Dichiarazione di pericolosità sociale tra perizie e consulenze tecniche

Transcript

Dichiarazione di pericolosità sociale tra perizie e consulenze tecniche
gli
Approfondimenti
PENALE
Dichiarazione di pericolosità sociale
tra perizie e consulenze tecniche
a cura di Vincenzo Lusa* e Selene Pascasi**
la QUESTIONE
Cosa si intende per pericolosità sociale? Quali sono le conseguenze della dichiarazione di pericolosità sociale e quale è l’apporto fornito dalla perizia e dalla
consulenza tecnica anche nell’ottica della ricerca scientifica attuale e futura?
l’ APPROFONDIMENTO
XXL’odierna nozione di pericolosità sociale e la prognosi giudiziale
Per il giurista odierno non si prospetta agevole il tentativo di formulare un’esaustiva definizione del
“pericoloso sociale”, stante la poliedricità del significato connesso a tale fenomeno. La dichiarazione
del delinquente pericoloso – dunque di colui che, in un contesto dottrinario avulso dai laconici dettati
codicistici dell’ordinamento penale, possa ritenersi tout court un rischio per la società che lo ospita – si
fonda, difatti, su un humus caratterizzato non solo da aspetti normativi, ma anche (come acclarato negli
ultimi anni) scientifici. Stando al dato offerto dall’art. 203 c.p., una persona è socialmente pericolosa
quando, ancorché non imputabile o non punibile, è probabile che commetta nuovi fatti previsti dalla
legge come reati. Sarà, perciò, secondo il disposto, il suo pregresso comportamento a far presagire la
probabilità che questi, in futuro, possa verosimilmente reiterare azioni criminali. La giurisprudenza, a
sua volta, non ha fornito strumenti certi per individuare i limiti del concetto di pericolosità sociale: la
stessa Cassazione, in passato, ha affermato che essa può desumersi da situazioni che giustificano sospetti
o presunzioni, purché entrambi fondati su elementi obiettivi, e fatti specifici e accertati (Cass. pen., Sez.
I, 9 aprile 1968, n. 590), quali accompagnarsi a pregiudicati, assumere atteggiamenti omertosi, esser
privi di stabile lavoro, o esser stati raggiunti da denuncie penali, anche se di esito fausto. Del resto, la
nozione di pericolosità sociale – introdotta nel nostro sistema giuridico con il Codice del 1930 – è frutto
degli interventi teorici della Scuola Positiva, corrente scientifico giuridica che, come è noto, leggeva il
reato quale fenomeno naturale originato da vari fattori criminologici. Di qui, l’esigenza di concepire
l’intervento penale, non come mera retribuzione per l’illecito da attuarsi nei confronti del colpevole,
bensì come una sorta di prevenzione tesa alla difesa sociale contro il delitto. Così – per fronteggiare le
critiche inerenti la circostanza che la repressione del reato fosse stata posta in secondo piano rispetto
* Avvocato del Foro di Napoli e Docente di Diritto Penale presso l’Università Pontificia San Bonaventura, Roma.
* Avvocato del Foro dell’Aquila.
82
www.24oreavvocato.ilsole24ore.com
Giugno 2013 – n. 6
gli
Approfondimenti
PENALE
alla valutazione della personalità e della pericolosità dell’autore – il nominato testo codificò il concetto
di pericolosità sociale introducendo il sistema del “doppio binario”. Da tali premesse, scaturisce l’odierna dichiarazione della pericolosità sociale, come specifica peculiarità del reo, in assenza della quale
non potrebbero applicarsi né le misure di sicurezza, né quelle di prevenzione (nettamente distanti dalle
prime, e normate, come vedremo, da specifica disciplina). Ebbene, l’affermazione di pericolosità sociale
– ex lege di natura temporanea, attesa la revedibilità attuabile ai sensi dell’art. 208 c.p. (riesame della
pericolosità) in concerto con l’art. 679 c.p.p. – può derivare, alla luce del connubio tra il mondo giuridico e quello scientifico, dal ricorso a tre diverse metodologie. La prima, è quella che ritiene i disturbi
psichici idonei a influire sulla capacità d’intendere e volere (vigente in Francia, Austria, Germania e
Italia); la seconda, ferma a sostenere che un soggetto, affetto da talune patologie mentali, possa esser
dichiarato non punibile, anche ove non sottoposto a valutazioni inerenti al grado di incidenza della
malattia sulla capacità (sistema adottato in Norvegia e Svezia); la terza, infine, di matrice normativa,
che non vaglia le problematiche mentali, bensì la sola capacità d’intendere e volere del reo, con riferimento al tempus commissi delicti. Nel nostro paese, la prognosi giudiziale volta alla dichiarazione di
pericolosità sociale è attuata mediante l’applicazione dell’art. 203, comma 2, c.p., per cui «la qualità
di persona socialmente pericolosa si desume dalle circostanze indicate nell’articolo 133». Asserto, dal
quale si trae che tale accertamento andrà compiuto dal Giudice, tenuto a ponderare non solo la gravità
