella sera mio figlio
Marco dovesse morire, non volevo lasciarlo andare, ma più che fargli le solite
raccomandazioni, non potevo fare altro, visto che come tutti gli altri ragazza
DIDATTICA E LABORATORI
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aveva il diritto di vivere la sua giovinezza e divertirsi, soprattutto la notte di
capodanno, però per lui questo inizio anno 2013, durò solo poche ore, perché alle 3. 00 di notte se ne andò”. Non potevo continuare a guardare, mi
faceva troppo male. Dopo una pausa, riprese a raccontare: “perché proprio
a lui, perché non ti ha rivolto lo sguardo, perché non ha fatto caso alla tua
presenza, quell’unico figlio mio, un ragazzo umile, educato, con una grande
voglia di vivere. Come tutti, anche lui aveva un sogno nel cassetto, diventare
un giorno un bravo medico volontario, ed aiutare quei poveri bambini africani per dargli un giorno un futuro migliore. Era questo il suo sogno, pensare a
quei bambini lo faceva soffrire. Aveva frequentato il liceo scientifico, amava
lo studio più che mai, ma trovava sempre il tempo di aiutare i suoi compagni
che erano in difficoltà e realizzare il suo hobby, giocava a calcio. Aveva una
ragazza semplice, per me era come aver trovato una seconda figlia, quella che
non avevo mai potuto avere, aveva amici fantastici con i quali condivideva
tutto, gioie e dolori, amava divertirsi. Io avrei voluto fermarlo, perché in cuor
mio, avevo un vuoto, una strana sensazione, che mi aveva tenuto sveglia tutta
la notte, fino al suono di quel maledetto telefono. Pensai subito al peggio, mi
precipitai in salone, con timore risposi: “signora, suo figlio ha avuto un incidente, si rechi subito in ospedale”. Attaccai senza rispondere, attaccai, ma
la mia mente era attraversata da mille pensieri. L’unica speranza era quella
di pensare che era stato un errore, non poteva essere il mio Marco. Corsi in
camera, indossai la prima cosa che trovai nell’armadio. Non riuscii neanche
ad avvisare mio marito che lavorava fuori e mi precipitai in ospedale. Era
proprio lui, il mio bambino. Svenni, mi risvegliai dopo qualche ora, pensando che era stato un incubo. Urlai: “dov’è mio figlio”? Un medico si avvicinò
e mi disse: “mi dispiace, suo figlio non ce l’ha fatta”. Dopo qualche ora arrivò
anche mio marito, ci abbracciammo senza dire niente. Le lacrime rigavano il
mio viso stanco, incredulo e pieno di dolore. Il segnale avrebbe voluto avere
la voce per dire basta a tutto ciò, ma non poteva fare altro che ascoltarla
inerme. La donna a quel punto si alzò, si recò verso il luogo dov’era avvenuto
tutto ciò, poggiando con sgomento i fiori che portava in mano, continuava
a piangere…all’improvviso corse in auto e andò via. Simile alla Madonna ai
piedi della croce di Gesù, mi sembrò quella donna, che inginocchiata davanti a me piangeva per il suo povero figlio. Dopo quella notte, tutte le auto
hanno cominciato ad andare piano. Perché deve succedere sempre qualcosa
di grave per far capire la presenza di un pericolo, non potevano, anche quei
poveri ragazzi far caso a me quella tragica sera? C’è sempre bisogno di vedere la morte per capire il senso della vita? Spero che dopo questo incidente, i
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DIDATTICA E LABORATORI
ragazzi capiscano che divertirsi è importante, ma sempre con moderazione,
facendo attenzione ad ogni pericolo possibile.
Il gruppo Staffetta di solidarietà
Ametrano Barbara
Giannella Chiara
Miglino Anna
Ponzo Marilù
L’ANGELO
Furono loro che mi lasciarono. Un sabato piovoso, mentre me ne stavo immobile e vigile come sempre, respiravo l’odore della vernice. Dei ragazzacci
mi avevano imbrattato e cosi rimasi cieco e sordo nel buio della notte. Poi
ho pensato all’indomani mattina, alla mia assenza, quando i bambini avrebbero attraversato la strada per andare a scuola. Chi avrebbe indicato loro di
attraversare sulle strisce pedonali? Quanto li ho amati e quanto li amo quei
bambini. Per tanti anni ho segnalato agli automobilisti di rallentare. Come
segnale ero sicuro di rappresentare la sicurezza, ma adesso non servo più a
niente. Non posso più stare qui, ho deciso, andrò lontano in alta montagna.
Le nuove generazioni erano inconsapevoli, la tranquillità protagonista per
tutti questi anni, ora era venuta meno. I giovani iniziavano sempre più a guidare in stato di ebrezza, sotto l’effetto di stupefacenti. Cominciarono ad assumere comportamenti da bulli, scrivevano sui segnali o li distruggevano. Cosi,
un giorno, decisi di andarmene, ero stanco delle ingiustizie che scorrevano
davanti ai miei occhi. Fu una decisione molto ardua che dovetti prendere per
dare una lezione a tutti gli abitanti. Fu una salita ripida e il viaggio mi stancò
molto; impiegai molti giorni per scegliere il posto migliore da dove avrei potuto osservare ogni angolo del paese. Nei primi giorni mi sembrava di aver
fatto la scelta migliore, però poi con il passare del tempo iniziai a sentirmi
DIDATTICA E LABORATORI
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solo, al freddo dell’inverno, e cosi pian piano iniziai a sentirmi in colpa per
la decisione presa. Con il trascorrere dei giorni la vita in paese degenerava e
lì dall’alto mi sentivo impotente. «Oh poveri voi! Perché, perché, perché, vi
comportate cosi? Perché non vi siete accontentati della tranquillità di questi
anni? Perché volete distruggervi la vita? Ragazzi ricordate che la vita è l’unico
regalo che non vi verrà fatto DUE volte !!!». Mi sentivo completamente inutile, volevo fare qualcosa ma non potevo, stavo male, malissimo, volevo solo
aiutarli, o meglio, avrei voluto solo tornare indietro nel tempo. L’unica cosa
che potevo fare dall’alto della montagna era osservare i miei bambini. Pregavo ogni giorno per loro e per la loro vita. È primavera il sole picchia, picchia forte. Gli abitanti euforici, stavano tutti insieme in allegria, l’indomani
ci sarebbe stata una Manifestazione, il Ministro delle Infrastrutture si accingeva al taglio del nastro. Tutti erano impegnati nei preparativi. Tutto doveva
essere perfetto. Il Ministro era stato invitato per inaugurare una fondazione
per “le vittime del sabato sera”. Un giorno di festa si trasformò in un giorno
di dolore. Erano le otto del mattino, i bambini si recavano a scuola. Alcuni
erano felici di trascorrere una giornata insieme ai propri compagni di classe,
altri nonostante fossero trascorsi diversi mesi dall’inizio dell’anno scolastico,
ancora piangevano perché non volevano lasciare la propria mamma. Un Suv,
enorme, rumoroso, di colore grigio, alla cui guida vi era un diciottenne, uno
dei tanti che appena patentato gli viene regalato “questo macchinone” che
nonostante il divieto da parte della legge lo guidano. Il cielo all’improvviso si
oscurò. Per me il mondo finiva in quel preciso istante. Un bambino insieme
alla mamma stava attraversando la strada. Vidi quella “maledetta” scena davanti ai miei occhi, pur essendo lontano e capii di non poterla mai dimenticare: il loro angelo custode non poteva salvarli. Centotrenta chilometri orari su
una strada che ne prevedeva quaranta. Mi coprì gli occhi e sentii solo un rumore fortissimo che mi gelò il cuore. L’impatto fu brutale. Tutte le immagini,
che fino ad un attimo prima la mia mente aveva proiettato, erano diventate
realtà. È successo qualcosa, qualcosa di terribile, tutti urlano, abbracciano,
guardano, increduli, perché tutti sanno in quell’istante, quel dolce bambino
è diventato un angelo e tutti potranno guardarlo in volo verso il cielo. Dopo
questa tragedia i sensi di colpa mi distruggevano, mi sentivo, una nullità, non
riuscivo a guardarmi allo specchio. Questa lezione purtroppo doveva esserci,
non si poteva evitare. Così i ragazzi iniziarono a comprendere il significato
della vita. Un piccolo angioletto innocente aveva pagato per loro. I ragazzi
si riunirono e decisero di venire da me per convincermi a tornare in paese.
Arrivarono in tanti e con loro portarono anche degli utensili per pulirmi, dal48
DIDATTICA E LABORATORI
la loro violenza, dal colore. La madre dell’angelo volato in cielo, ne portava
un altro in grembo. Schiacciata da un dolore indescrivibile prese una brutta
decisione: quella di abortire. La visita ginecologica era fissata, nessuno sapeva e nessuno poteva fermarla. La vita per lei era cambiata, questo bambino
che aveva sempre desiderato non aveva più valore per lei, non si sentiva più
in grado e all’altezza di accudirlo, vista la precedente tragedia accaduta. Nel
giorno fissato si reca in ospedale. Ansiosa aspettava il suo turno decisa di non
cambiare idea. Chiusa nel suo dolore, distrattamente sfoglia una rivista, legge
articoli, e poi, improvvisamente i suoi occhi vengono calamitati da un segnale
di pericolo incorniciate in un triangolo rosso. Istintivamente accarezza con la
mano le due figure leggere che attraversano sulle strisce pedonali. Riguarda
le bianche strisce pedonali, rivede il Suv, l’aritmia le gonfia il cuore. “Sono
una donna, una madre - dice a se stessa – devo donare la vita e non sottrarla.
Allora, la giovane mamma pensa al valore della vita, alle tante piccole vite
indifese. Alle tante mamme che non possono procreare e che non hanno ricevuto questo stupendo dono, ai tanti che in un attimo spezzano vite innocenti.
Quella porta diventa un divieto, frena, torna indietro e se ne va portando
con sé la vita. Quel maledetto giorno l’assenza del segnale le portò via il suo
piccolo angelo, oggi lo stesso segnale era li per farsi perdonare e ricordarle
che nessuno può decidere sulla vita degli altri, soprattutto per piccoli angeli
indifesi. Quel giorno la madre scappò dallo studio medico, e in lacrime si
recò alla tomba del suo piccolo angelo e pregò per i tanti errori che l’uomo
inconsapevolmente commette. Da allora si impegnò per la tutela dei bambini
e promosse convegni informativi contro l’aborto.
