La metafisica di Cartesio
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La metafisica di Cartesio
Sebastiano Inturri La metafisica di Cartesio Presentazione In quest’opera ho cercato di sintetizzare al massimo il pensiero di Cartesio riguardo alla sua concezione di Dio e dell’anima umana. Per far ciò ho riassunto e integrato tra di loro le tre principali opere del filosofo francese che trattano dell’argomento, ossia il Discorso sul metodo (soprattutto la quarta delle sei parti di cui si compone), le Meditazioni metafisiche e la prima delle quattro parti dei Princìpi della filosofia. Roma, 2 settembre 2013 S.I. Biografia di Cartesio René Descartes, nome italianizzato in Renato Cartesio, è ritenuto, dagli stessi filosofi, il fondatore della filosofia e della matematica moderne. Benché non ne sia stato l’inventore, da lui prende il nome il sistema di riferimento, usato in matematica, chiamato “diagramma cartesiano”, che lui comunque contribuì ad approfondire e a diffondere. Cartesio era una persona amante della solitudine, in quanto gli permetteva di potersi dedicare più efficacemente ai propri studi e ai propri scritti. Da buon matematico, cercava solo certezze, preferiva il ragionamento metodico e tendeva a voler dimostrare tutto, compresa l’esistenza di Dio. Nacque il 31 marzo 1596 in una famiglia nobile a La Haye en Touraine, una piccola località francese, che successivamente sarà ribattezzata Descartes in suo onore. Era il terzo figlio, dopo le nascite di Jeanne (♀) e Pierre (♂). Sin da piccolo fu affidato a una balia. Sua madre morì di parto l’anno seguente, il 13 maggio 1597. Il figlio dato alla luce morì dopo soli tre giorni. Il padre si risposò verso il 1600 con una bretone, dalla quale ebbe altri due figli. Orfano di madre e con il padre spesso assente, furono soprattutto la nonna materna e la nutrice a prendersi cura di René. Nel 1607 entrò in un collegio diretto dai Gesuiti, nella cittadina francese di La Flèche. I corsi prevedevano tre anni di studio della grammatica, tre anni di studi umanistici e tre anni di filosofia. Coloro che avessero voluto intraprendere la carriera ecclesiastica avrebbero proseguito per altri cinque anni con lo studio della teologia e delle Sacre Scritture. Uscì dal collegio gesuita nel 1615 e si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di quella città. Nel novembre del 1616 conseguì la laurea in utroque iure (tradotta letteralmente, significa “nell'uno e nell'altro diritto”, e veniva utilizzata nelle prime università europee per indicare i dottori laureati in diritto civile e in diritto canonico). Nel 1617 si trasferì in Bretagna, presso Nantes, con il padre e con la nuova compagna di questi. A quel tempo in Francia i cadetti (cioè i figli non primogeniti delle famiglie nobili) non avevano diritto alla successione ed erano spesso destinati alla carriera militare o a quella ecclesiastica. René optò, seppure senza molta convinzione, per la prima, e all’inizio del 1618 si arruolò volontario nell’esercito francese. A partire dal 1619 per circa un decennio compì numerosi viaggi in varie parti del mondo (tra cui l’Italia), perché, egli sosteneva, “È bene conoscere qualcosa dei costumi di altri popoli, per poter giudicare dei nostri più saggiamente”. Alla fine del 1628 si trasferì stabilmente in Olanda. Nel frattempo, nel 1622 aveva deciso di lasciare l’esercito. Da quel momento i mezzi di sussistenza li ricaverà dai proventi dei suoi possedimenti terrieri. Nel 1635 diventò padre con la nascita della figlia Francine, avuta da una domestica che aveva avuto come amante e che non aveva mai sposato, nemmeno dopo la nascita della bambina. Cartesio riconobbe come sua figlia Francine, che però morì all’età di soli cinque anni. Nel 1637 fu pubblicato il Discorso sul metodo, nel 1641 e nel 1642 rispettivamente la prima e la seconda edizione delle Meditazioni metafisiche (corredate, complessivamente, da sette serie di Obiezioni e risposte, che consistono, da un lato, da critiche al contenuto di tale opera avanzate da alcuni filosofi e teologi, e, dall’altro lato, dalle repliche fornite da Cartesio a tali critiche), nel 1644 i Principia philosophiae (Principi della filosofia), un’opera scritta in latino. Da quest’ultima è tratta la famosa espressione Cogito ergo sum (Penso dunque sono), che era già stata scritta in francese nel Discorso sul metodo; nel 1647 i Principia philosophiae furono pubblicati anche in