I Il fattore religioso nel diritto dell`Unione europea

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I Il fattore religioso nel diritto dell`Unione europea
Il fattore religioso nel diritto dell’Unione europea
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Il fattore religioso nel diritto
dell’Unione europea
SOMMARIO: 1. Dal tramonto della «Costituzione» europea al Trattato di Lisbona: introduzione. – 2. I contenuti. – 2.1. Il preambolo: la
questione del riferimento alle radici cristiane dell’Europa. – 2.2. I valori fondativi dell’Unione. – 2.3. La tutela dei diritti fondamentali. –
2.4. Il divieto di discriminazione. – 3. L’incompetenza dell’Unione sugli status nazionali delle Chiese, delle altre comunità religiose e delle
organizzazioni filosofiche e non confessionali. – 3.1. L’art. 16C del
Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. – 3.2. Il «dialogo»
dell’Unione con le Chiese: aperture e limiti della governance degli interessi religiosi. – 3.3. Il rilievo del fattore religioso nelle finalità di
competenza dell’Unione.
1. Dal tramonto della «Costituzione» europea al Trattato di Lisbona: introduzione.
Il progetto di unificazione europea, sviluppatosi dal sistema di
integrazione economica partito con la firma dei Trattati istitutivi
della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA, 1951),
della Comunità economica europea (CEE, 1957) e della Comunità europea per l’energia atomica (CEEA o EURATOM, 1957), si
fonda sulla volontà di ricerca di una crescente coesione sociale e
politica delle nazioni interessate. Dall’insieme dei patrimoni culturali degli Stati membri è nata, distinta e autonoma, una coscienza collettiva europea, che ha permesso lo sviluppo di un ordinamento sopranazionale caratterizzato da significativi elementi di
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sovranità indipendente. Questo processo, le cui tappe costitutive
passano attraverso l’Atto unico europeo (AUE, 1986), il Trattato
sull’Unione Europea di Maastricht (TUE, 1992), il Trattato di
Amsterdam (1997) e il Trattato di Nizza (2001), ha portato alla
firma del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa (ratificato in Italia con legge n. 57 del 2005), avvenuta a Roma il 29
ottobre 2004. Tuttavia, i dubbi sulla legittimazione popolare di
un testo che, a causa del suo enfatico carattere «costituzionale»,
ha determinato un forte, non sempre positivo, impatto simbolico
e mediatico hanno trovato conferma. L’entrata in vigore del Trattato, giunto all’esito di un percorso segnato più dalla volontà dei
Governi e delle istituzioni comunitarie che dal coinvolgimento
diretto dei cittadini dell’Unione, è stata bloccata dall’opposizione
alla ratifica espressa dalle popolazioni di Francia e Olanda, chiamate a pronunciarsi in referendum. Visti questi risultati, è stato
proposto nel giugno 2005 un «periodo di riflessione» per consentire l’apertura di un confronto ad ampio spettro esteso a tutti i
soggetti interessati, cittadini compresi. Dopo due anni, il Consiglio europeo (istituzione dell’Unione composta dai Capi di Stato
o di Governo dei Paesi membri insieme al Presidente della Commissione) tenutosi il 21 e 22 giugno 2007 ha deciso di convocare
una conferenza intergovernativa incaricata di disegnare un nuovo
Trattato, non più sostitutivo (come era invece il Trattato «costituzionale»), ma solo modificatore del Trattato sull’Unione Europea
(TUE) e del Trattato che istituisce la Comunità Europea (TCE,
che ora prende il nome di «Trattato sul funzionamento dell’Unione», TFU). Il nuovo testo è stato sottoscritto solennemente a Lisbona nel dicembre del 2007 e, pur apportando la maggior parte
delle riforme contenute nel corpo normativo dell’abbandonato Trattato del 2004, non ha volutamente carattere costituzionale, tenendo
conto delle riflessioni nel frattempo maturate. L’entrata in vigore
del Trattato di Lisbona, a seguito della ratifica di tutti i 27 Paesi
ora membri dell’Unione, è prevista per il 1° gennaio 2009. Esso riprende alcuni principi fondatori già espressi nel Trattato costituzionale e contiene ulteriori innovazioni circa la composizione delle
istituzioni, i criteri di adozione delle procedure decisionali e le politiche dell’Unione.