Il gruppo Le tre più tre
Maria Agostino
Antonietta Rosiello
Sacco Mariafilomena
DIDATTICA E LABORATORI
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a cura di
Teresa Apone e della classe II A scienze umane
LABORATORIO SULLA FIGURA DEL MIGRANTE
Il viaggio come sofferenza nella condizione del migrante e del malato
Questo lavoro è dedicato
…Ai migranti del centro di accoglienza di Ponte Galeria che quest’inverno si
sono cuciti la bocca per protestare contro le cattive condizioni e i tempi di permanenza nei centri di accoglienza e che, poi sono stati rimpatriati…
…E a tutti coloro che soffrono lontano dalla propria terra o affrontano un
viaggio di dolore.
Premessa di Teresa Apone
Le alunne della II A hanno lavorato al tema dell’ emigrazione e alla condizione del migrante sia in geostoria che in italiano, producendo saggi brevi
e articoli legati anche ai tragici sbarchi di Lampedusa. Hanno anche letto e
commentato in classe articoli di giornale relativi alla nostra condizione di
emigranti sia in America che in Australia tratti da un prezioso libro di Gian
Antonio Stella. Hanno riallacciato il tema delle migrazioni alla storia studiata quest’anno, alle invasioni barbariche, a quella dello scorso anno, alle
migrazioni degli uomini della preistoria. Hanno anticipato, con il mio aiuto,
le scoperte geografiche come passaggio fondamentale della storia moderna
che tanto ha da dirci sull ‘attuale assetto geopolitico del mondo. Hanno,
inoltre, letto un libro sulla biografia di Malala Yousafzai, la ragazza pakistana
costretta a scappare dal suo paese per la persecuzione dei talebani, da marzo
in poi leggeranno la storia di un’altra migrazione, quella di un adolescente
del sud Italia costretto ad emigrare al Nord dove frequenterà il liceo in un
contesto completamente diverso da quello del suo piccolo paese di origine
(”Una barca nel bosco” di Paola Mastracola). Esperienze di vita particolari,
uniche legate al tema della fuga o del viaggio. Nel testo della Mastracola il
viaggio è punto di partenza : l’emigrazione al Nord, stravolge completamente
la dimensione esistenziale del protagonista e lo porta a misurarsi con il proprio passato, con la nuova realtà e soprattutto con la propria solitudine.
Per questo motivo, in occasione di questo numero della rivista dedicata a
questo tema, le ragazze hanno deciso di scrivere delle storie di persone che
viaggiano e le hanno raccontate con la semplicità che le contraddistingue.
Sono “mini- storie” forse un po’ troppo semplici, ma sicuramente frutto del
loro autentico lavoro.
Viaggi antichi e moderni, di persone in difficoltà che non sempre riescono
realizzare il loro sogno. Amil, infatti, rimane sola nel centro di accoglienza di
DIDATTICA E LABORATORI
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Lampedusa. Federica non sa che le accadrà e a fatica si stacca dai genitori. Più
fortunati sono i viaggi di Tonino, l’emigrante che fa fortuna e non dimentica la
sua terra e dell’ uomo malato che ritroverà la fede e la guarigione nel viaggio.
Negli ultimi giorni di febbraio mentre le alunne preparavano i loro piccoli
racconti abbiamo letto le parole di Lucia alla fine dell’VIII capitolo de “I
promessi sposi” che ci hanno accompagnato nella fine del percorso a testimonianza che il tema del viaggio anche in letteratura spesso si avvicina alla
dimensione del migrante e del dolore:
“…Addio, monti sorgenti dall’acque… Quanto è triste il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! Alla fantasia di quello stesso che se ne parte volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna, si disabbelliscono, in
quel momento, i sogni della ricchezza…”
Storia di Antonino Di Mauro, emigrato in America
a cura di Chiara Gesuele
“Un popolo che ignora il proprio passato
non saprà mai nulla del proprio presente”.
Indro Montanelli
Era il 1946, l’Italia era uscita sconfitta dalla guerra, aveva ferite molto profonde sia economiche che socialiAnche se c’era la gioia per aver cacciato via i
tedeschi dalla penisola e per aver sconfitto definitivamente il fascismo, molti
non credevano in una possibile rinascita del paese e tra quelli scoraggiati
c’era il siciliano Antonino. Antonino a quell’ epoca era un giovane intraprendente con una grande voglia di lavorare, il suo sogno nel cassetto era diventare architetto e costruire grandi palazzi. Gli Stati Uniti erano perfetti perla
realizzazione di questo sogno. Affrontò lunghi giorni di viaggio e quando
raggiunse la sua sognata New York, gli sembrò che da lì tutto fosse possibile
e che non ci fossero più ostacoli per lui e per i suoi desideri. Ma non fu così!
Si stabilì nelsobborgo “Little Italy”, dove non gli sembrò di aver abbandonato la sua patria: erano tutti italiani e c’erano anche pochi afroamericani.
Dopo i primi difficili tempi, riuscì a trovare lavoro in un ufficio di geometri
e architetti al centro di Manhattan, come “ tuttofare” del capo. I primi mesi
furono orribili per Antonino che non sapeva parlare inglese: non riusciva a
capire niente di quello che gli ordinavano, si perdeva nella “Grande mela” e
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DIDATTICA E LABORATORI
non conosceva le strade da percorrere. Tuttavia i suoi concittadini italiani, già
lì da molto tempo, lo aiutarono a imparare la lingua e così le cose diventarono
a mano a mano più facili, anche se non sempre, gli americani erano gentili e
condiscendenti con gli italiani. Per molti di loro gli italiani erano “cattolici
sozzoni”, “straccioni”, “maccheroni” o “fannulloni invadenti”. Con disprezzo, Antonino era trattato anche dal capo che lo prendeva in giro per il colore
della sua pelle olivastra. Veniva maltrattato, sfruttato, mal pagato proprio
come oggi capita n Italia agli extracomunitari. Lui, però, i stringeva i denti e
metteva da parte i soldi per studiare. Passarono gli anni, le cose piano piano
cambiarono. Antonino riuscì ad ottenere la cittadinanza americana, a studiare e a laurearsi. Con un bel gruzzolo che aveva messo da parte riuscì ad aprire
il suo primo studio. Divenne con gli anni uno dei più famosi architetti di New
York. Tutti i sacrifici e le pene subite, finalmente erano servite a qualcosa. Si
sentiva fiero di se stesso e felice di aver realizzato il suo grande sogno.
Gli anni passano veloci, Antonino ora è vecchio. Adesso non è più l’italiano
sognatore che partì un giorno per l’America, ma è Tony, un americano con
una grande carriera alle spalle, che ormai alla fine della sua vita, guarda dalla
finestra di casa sua quell’oceano che un tempo lo portò lì. Tutti i ricordi sembrano sbiaditi. La lingua, i luoghi e la cultura italiana ora sono per lui lontani,
ma gli resta nel cuore il profumo e il sapore della sua terra natia che gli hanno
dato la forza di andare avanti e lo fanno, oggi, sentire orgoglioso, di essere nel
profondo delle sue radici, italiano.
FEDERICA: STORIA DI UNA PARTENZA
A cura di Caterina Melone e Mariassunta Molinaro
Federica, una ragazza di 20 anni, dopo essersi diplomata e aver passato un
anno alla ricerca di un lavoro, si è trovata di fronte ad una scelta: rimanere in
Italia senza lavoro o allontanarsi dalla sua famiglia per costruirsi un futuro.
Secondo voi, è facile per qualsiasi famiglia o ragazzo vivere o meglio subire
un distacco, così forte? Noi conosciamo Federica e sappiamo che non è stato
facile. All’aeroporto, alla sua partenza c’eravamo anche noi. Federica è una
nostra amica!
Il 2 febbraio 2014 alle ore 8.30 la famiglia e Federica partono per andare
all’aeroporto di Napoli. Le lacrime non si fanno attendere e la meta sembra
essere sempre più vicina. Dopo 2 ore di viaggio si è arrivati all’aeroporto. Tante
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persone che partono, arrivano, aerei che decollano, che atterrano, ma per i genitori di Federica tutto quello che c’è intorno è inesistente; riescono solo a vedere la loro “ piccola bambina” che devono lasciare. Si dirigono a fare il checkin e tutto sembra essere sempre più reale. In attesa delle 13.05, per liberare
la mente dal pensiero della partenza, la famiglia decide di girare e scherzare
ancora un po’ insieme per i negozi dell’aeroporto. Purtroppo l’ora di salutarsi
è giunta. I genitori, fanno le loro raccomandazioni augurando alla ragazza una
felice e costruttiva esperienza di vita. Lacrime di gioia e di tristezza: è giunto il
momento di partire. L’aereo decolla lasciando indietro il passato e aprendo una
porta al domani: da queste lacrime, forse, nascerà il futuro.
Amil a Lampedusa
A cura di Benedetta D’ambrosio
Sono passati ormai due anni da quando, qui in…, è scoppiata la guerra.
Una guerra che non finisce e che non finirà mai. Sono Amil, ho sedici anni la
mia vita è cambiata due anni fa quando mio padre fu ucciso da alcuni soldati.
Da quel giorno mia madre si è ammalata e tocca a me portare avanti la mia
famiglia. Non posso più andare a scuola, l’edificio è stato distrutto! Per portare a casa qualcosa da mangiare devo fare lavori tremendi. Questa mattina di
fronte la mia casa, dei soldati picchiavano a sangue dei poveri bambini e solo
oggi ho capito fino in fondo quanto la razza umana faccia schifo. Torno a casa
di corsa, con poca robaapparecchio la tavola, mangiamo quel poco che ho
racimolato. Metto in alcune valige nostri pochi vestiti. Questa sera partiamo,
non so di preciso dove finiremo ma è ora di dare una svolta a questa vita.
La sera è arrivata subito e io, mia madre e i miei cinque fratelli ci dirigiamo
verso una barca. In questo luogo a me sconosciuto ci sono un centinaio di
persone: tutti vogliono scappare da qui. Passano alcune ore, siamo ammucchiati l’uno sull’altro, ma riesco ad addormentarmi. All’improvviso vengo
svegliata da una voce a me familiare che ripete: “Amil, Amil svegliati siamo
in pericolo. “È la voce del mio fratellino. Mi guardo intorno e capisco che
la barca sta affondando. Le persone incominciano ad agitarsi. Arrivano dei
signori portano me e mio fratello verso una scialuppa di salvataggio. Non
posso salire lì sopra e andarmene, non posso lasciare lì mia madre e i miei
fratelli. Ma sono costretta farlo. Quella scialuppa ci porta fino a Lampedusa.