del reato, ma anche la capacità a delinquere del reo, nozione criminologica caratterizzata dai parametri
legali collocati nell’art. 133 c.p.: i motivi a delinquere e il carattere del soggetto, i precedenti penali e
giudiziari, la condotta antecedente, contemporanea o seguente al reato, nonché le sue condizioni di vita
individuale, familiare e sociale. Per attuare una corretta “diagnosi giudiziaria” inerente alla possibilità
che il prevenuto possa nuovamente delinquere, occorrerà dunque vagliare una serie di parametri. Tra
questi, particolare rilievo assumono: la “capacità criminale” (indice di responsabilità del soggetto desumibile dalle tipologie di crimini commessi) e il “carattere del reo” (fattore idoneo a chiarire la reale
criminogenesi, di sovente connessa all’ambiente in cui egli vive o ha vissuto, in rapporto al contesto
sociale e familiare), dal quale il giudice deduce la capacità a delinquere mediante una prognosi attuata
ex ante al fatto delittuoso (si noti come il carattere del reo vada distinto dal “temperamento”, fattore
di matrice biologica ed ereditaria, la cui commistione con l’ambiente origina il carattere). Va precisato,
altresì, che per “capacità a delinquere” si intende una speciale disposizione, o inclinazione, dell’individuo a commettere fatti in palese contrasto con le vigenti norme penali. Il citato art. 133 c.p., difatti,
annoverando i suindicati items, disegna la pericolosità sociale, quale forma intensa della capacità a
delinquere. Sarà, dunque, la prognosi valutativa del criminale – effettuata mediante l’attestazione di
“abitualità ritenuta dal giudice” ex art. 103 c.p., alla luce delle circostanze di cui all’art. 133 c.p. – a
far ritenere il colpevole dedito al crimine. Va ricordato, infine, come ex art. 109 c.p., la dichiarazione
di abitualità e professionalità nel reato possa enunciarsi in ogni tempo, anche dopo l’esecuzione della
pena, ferme le competenze del Tribunale di Sorveglianza ex art. 678 c.p.p.; quella inerente la tendenza
a delinquere, di contro, è pronunciabile solo con sentenza di condanna.
XXLe conseguenze della dichiarazione di pericolosità
sull’applicazione delle misure di sicurezza e preventive
Delineata la nozione di pericolosità sociale, non resterà che soffermarsi sulla questione inerente le misure
di sicurezza, applicabili, ex art. 202 c.p., nei confronti dei soggetti – ritenuti socialmente pericolosi alla
stregua degli indicati canoni di cui all’art. 203 c.p. – autori di un reato o di un cosiddetto quasi reato
(artt. 49 e 115 c.p.). Invero, gli indizi di pericolosità giustificano, per effetto della disciplina offerta dalla
legge 27 dicembre 1956, n. 1423, altresì l’applicazione di misure preventive, le quali (non necessariamente
legate alla condotta delittuosa, né incardinate in seno al procedimento previsto ex art. 205 c.p.) vanno a
Giugno 2013 – n. 6
www.24oreavvocato.ilsole24ore.com
83
gli
Approfondimenti
PENALE
differenziarsi da quelle “di sicurezza”, di marcata natura giurisdizionale. Tanto anticipato, si badi come
le misure di sicurezza – soggette al principio di legalità di cui agli artt. 25 Cost. e 199 c.p. – possono
applicarsi solo ove “espressamente stabilite dalla legge” e nei “casi dalla legge stessa preveduti”. Così, a
titolo esemplificativo, il giudice che in concreto reputi adeguata una misura diversa da quella disposta
nei confronti del prosciolto per infermità mentale, non potrà sottoporlo a misure di contenuto attuativo
difforme dalla previsione legale (Cass. pen., Sez. II, 17 giugno 2010, n. 34453). Nello stesso senso, è stato
posto l’accento sul potere-dovere del giudice di adottare nei confronti dell’infermo di mente la misura di
sicurezza idonea ad assicurargli adeguate cure e fronteggiarne la pericolosità sociale, purché nel rispetto
del limite di scelta nelle misure previste dalla legge (Ufficio Indagini Preliminari di Pisa, 5 novembre 2007,
n. 367. Nel caso di specie, si escluse l’opzione relativa a una struttura meramente terapeutica, in ossequio
alla natura detentiva della misura tipica del ricovero in casa di cura e custodia). Come è noto, le misure
di sicurezza, a differenza delle pene – tout court afflittive e aventi durata prestabilita – possono applicarsi
sia ai soggetti imputabili che ai non imputabili. Ebbene, ove difetti il presupposto dell’imputabilità legata
al vizio totale di mente riscontrato nell’imputato al momento del fatto, nel vaglio sull’elemento psicologico
del dolo – richiesto ai fini accertativi del reato, ed applicativi della misura – dovrà prendersi in considerazione «la circostanza che la coscienza e volontà, contenuto del dolo, appartiene ad una persona priva
della capacità di intendere e di volere».
