Le seduzioni dell`inverno

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Le seduzioni dell`inverno
LIBRO
IN ASSAGGIO
LE SEDUZIONI
DELL’INVERNO
LIDIA RAVERA
Le seduzioni dell’inverno
1
Si svegliò al suono della stessa musica tonda, dal ritmo sciocco. Come tutte le mattine,
ascoltò l'elenco delle ipertrone del traffico, fra Sala Consilina e Lagonegro Nord, fra Brogeda
e Como e Chiasso. Levò una mano senza aprire gli occhi, palpò la superficie liscia della
radio. La radio tacque. Un piccolo sollievo subito annullato dal peso degli oscuri riferimenti
notturni. Sentendosi stanco si alzò. Si guardò i piedi. Uniti, nudi, magri. Gli parvero estranei al
suo corpo. Pròvò a risalire lungo le gambe (robuste, muscolose) fino al sesso che, lo notò con
un certo sconforto, giaceva in una posizione fino a qualche mese prima non certo abituale.
Doveva smettere di dormire nudo. Forse doveva smettere di dormire, essendo i risvegli quel
tormento. Decise che non avrebbe acceso la luce, né alzato le tapparelle, non avrebbe
toccato il cordone che apriva la tenda, avrebbe raggiunto al buio la stanza da bagno, avrebbe
aperto il box della doccia senza degnare lo specchio del consueto tributo d'an-sia, niente
polpastrelli a massaggiare le parti scoperte del cranio. Incespicò nel pigiama di cui si era
liberato con rabbia, nel bel mezzo di quella notte calda. Sul
pavimento c'erano altri indumenti. Tre calzini, una camicia sporca. Calpestò il suo
disordine provando un generale senso di disfatta. Il primo getto d'acqua fredda gli provocò il
primo piacere. Eroismo, masochismo. Due sensazioni simili, nell'epica residuale dei suoi anni
recenti. Rabbrividi, e subito prese a strigliarsi con una spazzola di crine, la reazione della
pelle sotto l'urto di quella pulizia brutale riuscl a distrarlo dal rilassamento dei muscoli
addominali. La vestaglia di spugna lo accolse con un abbraccio confortante, il persistere d'un
rapporto positivo con la vita. Ora poteva procedere in direzione del caffè senza temere dosi
troppo massicce di pietà per se stesso.
Apri la porta della camera da letto canticchiando uno di quei motivi che gli restavano nelle
orecchie per giorni. Per lo piu canzoni degli anni settanta.
Sentire la sua voce gli fece bene. Tanto per cominciare era intonato. Intonato e capa-ce
di godersi una doccia gelida di primo mattino. Alzò il tono: "Tu mi fai girar, tu mi fai girar come
fossi una bambola".
Cantava a voce spiegata quando entrò in cucina.
La canzone gli mori nella gola: c'era, nella stanza, una donna.
Era intenta a strofinare certe croste di latte rappre-so, debordato chissà quando sulla
maiolica. Indossava un corto grembiale rosa.
La percepi, dapprima, come il testimone indesiderato del delicato inizio della sua
giornata.
Poi si chiese chi diavolo fosse.
A giudicarla dalla funzione era una domestica, ma non gli risultava d'averla mai vista né,
tanto meno, assunta.
Per un riflesso da maschio valutò innanzitutto il suo aspetto (non c'era femmina che non
gli causasse quella fatica addizionale): sottile, diritta, belle gambe, piedi piccoli il cui tallone,
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ben disegnato, contrastava con una foggia particolarmente pauperistica di zoccoli (bianchi,
traforati, consumati dove il corpo imponeva il suo peso). Vista da dietro gli parve giovane.
Giovane, e di razza bianca.
Quando si voltò verso di lui, dopo aver registrato il suo ingresso nella stanza, corresse
immediatamente il giudizio.
Non era giovane.
E gli sorrideva senza alcun imbarazzo. L'appartenenza etnica si delineò, anche per
questo, piu preci-samente: non era nera, ma non era nemmeno polacca. Razza occidentale.
Una di noi.
"Buongiorno," disse, nascondendo lo sconcerto dietro una sfumatura interrogativa.
"Buongiorno," disse la donna, poi aggiunse: "Mi chiamo Sophie".
Gli tese una mano nervosa, dalle corte unghie pulite, un polso fragile, minuto, di quelli
che puoi racchiudere nell'anello composto da pollice e indice. Aveva provato altre volte il
desiderio di spezzare le ossa piccole. In
genere erano ossa adolescenti. Si chiese che ci facessero ossa simili sopra quelle
ciabatte da corsia d'ospedale. "Caffellatte, biscotti al miele e una spremuta di arance rosse,"
disse la donna.