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2. I contenuti.
2.1. Il preambolo: la questione del riferimento alle radici
cristiane dell’Europa.
Nel dibattito che ha preceduto la firma del Trattato costituzionale del 2004 la Santa Sede e altre Chiese europee avevano con
forza segnalato l’opportunità che il preambolo del testo facesse
espresso riferimento alle radici cristiane, o almeno giudaico-cristiane, dell’Europa, quale riconoscimento pubblico dell’influenza
di quel patrimonio religioso nella storia e nella cultura del continente. I comprensibili timori che l’istanza avanzata dalle Chiese
potesse indebolire la laicità delle istituzioni comunitarie e il pluralismo religioso e culturale europeo hanno suggerito di non raccogliere la proposta, ma di utilizzare una formula non caratterizzata
da richiami confessionali specifici, seguendo l’esempio della maggior parte dei testi costituzionali dei Paesi europei. Il nuovo TUE
contiene dunque un preambolo (più sintetico e meno enfatico di
quello espresso nel Trattato costituzionale) di rimando «alle eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa, da cui si sono
sviluppati i valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, e dello Stato di diritto». Il richiamo ai valori elencati, sintetizzati in
una inclusiva formula di compromesso, non è un semplice rimando «di stile», ma ha la valenza giuridica riconosciuta dalla Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati (art. 31): come tutti i preamboli, esso è parte del TUE e permette di confermare e
precisare, alla luce delle finalità e degli orientamenti dell’Unione,
la portata delle singole norme enunciate di seguito nel testo.
2.2. I valori fondativi dell’Unione.
Il Trattato di Lisbona aggiunge un nuovo art. 1 bis al TUE, il
cui contenuto è più ampio rispetto a quello della corrispondente disposizione prevista nel superato Trattato costituzionale. La nor-
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ma, che conferma la vocazione politica, e non più prettamente
socio-economica, del processo di unificazione europea, prevede
che l’Unione si fonda «sui valori del rispetto della dignità umana,
della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di
diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze». Essa prevede poi che questi valori «sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata
dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla
giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini». Avere definito questi valori «comuni» non significa che la norma richiama una semplice «somma» delle concezioni costituzionali che
ciascun Paese fornisce ad essi, ma che i valori vanno interpretati
nell’autonoma e ulteriore prospettiva di far fronte alle esigenze
richieste dal processo di unificazione.
Di particolare interesse circa la disciplina giuridica del fattore
religioso, oltre ai classici riferimenti alla tutela che in ogni sistema
democratico è assicurata alla libertà e all’uguaglianza, anche religiosa, vi è il richiamo espresso ai diritti delle minoranze. In effetti, la loro condizione, non solo nei fatti ma a volte anche nelle
previsioni giuridiche che le riguardano (si veda a proposito la Relazione A5-0207/2004 del Parlamento europeo circa la «Situazione dei diritti fondamentali nell’Unione europea»), risulta deteriore proprio a causa dell’appartenenza dei soggetti coinvolti a un
credo diverso e isolato rispetto a quello condiviso dalla maggioranza delle popolazioni (tocca l’argomento la Risoluzione del 15
settembre 2007 nella quale il Parlamento europeo si è espresso circa «gravi episodi che mettono a repentaglio l’esistenza delle comunità cristiane e di altre comunità religiose»).
Alla violazione, anche di uno solo, dei valori della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato
di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi quelli delle minoranze, corrisponde un dettagliato meccanismo sanzionatorio.
