I Quaderni del CREAM 2005 - IV

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I Quaderni del CREAM 2005 - IV
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO BICOCCA
CENTRO DI RICERCHE ETNO-ANTROPOLOGICHE MILANO
I QUADERNI DEL CREAM
2005 – IV
Trauben
I quaderni del CREAM sono una pubblicazione a cura del Centro di
Ricerche Etno-Antropologiche dell’Università degli Studi di Milano
Bicocca. Raccolgono articoli, note, recensioni e testi di conferenze e
seminari tenuti nell’ambito delle attività del Centro e delle iniziative
ad esso collegate: Corso di Laurea Specialistica in Scienze Atropologiche ed Etnologiche, Dottorato in Antropologia della Contemporaneità (DAC), Corso di Perfezionamento in Antropologia Culturale
(COPAC), Laboratorio di Antropologia Visiva (LAV), Seminario di
Antropologia del Medio Oriente e del Mondo Musulmano (SAMOMU), Seminario di Atropologia Teorica (SAT).
Direttore Roberto Malighetti
Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione ‘Riccardo Massa’
Università degli Studi di Milano Bicocca
Piazza dell’Ateneo Nuovo 1
20126 Milano
© 2005 Trauben editrice s.a.s
via Plana 1 – 10123 Torino
fax 011.7391042
ISBN 888398945
Indice
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Alberto Sobrero, Descrivere il mondo per dettagli. Letteratura e
scienze sociali in Balzac
35
Silvia Barberani, Morti e riti di memoria in una comunità della
Grecia
67
Livia Napoleoni, Le guerre dimenticate: la guerriglia maoista in
Nepal e la questione femminile
97
Fabrizio Floris, Non-luoghi, città e ville nue
119
Federica Riva, Donne, ambiente e politiche dello sviluppo nel
Garhwal
147
Roberto Malighetti, Merleau-Ponty’s concept of the body
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ALBERTO SOBRERO
DESCRIVERE IL MONDO PER DETTAGLI.
LETTERATURA E SCIENZE SOCIALI IN BALZAC*
1. “Quelle opere impropriamente dette romanzi”
All’inizio dell’incontro fra discipline sociali e letteratura c’è
Balzac! Chissà se con tutti i puristi delle nostre discipline posso
permettermi un’affermazione di questo tipo? In altri tempi no di
certo! E meno che mai con gli antropologi! Forse se avessi detto
Fenimore Cooper, The last of the Mohicans… o magari Robert Stevenson, o Chateaubriand, Atala… (una delle cose più brutte del
‘genere’) sarei stato più credibile. Magari anche Daudet, con il suo
Tartarino di Tarascona…! Ma Balzac! Le Illusioni perdute, Le Pè*
Questo intervento riassume le prime due lezioni di un corso su Antropologia e Letteratura tenuto per la laurea specialistica in Discipline Etnoantropologiche de “La Sapienza” nell’a.a. 2002-03 e costituisce con ogni probabilità il primo capitolo di un
testo su Antropologia e Letteratura. Di questo faticato libro è già uscito quel che probabilmente è destinato ad essere il terzo capitolo: Caro Bronio... Caro Stas. Malinowski fra Conrad e Rivers (Aracne, Roma, 2004). Pubblicare un libro a puntate comporta vantaggi e svantaggi, ma, come sa bene chi insegna nell’università, gli impegni
della riforma hanno ridotto drasticamente la possibilità di ricerca e di produzione
scientifica. E per altro rinviare la pubblicazione del proprio lavoro di anni, non mi
sembra compatibile con il carattere parzialmente provvisorio delle nostre riflessioni,
con gli interessi degli studenti, con il piacere di confrontarsi con altri e alla lunga con
gli stessi limiti dell’esistenza. Non resta che sperare che la danza dionisiaca sopra
quel che resta dell’università italiana abbia fine, accontentandosi che intanto ognuno
salvi il salvabile della propria passione scientifica.
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re Goriot… Eppure aveva visto bene quell’idealista di Pécuchet:
quando i due amici erano arrivati a leggere Balzac aveva avvertito subito Bouvard: “Questa non è letteratura, ma statistica o etnografia… –
Perché perdere il proprio tempo con simili inezie, diceva Pécuchet. –
Ma in futuro diventeranno interessantissimi come documenti. – Va’ a
quel paese tu e i tuoi documenti”.
Quel materialista di Bouvard fa l’errore che faranno molti antropologi studiando il rapporto fra antropologia e letteratura: assegnano
meriti antropologici alla ricchezza documentaria delle opere letterarie.