Normativa di riferimento
Codice penale: artt. 133, 199, 203.
Pertanto, «l’indagine sul dolo deve essere condotta su un piano distinto rispetto a quello dell’imputabilità
e l’elemento psicologico del reato deve essere affermato o negato prescindendo dalle note che consentono
di affermare o escludere la capacità di intendere e di volere, perché altrimenti il dolo (come la colpa) andrebbe sempre escluso, con pratica impossibilità di fare concreta applicazione dell’art. 202 c.p.» (Tribunale
di Rovereto 19 maggio 2011, n. 100). Come anticipato, l’applicabilità delle misure di sicurezza – elisa
ogni ipotesi di pericolosità presunta – esige, oltre alla commissione di un reato o di un quasi reato, l’ulteriore presupposto del concreto accertamento della pericolosità sociale del destinatario. Prognosi, quella
rilevante «agli effetti della legge penale», che non potrà «limitarsi a richiamare la valutazione criminologica dell’esperto», bensì vagliare l’esistenza di condizioni che favoriscano la commissione di altri reati,
basandosi sull’esame «della personalità e sugli effettivi problemi psichiatrici rilevati dal perito ma anche
sull’analisi dei fatti commessi», oltre che sui parametri desunti dalle circostanze indicate dall’art. 133 c.p.
(Cass. pen., Sez. I, 14 ottobre 2010, n. 40808. Nel caso allora affrontato, venne ritenuta incongrua la
motivazione sottesa al giudizio di merito, giacché riferita al pericolo di atti autolesivi, non riconducibili
nell’alveo dei reati). L’accertamento sull’attuale pericolosità sociale, implicherà altresì la valutazione dei
fatti successivi al reato, quali la condotta tenuta durante l’espiazione della pena, o quella successiva alla
liberazione (Cass. pen., Sez. I, 19 maggio 2010, n. 24179). È evidente, inoltre, come la condizione di cui
all’art. 203 c.p. sfugga ad una valutazione esclusivamente psichiatrica, correlata alla natura e all’evoluzione
dello stato patologico del soggetto (Tribunale di Monza 23 marzo 2010, n. 485). Nell’indicata occasione,
non si riscontrò una soglia di rischio apprezzabile, tale da giustificare l’applicazione della misura, né sul
piano psichiatrico, stante la costante somministrazione di farmaci, né su quello della pericolosità sociale,
essendo venute meno talune condizioni concomitanti al fatto), dovendosi valutare le emergenze di natura
medico-psichiatrica, alla luce dei dettami dell’ormai noto art. 133 c.p. espressamente richiamato dall’art.
203 dello stesso codice (Cass. pen., Sez. I, 7 gennaio 2010, n. 4094). La discrezionalità del giudizio
84
www.24oreavvocato.ilsole24ore.com
Giugno 2013 – n. 6
gli
Approfondimenti
PENALE
implicherà altresì – ferma la revocabilità delle misure, ex art. 207 c.p., per cessata persistenza della
pericolosità sociale del soggetto – l’illegittimità del provvedimento del magistrato di sorveglianza, che
dichiari de plano l’inammissibilità dell’istanza di revoca anticipata della misura avanzata dal condannato
in espiazione di pena, imponendosi l’instaurazione del contraddittorio con attivazione di procedimento
consiliare (Cass. pen., Sez. I, 29 novembre 2007, n. 46986). Si consenta, infine, un accenno al dettato
di cui all’art. 206 c.p., ove si prevede che «durante la istruzione o il giudizio», il minorenne, l’infermo
di mente, l’ubriaco abituale, o il tossico/alcool dipendente, possano essere «provvisoriamente ricoverati
in un riformatorio, o in un ospedale psichiatrico giudiziario, o in una casa di cura e di custodia» fino
alla revoca dell’ordine, ove il giudice ritenga tali persone non più “socialmente pericolose”.
Si badi, però, che a seguito della pronunciata parziale illegittimità costituzionale, sia dell’art. 206 c.p.