Il nuovo art. 7 TUE dispone anzitutto che:
a) su proposta motivata di un terzo degli Stati membri, del Parlamento o della Commissione, il Consiglio (composto da un rappresentante di ciascuno Stato membro a livello ministeriale) deli-
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berando a maggioranza dei quattro quinti dei suoi membri previa
approvazione del Parlamento, può constatare l’esistenza di un evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro dei
valori elencati. Prima di procedere alla constatazione il Consiglio
ascolta lo Stato membro in questione e può rivolgergli delle raccomandazioni, deliberando secondo la stessa procedura;
b) il Consiglio europeo (composto dai capi di Stato o di governo degli Stati membri, dal suo Presidente e dal Presidente della Commissione) deliberando all’unanimità su proposta di un terzo degli Stati membri o della Commissione e previa approvazione
del Parlamento, può constatare l’esistenza di una violazione grave
e persistente da parte di uno Stato membro dei valori elencati,
dopo aver invitato tale Stato a presentare osservazioni. Effettuata
questa constatazione il Consiglio, deliberando a maggioranza
qualificata, può decidere di sospendere alcuni dei diritti derivanti
allo Stato membro dall’applicazione dei Trattati, che rimane però
vincolato a rispettarne gli obblighi, compresi i diritti di voto che
lo Stato esercita in seno al Consiglio.
Segue poi una disciplina per la revoca della sanzione e per le
modalità di voto del provvedimento di sospensione, prevista anche dal nuovo art. 309 TFU. Questo tipo di sanzione si caratterizza non solo per le conseguenze giuridiche del provvedimento, ma
soprattutto per le sue rilevanti implicazione politiche. È per questo che il nuovo art. 235 bis TFU sottrae la materia alla giurisdizione di merito della Corte di giustizia, che può pronunciarsi sulla
legittimità di un atto adottato dal Consiglio europeo o dal Consiglio solo per quanto concerne il rispetto delle mere prescrizioni di
carattere procedurale previste dall’art. 7 TUE.
2.3. La tutela dei diritti fondamentali.
2.3.1. Il Trattato di Lisbona ha apportato modifiche di rilievo
all’art. 6 TUE sulla tutela dei diritti fondamentali, che costituisce
la norma centrale in materia di protezioni degli interessi religiosi.
L’articolo opera su tre livelli, connessi ma distinti tra di loro, e
prevede anzitutto che l’Unione «riconosce i diritti, le libertà e i
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principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali» firmata a
Nizza nel dicembre del 2000, e adattata il 12 dicembre 2007,
«che ha lo stesso valore giuridico dei trattati». La Carta di Nizza è stata approvata dal Parlamento europeo nel novembre 2007
e, malgrado non faccia parte dei documenti fondativi dell’Unione, ne conferma la natura di comunità al servizio della tutela dei
diritti dei propri cittadini. La nuova formulazione dell’art. 6
TUE è fortemente innovativa, poiché con essa trova riconoscimento espresso la pari vincolatività della Carta di Nizza rispetto
ai Trattati istitutivi (con un regime particolare per la Polonia e il
Regno Unito, come stabilito da uno specifico Protocollo allegato
al Trattato di Lisbona), la cui portata giuridica era stata sin ora
incerta e dibattuta. Sarà dunque questa la fonte di riferimento,
di carattere «primario» al pari delle norme dei Trattati, direttamente invocabile anche dinnanzi ai giudici nazionali (in Italia è
stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 14 dicembre 2007),
per una applicazione omogenea della tutela dei diritti fondamentali nell’ordinamento dell’Unione. Il nuovo art. 6 TUE precisa però, forse deludendo le aspettative di chi auspicava la creazione di una autonoma e nuova competenza in materia di diritti
fondamentali, che «le disposizioni della Carta non estendono in
alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati» (il
titolo I, artt. 2A-2E, TFU elenca e descrive le categorie e i settori
di competenza dell’Unione). Questo significa che il rispetto dei
diritti enunciati è un obbligo giuridicamente sancito, che vincola
gli Stati membri (quando attuano il diritto comunitario), le istituzioni e gli organi dell’Unione, e l’intero sistema giuridico nel
suo complesso, ma sempre all’interno del quadro delle materieobiettivo, e dei relativi poteri di azione, che le norme dei Trattati
assegnano alla competenza del diritto dell’Unione secondo il c.d.
«principio di attribuzione». Sugli Stati grava inoltre l’obbligo di
stabilire «i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una
tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto
dell’Unione», ai sensi del secondo comma del nuovo art. 9F.1
TUE.
I diritti fondamentali, elencati dalla Carta senza distinzione tra
diritti umani, diritti politici e diritti sociali, sono garantiti a qua-
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lunque individuo a prescindere dalla propria qualità di cittadino
dell’Unione. Tra questi spiccano:
– la libertà di pensiero, di coscienza e di religione (art. 10),
che include la libertà di cambiare religione o convinzione, la libertà di manifestare la propria religione o la propria convinzione
individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti.