La qualcosa, intendiamoci, può anche essere qualche volta giustificata,
ma in modo del tutto occasionale. Walter Benjamin descrivendo Parigi
capitale nella prima metà di quel secolo cita spesso Balzac o Hugo, ma
si serve principalmente di altre e più dirette fonti etnografiche, di saggistica varia, di guide turistiche, di giornali, di piccola cronaca. Balzac descrive le sfumature delle fodere dei divani dei salotti di Parigi. Ma ne
inventa di cose! Usare la letteratura privandola del suo carattere specifico di letteratura è come utilizzare un film di Pasolini per un’etnografia
su Roma. Pasolini inventa Roma, come Balzac Parigi. Il realismo è tanto
più realistico quanto più immagina i particolari. È un’ovvietà: la annoto
solo perché c’è un antropologo americano, Fernando Poyatos, che sulla
tesi della letteratura come documento etnografico è riuscito a scrivere
diversi articoli e un intero libro.1
Prima di lavorare su Balzac è necessario soffermarci, tuttavia, sul
termine romanzo. Balzac si dice “autore di opere impropriamente
dette romanzi”. Ma quali sono le opere propriamente dette romanzi?
Almeno da tre secoli ci si era più o meno intesi. ‘Più o meno’, perché
sperare in una definizione unitaria era e rimane inutile: ‘romanzo’ è
un ‘genere’ strano, assume di volta in volta il proprio significato e di
volta in volta produce le proprie regole. Come scriveva Maupassant:
“Il critico che… osi scrivere ‘questo è un romanzo’ e ‘questo non lo è’
mi sembra dotato di una perspicacia che è molto simile all’incompe1
Fernando Poyatos, Literary Anthropology, A New Interdisciplinary Approach to
People, Sings and Literatur, ed. John Benjamins Publishing Company, AmsterdamPhiladelphia, 1988).
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tenza”.2 E parlando di romanzi Maupassant parlava in fondo di poche
centinaia di volumi, partiva da Rabelais e Cervantes e arrivava a
L’assommoir. Oggi a quei due trecento romanzi se ne sono aggiunti
chissà quanti, da diversi continenti, da continenti sovrapposti, da patrie e
culture virtuali.
Ma ancora qualche decennio fa ci si sarebbe potuti ‘più o meno’ intendere se l’opera dello studioso russo Michail Bachtin non avesse
portato qualche scompiglio. Sui meriti di Bachtin, sull’interesse delle
sue lezioni linguistiche e sulla sua lettura antropologica del Rabelais,
penso non vi sia dubbio alcuno: su altri aspetti, ad esempio sulla sua
tesi secondo la quale il romanzo popolare sarebbe la fonte privilegiata
del romanzo moderno, anche se brevemente, c’è qualcosa di ridire. 3
Malgrado il suo fascino, è una tesi debole e l’origine di questa debolezza sta nel modo in cui Bachtin definisce l’opposizione epica vs romanzo. Mi rendo conto che Bachtin è uno degli autori più amati dalla
mia generazione e uno di quegli autori dei quali non si dovrebbe mai
parlare meno che bene. Ma tant’è! Mi è già capitato del resto, molti anni
fa di rendere merito alle sue tesi linguistiche.4 Cosa che ancora farei!
Provo a sintetizzare in poche righe quali sono a mio avviso i limiti
dell’opposizione epica vs romanzo e, quindi, della definizione bachtiniana di romanzo. L’epica (dal ciclo omerico ai poemi cavallereschi) è, secondo Bachtin, una visione unitaria del mondo, un discorso
totalizzante sull’identità, l’identità di un popolo, di un dato ordine
sociale. Un discorso chiuso, proiettato in un passato assoluto, formulato nello stile monologico dei vincitori. Del romanzo, invece, Bachtin non ci dà una definizione altrettanto chiara, il romanzo è definito sempre e solo al negativo, per quello che non è. Il romanzo non è
epica. E questa non definizione può esplodere in molte direzioni: il
2
G. de Maupassant, Il romanzo (Ètude sur le roman), in Pierre e Jean, Torino, Einaudi, 1971.
3
La questione è presente in tutta l’opera di Bachtin, ma si veda in particolare i saggi
contenuti in Estetica e Romanzo, Torino, Einaudi, 1979.
4
Alberto M. Sobrero, Michail Bachtin, dall'analisi del testo ad una antropologia
filosofica generale, in "Metamorfosi", n.7/1983.
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romanzo non parla di eroi, ma di gente comune; il suo tempo non è il
passato assoluto, ma il presente, o magari il passato, ma un passato
storico nel quale ci si può immaginare; il suo autore non è un cieco
analfabeta, ma si presenta con nome e cognome, dichiara la sua opinione, dialoga con i suoi personaggi e con i suoi lettori; il suo stile è
pluridiscorsivo, plurilinguistico. Il romanzo racconta di scelte e non
di destini. Il romanzo sta all’epica come la scoperta dell’altro sta al
ripiegarsi su se stessi: scava nella vita degli altri e magari dell’altro
che è in noi. Il romanzo, scrive Bachtin, è proprio di epoche che cercano di conoscere il mondo e non di celebrarlo.