(Corte Cost., 29 novembre 2004, n. 367) che dell’art. 222 c.p. (Corte Cost. 18 luglio 2003 n. 253), il
Tribunale di Sorveglianza, in funzione di giudice d’appello, potrà applicare al prosciolto per le suddette cause – in riforma della sentenza impugnata in punto di disposto ricovero in ospedale psichiatrico
giudiziario – solo una misura di sicurezza meno contenitiva, purché idonea a contenerne la pericolosità
sociale (Tribunale di Sorveglianza di Bari, 18 luglio 2011, in giurisprudenzabarese.it, 2011). A ogni
modo, l’applicazione provvisoria delle misure di sicurezza non è soggetta a termini di durata massima,
ivi compresi quelli previsti per la custodia cautelare (Cass. pen., Sez. VI, 8 luglio 2009, n. 28908).
Scorrendo ancora nell’analisi, vorrà volgersi lo sguardo alle misure di prevenzione, disciplinate ex
legge 27 dicembre 1956, n. 1423, il cui articolo d’esordio già ne marca la distanza rispetto a quelle
di sicurezza, trattandosi di misure – sì legate alla riscontrata pericolosità sociale del soggetto – ma
non necessariamente conseguenti alla perpetrazione di un crimine. L’art. 1 dell’apparato, difatti,
prevede che le misure in questione si applichino ai soggetti ritenuti – sulla base di elementi di fatto
– abitualmente dediti a traffici delittuosi, a chi ne tragga proventi per vivere, a chi sia dedito alla
commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni,
la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica.
Approfondimenti dottrinali
–– Forza, La psicologia nel processo penale, Giuffè, 2010;
–– Lusa-Pascasi, «I confini dell’imputabilità: l’influenza della genetica sulla pericolosità sociale», in Ventiquattrore
Avvocato, 7-8, 2011;
–– Pelissero, Pericolosità sociale e doppio binario. Vecchi e nuovi modelli di incapacitazione, Giappichelli, 2008.
Così, se la definizione delle categorie di soggetti pericolosi è descritta ex lege, alla giurisprudenza deve
riconoscersi il merito di aver marcato l’esigenza di un riscontro di pericolosità, inteso come accertamento
dell’“attualità” della condizione. È ormai consolidato, infatti, l’orientamento fermo a sostenere che – al
fine applicativo delle misure di prevenzione – «la pericolosità va colta nelle sue manifestazioni esteriori»,
restando irrilevanti «pregresse manifestazioni di pericolosità» ove «non si riscontrino, al momento di
applicazione della misura, quei sintomi rivelatori della persistenza del soggetto in comportamenti antisociali che impongono una particolare vigilanza» (Cass. pen., Sez. V, 22 settembre 2006, n. 34150. Nello
stesso senso: Tribunale di Monza, 16 marzo 2010, Pres. Pastore). Si annoti, inoltre, la competenza del
Tar in punto di valutazione della pericolosità sociale del soggetto raggiunto dall’avviso orale (art. 4 della
citata legge del 1956), non presumibile dai meri precedenti penali (T.A.R. Calabria, Sez. I, 10 novembre
2011, n. 1357). Sotto il profilo probatorio, infine, va marcata la «differenza, nei presupposti e nei fini,
tra il procedimento penale e il provvedimento di prevenzione». Così, se il primo richiede «prove piene per
Giugno 2013 – n. 6
www.24oreavvocato.ilsole24ore.com
85
gli
Approfondimenti
PENALE
dimostrare la responsabilità penale in ordine a un reato», il secondo, avendo a presupposto la pericolosità sociale, potrà «fondarsi su elementi di minor efficacia probatoria». Elementi che, tuttavia, dovranno
«raggiungere la consistenza dell’indizio, con esclusione, quindi, di sospetti, congetture e illazioni» (Cass.
pen, Sez. VI, 6 febbraio 2001, n. 12511).
XXTendenza a delinquere e sospensione condizionale della pena
L’analisi della tematica inerente alla pericolosità sociale, porta in sé l’esigenza di dedicare qualche riga
della trattazione a quello che, in uno con l’abitualità e la professionalità, va a integrarne la nozione: la
tendenza a delinquere, dichiarabile, come già rilevato, solo con sentenza di condanna. Norma cardine
di tale tipologia criminologica, di stampo preventivo, è l’art. 108 c.p., che ne individua la ricorrenza
in capo a chi – non recidivo o delinquente abituale o professionale – commetta «un delitto non colposo, contro la vita o l’incolumità individuale» che «per sé e unitamente alle circostanze» di cui al
capoverso dell’art. 133 c.p. «riveli una speciale inclinazione al delitto, che trovi sua causa nell’indole
particolarmente malvagia del colpevole». Tuttavia, il dettato non troverà applicazione, per espressa
previsione legislativa, nei confronti di soggetti la cui «inclinazione al delitto» derivi da vizio totale
o parziale di mente (ex artt. 88 e 89 c.p.). La disposizione, dunque, rivolgendosi esclusivamente a
individui socialmente pericolosi, ma comunque imputabili, consentirà al giudice di operare sul doppio binario, con previsione di pena abbinata a misura di sicurezza. Ma v’è di più. L’art. 444, comma
1 bis, c.p.p., esclude dall’alveo dei procedimenti definibili con il cd. patteggiamento, quelli «contro
coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali e per tendenza, o recidivi ai sensi
dell’articolo 99, quarto comma, del codice penale, qualora la pena superi due anni soli o congiunti
a pena pecuniaria». Ebbene, sul punto è inevitabile il richiamo alla sentenza emessa dalle Sez. Un.