Sono salva, ma, sola con un fratello da portare avanti.
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DIDATTICA E LABORATORI
I miei genitori sono morti nel naufragio. Non so dove andare, cosa fare. Ci
portano nel centro di accoglienza, tutti piangono, sono tristi come me, c’è molto scompiglio. Non è questa la terra che immaginavo! Non ho più forze, cado…
Ricordo di essere caduta a terra e sento la voce di mio fratello che mi chiama,
poi il vuoto totale. Mi sveglio:ora mi trovo in una nuova casa, in un grande
città con dei signori che accudiscono me e mio fratello. Posso riandare a scuola
e posso permettermi le cose dei ragazzi della mia età. Posso uscire per strada
senza paura. Ma tutto è solo un sogno!Mi sveglio, più impaurita che mai, sono
ancora nel centro di accoglienza di Lampedusa, sola e con tanta paura!
“Lourdes”: il viaggio della speranza
A cura di Stefania Mautone, Chiara Pisciottano, Alessandra Ceraso
Sono un uomo che durante l’arco della sua vita, consumata dall’odio e dal
pessimismo, non ha mai creduto nella speranza e nella fede. Però in questi
ultimi anni trascorsi nel buio più profondo, ho dovuto lottare contro una grave malattia che mi ha portato a riflettere sull’importanza della fede. Questa
malattia è la leucemia. I medici sostengono che le probabilità di guarire sono
poche, ma la speranza è l’ultima a morire. Proprio nei momenti più difficili
bisogna imparare ad essere più forti e credo che il sorriso non si debba mai
perdere. Ho intrapreso, proprio in nome di questa speranza, un viaggio a
Lourdes. Una volta giunto a destinazione ho provato dentro di me la sensazione che non avrei mai dimenticato questo luogo. C’era una fila immensa,
ma io pensavo solo al momento in cui sarei entrato in contatto con la Madonna, perché per me Lei rappresenta l’unica salvezza. Una guida mi conduce
all’interno di una vasca e lì la mia anima è se come se avesse subito un totale
cambiamento, una purificazione. Mi sento rinascere, avverto dei i brividi lungo tutto il corpo: mi sento sollevato dal dolore che mi ha assalito per anni.
Torno in Italia, vado in ospedale, come ogni settimana, a fare le solite cure:
vedo arrivare il medico con gli occhi lucidi e non capisco. Mi fisse e guardandomi dice: “Non so come, ma ce l’hai fatta!”.
Grazie a questo viaggio la mia vita è cambiata. Ho capito che esiste un filo
sottile tra l’uomo e Dio, quel filo che mi ha spinto a sperare e a cercare sempre uno spiraglio di luce nel buio. Penso che il viaggio sia sempre qualcosa di
fantastico, di meraviglioso, qualcosa da scoprire… ma Il viaggio che ho fatto
io, è stato per me, il vero viaggio della vita!
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Teresa Apone
Il viaggio della luna in Leopardi e altro
Già nel Medioevo cristiano la vita umana era concepita come momento di
passaggio, come viaggio mondano in attesa della vera vita, quella ultraterrena. Opera emblematica di questa concezione è la “Commedia” di Dante
che include in sé un altro grande e “periglioso” viaggio, quello di Ulisse che
sfida ardimentosamente, in nome della sua curiosità, le Colonne d’Ercole.
Movente del viaggio, qui, è la “sete di conoscenza” contrapposta al limite
divino. Gli eroi omerici viaggiano per difendere l’onore di Menelao con le
armi, andando verso Troia per poi tornare alla famiglia, come fa Ulisse. Enea
è, invece, un profugo ante-litteram, ma con una grande missione!
I giovani romani si recavano in Grecia per perfezionare la loro educazione e
i loro studi, ricordiamo primo fra tutti Cicerone. Goethe viaggiava a fine Settecento per riscoprire la classicità arrivando in Italia qui vicino fino a Paestum
e alla costiera amalfitana. Gli stessi posti che a partire dall’VIII secolo a. C. ,
giovani Greci decisero di colonizzare, fondando città meravigliose e piene di
prosperità come Poseidonia, Elea, Siracusa, Sibari, Cuma, Locri, Taranto…
Leopardi viaggia in Italia per riscoprire se stesso e per fuggire i limiti angusti del suo piccolo paese.
Foscolo fugge in nome della libertà e dell’amor patrio:
Né mai più toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell’onde
del greco mar da cui vergine nacque
Venere…1
1
Ugo Foscolo, A Zacinto, in Sonetti, vv. 1-5
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Vittorini, insieme a Pavese ci ha insegnato che il viaggio è un ritorno alle
origini, una riscoperta di sé attraverso il ritorno e che la terra d’origine ha il
sapore del mito, come anche Quasimodo e tanti altri poeti ricordano.
Il viaggio moderno è un viaggio coatto: nasce dalla disperazione, dalla fame,
dalla guerra, dalla persecuzione, il viaggio dei migranti. Emigranti erano anche i nostri nonni, così apostrofati dalla stampa americana tra fine Ottocento
e inizi del Novecento:
“…In celle oscure sotto le strade, dove i raggi del sole si rifiutano
di entrare, questi figli delle montagne di immondizia siedono e selezionano i relitti della vita (…). Lo sporco che li circonda, l’odore
di muffa delle loro abitazioni umide, è per loro piacevole e fa la loro
felicità, come fossero in un appartamento lussuoso”
(New York Times, Usa, 14-10-1906)
“Noi protestiamo contro l’ingresso nel nostro paese di persone i
cui costumi e stili di vita abbassano gli standard di vita americani
e il cui carattere, che appartiene a un ordine di intelligenza inferiore, rende impossibile conservare gli ideali più alti della moralità e
civiltà americana”
(Reports of the Immigration Commission, Usa, 1911,
La Gumina, p. 158)2
Ma la condizione del migrante e dello straniero appartiene alla notte dei
tempi. L’homo sapiens emigrò dall’Africa per poi diffondersi in tutto il globo.
Tutta la storia è in fondo un viaggio, fatta di migrazioni, conquiste, colonizzazioni, ricerca di sé e dell’altro!
Ma il viaggio è anche altro.
Evasione, rifugio: Baudelaire e i poeti maledetti “viaggiavano con la mente”
attraverso i “Paradisi artificiali”.
Emozione: Kerouac e la beat generation viaggiavano “on the road” per vivere e sentire il palpito della vita.
Scelta politica: i partigiani vagavano sulle colline per difendere la libertà.
Morte: gli ebrei durante la Shoah viaggiavano, purtroppo, verso l’orrore.
2
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Gian Antonio Stella, L’Orda, quando gli albanesi eravamo noi, Rizzoli
DIDATTICA E LABORATORI
Da qualche parte in Russia
La bufera mandala neve fin dentro il suo cappotto,
piange una campanella
al collo del cavallo che traina la slitta.
È questa la mia anima.
Da qualche parte in Russia
Un corvo vola sopra i campi bianchi, bianchi,
la mia aquila si trascina
a fatica l’ala spezzata.
Dietro il suo respiro affannoso
Lunga distilla sopra i campibianchi
Un’orma insanguinata. 3
Addirittura se ci avviciniamo al mondo del cinema e dell’attualità, anche il
protagonista de La grande bellezza, Jep Gambardella, può essere considerato
un migrante che da giovane arriva a Roma, ambizioso, scaltro e in cerca di
successo. Dopo molti anni, deluso dalla fatuità della vita e dalla mondanità,
cercherà di ritrovare se stesso attraverso un viaggio di ritorno, ritorno alle
radici: “…le radici sono importanti”, come recita un personaggio-chiave del
film.
Ma tra i tanti viaggi, letterari e non, uno dei più belli per me è il viaggio nel
quale la luna accompagna il pastore in Canto notturno di un pastore errante
dell’Asia di Giacomo Leopardi.
Che fai tu, luna in ciel? Dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor, non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita la vita del pastore. . . 4
Questo viaggio è emblema della condizione e della vita dell’uomo solo di
3
4
Gertrud Kolmar, Da qualche parte in Russia, in Metamorfosi e altre liriche
Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, in Canti, vv. 1-10
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fronte al mistero dell’universo e desolato e fragile di fronte alle mille irrisolte
domande che affliggono il suo cuore.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
scolorar del sembiante,
E perir della terra, e venir meno
Ad ogni usata compagnia…5
Da notare l’uso magistrale della punteggiatura che sin dal primo verso sembra accompagnare e dare ritmo e cadenza al passo del pastore insieme a quello della luna.
…e quando miro tra me arder le stelle;
Dico tra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? che vuol dire questa
Solitudine immensa? Ed io che sono?…6
Voglio concludere con questi versi che non hanno bisogno di alcun commento. Essi lasciano impressa la voglia di sentirli riecheggiare all’infinito,
come supremo successo di armonia tra contenuto e forma, tra ragione e sentimento, tra pensiero e linguaggio, tra filosofia e poesia!
5
6
64
Ivi, vv. 61-68
Ivi, vv. 84-89
DIDATTICA E LABORATORI
Rosanna Caiazzo
VIAGGIO NELL’ANTICHITà: ELEA-VELIA
Nel Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano sono presenti preziose
testimonianze dell’eroica civiltà ellenica: le rovine documentano l’esistenza
di una città prospera, Elea, caratterizzata da fiorenti commerci. In questa cittadella, immersa in una lussureggiante vegetazione mediterranea, sono stati
individuati, con numerosi scavi archeologici, l’acropoli e due differenti quartieri, collegati tra loro da sentieri campestri.
La città di Elea fu fondata nel 540 a. C. dai coloni Focei espatriati per
sfuggire alle incursioni del nemico achemenide Ciro il Grande. La prima
denominazione del luogo è Yele e ciò denota l’origine italica; la forma Elea,
di tradizione greca, deriva da ulh (fontana) e si ritrova in Erodoto e anche in
alcuni scritti di Platone. La città fu di grande importanza tra il VI e V secolo
a. C. per la nascita della scuola filosofica eleatica guidata dal filosofo Senofane di Colofone, che trovò in Parmenide e Zenone i suoi maggiori seguaci.
L’appellativo Velia risale ad epoca romana e si ritrova in Naturalis Historia
di Plinio e nelle opere del geografo Strabone. Tali fonti scritte permettono di
capire come Elea sia stata prima una colonia di tradizione greca e, in seguito,
sottoposta al dominio romano: tuttavia altri reperti storici rivelano che la
lingua e le tradizioni greche furono preservate nel tempo.