lingua francese. Nel 1649 egli accettò l’invito di trasferirsi a Stoccolma rivoltogli dalla regina di Svezia, Cristina, la quale era sua discepola ed era desiderosa di approfondire i contenuti della sua filosofia. Il rigido inverno svedese e gli orari in cui Cristina lo costringeva ad uscire di casa per impartirle le lezioni – le prime ore del mattino, quando il freddo era più pungente – minarono il suo fisico. Cartesio si spense l’11 febbraio 1650 a causa, secondo l’ipotesi più accreditata, di una polmonite. La metafisica di Cartesio Il “metodo” Nel corso del tempo ho elaborato un metodo che serve a guidare nel miglior modo possibile la mia ragione verso l’accrescimento della mia conoscenza, fino a condurla a poco a poco al punto più alto che le consentono la mediocrità del mio ingegno e la breve durata della mia vita. Questo metodo si basa su quattro regole: 1) non prendere mai nulla per vero, se non siamo completamente sicuri che sia tale; insomma non accettare precipitosamente come veri i nostri giudizi. Inoltre è utile considerare come false tutte le cose di cui possiamo dubitare, tranne che di quelle che alla ragione si presentano in modo così chiaro e distinto da non destare alcuna incertezza sulla loro veridicità. Io chiamo “chiara” la conoscenza che è presente e manifesta a uno spirito attento; e “distinta” quella che è talmente precisa e differente da tutte le altre da comprendere in sé solo ciò che appare manifestamente a chi la considera con la dovuta accortezza. La conoscenza distinta è sempre anche chiara, invece la conoscenza chiara non necessariamente è anche distinta. È bene dubitare anche di cose apparentemente certe, come le dimostrazioni di matematica, soprattutto perché non sappiamo se Dio ci abbia creati tali che siamo sempre ingannati, anche nelle cose che siamo convinti di conoscere meglio; 2) dividere ciascun problema preso in esame in tante più parti quante sia possibile e necessario per risolverlo più agevolmente; 3) dare un ordine ai nostri pensieri, cominciando col trattare i concetti più semplici, per poi salire gradualmente fino alla conoscenza di quelli più complessi; 4) effettuare elencazioni e catalogazioni talmente accurate e complete da essere sicuri di non omettere nulla. Oltre che le regole per acquisire la conoscenza, dal suddetto metodo ho tratto delle regole morali che aiutino a vivere meglio. Tra queste, quella di mantenersi nelle proprie azioni i più fermi e risoluti possibile e di seguire, con la stessa costanza delle opinioni sicure, le opinioni dubbie che si è scelto di seguire. Infatti quando non è in nostro potere discernere le opinioni vere, dobbiamo seguire, senza titubanze né ripensamenti, quelle più probabili, giacché se agissimo solo dopo esserci liberati di tutti i nostri dubbi, potrebbe essere ormai troppo tardi. Pertanto bisogna comportarsi come quei viaggiatori che, trovandosi in mezzo a una foresta e non conoscendo la strada per uscirne, è bene che non vaghino senza senso né tanto meno che rimangano fermi, bensì che scelgano, anche a caso, una direzione e non la cambino senza un valido motivo, cosicché arrivino in un luogo che, anche ammesso che non sia quello desiderato, sia comunque migliore della foresta. Il metodo applicato alla metafisica Adesso applicherò le regole del mio metodo alle questioni di Dio e dell’anima umana; in età giovanile le ho già trattate, ma ora, che posso contare su un’età più matura, mi accingo a riprenderle da capo con maggiore attenzione, allo scopo di correggere le mie errate convinzioni del passato. Tutto ciò che finora ho ammesso come vero al massimo grado l’ho tratto dai sensi, o comunque per mezzo di essi; tuttavia mi sono accorto che talvolta essi ingannano, ed è atteggiamento prudente non fidarsi mai di quelli che ci hanno ingannato anche solo una volta. Ma, sebbene i sensi talvolta ci ingannino, vi sono moltissime altre opinioni desunte da essi delle quali non si può dubitare, come ad esempio il fatto che io sono qui, sto seduto vicino al fuoco, indosso una vestaglia invernale, tocco con le mani questo foglio, ecc. E come si potrebbe negare che proprio queste mani e che tutto questo corpo siano miei? C’è solo una possibilità che mi potrebbe trarre in inganno, e cioè che ciò che vedo non è realtà ma sogno. Ebbene, immaginiamo che le azioni che stiamo compiendo in questo momento e le parti del nostro corpo (ad esempio, la testa e le mani) non siano reali