di legittimità, per parola delle quali spetta al giudice – quando la contestazione concerna una delle
ipotesi di cui all’art. 99 c.p., primi quattro commi e quindi anche nei casi di recidiva reiterata – il
compito di «verificare in concreto se la reiterazione dell’illecito sia effettivo sintomo di riprovevolezza
e pericolosità», alla luce della «natura dei reati, del tipo di devianza di cui sono il segno, della qualità
dei comportamenti, del margine di offensività delle condotte, della distanza temporale e del livello
di omogeneità esistente fra loro, dell’eventuale occasionalità della ricaduta e di ogni altro possibile
parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là
del mero e indifferenziato riscontro formale dell’esistenza di precedenti penali». E sarà solo all’esito
di tale verifica – marca il Collegio – che al giudice sarà «consentito negare la rilevanza aggravatrice
della recidiva ed escludere la circostanza, non irrogando il relativo aumento della sanzione: la recidiva
opera infatti nell’ordinamento quale circostanza aggravante (inerente alla persona del colpevole: art.
70 c.p.), che come tale deve essere obbligatoriamente contestata dal pubblico ministero in ossequio
al principio del contraddittorio, ma di cui è facoltativa (tranne l’eccezione espressa) l’applicazione,
secondo l’unica interpretazione compatibile con i principi costituzionali in materia di pena» (Cass.
pen., Sez. Un., 27 maggio 2010, n. 35738). Quanto alle conseguenze della dichiarazione di tendenza
a delinquere, l’art. 109 c.p. annovera, oltre che l’applicazione di misure di sicurezza, altri rilevanti
effetti, tra cui gli aumenti di pena stabiliti per la recidiva, il raddoppio del termine per la riabilitazione, o l’inapplicabilità dell’attenuante di cui all’art. 62, n. 3 c.p. Non solo. La norma rinvia, quanto
agli effetti, all’art. 164 c.p., per parola del quale «la sospensione condizionale della pena è ammessa
soltanto se, avuto riguardo alle circostanze indicate nell’art. 133, il giudice presume che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati». A conferma, v’è giurisprudenza costante nel sostenere
l’illegittimità della sospensione, a fronte dell’accertata pericolosità sociale del reo, cui faccia seguito
l’irrogazione di misura di sicurezza (Cass. pen., Sez. III, 2 marzo 2011, n. 16430), implicando il
predetto beneficio un giudizio prognostico favorevole sulla personalità del soggetto, tale da escluderne
86
www.24oreavvocato.ilsole24ore.com
Giugno 2013 – n. 6
gli
Approfondimenti
PENALE
la pericolosità sociale. Si segnala, nello stesso senso, una pronuncia intervenuta ad annullare la decisione dei giudici di merito circa la concessione della sospensione condizionale della pena a soggetto
sottoposto, all’epoca dei fatti, a obbligo di presentazione all’autorità giudiziaria per reati della stessa
natura, dovendo ritenersi detta circostanza, indice di «spiccata tendenza a delinquere» (Cass. pen.,
Sez. VI, 29 aprile 2010, n. 18501). Preme puntualizzare, inoltre, come il divieto di concessione del
beneficio – in costanza di applicata misura di sicurezza – si diriga anche nei confronti di minori imputabili, soggetti, quanto ad applicazione di misure di sicurezza, alle ordinarie norme penalistiche.
XXIl ruolo del perito e del consulente tecnico nella valutazione
della pericolosità sociale
L’analisi esige, inoltre, di soffermarsi sulla tematica inerente il riscontro della pericolosità. A tal riguardo, è noto come, usualmente, le domande che vengono rivolte al perito sono: «Dica il perito, valutato
l’imputato e presa conoscenza degli atti e fatte tutte le acquisizioni e gli accertamenti che riterrà opportuni, se, al momento dei fatti per cui si procede, egli era capace di intendere e di volere, oppure se
le capacità erano totalmente o grandemente scemate». E ancora «...quale è la capacità di intendere e di
volere allo stato attuale e al momento dei fatti per cui si procede». Solitamente poi, il quesito termina
con l’ulteriore richiesta: «dica, inoltre, il perito se il soggetto sia socialmente pericoloso». Invero, nel
nostro ordinamento, è fatto espresso divieto – ex art. 220 c.p.p. – di compiere indagini peritali sulla
personalità dell’imputato, a eccezione di quelle che non dipendano da cause patologiche. Tuttavia,
in deroga al predetto ostacolo normativo, il giudice può utilizzare un’altra metodica per acclarare la
gravità del reato (e la personalità del suo autore), ricorrendo ai canoni di cui all’art. 133 c.p. Ancora,
l’art. 233 c.p.p. permette sia al Pubblico Ministero, che alle parti private, di utilizzare qualificate
consulenze tecniche, depositando memorie volte ad illustrare la personalità dell’indagato/imputato,
come peraltro si verifica nel rito minorile. È fatta salva, dunque, la possibilità di avvalersi di consulenti quali psicologi, psichiatri e criminologi al fine di acquisire ogni utile elemento atto a tratteggiare alcuni tra i parametri declinati al nominato art. 133 c.p., consentendo al giudice di elaborare il
proprio giudizio sul prevenuto.