La tazzina, i due bricchi, una ciotolina di dolcetti che era certo di non aver comprato, il
bicchiere. Vide il vassoio pronto sul tavolo: conteneva esattamente la colazione che gli
portava a letto la cameriera quando era ancora un uomo sposato. Da quando viveva solo, si
preparava in fretta una scodella di caffè solubile, mangiava qualche biscotto se si era
ricordato di com-prarli. Non usava né piattini, né ciotoline, né bricchi. Vide La Repubblica, il
Corriere della Sera, VUnità e Il Sole 24 Ore appoggiati vicino al vassoio, abilmente non
allineati, quasi .disposti a ventaglio, in modo che ogni testata potesse essere identificata al
primo sguar-do. Anche quelli non c'erano da anni, li comprava dal giornalaio all'angolo
andando in ufficio.
"Dove preferisce fare colazione?" Sophie aveva af-ferrato il vassoio e attendeva ordini:
eretta, composta. Non sorrideva piu, ma le aleggiava sul viso un'espres-sione disponibile,
non proprio obbediente, quanto piuttosto ben disposta a eseguire.
"Qui," disse, continuando a fissarla. Sedette in stato di trance.
Sophie gli awicinò lo zucchero, poi ritornò a luci-dare i dintorni dei fornelli, da tempo
immemorabile incrostati di giallo.
Poiché la donna non lo guardava, osò una domanda diretta: "Potrei sapere com'è entrata
in casa mia?" Sophie si voltò brandendo una spugnetta che do-veva aver acquistato lei
personalmente.
"Con le chiavi. Non le ha detto niente sua moglie?"
"Sara?"
"La signora Sara, si" .
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"No, che cosa avrebbe dovuto dirmi?"
Sophie abbassò gli occhi, con imprevedibile timi-dezza. Non era brutta, anzi. Aveva
lineamenti delicati e un piccolo naso da bambola. Gli occhi erano infossati sotto una
minuscola piega di carne e ornati da un ventaglio di piccole rughe, ma erano chiari, gialli
come erba secca, il colore dei prati in piena estate. La carnagione era candida, luminosa.
Si stava slacciando il grembiale, sotto indossava una gonna blu un po' troppo corta e una
maglietta un po' troppo aderente.
"Mi scusi... Ora me ne vado immediatamente".
"Aspetti," disse l'uomo, "lei è stata gentilissima a prepararmi la colazione e mi ha anche
comprato i giornali... lo non sento Sara... la signora Sara... insomma la mia ex moglie da
almeno sei mesi.., Che cosa doveva dirmi?"
"È partita".
"Ah,quando?"
"Ieri, starà via quattro mesi. Fa il giro del mondo su una nave da crociera".
"Non si è mai fatta mancare niente... Non mi stupIsce.”
"Mi ha chiesto di venire a servizio da lei, in questo periodo. Perché avrebbe dovuto
pagarmi ugualmente e in casa non c'è nulla da fare, cosi... Ma ero sicura che lei fosse stato
avvisato. Sono... molto in imbarazzo. Magari lei ha già chi si occupa della casa e io sono del
tutto superflua".
"Forse mi ha cercato e non mi ha trovato ... "
"Forse".
"Forse voleva farmi una sorpresa".
Sophie taceva, il grembiale sbottonato, le braccia sottili quasi troppo lunghe per la sua
statura, inerti lungo il corpo.
La guardò dominando lo stupore.
"È la prima volta che Sara mi sorprende," disse, quasi a se stesso, poi si alzò e tese la
mano a Sophie. "Mi chiamo Stefano. E sono molto lieto di averla avuta in dono, signora
Sophie".