ma frutto di un sogno. Tuttavia bisogna ammettere che quello che ci appare in sogno deve necessariamente richiamare immagini tratte dalla realtà, e perciò almeno le parti del nostro corpo non sono oggetti immaginari, ma veri e reali. In ogni caso sono pienamente convinto che esiste Dio che può ogni cosa, e dal quale sono stato creato così come sono. Sono persuaso che ciò che vedo, se lo vedo in maniera chiara e distinta, sia realtà e non finzione, perché Dio è, per definizione, sommamente buono, e quindi non può avermi ingannato. Sia che vegliamo sia che dormiamo, dobbiamo lasciarci convincere solo dall’evidenza della ragione. Si badi bene: dico “delle nostra ragione”, e non “della nostra immaginazione” né “dei nostri sensi”; ad esempio, il sole, con i nostri sensi, lo vediamo piccolo, ma usando la ragione sappiamo bene che è grandissimo. Ma ammettiamo che non Dio, sommo bene, fonte di verità, ma un genio maligno, sommamente potente e astuto, mi abbia ingannato. Ammettiamo quindi che il cielo, la terra, i colori, le figure, i suoni, le parti del mio corpo e tutto il resto del mondo esterno non siano altro che sogni. Ma se anche io sono un sogno, e quindi non esisto, com’è possibile che il genio maligno mi abbia ingannato? Se mi ha ingannato e ne sono consapevole, vuol dire che io penso, e, se penso, vuol dire che esisto! Dal fatto stesso che penso di dubitare della verità delle cose, segue con assoluta evidenza e certezza che io esisto. Infatti qualunque parte del mio corpo, dato che può essere staccata da me, non mi garantisce che io esista. Invece il pensiero è l’unica mia facoltà che non può in alcun modo essere separata da me. Pertanto, finché penso, posso dire che “Io esisto, io sono”. Ma cosa sono? Ebbene, io sono una cosa che pensa, una mente, un intelletto, che non dipende da alcunché di materiale e che per esistere non ha bisogno di alcun luogo, di modo che questo io, e cioè la mente per cui sono quel che sono, è completamente distinta dal corpo, e non cesserebbe di essere quello che è anche se il corpo non esistesse. E che cos’è “una cosa che pensa?” Certo una cosa che dubita, comprende, ignora, afferma, nega, vuole, disvuole, immagina, percepisce. E non mi sembra poco, se tutto questo mi riguarda. Che mi inganni pure il genio maligno o chi per esso; tuttavia non farà mai in modo tale che io non sia nulla, finché penso di essere qualcosa! Differenza tra corpo e mente Esiste una grande differenza tra il corpo e la mente: il primo è sempre divisibile, la seconda è assolutamente indivisibile. Neanche le facoltà di volere, sentire, comprendere, ecc. possono essere dette parti della mente, perché è una e medesima mente che vuole, che sente, che comprende, ecc. Al contrario, nessuna cosa corporea può essere da me pensata, che non si possa dividere facilmente in più parti col pensiero. L’esempio del pezzo di cera Noi i corpi non li percepiamo con i sensi né con l’immaginazione, bensì li rappresentiamo con l’intelletto soltanto dopo averli compresi. Ad esempio, prendiamo questa cera: da pochissimo è stata presa dai favi, non ha ancora perso il sapore del miele, conserva ancora qualche profumo dei fiori dai quali è stata raccolta; è ancora dura, fredda, vediamo il suo colore, la forma, la grandezza. Ma ecco, mentre parlo, viene avvicinata al fuoco: adesso non è più fredda ma calda, si perde ogni residuo del suo sapore, svanisce il suo profumo, cambiano il suo colore e la sua forma, la sua consistenza diventa più molle. Adesso, rispetto a prima di avvicinarla al fuoco, è molto cambiata. Eppure non è sempre la stessa cera? Certamente sì, nessuno potrebbe negarlo. Che cosa dunque ci fa sapere che i corpi, in questo caso la cera, siano quello che sono malgrado possano mutare odore, colore, calore, forma, ecc.? Di certo non possiamo saperlo con l’immaginazione; infatti per far ciò dovremmo passare in rassegna tutti gli innumerevoli cambiamenti che un corpo può subire, il che è impossibile. Dobbiamo quindi ammettere che possiamo conoscere i corpi solo dopo averli esaminati con la mente. Le idee Come ho già detto, mi sembra di poter stabilire, come regola generale, che è vero tutto ciò che concepisco in maniera molto chiara e distinta. Eppure ho prima ammesso come del tutto chiare e distinte delle cose che poi mi sono reso conto essere dubbie; tra queste, la terra, il cielo, gli astri e tutte le altre cose di cui mi appropriavo per mezzo dei sensi. Che