Appaiono criticabili, allora, i datati orientamenti giurisprudenziali, intervenuti ad affermare che il
giudice non è tenuto a effettuare un dettagliato esame critico della perizia psichiatrica, quando aderisca
alle conclusioni dell’esperto, accettandone i criteri e i metodi di indagine (Cass. pen., Sez. I, 13 marzo
1981, Ianniciello) o che ai fini dell’applicazione della misura di sicurezza non è richiesta una formale
preventiva indicazione dei singoli elementi indicanti la pericolosità (Cass. pen., Sez. I, 10 maggio 1989,
n. 7064). Più correttamente, difatti, dovrà concludersi nel senso di una motivata decisione giudiziale
circa l’eventuale pericolosità. Si demanderà all’esperto scientifico, allora, di fornire un responso a quesiti
tesi sia a individuare le componenti che, agendo sulla personalità del reo, ne abbiano influenzato l’agire,
che a vagliarne l’attuale condizione di pericoloso sociale. Deriva da quanto precede che, anche nell’ipotesi in cui il soggetto abbia commesso il crimine in stato di totale o parziale incapacità d’intendere e
di volere, resterà comunque necessario attestarne la pericolosità, anche quale presupposto indefettibile
per l’applicazione di misure alternative al carcere, quali la casa di cura o il manicomio criminale. Al
riguardo, si ricordi che le dottrine penalistiche, in sinergia con le scienze forensi, hanno generato una
nomenclatura dei pericolosi sociali, indicati come: i pericolosi imputabili che abbiano commesso un reato
(artt. 102 e ss. c.p.), i pericolosi non imputabili che abbiano violato la legge penale (artt. 88 e ss. c.p.)
e, infine, i pericolosi imputabili cui sia stato ascritto un quasi reato (artt. 49 e 115 c.p.). Un’ulteriore
classificazione, impiegata in giudizio, si rinviene nelle quattro forme di pericolosità criminale: la recidiva
(art. 99 c.p., come sostituito ex art. 4 della legge 5 dicembre 2005, n. 251), l’abitualità criminale (artt.
102, 103, 104 c.p.), nonché la delinquenza professionale (art. 105 c.p.) e per tendenza (108 c.p.).
Giugno 2013 – n. 6
www.24oreavvocato.ilsole24ore.com
87
gli
Approfondimenti
PENALE
Appare pacifico, dunque, che sia la diagnosi, sia la prognosi redatta dal perito – o dal consulente, ove
questi intenda contribuire a corroborare a una linea defensionale volta a escludere o ridurre la capacita
di intendere e di volere al momento della commissione del fatto – divengano fondamentali in punto di
decretazione giudiziaria circa la necessità di cura in ambito psichiatrico, o la conseguente dichiarazione
di pericolosità, anche alla luce dei contenuti giuridici di cui all’art. 101 c.p., circa i reati della stessa
indole. Il combinato normativo degli artt. 73, terzo comma, e 286 c.p.p., si rivela pregnante, poi, ove
si debba applicare una custodia cautelare, giusta l’accertata infermità mentale, e l’incapace venga assegnato a una struttura psichiatrica ospedaliera.
Come accennato, la forma più intensa di capacità a delinquere è la pericolosità sociale, che attualmente
– soppressa ogni ipotesi presuntiva a opera della legge 10 ottobre 1986, n. 663 – esige uno specifico
accertamento. Tuttavia, la particolare inclinazione (oggi tendenza) al crimine da parte del reo – desumibile dalla “malvagità d’indole”, ex se non sovrapponibile all’infermità – potrebbe suggellarsi con una
sentenza emessa, ex art. 109 c.p., sulla base dei criteri indicati dagli artt. 108 e 133 c.p.