Gli Eleati raggiunsero la floridezza economica con il commercio e la pesca:
sono infatti visibili resti di abitazioni di pescatori presentanti un perimetro
ridotto ad unico vano. Particolare è la loro costruzione: alla base mattoni più
ampi di arenaria locale e alcuni di diametro inferiore nella parte superiore, a
scopo antisismico. La città era costituita da un nucleo più antico, che occupava la parte meridionale dell’acropoli, e da due ampi quartieri, di cui quello
a sud comprendente edifici pubblici, le terme e il centro abitato; quello situato nella parte settentrionale presentava funzione artigianale. Probabilmente
esisteva un porto e si sfruttavano le acque del fiume Alento, del Palistro e
DIDATTICA E LABORATORI
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di Santa Barbara. Particolarmente emozionanti sono i resti di Porta Rosa,
costruita con mattoni che assumono una colorazione rosata quando il sole
rivolge loro i raggi.
Di grande interesse è la condizione della donna nella tradizione eleatica e
nel resto della Grecia. La fanciulla, paiv, portava sempre i capelli sciolti e
lunghi, emblema della giovinezza, e all’età di sette anni veniva iniziata per
divenire donna con l’arte domestica della tessitura e della panificazione. Tali
compiti venivano svolti in luoghi appositi connessi ai santuari dedicati alla
divinità del matrimonio Era. In seguito, la donna era considerata orsa, poiché non si mostrava in pubblico: ella era allontanata dal nucleo familiare e
condotta in comunità femminili per lo svolgimento di riti di iniziazione alla
vita coniugale. A soli quattordici anni, la giovane diventava sposa, gamhth,
donando alla regina delle dee il peplo indossato durante l’adolescenza. Tali
tappe le ritroviamo nella mitologica figura di Era, sorella di Zeus, dapprima
fanciulla, poi sua sposa e infine donna vendicativa, keira, tradita dal coniuge. Si sosteneva nellantichità che tale ciclo della dea fosse associato al corso
delle stagioni e che si ripetesse così ogni anno.
Sorprendenti reperti storici, mirabile arte architettonica e sapere filosofico si
fondono nell’antica città di Elea; emblema di gloriose gesta ed eternatrice dei
più elevati valori morali, è in grado di far protendere l’animo umano verso un
eroico viaggio e di far oltrepassare gli angusti confini della realtà per far rivivere
la tradizioni e i principi di una civiltà ancora fortemente attuale: i Greci.
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DIDATTICA E LABORATORI
Marianna Bruzzese
Velia: viaggio fra antico e moderno
Passeggiare tra mura di oltre 27 secoli e ritrovarsi catapultati di fronte ad
una telecamera, in diretta su Rai 3 e nel giro di poche ore: esperienza insolita
di cui alcune ragazze, rappresentando le quattro classi ginnasiali del Liceo
Classico Parmenide, sono state partecipi sabato 8 marzo 2014.
Indossando vesti e mantelli bianchi, hanno recitato in coro uno degli Inni
Omerici dedicato alla Dea Pallade Atena, “signora dell’acropoli”. Sotto l’attenta regia della prof.ssa Rizzo Maurina e con l’aiuto tecnico della prof.ssa Amarante Felicetta, hanno fatto della loro giornata un’esperienza indimenticabile. Alla
spalle il meraviglioso sito archeologico di Elea-Velia, accuratamente descritto
nel servizio come bellezza e patrimonio inestimabile d’Italia e del mondo.
Il tutto coronato da “lagane e ceci” e dagli “scauratielli”, entrambi piatti
tipici del luogo. Ma ciò che ha reso questa atmosfera cosi suggestiva è stata
soprattutto la presenza di uomini donne accomunati dallo stesso amore per il
mondo classico e per la scoperta ogni giorno nuova di avventure sepolte dal
tempo, ma ancora intatte e pronte ad essere riportate alla luce da noi.
Anche personalità illustri del luogo hanno partecipato al servizio mandato in onda durante il Tg3 Campania, come la prof.ssa Giovanna Greco, la
dott.ssa Giuseppina Bisogno, la biologa Rosetta Di Buono, l’architetto Carla
Maurano, dell’associazione “Identità Mediterranea”, e la dott.ssa De Roberto Paola, dell’associazione “Achille e la Tartaruga”, tutte intervistate dall’ottimo giornalista nonché grande improvvisatore Enrico Dori, che con la sua
simpatia ha coinvolto anche le piccole “grechette” del Liceo.
Un cast tutto al femminile dunque e un modo originale di festeggiare la
donna, questo vero e proprio capolavoro della natura di cui ormai tutti, o
quasi, hanno riconosciuto la bellezza, soprattutto interiore, e il grande e importante ruolo nella società di tutti i tempi.
Auguri, donne!
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Angela D’Angelo
Il sentimento di chi resta e aspetta
L’opera “Madama Butterfly”, una delle più celebri ed apprezzate di Giacomo Puccini nonché del repertorio del teatro lirico, è tratta dal dramma
omonimo di David Belasco e fu rappresentata per la prima volta nel 1904, su
libretto di Giuseppe Giacosa.
Ambientata in Giappone, la “Madama Butterfly” narra di una fanciulla innamorata e infelice (la graziosa e delicata geisha Cio- cio- san, detta, appunto,
Butterfly) destinata a morire per la sua ingenuità ed il suo sentimento nobile
e puro.
Vorrei proporre di seguito il testo dell’aria più nota della suddetta opera,
“Un bel dì, vedremo”:
Un bel dì, vedremo
levarsi un fil di fumo
dall’estremo confin del mare. E poi la nave
appare. Poi la nave bianca
entra nel porto, romba il
suo saluto. Vedi? È venuto!
Io non gli scendo incontro.
Io no. Mi metto là sul ciglio del
colle e aspetto, e aspetto gran tempo
e non mi pesa, la lunga attesa.
E uscito dalla folla cittadina
un uomo, un picciol punto
s’avvia per la collina.
Chi sarà? chi sarà?
E come sarà giunto
che dirà? che dirà? Chiamerà
DIDATTICA E LABORATORI
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Butterfly dalla lontana.
Io senza dar risposta
me ne starò nascosta un po’ per celia. . .
e un po’ per non morire
al primo incontro,
ed egli alquanto in pena chiamerà, chiamerà:
piccina mogliettina olezzo di verbena,
i nomi che mi dava
al suo venire.
Tutto questo avverrà, te lo prometto.
Tienti la tua paura,
io con sicura fede l’aspetto.
Con queste parole Cio-cio-san esprime la nostalgia per il suo sposo, il tenente della marina americana Benjamin Franklin Pinkerton, che dopo tre
anni di lontananza si appresta a ritornare a Nagasaki.
Butterfly, in compagnia della fedele amica Suzuki, attende con ansia e trepidazione il momento in cui vedrà profilarsi all’orizzonte “un fil di fumo”.
Cio-cio-san dice di volersi mostrare calma e quasi indifferente quando la
nave di Pinkerton approderà, perché la commozione e la gioia rischieranno
di sopraffarla.
Per Madama Butterfly il viaggio del marito sembra non aver mai fine: per
lei ogni secondo trascorso sulla collina equivale ad un minuto di agonia; ogni
attimo è come un lungo periodo di angoscia, ogni parola titubante di Suzuki
non ha altro scopo se non l’irritarla e il rafforzare ancor di più la sua fiducia
nei confronti dello sposo.
Gli occhi della geisha scrutano “l’estremo confin del mare”, nel punto in
cui sembra che l’acqua e il cielo vogliano fondersi in un’armoniosa unità; la
danza sinuosa e monotona delle onde, che avanzano e si ritraggono imperterrite, pare prendersi gioco della sua impazienza e della sua solitudine.
Cio-cio-san è una donna sola: a nessuno importa dei suoi sentimenti, pensieri e desideri; le persone in cui ripone una fiducia cieca, quasi illimitata,
criticano costantemente le sue azioni perché ella si abbandona senza riserve
alla sua natura appassionata e “sognatrice”.
Il canto di Butterfly, struggente e malinconico, si libra dolce e delicato come
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DIDATTICA E LABORATORI
il volo di una farfalla su quell’immensa distesa d’acqua che è il mare, quasi a
voler raggiungere la “nave bianca”; se chiude gli occhi, già le par di sentire la
voce tanto sospirata dello sposo, che la chiama “piccina mogliettina, olezzo
di verbena”.
La brezza marina sfiora la sua pettinatura austera ed impeccabile; Cio-ciosan si stringe le mani sul cuore: “Un bel dì, tutto questo avverrà, te lo prometto” – dice a Suzuki – “Tienti la tua paura, io con sicura fede l’aspetto”.
DIDATTICA E LABORATORI
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Arianna D’Angelo
Un viaggio nella ragnatela del Hikikomori
da Singapore a Firenze
Singapore ore 06. 00
Hiruka si è appena svegliata e mentalmente ha già riformulato il programma della sua giornata: scuola, judo e karate, lezioni d’inglese, sport e poi
finalmente a casa. Non sarà mai abbastanza per quella società che le chiede
il massimo in tutto e per tutto, ma soprattutto non potrà mai avere delle vere
amicizie in una società basata sulla competizione. Questi sono i pensieri di
Hiruka mentre svolge le sue attività. Lei vorrebbe solo amore e affetto e un
po’ più di fiducia in se stessa ma tutto ciò non riesce a trovarli né nella sua
famiglia, né nel gruppo dei coetanei e nemmeno in se stessa. Odia i soldi della
sua famiglia, tutto quello sfarzo per lei è futile, non donano la felicità, per lei
ciò che conta davvero in quella casa piena di ricchezza, in cui la figura del
padre è quasi nulla e quella della madre quasi oppressiva, è il suo computer
e la sua stanza e la vita che vorrebbe vivere, che ha scelto per lei, si esprime
in poster e foto appese al muro. In fondo tutti i ragazzi giapponesi sanno
quale sarà il loro destino già da piccoli infanti, per loro non esistono serate
in discoteca, loro devo vivere per lavorare e per studiare, non esistono colpi
di testa, dovranno cercare di essere migliori dei loro padri e dei loro nonni.
È ciò che esige il Giappone dai suoi figli e Hiruka non sa se potrà farcela.