cosa dunque percepivo chiaramente di queste cose? La risposta è che di queste cose percepivo le idee, o piuttosto i pensieri, che si aggiravano nella mia mente. Ma nemmeno ora, pur considerandole dubbie, nego che quelle idee siano in me. Tuttavia mi rendo conto che, anche a causa delle errate convinzioni radicate in me con la consuetudine, quelle cose, che io affermavo di conoscere, in realtà non le percepivo. Era in questo che mi sbagliavo. Le idee non possono essere propriamente false, perché, sia che immagini cose reali, come una capra, sia che immagini cose irreali, come una chimera, la mia immaginazione possiede sempre il medesimo grado di verità. Infatti, anche quando desidero cose malvagie o inesistenti, è innegabile che io le desidero. Appurato quindi che le idee (o immaginazioni) sono sempre vere, rimangono solo i giudizi, nei quali devo stare attento a non sbagliare. Tra le idee: alcune sembrano innate, cioè nate insieme con me, e che quindi ho nella mia mente per natura (ad esempio, l’idea matematica e l’dea di Dio); altre sembrano provenire da fuori di me. Si tratta delle idee avventizie e derivano, attraverso gli organi di senso, dal mondo esterno; altre ancora sembrano essere prodotte, inventate, da me stesso. Si tratta delle idee fittizie (ad esempio, l’idea della chimera). Una delle idee è quella di Dio. Col nome di Dio intendo una sostanza infinita, incorporea, indipendente, sommamente intelligente e potente, dalla quale sia io stesso sia ogni altra cosa esistente siamo stati creati. La concezione di Dio e le prove della sua esistenza 1ª prova dell’esistenza di Dio Tutte le qualità che attribuisco a Dio sono tali che, quanto più a fondo le esamino, tanto più dubito che, con le mie limitate facoltà di uomo, io possa essere in grado di produrle. E già il fatto stesso di dubitare mi rende consapevole di non essere perfetto, giacché capisco chiaramente che il conoscere è una perfezione maggiore del dubitare. Se non le produco io, e se non è possibile che mi vengano dal nulla, allora vuol dire che mi provengono da un Essere superiore a me, e questo perché l’effetto (in questo caso, l’idea che ho di Dio) non può essere più perfetto della causa che lo produce. Questa causa che produce in me l’idea di Dio deve quindi provenirmi da un Essere perfetto, da un Essere che possieda in sé tutte le perfezioni di cui io possa avere idea, cioè, in una sola parola, può provenirmi solo da Dio; perciò bisogna necessariamente concludere che Dio esiste. 2ª prova dell’esistenza di Dio Ogni periodo della vita può essere diviso in parti innumerevoli, che sono indipendenti l’una dall’altra. Quindi dal fatto che io poco fa sia esistito non ne consegue necessariamente che io esista anche ora. Pertanto ci deve essere una causa che non solo mi ha creato, ma che in ogni momento della vita mi conservi. In pratica è come se io fossi continuamente ricreato da una causa dalla quale dipendo. E questa causa può essere soltanto Dio, dato che solo Lui può creare e mantenere in esistenza un essere come l’uomo, cioè di un essere che pensa e che possiede l’idea di Dio [Cartesio utilizza qui la tesi della “creazione continua”, già sostenuta dalla filosofia scolastica]. 3ª prova dell’esistenza di Dio Come è inconcepibile un monte al quale manchi la valle che lo circonda, così è inconcepibile che a un essere perfetto come Dio manchi l’esistenza. Infatti un essere perfetto deve necessariamente esistere; se si ammettesse che a Dio manca l’esistenza, si riconoscerebbe che non è perfetto, in quanto l’esistenza è uno dei requisiti essenziali della perfezione. In definitiva, dato che Dio è perfetto, deve necessariamente esistere [questa è la cosiddetta “prova ontologica” dell’esistenza di Dio]. Insomma, per il solo fatto che esisto, e che una qualche idea di un essere perfetto è in me, cioè l’idea di Dio, si può dimostrare in maniera evidentissima che anche Dio esiste. E mi piace per un certo tempo soffermarmi nella contemplazione di Dio, guardare, ammirare e adorare la bellezza della sua immensa luce, per quanto la possa sopportare la limitatezza del mio ingegno di uomo. Infatti, come per fede crediamo che la somma felicità della vita ultraterrena consista nella contemplazione di questa divina maestà, così, già in questa vita terrena, da questa stessa contemplazione, sebbene in maniera molto meno perfetta, possiamo trarre un grandissimo piacere. Non è possibile che Dio mi