La norma contempla anche il diritto all’obiezione di coscienza,
come riconosciuto secondo le leggi nazionali che ne disciplinano
l’esercizio. La formulazione ricalca quella dell’art. 9 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (di seguito, per brevità,
la CEDU), ma senza richiami ai limiti all’esercizio della libertà
che quest’ultima disposizione prevede; alla tutela della libertà religiosa e di coscienza sono strumentali le garanzie della libertà di
informazione e di espressione, anche attraverso il pluralismo dei
media (art. 11) e la libertà di riunione e di associazione (art. 12);
– l’uguaglianza davanti alla legge (art. 20, ribadito anche dal
nuovo art. 8 TUE, per il quale «l’Unione rispetta, in tutte le sue
attività, il principio di uguaglianza dei cittadini, che beneficiano
di uguale attenzione da parte delle sue istituzioni, organi e organismi»), e dunque l’uguaglianza senza distinzione di religione. Ne
sono espressione il diritto a che le questioni di ogni individuo siano trattati da parte delle istituzioni e degli organi dell’Unione secondo una buona, imparziale ed equa amministrazione (art. 41) e
il diritto a ricorrere a un giudice indipendente, imparziale e precostituito per legge (art. 47);
– il divieto di discriminazione, qualsiasi forma essa assuma,
fondata, tra gli altri criteri, sulla religione o sulle convinzioni personali, sulle opinioni politiche o di altra natura o sull’appartenenza a una minoranza nazionale (art. 21).
Hanno poi attinenza con la disciplina giuridica del fattore religioso:
– il diritto alla dignità umana (art. 1), alla vita (art. 2) e la protezione della salute (art. 35), che non posso subire attentati in
forza di pratiche di matrice religiosa;
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– la protezione dei dati di carattere personale (art. 8), tra cui,
per esempio, quelli idonei a rivelare l’appartenenza confessionale,
spesso raccolti in registri tenuti da istituzioni, enti o associazioni
che fanno capo a gruppi religiosi. I dati devono essere trattati secondo il principio di lealtà, per finalità determinate e con il consenso del soggetto titolare, o in base a un altro fondamento legittimo previsto dalla legge. Ogni individuo ha il diritto di accedere
ai dati raccolti che lo riguardano e di ottenerne la rettifica;
– la libertà in campo artistico e di ricerca scientifica (art. 13),
a prescindere da ogni condizionamento ideologico o religioso;
– la libertà di creare istituti di insegnamento, compresi quelli,
per esempio, di ispirazione confessionale, nel rispetto dei principi
democratici (art. 14). La norma contempla poi, secondo le leggi
nazionali che ne disciplinano l’esercizio, il diritto dei genitori di
provvedere all’educazione e all’istruzione dei figli secondo le loro convinzioni religiose, filosofiche e pedagogiche; allo stesso modo, anche il diritto di sposarsi e di formare una famiglia è riconosciuto secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio
(art. 9), forse deludendo le aspettative di chi avrebbe preferito un
riferimento ai diritti delle coppie di fatto;
– il divieto di allontanamento, espulsione o estradizione verso
uno Stato in cui esiste un serio rischio che l’individuo sia sottoposto alla pena di morte, alla tortura, o ad altre pene o trattamenti
inumani o degradanti (art. 19), magari a causa della propria appartenenza confessionale;
– il rispetto della diversità culturale, religiosa e linguistica
(art. 22);
– la tutela in caso di licenziamento ingiustificato (art. 30), anche quando avvenga a causa dell’appartenenza o meno del lavoratore a un credo religioso;
– il diritto a periodi di riposo giornalieri e settimanali, e a ferie annuali retribuite (art. 31), nel rispetto, per esempio, delle
prescrizioni confessionali in materia di riposo domenicale o di riposo sabbatico.
La Carta precisa infine (art. 52) che eventuali limitazioni ai diritti e alle libertà elencate possono essere previste, nel rispetto del
principio di proporzionalità, solo dalla legge e debbono rispettar-
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ne il contenuto essenziale (principio c.d. della «riserva di legge»).