Singapore ore 00. 00
Hiruka si è appena svegliata, ha fame e apre la porticina che ormai da otto
mesi è presente sulla porta della sua stanza, la madre non è mancata “all’appuntamento del cibo”. Come ogni sera ha deposto davanti alla porticina un
piatto di cibo, Hiruka lo prende, mangia e poi fa scivolare il piatto fuori dalla
porticina dopodiché accende il suo computer e si collega al suo social network
preferito con cui da mesi comunica con il mondo esterno. Hiruka, ormai, vive
DIDATTICA E LABORATORI
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nella sua camera e non frequenta più né la scuola né le attività che svolgeva
e spesso quando è fra veglia e sonno sente i suoi parenti paragonarla ad un
vampiro, poiché dorme mentre il sole batte e veglia di notte. Il suo computer
è ormai divenuto il suo migliore amico e le persone con cui comunica: i personaggi di fantastiche avventure. Hiruka non è né felice né triste, vive nel mezzo
e non sa se è morta oppure sta vivendo una fase di transizione tra la vita e la
morte. Ogni giorno che passa i suoi sogni si affievoliscono e va via un pezzo
di lei, rifiuta il mondo e crede di salvarsi da quella società troppo dura per lei
e da quella famiglia inconsistente rifugiandosi nella sua stanza. I suoi genitori
sono troppo orgogliosi per farsi vedere entrare in una clinica psichiatrica e per
ammettere di aver fallito come genitori, preferiscono rifugiarsi dietro le parole
“ è solo una ragazzina presto uscirà da quella stanza” lavandosi in tal modo la
coscienza e lasciando medici e maldicenze al loro posto.
Hiruka, intanto, continua, giorno dopo giorno, a divenire una morta vivente.
Firenze ore 11. 00
Hiruka si è appena svegliata. Sono passati quattordici anni da quando Hiruka ha visto per l’ultima volta la luce del sole e oggi la rivedrà nuovamente.
Dopo un anno di reclusione i genitori si rendono conto che se non avessero
fatto qualcosa Hiruka sarebbe morta in quella stanza. Si affidano a una psicologa, Sonoko.
Sonoko studia il caso di Hiruka e fa la diagnosi con una sola parola: “Hikikomori”. I genitori della ragazza apprendono che la maggior parte dei
giovani giapponesi diventa hikikomori spesso per la situazione familiare e
sociale. Sonoko prende a cuore il caso e ogni giorno si reca a casa di Mirka, si
siede dinanzi la porta della stanza della ragazza e parla, parla. Dopo un mese
di mutismo si cominciano ad avere i primi miglioramenti: Hiruka inizia a raccontare della sua storia, dei suoi sogni e delle sue debolezze e Sonoko ascolta.
Dopo cinque anni di colloqui da dietro la porta Hiruka, inaspettatamente,
apre la porta e sforzando gli occhi, che erano rimasti al buio troppo al lungo,
cera di dare un volto alla voce di Sonoko.
Hiruka aveva sedici anni quando cominciò il suo isolamento e a vent’uno
dovette riscoprire il mondo, modellare il suo fisico che era deperito e con
esso modellare anche la sua psiche e la sua educazione e su ciò lavorò sei
anni, studiando da casa e recandosi a scuola solo per dare gli esami. In tre
anni cercò di riformarsi una vita sociale ma erano i suoi coetanei a dover an82
DIDATTICA E LABORATORI
dare da lei perché ancora non si sentiva di uscire e ora a trent’anni compiuti
si trovava a Firenze, in Italia, con Akahito, il suo fidanzato, cui aveva espresso
il desiderio di voler viaggiare e lui senza pensarci due volte l’aveva accontentata. Era la prima volta che Hiruka chiedeva di uscire da casa, dove si erano
conosciuti e innamorati e nemmeno il lavoro, che lo teneva troppo tempo
lontano da lei, poteva sottrargli la gioia di vedere la sua Hiruka prendere un
aereo e andare lontano. Appena sentì il sole battergli sul viso Hiruka rise e
cominciò a ballare sentendosi bambina e quella parte di lei che andava piano
piano morendo nei suoi giorni di reclusione ora era viva più che mai. Amava
il sole, la gente, Firenze, ma amava soprattutto il David di Donatello in cui
si rispecchiava poiché anche lei aveva sconfitto un gigante, il più temibile di
tutti, quella reclusione, quella depressione era stata per lei agghiacciante, ma
per fortuna ora se ne era liberata ed era libera ora.
DIDATTICA E LABORATORI
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Giulia Di Leo
Un viaggio... appena iniziato
Dal quaderno del signor J. E.
“Mai avrei pensato che bastassero due occhi per far infrangere a un uomo
debole, come sono io, tutte le regole. Quando divenni finalmente psicologo,
mi ripromisi che mai avrei interferito nella vita di un mio paziente e per undici
anni ci sono anche riuscito. Oggi, 12 marzo 2013, dopo il solito colloquio con
il signor De Francesco (il quale prova ancora a evitare di parlare della sua ex
moglie e ha smesso anche di prendere il Prozac), aprono la porta due occhi che
definirei inchiostro nero su carta, dei capelli decolorati che le arrivano sulle
spalle, coperte da una polo blu molto formale. Appena l’ho vista, l’ho immaginata bambina, poi adolescente e sono tornato in quella stanza, dove la carta da
parati non era più la stessa, accogliendola con un freddo ‘Venga, si sieda’. L’ultima volta che mi sono sentito così rapito da una persona, è stato due mesi fa in
una tavola calda, dove conobbi un signore anziano, dallo sguardo abissale che
canticchiava ‘mi fiorisce in petto un pianoforte sul quale suonano gli amori degli uomini, del mondò. Mentre Alina, così si chiama, non canticchiava niente,
ma anzi non faceva rumore nemmeno respirando, quasi avesse paura. E credo
di non poter scrivere altro poi, non c’è niente da documentare, perché del resto
è stata l’unica seduta di Alina. Non mi è sembrato avesse voglia di parlare con
uno psicologo, ma semplicemente con uno sconosciuto. Ora è un caso della mia
vita, non riguarda il lavoro, Alina. Che bel nome però! Lo ripeterei all’infinito.
Significa ‘nobile’, ma a me sembra il nome di un uccello, di una rondine…”
Mi dirigo al cinema di mio padre e sento la realtà che mi circonda più vicina
alla mia anima del mio stesso corpo. Gli adulti nei bar si organizzano già per
le vacanze estive, per il primo tuffo dell’anno. I giovani ventenni a quest’ora
sono nelle loro case, si risvegliano di notte e al mare sono già andati. Gli adolescenti si fissano appuntamento alla Feltrinelli, ma poi non entrano e chissà
dove si dirigono con le loro vespe. Bologna puoi guardarla con gli occhi di
un bambino o con quelli di un quarantenne come me e ti sembrerà sempre la
DIDATTICA E LABORATORI
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stessa. Sono quasi arrivato e intravedo più gente del solito. È un cinema che
sembra quasi un ponte anacronistico tra il futuro e il passato. L’ha aperto dieci anni fa, ma lo scritto cinema sembra risalire agli anni ’50. Ci sono soltanto
tre sale, in quelle più grandi sono trasmesse le ultime uscite, mentre c’è una
sala più piccola dove sono trasmessi film scelti da lui. Oggi è il 12 marzo e
nel 1977 a Bologna fu chiusa Radio Alice, una delle più celebri radio libere e,
conoscendo bene le associazioni cinematografiche di mio padre, sono sicuro
che trasmetterà Radio freccia. Mi sembra quasi di vederlo papà, parlare con
Alina e altri tre ragazzi all’entrata. No, non può essere lui!
“Ehi”, strilla facendomi l’occhiolino. “Queste ragazze dicono di aspettarti;
che ci fanno con un tipo noioso come te?”. Questi ragazzi lo guardano come
lo guardavano i miei amici ai tempi del liceo: tiene la scena come Vittorio
Gassman nelle sue migliori interpretazioni! Beh, non proprio tutti. Ce n’è
una, un po’ annoiata, che sembra evitare il mio sguardo.
“Comunque questi due sono Filipp e Marco!” “Filipp?”. Il ragazzo non
risponde, immaginando già il motivo della mia reazione e mi stringe la mano.
È proprio il Filipp di cui mi aveva raccontato Alina durante la seduta, mon
dieu. Ma non l’ha portato lei, lei ha portato la sua amica, che continua a non
guardarmi. Marco esclama “Abbiamo conosciuto il signor Franco oggi in un
locale” “Ragazzi, chiamatemi Frank! In ogni caso, ora è meglio entrare!”.
Preciso ad Alina che io non ne sapevo nulla, lei mi dice che immaginava
fosse stata soltanto una strana coincidenza e poi mi presenta la sua amica. Si
chiama Chiara, ora mi guarda e mi guarda anche bene.
Ci sediamo e come ogni volta sono sottratto dallo schermo nero pima che
il film inizi. Mi trasporta altrove. Chiedo a mio padre, a Frank: “Radiofreccia stasera, eh?” “Nein. Stasera ho fatto uno strappo alla regola: Ieri, Oggi,
Domani. Filipp e Marco oggi ammettevano di non aver mai visto un film
con Mastroianni. Comunque diventi sempre più bravo a indovinare i film,
bravo!” “Tu diventi sempre più imprevedibile invece. Come li hai conosciuti
questi due?”. Mentre la Loren e Mastroianni hanno non so quanti figli, papà
mi racconta cos’è successo oggi. Ogni martedì, a mezzogiorno e mezza, da
vent’anni, pranza nella locanda del suo amico Giovanni. Stesso tavolo, stesso
numero di bicchieri di vino. Raramente individui sotto i quarant’anni frequentano questo locale e il destino ha voluto che proprio oggi Filipp e Marco
avessero voglia di tortellini. Papà non ha potuto fare a meno di sentire i loro
discorsi riguardanti il lavoro, l’immigrazione, gli innamoramenti, la crisi, la
famiglia. Si è intromesso nella conversazione e li ha invitati al suo tavolo.
Sembrava non parlassero con qualcuno più vecchio di loro da non so quanto
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DIDATTICA E LABORATORI
tempo e avevano una voglia incredibile di raccontarsi. Qualche ora dopo
quel casuale incontro, io incontravo Alina e la sua storia coincideva perfettamente con quella di Filipp, come le loro mani che si stringono nel freddo
delle notti bolognesi. La storia di questi quattro ragazzi, in sintesi, è questa:
Filipp è russo ed è scappato in Italia quando aveva soltanto diciotto anni, a
causa della sua famiglia che sembra quasi imparentata con Putin. Ora ha ventisei anni e Bologna è già la quarta città in cui ha vissuto; frequenta la facoltà
di Giurisprudenza, per sopravvivere fa vari lavoretti ed ha un romanzo in un
cassetto che ha paura di aprire. Ha conosciuto Alina il giorno in cui le hanno
detto che sarebbe dovuta partire per l’America ed è questo il motivo per cui
lei è venuta da me ed io non l’ho lasciata andare. Sono nato in America e
ho visto in lei lo stesso sguardo che i miei genitori hanno nelle foto sbiadite
dal tempo. Alina da quando ha conosciuto Filipp non vorrebbe più partire.