Per tutta la giornata, a intervalli regolari, Stefano compose il numero del telefono cellulare
di Sara, sentendosi ripetere da una voce metallica che l'utente desiderato non era al
momento raggiungibile. Non riusciva a darsi pace. Sara era una donna capace di slanci
affettuosi ma, benché l'impulso di non man-dare sprecato uno stipendio corrispondesse
perfet-tamente all'incrollabile meschinità dei suoi calcoli di donna ricca, non riusciva a
immaginarla nell'atto di beneficiare lui d'un qualsivoglia gesto amichevole. Si erano separati
tre anni prima, dopo un'agonia di disamore. Per sedici anni aveva provato a perdonare l'uso
(un'aggressività indiscriminata) che Sara faceva della sua intelligenza, il leggero costante
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disprezzo con cui si difendeva da lui, non essendo riuscita a far-lo innamorare. Per sedici
anni si era rimproverato di aver accettato l'elevato tenore di vita che, impiegato in una casa
editrice di medie dimensioni, non avrebbe mai potuto permettersi. La liberazione era arrivata
sotto la forma graziosa di una giovane autrice. Una O.P., come venivano chiamati gli aspiranti
scrittori, quelli cui non si negava la pubblicazione della mai del tutto inutile Opera Prima,
sperando che giovinezza e awenenza garantissero qualche passaggio televisivo, due righe
da qualche parte, qualche fotografia ben piazzata e quindi un ritorno economico minimo, un
po' di immagine, la speranza di passare per èacciatori di talenti. La O.P. si chiamava Silvia.
L'Opera Seconda non era mai arrivata e la relazione con Stefano era naufragata dopo diciotto
mesi di lusinghe letterarie compulsive (lui a lei, mentendo) e sesso distratto (lei a lui, per
ringraziarlo).
Stefano non aveva rimpianti. Non si era innamorato della O.P. come non si era
innamorato di sua moglie. Le aveva apprezzate, tutte e due, in tempi diversi e per motivi
diversi, ma le aveva apprezzate.
Né la prima né la seconda rottura avevano rappre-sentato una tragedia.
Dopo la prima rottura, dalla villa sull'Aventino si era ridotto a un quadricamere in via Pio
Foà,. di proprietà, comunque, di suo suocero, che gli era stato concesso a un canone d'affitto
tanto equo da impedirgli di sentirsi del tutto affrancato da una fastidiosa riconoscenza.
Vivere da solo in quattro stanze offriva l'indubbio vantaggio di poter accumulare una
notevole quantità di detriti. Quando una camera risultava, per l'accu-mulo di disordine,
inutilizzabile, si poteva chiuderla e passare in un'altra. A parte la camera da letto, non vi
erano destinazioni differenziate. Un tavolo e una sedia si potevano trovare dappertutto. Due
stanze su quattro contenevano anche una poltrona. In una stanza c'era un divano.
Le pulizie le affidava, di tanto in tanto, alla portinaia del numero civico 44. Bastava
avvisarla con due giorni d'anticipo e sopportare le sue lamentele, quando, al-l'atto del
pagamento, gli descriveva minuziosamente lo stato deplorevole del suo alloggio.
Probabilmente parlava anche con il padre di Sara, proprietario di metà dell'immobile, e
probabilmente lamentava il degrado dei locali e probabilmente era stato il padre a dire a Sara
di mandare qualcuno a pulire, di prestargli una donna di servizio, che salvasse dal
deprezzamento quella frazione dei suoi molti beni. Ma perché non avvisarlo? La telefonata
avrebbe offerto un'ottima occasione per ribadire la condanna del suo infantilismo, della
pigrizia che gli impediva da sempre di utilizzare i suoi talenti (quando erano ancora sposati, il
tema dei talenti inutilizzati era il solo sufficientemente lusinghiero da preludere, un paio di
volte al mese, a una dose severa di sesso), della sciatteria in cui includeva, per non lasciarlo
solo, tutto intero il genere maschile.
Un invito a nozze, per una donna che doveva spurga-re, quotidianamente, una certa
quantità di malanimo. Quello che Stefano non sapeva spiegarsi era il silen-zio, la sorpresa.
Sara non era una donna segreta.
Decise di lasciare l'ufficio in anticipo, essendo nella condizione privilegiata di gestire;
insieme a un paio di "commerciali" e a Mara, responsabile dell'ufficio stampa, la sede romana
(Centro-Sud) di un'azienda editoriale che aveva quella centrale a Milano.
Il calore pesante del pomeriggio di inizio giugno lo investi come una folla di gente mal
lavata. Raggiunse la macchina mentre il sudore gli incollava alla pelle la camicia.
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Aria condizionata, chiudere i finestrini.
La città era coperta da una patina di polvere, gli alberi erano sporchi, il fiume, giallo
fango, scorreva fra argini deserti. Nessuno pesca, nessuno passeggia, nessuno rema, pensò,
siamo tutti qui, rinchiusi nelle nostre monadi di metallo grigio o blu.
Aggiornata il martedì 5 agosto 2008
Edizione Mondolibri S.p.A., Milano
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