Tali limitazioni possono essere apportate solo se siano necessarie
e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui.
2.3.2. Il nuovo art. 6 TUE, al punto 2, dispone inoltre l’adesione dell’Unione alla CEDU, che una volta sottoscritta diverrà
una fonte formale dell’ordinamento comunitario; l’adesione non
determina tuttavia, come già precisato al punto 1, un allargamento delle competenze definite nei Trattati (questo punto, insieme
ad altre precisazioni, è ribadito nel Protocollo riguardante l’adesione allegato al Trattato di Lisbona).
Ai sensi dell’art. 188N, punto 8, TFU, l’accordo di adesione dovrà essere
deliberato dall’unanimità dei membri del Consiglio, previa approvazione del
Parlamento europeo; la decisione sulla conclusione di tale accordo entra in
vigore solo in seguito all’approvazione di ciascuno Stato membro dell’Unione,
resa nel rispetto delle proprie norme costituzionali.
La partecipazione dell’Unione alla CEDU è stata nel tempo al
centro di approfondimenti e di proposte, oscillanti tra le posizioni, più possibiliste, della dottrina e l’orientamento, più cauto, della giurisprudenza. La Corte di Giustizia ha evidenziato in passato
come l’adesione alla Convenzione comporti infatti «una modificazione sostanziale dell’attuale regime comunitario di tutela dei
diritti dell’uomo», determinando «l’inserimento della Comunità
in un sistema istituzionale internazionale distinto, nonché l’integrazione delle disposizioni della Convenzione nell’ordinamento
giuridico comunitario».
L’adesione dell’Unione alla CEDU determina conseguenze radicali nel rapporto tra l’ordinamento comunitario e il sistema del
Consiglio d’Europa (che comunque rimangono due realtà giuridiche autonome, anche se cooperanti). La Corte di Giustizia, infatti, ha fatto applicazione delle disposizioni della CEDU quasi
sempre in modo indiretto, attraverso il filtro, secondo la vecchia
formulazione dell’art. 6 TUE, dei principi generali del diritto comunitario, difendendo così il proprio spazio di autonomia e riservandosi discrezionalità di giudizio. Questo orientamento, per la
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verità posto in dubbio in alcune sentenze più recenti, è da considerarsi superato con l’ingresso formale della CEDU nel diritto
dell’Unione. All’adesione consegue infatti la piena e legittimata
rilevanza degli organi di Strasburgo nell’agire comunitario, che
determinerà un ruolo e un peso sempre crescenti della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (di seguito, per
brevità, la Cedu) nella sua attività di interpretazione dei diritti e
delle libertà fondamentali. Questo significa che la CEDU dovrà
essere rispettata in ogni atto o provvedimento posto in essere da
organi o istituzioni dell’Unione e che dovrà, quindi, essere raggiunta una convergenza, sulla base di un «dialogo» crescente, tra
la giurisprudenza di Strasburgo e l’operato della Corte di Giustizia. Quest’ultima non potrà discostarsi, se non in melius, dagli
standards di garanzie elaborati dalla Cedu, tra cui spiccano quelli
in materia di libertà di coscienza e di religione e di divieto di discriminazione. In caso contrario, non è infatti da escludere che
l’Unione stessa possa essere sanzionata, secondo procedure adeguate alla sua particolare natura. Il probabile effetto sarà dunque
la nascita e la circolazione di modelli giuridici di protezione comuni.
Occorre inoltre rammentare che con il Regolamento n. 168
del 2007 è stata istituita l’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali, operativa dal marzo 2007 nel campo dell’assistenza e della consulenza agli organi dell’Unione e agli Stati
membri (quando applicano il diritto comunitario) in materia di
diritti fondamentali. Il 23 maggio 2007 l’Unione europea e il
Consiglio d’Europa hanno poi sottoscritto un memorandum di
accordo finalizzato a instaurare una stretta cooperazione in materia di:
– tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (sulla
quale al Consiglio d’Europa è riconosciuto un ruolo di riferimento);
– promozione della preminenza del diritto e della collaborazione politica e giuridica;
– rafforzamento dei modelli democratici stabili e pluralisti, e
del buon governo.