Questo dissidio la sta corrodendo e l’ha portata a mettere in dubbio anche le
sue origini. Alina ha vissuto a Varsavia fino ai tredici anni, quando con i suoi
genitori, di origine moldava, si trasferì inizialmente a Ferrara. Lei ora è una
trentenne che è riuscita ad ottenere un lavoro come giornalista a New York,
ma allo stesso tempo è stata un’adolescente che ha avuto a che fare con le
droghe leggere, i festini, i furti, gli incidenti e tutto ciò che può derivare da
una gioventù violenta. Ed io voglio sapere di più di lei, convincerla a partire e
nello stesso momento mio padre è intenzionato a indicare un possibile futuro
a Filipp e Marco. Marco che è sempre dentro a un bar, che non sa cosa farà,
proprio come nella canzone di Dalla. Ha ventiquattro anni ed è il coinquilino di Filipp da quasi un anno, da quando ha deciso di non abitare più con i
suoi genitori, due avvocati, i quali vorrebbero che il loro figlio fosse la loro
fotocopia. Ma Marco pur rifiutando le sue origini borghesi, il lavoro dei suoi,
la sua casa, i suoi soldi, non è riuscito a lasciare la facoltà di Giurisprudenza
perché fondamentalmente non sa cos’altro fare. E poi c’è Chiara, che per
raccontarla devo ritornare a vivere e smetterla di fare il resoconto di questa
strana situazione in cui mi trovo.
Il film è finito e papà ci invita a casa sua. Mia madre sicuramente è di fronte
al computer, a scrivere sette parole e a cancellarne cinque. Siamo sei persone
e una macchina. Decidiamo di stringerci e mi ritrovo affianco a Chiara, vicini
come le braccia dei militari lungo i fianchi quando stanno sull’attenti. Ora riesco a vederla meglio. Ha i capelli neri, il viso che è un quadro di Lucio Fontana e il taglio è la sua frangia dritta, come le strisce pedonali sulle sue gambe
lunghe e le mie dita vorrebbero essere pedoni che devono raggiungere il suo
DIDATTICA E LABORATORI
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cuore. La conversazione in auto si è spostata dal calcio all’arte, l’unico argomento che sembra interessare Chiara. Tanto che mio padre, mentre guida, le
chiede “Signorina, lei sogna di fare l’artista?”
“On no, sono troppo vecchia per sognare”
“Ma se ha soltanto ventisette anni. Non le sembra troppo presto per smettere di sognare?”.
“Ci sono persone che hanno smesso molto prima di me”.
Chiara accennava un sorriso provocatorio e mio padre per la prima volta è
restato muto: nessuna donna era mai stata capace di zittirlo!
Arriviamo a casa e mia madre è con la sua migliore amica e non a scrivere.
Oggi a quanto pare tutta la mia famiglia va contro le proprie consuetudini.
Si presenta agli ospiti e non mi vede da così tempo che tratta anche me come
un’ospite. Con la sua amica preparano pietanze indiane o almeno ci provano.
Ci sediamo a tavola e papà guarda Chiara e le dice “Solo le cecoslovacche
hanno questa luce negli occhi”.
Lei infastidita risponde “Sono di Bologna” “Lo so, in realtà era una battuta
di…” “…Amarcord”. Zittito per la seconda volta. Questa ragazza è tutti i film
di Fellini! E quanto mi piace quando alza gli occhi al cielo, come una madonna punk. A disintegrare il silenzio sono le nostre risate sotto i baffi e poi la
dirompente curiosità di Marco. “Frank, mi piacerebbe sapere come vi siete
conosciuti tu e tua moglie” “Sophie, glielo racconti tu?” “Va bene”, si accende una sigaretta e riprende “Allora, Franco in realtà è di Napoli e come tutti
i giovani in quegli anni dovette emigrare. Andò a New York, come te Alina.
Lavorava come cameriere in un ristorante italiano. Io ero andata a New York
per lavorare come modella, ma, come avrete già intuito dal mio accento, sono
francese. E niente, una sera ero andata nel ristorante dove lavorava lui per
ubriacarmi. Odiavo fare la modella, volevo fare la scrittrice. Lui mi vide triste
e così si avvicinò e parlammo per tutta la notte e per tutto il mese seguente,
finché poi non potemmo fare a meno di dircelo che c’eravamo abbastanza
innamorati. Io tornai a Parigi, stanca di quell’ambiente e lui volle venire con
me. Mi convinse a inviare il mio romanzo a un editore ed io lo convinsi ad
aprire un suo locale. La nostra fortuna fu il coraggio, da cui derivò l’amore
da cui nacque nostro figlio”. Se non avessi sentito questa storia infinite volte,
ora piangerei. I ragazzi commentano commossi e Anna, l’amica di mamma,
mi sorride. Per fortuna interviene papà. “Sophie sai che Filipp ha scritto
un romanzo?” “Davvero?”. Filipp annuisce. “Parlamene un po’, posso darti
qualche consiglio”. A questo punto la conversazione si frammenta: mia mamma parla con Filipp, tutti gli altri parlano tra loro, tranne Chiara ed io.
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DIDATTICA E LABORATORI
“Sei silenziosa sempre o soltanto stasera?”
“Stasera più del solito”
“Non vorresti essere qui?”
“No”
“Con me ti va di parlare?”
“Forse”
“Alina mi ha detto che dipingi”
“Quando ho tempo, sì”
“E sono belli i tuoi quadri?”
“Perché mi parli come uno psicologo?”
“Lo sono”
“Non esserlo con me”
“Ok”
“Bene”
“Chiara”
“Sì?”
“È bello averti incontrata”.
Arrossisce e decido che è meglio non dire altro. Quando si sta in silenzio
insieme, si creano i più bei romanzi soltanto con le traiettorie disegnate dalle
iridi.
Un mese dopo
Una settimana fa ho accompagnato i miei genitori e Alina all’aeroporto.
Filipp piangeva abbracciandoli, baciava le guance calde di Alina e le prometteva di raggiungerla il prima possibile; non credevo che i russi ne fossero
capaci. Io invece sorridevo. La ragazza che nel suo nome porta la parola ali
finalmente ha volato verso i suoi sogni, come una rondine che migra. I miei,
invece, sono tornati nella città che li ha visti crescere: mamma alla ricerca
dell’ispirazione e papà alla ricerca di se stesso. Ultimamente si sentiva come
Lo straniero di Camus, distaccato e soltanto New York può farti ritornare
dentro te stesso, dentro il mondo. La sua partenza poi ha giovato quei due
casi umani di Filipp e Marco. Mio padre ha avuto la brillante idea di lasciare,
durante la sua assenza, la gestione del cinema nelle loro mani. È passata soltanto una settimana e si sono già appassionati. Marco inizia a desiderare di
fare il regista e portare sullo schermo il romanzo di Filipp non sarebbe male.
Invece io mi sono innamorato di Chiara, dei suoi baci, delle sue mani, dei
DIDATTICA E LABORATORI
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suoi quadri e non c’è niente che mi rende più felice di trarla in salvo dalla
noia, dalla rassegnazione in cui si trovava e renderla finalmente libera, come
in una fiaba.
E pensare che tutto ciò iniziò con uno sguardo, con delle coincidenze. I
sentimenti viaggiano alla velocità di 299 792 458 m/s. Sono voli pindarici,
esplorazioni marine e le ciglia delle persone sono scogli sui quali aggrapparsi
durante le tempeste. Gli orologi di molti adulti vanno ventiquattro ore indietro e così confondono il passato con il futuro, non riuscendo più a distinguere il sogno dalla realtà. Però sognano ancora, a differenza di molti giovani, i
quali spesso non sanno che strada scegliere oppure lo sanno ma non è dove
vogliono andare. O ancora peggio non hanno il coraggio di amare i propri
sogni fino al punto di raggiungerli, di andare contro la società che li vuole
tristi e spenti.
Ho un’amica, Giulia, che in una notte d’inverno mi ha detto: “Siamo animali notturni, non abituati alla luce, che vorrebbero l’alba ma ne hanno allo
stesso tempo paura. Ci fa paura ribellarci, ci fanno paura le rivoluzioni e le
relazioni, perché è questo che ci ha insegnato questo Paese, ad aver paura.
Ma dobbiamo imparare a essere affamati di luce, perché le macerie di un Paese non possono sotterrare i nostri sogni d’anarchia. Io invidio i tuoi genitori
che emigrarono in America, le badanti ucraine, i commercianti giapponesi,
i serbi che vengono qua per restare e le storie dei nigeriani, perché amano
il loro Paese di appartenenza fino al punto di lasciarlo. Perché amano così
tanto la vita, che si abbandonano a essa, si fanno trascinare dall’oceano e
ricominciano a vivere sulla prima terra che incontrano. Quando guardo negli
occhi un uomo scappato dalla guerra e che è sopravvissuto, penso soltanto
che una crisi possa anche trasformarsi nel momento più lucido della nostra
vita. Che sia economica, culturale, politica, sentimentale, una crisi è solo la
finestra buia in mezzo a tante finestre illuminate di un palazzo. Luci che mi
fanno sorridere ogni volta che le vedo, perché significa che qualcuno sta abitando nell’esistenza”.
Mi chiamo Jean Esposito e per fortuna questo è solo l’inizio di una storia.
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DIDATTICA E LABORATORI
Gabriella Di Lorenzo
IL VIAGGIO DELLA VITA
“Sai cosa è bello? Guarda: noi camminiamo, lasciamo tutte quelle orme sulla sabbia, e loro restano lì, precise, ordinate. Ma domani, ti alzerai, guarderai
questa grande spiaggia e non ci sarà più nulla, un’orma, un segno qualsiasi,
niente. Il mare cancella, di notte. La marea nasconde. È come se non fosse
mai passato nessuno. È come se non fossimo mai esistiti. Se c’è un luogo, al
mondo, in cui puoi pensare di essere nulla, quel luogo è qui. Non è più terra,
non è ancora mare. Non è vita falsa, non è vita vera. È tempo che passa. E
basta. ”1
Il mio viaggio ebbe inizio il 21 giugno 1997, iniziai ad intravedere la vita dagli occhi socchiusi e innocenti che ha un bambino appena nato. Viaggiai tra
la dolcezza del seno materno e le mille attenzioni che mi rendevano, giorno
dopo giorno, sempre più timida.