XXPericolosità sociale e imputabilità: il novello ruolo della ricerca
scientifica nel procedimento penale
In chiusura di trattazione, è opportuno demandarsi quali potrebbero essere, in futuro, i canoni cui
riferirsi per addivenire alla comprensione della nozione di pericolosità sociale, e alla corretta applicazione dei parametri di cui agli articoli 101 e 133 c.p. Al riguardo, non appare affatto retorico rilevare
come, negli ultimi anni, si sia verificata in Italia una vera e propria rivoluzione copernicana inerente
la visione del concetto di capacità d’intendere e di volere del reo, e di predisposizione a delinquere
dell’individuo, dunque di pericolosità sociale. Come è noto, la Suprema Corte, riunitasi a Sez. Un.
(Cass. pen., Sez. Unite, 25 gennaio 2005, n. 9163) operò il distinguo tra malattia mentale – caratterizzata dalla temporaneità dello stato patologico – e infermità, da intendersi invece come stasi del
predetto stato. Conseguentemente alla riportata decisone, la definizione di malato mentale venne ad
abbracciare tutti i soggetti affetti da psicopatie e nevrosi, purché caratterizzate da manifestazioni
aventi un grado di intensità tale da connotare una patologia mentale che potesse condurre a escludere,
o ridurre, la capacità di intendere e di volere. La citata pronuncia, tuttavia, non affrontò appieno la
vera origine della criminogenesi individuale, di matrice prettamente biologica.
Divario, questo, colmato negli anni 2009 e 2010, grazie all’avvento delle neuroscienze in tribunale. Si
ricordi, in particolare, l’apporto fornito dalle sentenze emesse dal collegio triestino (Corte di Assise
d’Appello di Trieste, 1° ottobre 2009, n. 5), e dal G.i.p. comasco (Giudice per le Indagini preliminari
di Como 20 maggio 2011). A mezzo di tali interventi, difatti, i giudici intervennero ad acclarare che,
sia la presenza di alcuni polimorfismi (allele MAOA, MAOA-L), che alcune malformazioni del cervello sono in grado di ingenerare in un uomo atti violenti, tanto da renderlo pericoloso socialmente.
L’assunto ci induce a riflettere sulla circostanza che, nei giorni a venire, gli studi legati alle neuroscienze diverranno ancor più fondamentali in ambito processuale, siccome basate sull’analisi degli
stati mentali e delle espressioni comportamentali, in relazione ai quali i neurotrasmettitori biologici
assumono indubbia pregnanza (Lusa-Pascasi, «I confini dell’imputabilità: l’influenza della genetica
sulla pericolosità sociale», in Ventiquattrore Avvocato, 7-8, 2011).
Si badi, inoltre, come – se la psicologia cognitiva esamina le modalità con cui la mente elabora le informazioni che le giungono tramite gli organi di senso – le neuroscienze cognitive (fusione delle citate
discipline) osservano, tramite “tac” o “pet”, la morfologia cerebrale e le aree mentali che si attivano
in virtù di sollecitazioni esterne, rivelando le correlazioni tra sintomi psicopatologici e alterazioni
dell’attività cerebrale. A livello mediatico, poi, si è discusso a lungo sull’esistenza del “gene della
violenza”. Tuttavia – affinché sia esaustiva la comprensione della criminogenesi, correlata allo studio
88
www.24oreavvocato.ilsole24ore.com
Giugno 2013 – n. 6
gli
Approfondimenti
PENALE
di ulteriori alleli, oltre a quelli già identificati come i precitati MAOA, MAOA-L – occorrerà valutare
tre parametri: la biologia dell’encefalo (ove insiste il fattore genetico), la personalità dell’autore (che
si fonda sull’indagine psicologica e psichiatrica dello stato menale dell’individuo) e l’ambiente in cui
questi vive. E appare pacifico, alla luce degli studi di settore, come l’esame della biologia dell’encefalo
spalanchi, inevitabilmente, la porta sull’evoluzione umana, consentendo la comprensione, non solo
degli alleli interessati, ma altresì della reale personalità degli individui.
Basterà pensare, all’inciso ereditato dalle scuole criminologiche dei secolo scorsi, e insito nell’attuale
art. 108 c.p., ove si declina che «...riveli una speciale inclinazione al delitto, che trovi la sua causa
nell’indole particolarmente malvagia del suo autore».
Tali rilievi – seppur apparentemente estranei alla tematica in analisi – provano, invero, che la storia
biologica dell’essere umano è ben più complessa di come possa apparire, restando legata ad altri
parametri, oltre a quelli criminologici già evocati, quali: mutazioni e migrazioni genetiche, deriva
genetica (drift: variazione della frequenza dei geni in funzione del tempo, tra popolazioni), selezione
naturale (Lusa-Pascasi, «La genetica entra in aula per misurare l’incapacità», in Il Sole 24 Ore, Norme
e Tributi, 27 febbraio 2012). Appare ipotizzabile, dunque, come le predette migrazioni e incroci
possano aver dato vita a nuovi alleli, sotto l’influsso di mutazioni genetiche, su cui potrebbe aver
agito la selezione naturale premiando i caratteri favorevoli. In altre parole, se il “gene della violenza”
esiste, non necessariamente sarà sfavorevole (anzi, presumibilmente un tempo si rivelò fondamentale
per la sopravvivenza).