inganni mai. Infatti in ogni inganno o menzogna si trova qualche imperfezione; e, sebbene il riuscire ad ingannare appaia come una prova di acutezza o di potenza, senza dubbio la volontà di ingannare denota malizia, timore o debolezza, e perciò non può provenire da un essere perfetto come Dio. Anche la mia facoltà di giudicare, come tutte le cose che sono in me, l’ho derivata da Dio, e, dato che lui non mi vuole ingannare, questa facoltà che mi ha concesso non è soggetta ad errare, purché, ovviamente, io me ne serva correttamente. Intelletto e libero arbitrio Per tutto il tempo in cui penso soltanto a Dio e mi volgo tutto a lui, non colgo nessuna possibilità né causa di errore o menzogna. Ma poi, ritornato in me, prendo atto di essere esposto a innumerevoli errori, e da ciò capisco che in me non si trova solo l’idea positiva di Dio, e cioè di un Ente perfetto, ma anche un’idea negativa, ovvero, per così dire, un’idea del nulla, o meglio dire un’idea di ciò che è l’opposto della perfezione. Comprendo dunque che io sono come una via di mezzo tra Dio e il niente, e che, in quanto sono stato creato dal sommo Ente, non posso mai cadere in errore né in inganno, e, in quanto partecipo in qualche modo anche del nulla, posso sbagliare e farmi ingannare. Dio, certamente, mi avrebbe potuto creare tale che io non possa mai sbagliare, e mi domando come mai lui, che tutto può, non lo abbia fatto. Ma poi penso che la mia natura debole e limitata di uomo non può comprendere il perché degli infiniti disegni divini. E comunque mi viene in mente che, ogni volta che esaminiamo se le opere di Dio siano perfette, non dobbiamo riferirci a una singola creatura, ma a tutta la realtà nel suo complesso; infatti, ciò che, preso a solo, potrebbe sembrare imperfetto, appare invece perfetto quando lo si guarda come una parte dell’universo nel quale è inserito. Osservandomi bene da vicino e ricercando quali siano i miei errori, capisco che essi dipendono dal concorso di due cause, cioè dalla facoltà di intendere che è in me (l’intelletto) e dalla facoltà di scegliere (il libero arbitrio). Per quanto riguarda quest’ultima, cioè la libertà di arbitrio, non posso negare che Dio me l’abbia concessa sufficientemente ampia e perfetta. Sono convinto infatti che né la grazia divina né la conoscenza naturale diminuiscono mai la mia libertà, ma piuttosto la ampliano e la fortificano. La verità è che la libertà di arbitrio, al fine di non commettere errori, non dovrebbe agire con indifferenza, bensì dovrebbe ponderare bene le varie opzioni prima di operare una scelta; l’indifferenza, infatti, è il grado più basso della libertà. La mia facoltà di intendere, benché limitata, è perfetta, dal momento che l’intelletto proviene da Dio. Da dove nascono quindi i miei errori? Certo dal fatto che, siccome la facoltà di volere si può estendere anche al di là dei confini dell’intelletto, può arrivare fino a cose che non si possono comprendere. Infatti la conoscenza cui può giungere l’intelletto è sempre piuttosto limitata; viceversa la volontà è molto ampia. Perciò, tutte le volte in cui la mia facoltà di scegliere va oltre i limiti del mio intelletto, si distacca da ciò che è vero e buono, e così mi inganno e pecco. In altre parole, noi, per mezzo dell’intelletto, percepiamo le cose; poi sta alla nostra volontà accettare o meno le cose che il nostro intelletto ci propone: se la volontà accetta solo le cose di cui l’intelletto ha una conoscenza intera e perfetta, non corriamo il rischio di sbagliare; se invece la volontà accetta anche le cose di cui l’intelletto ha una conoscenza confusa o comunque non molto precisa, ci inganniamo. Nonostante l’immensa bontà di Dio, la natura dell’uomo, in quanto è composto, oltre che della mente, anche del corpo, durante la vita è soggetta qualche volta a sbagliare. Perciò bisogna riconoscere la debolezza della nostra natura. Tuttavia, come già detto, l’anima umana è di una natura indipendente dal corpo, e dunque non è destinata a morire con esso; e dal momento che non si vedono altre cause che possano distruggerla, si è portati naturalmente a giudicarla immortale. BIBLIOGRAFIA Cartesio, tratto da www.wikipedia.org René Descartes, Discorso sul metodo, tratto da www.liberliber.it Renato Cartesio, Meditazioni Metafisiche, tratto da www.ousia.it Descartes, René, I principi della filosofia, Universale Laterza, Bari, 1986 Gianluca Mori, Cartesio, Carocci editore, Roma, 2010