Viaggiai tra le mille emozioni che scoprivo man mano che crescevo. Viaggiai tra la vita che vedevo scorrermi alle spalle e la vita che scorgevo davanti
ai miei occhi.
Viaggiavo, e più il mio viaggio continuava più mi accorgevo delle fermate
che dovevo affrontare prima di proseguire. Dovevo fermarmi per forza!
Di solito in viaggio ti ricordi sempre “quel qualcosa” che hai lasciato a casa
e pensi di tornare indietro a prenderla perché per te ha un gran valore, poi ci
sono quei casi in cui rimani ore a pensare se tornare indietro o lasciar perdere
e alla fine lasci perdere.
A me è successo spesso di tornare indietro, era pur sempre un viaggio anche quello. Tornavo indietro per sentire cosa si provava a ripercorrere la
stessa strada, ma con mente diversa, ogni volta!
Più tornavo indietro e più capivo quanto fosse importante quel viaggio che
1
Alessandro Baricco, Oceano Mare, Feltrinelli 2007
DIDATTICA E LABORATORI
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stavo attraversando perché per ogni ricordo che incontravo, se ne creavano
di nuovi ed io crescevo insieme all’aumentare dei ricordi.
Viaggiavo per scoprire, per migliorare ciò che già conoscevo, per dar vita a
ciò che immaginavo, per confermare ciò che mi veniva raccontato. Viaggiavo
perché sapevo che, prima o poi, da quel viaggio, sarebbe uscita una persona
diversa. Migliore.
Il mio viaggio non è mica finito. Ho tanto ancora da vedere, magari ora che
ho capito come si viaggia, rallento un po’.
Una delle tante cose che ho scoperto è che tutto ciò che affronterai non lo
ricorderà mai nessuno se non te stesso, quindi da buon viaggiatore vi dico
“affrontate la vita solo per voi stessi, perché farlo per gli altri sarebbe un gesto troppo generoso e altruista che non tutti meritano”.
96
DIDATTICA E LABORATORI
Nicola Sagaria
CAMMINAR SI DEVE!
Il viaggio è in stretta relazione con l’uomo. È la metafora della vita! Implica
un progetto, un cammino, una meta verso cui tendere, un orizzonte che si
apre davanti a te; un orizzonte che -come avviene nella realtà quotidianaman mano che procedi si allontana… è sempre in prospettiva. Intanto tu
hai fatto un percorso, hai viaggiato, visto, conosciuto, appreso… Tuttavia, il
desiderio di saper e comprendere non si “queta” in te, anzi si ravviva sempre
più. Viaggiare è amore della scoperta, abbandono della quotidianità, della
routine. La letteratura, la poesia, la pittura, la musica, la cinematografia, la
filosofia, le arti video-ludico-multimediali sono ricche di viaggi più o meno
grandi, più o meno epici. Potrebbero bastare due esempi, per tutti: il viaggio
di Odisseo e quello di Dante, ma a me colpisce -e voglio ricordare- anche
quello di Parmenide.
È nella natura umana il desiderio della scoperta, del nuovo, dell’ignoto.
Ognuno di noi è in sé un piccolo Odisseo, assetato di conoscenza. Ognuno
di noi ha davanti a sé strade da percorrere, mondi da scoprire, gente da conoscere: deve imparare a discriminare il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto,
il bene dal male; deve crescere, farsi uomo nel vero, nel giusto, nel bene.
Camminar si deve
Camminar m’è d’uopo tra sentieri
d’indizi pieni,
ove all’ingegno acuto nulla pare.
È.
Della Dea la parola saggia
mi accompagna nel viaggio.
DIDATTICA E LABORATORI
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Altri meco dietro vanno
perché amore di sapere hanno.
Se dal cuore tondo la verità, una, intera, ferma, chiara intendo
v’è chi del viver retto è cacciator provetto
del Bene fa Virtù eccelsa
e di Legge ferrea regola e sommo ossequio
così che vita per lei abbandona.
Ricercar si deve d’aletheia l’alto sapere
che in su dimora
e che a cocchiere con cavalli e biga alata
contemplare è dato.
Tale dono è dell’anima immortale
che dell’Ade il cammin percorre
e il suo destino per scelta coglie
pur se Amelete con l’oblio, poi, distoglie.
Nulla a questo toglie chi, con gran maestro accorto,
si spinge là dov’è per pochi l’alto passo.
E con divina guida, infin, s’inebria dello splendor divino.
Molti altri al cammino intenti
scoprono del mondo e del cuore i meandri…
spesso giovani, alla ricerca del senso più profondo.
Ricercar è d’uopo,
camminar si deve
tra sentieri d’indizi pieni,
a chi in tutti i punti lo sguardo volge
e di sapere amore sente.
100
DIDATTICA E LABORATORI
Eugenia Rizzo
Analisi testuale: “Dialogo della terra e della luna”,
tratto dalle Operette morali di Giacomo Leopardi
Composte a partire dal 1824 e pubblicate nel 1827, a Milano, contemporaneamente alla prima edizione de “I Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni,
le “Operette morali” sono 24 componimenti in prosa, in cui si possono riscontrare le caratteristiche di tre generi di scritture, che, in quegli stessi anni,
il Leopardi aveva individuato nelle pagine dello Zibaldone: prose d’affetto e
di immaginazione, trattati filosofici, dialoghi o novelle satiriche.
Quando scrive le Operette, il Leopardi non lascia da parte motivi e sentimenti cari, per affrontare un’opera volutamente filosofica, satirica o immaginitiva, ma tutti questi elementi confluiscono in un unico magma compositivo,
che gli fa scoprire anche nel pensiero la possibilità del canto e del sorriso. Nel
disegno iniziale dell’opera, egli si proponeva di richiamarsi ai dialoghi lucianei, scrivendo un’opera prevalentemente comico – satirica, dalla quale, come
si legge ancora nello “Zibaldone”, sarebbero dovuti emergere i contrasti per i
quali soffriva, ma anche i “vizi dei grandi” e “gli assurdi della politica”, temi,
questi ultimi, che non compaiono nell’opera definitiva.
La mente del Leopardi, rivolta completamente al problema della condizione umana, non poteva aprirsi per lungo tempo alla passione politica.
Non si può certo individuare in quest’opera l’elaborazione di una vera e propria filosofia, poiché la speculazione del Leopardi si apre e si conclude con
un’affermazione, che non è neanche una negazione, ma una domanda circa il
valore della nostra vita ed il fine dell’esistenza universale. All’inizio e alla fine
della sua speculazione si riscontra un sostanziale pessimismo, che, al pari di
ogni pessimismo, non può formularsi in una rigorosa dottrina filosofica.
Alla base di questa concezione pessimistica è il senso di nullità della vita e
di nullità dell’uomo, che cerca di perseguire i suoi fini in un universo che è
estraneo a tali fini, e che ignora addirittura l’uomo stesso. La scoperta di questa duplice disarmonia nel mondo umano e nella vita universale diventano
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l’oggetto della sua indagine, che il Leopardi svolge servendosi delle immagini
e delle scene più varie, in cui si inseriscono come interlocutori gli stessi pesci,
i pianeti o la natura personificata. Dietro questa scelta espositiva traspare il
motivo così caro al Leopardi del “mondo sanza gente”, della vita che si svolge nell’universo estranea a noi ed ignara della nostra stessa vita.
Il “Dialogo della terra e della luna” è, appunto, un dialogo che ha come
interlocutrici, la terra e la luna: la prima, carica di tutti i pregiudizi e le false
credenze degli uomini, evidenziate dal Leopardi nel giovanile “Saggio sopra
gli errori popolari degli antichi”, la seconda, ignara ed indifferente, inconscia
quasi di sé medesima.
Attraverso lunghi e vani discorsi, che rivelano la consumata perizia stilistica
dell’autore, il personaggio della Terra muove una serie di domande al suo
satellite, tese ad accertarne le caratteristiche fisiche e abitative.
Fin dalle prime battute, Leopardi riprende il motivo della decadenza presente che aveva ispirato molte operette precedenti.
La Luna, che pure si definisce “amica del silenzio”, rivela subito un atteggiamento disponibile alla discussione, ma, al tempo stesso enigmatico, nel
momento in cui afferma di essere sicura che la Terra, per loquace che sia, non
potrà mai arrecarle fastidio.
Prende così avvio una serie di interrogazioni, che la Terra formula, ansiosa
di ricevere una risposta che forse attende da secoli e a cui la Luna sistematicamente risponde, senza perdere la propria impassibilità, anzi evidenziandola
nel momento in cui la sua risposta non è un’affermazione né una negazione,
oppure un’affermazione che non scioglie un dubbio, ma lo accresce.
La prima domanda che la Terra pone si richiama alla teoria pitagorica, in
base alla quale le sfere celesti emettono un certo suono e la luna è “l’ottava
corda di questa lira universale”. La Luna non nega che ciò possa essere vero,
essa solamente non ne ha coscienza. Allora la Terra le rivolge l’annosa questione se essa sia abitata, come sostenuto da Orfeo fino al De La Lande. La
Luna risponde di sì, ma, richiesta, afferma di non conoscere la razza dei suoi
abitatori e tanto meno quella dei cosiddetti uomini.
Non conosce nemmeno il significato delle passioni, degli ideali, degli strumenti politici e militari, di tutto ciò, insomma, che possiamo individuare come
attinente alla sfera dell’umano. Anzi la Luna rimprovera la sua interlocutrice e
la chiama “vanerella”, perché ha creduto che la natura avesse creato ogni cosa
a sua immagine e somiglianza, mentre una tale convinzione è falsa al pari di
quella dei fanciulli che la immaginano con gli occhi, la bocca ed il naso.
L’incipit ricorrente è: “Cara luna”. Segue una lunga enumerazione attestan104
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te l’eterno tendere dell’uomo verso il satellite luminoso, dai ridicoli tentativi
di raggiungimento ed esplorazione, ai luoghi comuni del tipo: “i cani abbaiano alla luna”, “cercare la luna nel pozzo”, alle ipotesi pseudoscientifiche e
fantasiose: “la luna è maschio o femmina”, “gli Arcadi sono più antichi della
luna”, “le donne della luna sono ovipare”, “la luna è di cacio fresco”, “la luna
è traforata”, “la luna d’Oriente risplende sulle cime dei minareti”.