XXConsiderazioni conclusive
Sulla base dei rilievi svolti, e del tracciato della più recente giurisprudenza, può sostenersi, a chiusura
dell’intervento, come la definizione di pericolosità sociale debba ricercarsi, con sufficiente ragionevolezza, in ambito non solo giuridico, ma – oggi più che mai – scientifico, letto in senso lato e multidisciplinare. A conferma di quanto osservato, persino le richiamate scoperte legate alle neuroscienze
parrebbero invocare un restyling delle norme codicistiche inerenti l’imputabilità, da graduarsi in
funzione dello studio dell’individuo soggetto a procedimento penale.
la SELEZIONE GIURISPRUDENZIALE
CAPACITà A DELINQUERE E VALUTAZIONE DELLE CIRCOSTANZE
Corte d’Appello di Perugia 18 agosto 2011, n. 484
In tema di gravità del reato le circostanze indicate dall’art. 133 c.p. devono essere tutte rapportate al reato
commesso e non essere prese in considerazione in astratto (Redazione Giuffrè, 2011).
PERICOLOSITà SOCIALE
Sospensione condizionale della pena
Cassazione pen., Sez. III, 2 marzo 2011, n. 16430
È illegittima la concessione della sospensione condizionale della pena a fronte dell’accertata pericolosità sociale dell’imputato cui segua l’applicazione di misura di sicurezza, implicando detto beneficio la presunzione
che il reo si asterrà dal commettere ulteriori reati.
Giugno 2013 – n. 6
www.24oreavvocato.ilsole24ore.com
89
gli
Approfondimenti
PENALE
Misure di sicurezza
Cassazione pen., Sez. I, 14 ottobre 2010, n. 40808
Ai fini applicativi della misura di sicurezza, la pericolosità sociale va intesa come pericolo di commissione di
nuovi reati, oggetto di autonoma valutazione giudiziale, da condursi sulla base dei rilievi peritali sulla personalità, degli effettivi problemi psichiatrici e della capacità criminale dell’imputato, nonché di ogni altro parametro
desumibile dall’art. 133 c.p.
Misure di prevenzione
Tribunale di Monza 16 marzo 2010
L’applicazione delle misure di prevenzione esige un giudizio di attualità riferito alla pericolosità e non alle sue
manifestazioni sintomatiche, trattandosi di elementi necessariamente pregressi rispetto all’epoca di formulazione del giudizio (Arch. nuova proc. pen. 2010, 5, 607).
Nozione
Cassazione pen., Sez. I, 27 maggio 2008, n. 24725
La pericolosità sociale, alla luce dell’art. 203 c.p., da desumersi alla luce delle circostanze indicate nell’art. 133
c.p., va distinta dall’attualità della commissione di nuovi reati. Di conseguenza, la sua valutazione è compito
specifico ed esclusivo del giudice, che non può abdicarvi ove il condannato si trovi detenuto, o lo sia stato
per un certo periodo, così venendo posto nell’impossibilità di continuare a delinquere.
Per le sentenze di Cassazione si rinvia a: Lex 24 (www.lex24.ilsole24ore.com).
la PRATICA
IL CASO CONCRETO
Cassazione pen., Sez. VI, 29 aprile 2010, n. 18501
Con sentenza, la Corte di Appello, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, riduce la pena inflitta a
X, con ordine di sospensione condizionale. Il Procuratore generale ricorre per Cassazione deducendo la contraddittorietà e la manifesta illogicità della decisione, per aver la Corte dapprima negato il riconoscimento delle
attenuanti generiche sulla base di una prognosi di spiccata pericolosità, e di seguito concesso all’imputato la
sospensione condizionale della pena, implicante, invece, una presunzione di astensione da futuri reati.
La soluzione accolta dalla Suprema Corte
La Suprema Corte ha risolto la questione affermando che il beneficio della sospensione condizionale della
pena può essere concesso esclusivamente ove sussistano determinate circostanze previste dall’art. 133 c.p.
Di conseguenza, nell’ipotesi in cui il giudice non reputi opportuno riconoscere le circostanze attenuanti, in
virtù di una spiccata tendenza a delinquere dell’imputato, non può concedere la sospensione condizionale
della pena senza incorrere in una decisione manifestamente contraddittoria e illogica. Viene accolto, per tali
motivi, il ricorso della parte pubblica, con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello, per un nuovo giudizio.
90
www.24oreavvocato.ilsole24ore.com
Giugno 2013 – n. 6