La risposta della Luna è ovviamente ancora più ironica delle precedenti:
quella che emerge dalle parole della Terra è la descrizione effettuata in base a
schemi esclusivamente umani che, come tali, possono risultare comprensibili
solo a coloro che li elaborano. Una cosa è la Luna vista con gli occhi degli
uomini e quasi interpretata ex novo, altra è il pianeta in se stesso.
La Terra ricorre allora ad argomentazioni più scientifiche, che dovrebbero
prescindere dalle interpretazioni umane, quali l’influsso lunare sulle maree,
ma neanche di questo fenomeno la sua interlocutrice si accorge.
Ricade, poi, nuovamente nell’errore di parlare per bocca degli uomini e,
questa volta, cita l’Ariosto, nel cui poema si legge che tutto ciò che l’uomo
perde, compreso il senno, può ritrovarlo sulla luna. Questa citazione offre
al poeta lo spunto per una nuova tirata polemica contro gli uomini del suo
tempo che hanno smarrito i valori più importanti: “l’amor patrio, la virtù, la
magnanimità, la rettitudine”.
Ma queste parole suonano vane, prive di significato: la Luna, piuttosto che
conservare il senno degli uomini, perderà il proprio, se continuerà a dare
ascolto alle chiacchiere della Terra.
Proprio nel momento in cui il dialogo sembra non avere più sbocchi, in
quella che possiamo chiamare la sequenza conclusiva, emerge una parola, un
concetto-chiave: “i mali”, su cui si intesse il codice – base per l’elaborazione
di un linguaggio comune, finalmente bilaterale.
La Luna conosce i mali e, mentre su tutti gli argomenti precedenti si è detta
ignorante, di una cosa è sicura: i suoi abitanti, quali che essi siano, sono infelici. Non solo, essa sa, per averglielo chiesto, che tale condizione è comune a
tutti gli altri pianeti del sistema solare.
Il dialogo si conclude con un ultimo scambio di battute. La Terra è ottimista,
spera che la situazione possa mutare in futuro, anche se nell’affermazione: “e
oggi massimamente gli uomini mi promettono per l’avvenire molta felicità”, si
può cogliere il sarcasmo del Leopardi contro tutti gli ottimisti del suo secolo.
La Luna sa che questa speranza è vana.
Intanto la Terra deve interrompere la conversazione perché su di essa è notte e gli uomini potrebbero svegliarsi, mentre sulla Luna è giorno: si tratta di
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due mondi alla rovescia, ma accomunati dalla terribile legge della sofferenza.
Eppure in quei saluti finali: “addio, dunque; buon giorno”, “addio; buona
notte”, pare di cogliere l’eco pacata della rassegnazione.
La prosa leopardiana esprime profondi sentimenti, utilizza lessico ed immagini proprie della poesia, anche se attua, grazie anche all’utilizzo del dialogo, come facevano notare già il Momigliano ed il Sapegno, una sorta di
sermo familiaris. Si nota la presenza di arcaismi, poetismi e diminutivi: ad es.
“vanerella”. Questo brano viene proposto agli alunni come esempio di prosa
“filosofica” leopardiana, attestante lo sforzo del poeta di colpire col suo riso
l’incapacità evidente dell’uomo di uscire da sé medesimo, di concepire un
universo a lui del tutto estraneo. Secoli di antropocentrismo hanno abituato
l’uomo a sentirsi al centro dell’universo, a fargli credere che l’intera natura sia
stata creata solo per lui, ma l’unica verità che il Leopardi sente di poter esprimere, alla luce delle sue riflessioni, è l’esistenza di una infelicità universale.
Questo grandioso motivo poetico attraversa l’intera opera e può essere utile porre a confronto questo dialogo con altri che lo precedono o lo seguono nella struttura compositiva. Un accostamento significativo è quello con
“Cantico del gallo silvestre”, ove, nella domanda che il gallo rivolge al sole, il
Leopardi affronterà il motivo in tutta la sua ampiezza, senza celare la commozione lirica. È interessante anche approfondire il rapporto singolare fra il
poeta e la luna, presenza quasi costante nei suoi componimenti, oltre che con
altri corpi celesti. In ultimo, non certo per ordine di importanza, cito anche
la possibilità di trovare in componimenti poetici immediatamente precedenti
alle “Operette morali”, temi e motivi ispiratori. Mi riferisco, in particolare,
alla canzone “Alla sua donna”, che attesta l’accordo che si è fatto nell’animo
del Leopardi tra pensiero e poesia, tra letteratura e ispirazione personale.
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Giulia Di Leo
IN VIAGGIO CON LA MUSICA
Non avremo mai abbastanza dita per contare tutte le volte che osserviamo il posto in cui viviamo con disprezzo, ripetendo “qui non accade, non
cambia mai nulla”. Però abbiamo abbastanza dita, abbastanza passione per
impugnare degli strumenti musicali e iniziare a creare. Quindi a volte può
accadere che durante una passeggiata, tre colleghi, si ritrovino a cercare un
modo per riuscire a colorare anche i lunedì più bui passati in un’aula, in una
scuola un po’ caotica. E non avrei mai pensato potesse accadere proprio nella
scuola che frequento io, il Liceo Parmenide.
La professoressa Di Vietri, il professore Lingardo e il preside Massanova,
mentre calpestavano le prime foglie cadute dell’anno, si resero conto che le
loro vite sono legate dalla stessa identica forza.
“Cosimo, resta in silenzio per un secondo ed elencami tutti i suoni che riesci a percepire” esclamò improvvisamente la professoressa.
“Perché dovrei?”
“Fallo e basta”
“Certo che inizia a farci male passare così tanto tempo con gli alunni, eh?”.
La professoressa non fece caso alle sue parole, chiuse gli occhi e iniziò ad
ascoltare. Lui sospirò e la seguì in questa sorta di rituale.
Il preside, che era rimasto un po’ indietro, li raggiunse e basito disse “Ma
cosa fate?”.
“Ascoltiamo” risposero all’unisono.
“Ah, interessante” rise. Dopo qualche secondo riprese “E posso sapere
cosa sentite?”
“L’anziana del palazzo di fronte che ascolta Radio Maria, il vento che accarezza i capelli, i fiori, le buste di plastica, i bambini che giocano a calcio, le
voci delle loro madri, i cani che abbaiano…”
“In sintesi?”
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“Riusciamo a sentire la musica”.
Perché la musica è dovunque, anche in una scuola. Nacque così l’idea di
organizzare una rassegna di concerti, a cui avrebbero partecipato musicisti
professionisti ed alunni.
La musica è l’unico frammento di natura che l’uomo riesca davvero a controllare e a mutare. Riesce ad essere tutto ciò che vuoi e che intendi trasmettere, per questa ragione possiede molteplici volti. Questa rassegna è nata
appunto con l’intento di rappresentare la musica nella sua varietà, tracciando
una strada che tutti hanno avuto modo di percorrere. Iniziando dall’essenzialità di strumenti della prima serata (Music around the world), proseguendo
con l’eccezionalità dello spettacolo “da Pergolesi ai Beatles” e la solennità
della Musica Rinascimentale. Nel bel mezzo di questo cammino è subentrata
anche la Crossover Music, interpretata da quattro amici che hanno reso
accessibile a tutti la musica classica, accompagnata tra l’altro da brani di Ennio Morricone che hanno reso possibile guardare un film ad occhi chiusi. E’
arrivato poi il turno della capacità della Musica Elettronica di sezionare ed
esplorare suoni minuziosamente, riuscendo ad assemblarli in modo da creare
atmosfere sempre diverse. Le ultime due serate sono state scandite dall’incredibile inconsapevolezza della Musica Classica e Corale di realizzare cieli
in una stanza.
Questi affermati musicisti locali, però, come avevo accennato, sono stati
introdotti da alunni che sono riusciti a stravolgere il tema di ogni concerto,
creando grazie al loro ancora giovane amore per la musica venature di note
mai scontate.
Ora che l’anno scolastico è finito, posso osservare da abbastanza lontano il viaggio, durato da dicembre a maggio, intrapreso dai musicisti e dagli
spettatori e scrutare i segni indelebili che ha lasciato sulla nostra pelle arida.
Innanzitutto ci ha fatto conoscere diversi generi che mai avremmo pensato
di apprezzare. Ma soprattutto ci ha fatto capire che insieme, attraverso un
incontro intergenerazionale, possiamo anche dar vita a qualcosa che a molti
potrà sembrare piccolo e scontato, ma per chi ogni mattina si sveglia pensando alla musica può essere importante. Ma in fondo dopo ogni viaggio
non siamo più quelli di prima, soprattutto dopo i cosiddetti viaggi del sentimento. Pensateci, la musica è alla base della nostra educazione sentimentale.
Quando eravamo ancora degli embrioni potevamo già percepire le emozioni
provate dalle nostri madri provocate dalle canzoni che ascoltavano, mentre
si accarezzavano la pancia. Quando poi diventiamo dei bambini iniziamo ad
ascoltare i primi dischi che ci capitano tra le mani ed io credo sia meraviglio110
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so che un bimbo riesca a piangere di fronte ad un brano che parla di cose
impensabili per quell’età. Bastano le note e i silenzi ad insegnarci a capire gli
altri e noi stessi prima del tempo. Basta respirare a tempo con chi ci canta la
ninna nanna. Poi quando cresciamo il mondo inizia ad apparirci crudele e la
musica non diventa un modo per rappresentare la realtà, ma per cambiarla.
Qualcuno, come me, decide di non rimanere ad ascoltare per tutta la vita ma
di farsi traghettare da fogli bianchi, di attraversare le corde di una chitarra
come fossero binari, di volare con le corde vocali. Mi piace quando si sceglie
qualcuno o qualcosa da amare per tutta la vita. Mi piace restare anche quando sembra tutto troppo difficile, quando non si vuole più continuare, quando
le mani fanno male. Piace a me come a tutti quelli che si sono innamorati perdutamente della musica, piace a me come a tutti quelli che sono stati salvati
da Lei almeno una volta nella vita. Piace a me come a quei tre colleghi di cui
vi ho parlato all’inizio. Quindi, si spera che grazie a quest’iniziativa qualcuno
abbia notato per la prima volta la bellezza disarmante della musica e che ora
non ne possa fare a meno.
Ma non perdete altro tempo a leggere queste parole, perché Lei non può
essere descritta, Lei va vissuta. Quindi, chiudete tutto, uscite fuori di casa
e iniziate ad ascoltare. Ché vi assicuro che ogni volta che vi sentirete soli, la
musica sarà lì ad ascoltare voi.
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