Di recente Vargas Llosa ha scritto un saggio dal titolo: È possibile
il mondo moderno senza il romanzo? La risposta è ovvia, come è ovvia la risposta al simmetrico saggio del critico letterario Claudio Magris: È possibile il romanzo senza il mondo moderno? Le stesse retoriche domande potremmo rivolgerle per l’antropologia. E analoga
sarebbe la risposta. Il romanzo e l’antropologia nascono insieme, insieme fanno i primi passi, insieme nel Settecento criticano la società
in cui nascono, insieme danzano sul filo noi-altri, insieme guardano
incuriositi altri modi di vedere il mondo.5
Tutte affermazioni sulle quali si può essere d’accordo. Non siamo, del resto, molto lontani dalla teoria del romanzo abbozzata
nell’Estetica di Hegel e ripresa dal primo Lukács con la evidente differenza che mentre per Hegel e per Lukács il romanzo borghese come negazione dell’epica è anche e principalmente perdita, smarrimento e quindi tensione verso un rinnovato discorso sull’identità,
per Bachtin il valore innovativo del romanzo sta immediatamente
nell’esaltazione di questa negazione, in questa opposizione alle forme codificate dell’epica, nel superamento di una filosofia prerinascimentale che ancora postulava il senso del sacro.
Qui sta il punto. Per Bachtin si tratta di un’opposizione netta che
comporta una conseguenza evidente: il fatto che, a differenza di Lu5
Ambedue i testi nel primo volume, La cultura del romanzo, dell’opera in cinque
volumi Il romanzo curata da Franco Moretti, Einaudi, Torino, 2001.
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kács, non cogliendo pienamente la tensione unitaria al di là (ben al di
là) della fine dell’epica classica, Bachtin sia poi portato a schiacciare
tutta la sua analisi sul romanzo rinascimentale e settecentesco, su Cervantes, Rabelais, Grimmelhausen, o Quevedo, su Swift, Sterne, Diderot e Sade, su quel romanzo che in effetti privilegia la fuoriuscita dalle
regole e dalla monodiscorsività epica e che quasi si diverte a sbeffeggiare e parodiare i mondi dell’epica, che scopre la liberta di scrivere e
di inventare storie e linguaggi, la libertà di giocare a piacere con i segni. In quegli autori e in quei romanzi l’opposizione epica vs romanzo
può sembrare netta. Ma sarebbe stato più difficile a Bachtin confrontarsi con La Comédie humaine, con Bouvard e Pécuchet, o con tante
opere del secolo passato, con l’Ulisse, con Cent’anni di solitudine, con
Pastorale americana di Philip Roth, con Underworld di De Lillo. Difficile sarebbe stato in questi casi, come in tutto il grande romanzo moderno, non vedere come anche nei linguaggi più sperimentali e in storie di mondi ben più pluridiscorsivi del mondo settecentesco, si scriva
sullo sfondo di una qualche sensazione di cose ultime, non foss’altro
del rimpianto per come la storia non è andata, della nostalgia di una
qualche identità, magari persa, mancata, solo dubitata.
Anche Bachtin sembra riferire il suo ragionamento ad un universo
letterario piccolo, non molto più ampio di quello di Maupassant, e per
di più disegna questo universo in un momento di crisi e da una prospettiva (quella sovietica), che inevitabilmente attribuiva e temeva che
il romanzo, in opposizione all’epica (di regime), potesse avere (come
ebbe) potere liberatorio.
Con tutto ciò possiamo continuare a parlare di epica vs romanzo, o
meglio di concezione epica vs concezione romanzesca della vita, caricando l’opposizione di tutte quelle proprietà che Lukács e Bachtin vi
hanno visto, a patto di non cristallizzare questa opposizione in un
momento particolare della sua storia, a patto, anzi, di cogliere l’intrecciarsi continuo di questi due momenti, e anzi di intendere in questo
intrecciarsi l’aspetto più vivo della storia del romanzo (e della storia
dell’epica). Se si vuole una formula alquanto ovvia, potrei offrire la
seguente: un grande romanzo ha sempre una componente epica, come
una grande opera epica ha sempre una componente romanzesca.
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Di più: la grandezza di un genere si misura nella sfida all’altro.
Altro modo per dire che nella storia del romanzo lo stato di crisi non
è un’eccezione, ma è una condizione costante, con punte più o meno
profonde. Per questa via si possono avere nella storia della letteratura
molte sorprese, per esempio scoprire con Franco Moretti che l’epica
moderna nel suo tentativo disperato di comporre mondi incomponibili può essere molto più democratica e libertaria del romanzo. E si potrebbe usare la nozione di “opere mondo” anche in un senso leggermente più esteso rispetto a quanto non faccia Moretti, nel senso di opere che sotto l’una o l’altra forma tendono a ricostruire una visione unitaria del mondo: ci stringono dentro un cerchio già segnato, rendono il
presente già vissuto, ci sembrano scritte da sempre: le riconosciamo.
Opere che raccontano alla fin fine una sola storia, anche se è una storia
- e questo sì che la differenzia dell’epica classica - che non vorremmo
ascoltare, una storia entro la quale siamo immersi senza la possibilità
di capire, di vedere l’inizio e la fine, senza quella sicurezza del ritorno
che l’epica classica garantiva. Come ha scritto Moretti questo è il double bind dell’epica contemporanea: per un verso la tensione alla totalità, la tensione a trovare un senso generale delle cose, per altro verso la
sensazione di procedere sempre a vuoto. Per riempire quel vuoto ognuno prova la propria strada: Balzac scrivendo libri su libri, Bouvard
e Pécuchet leggendo libri su libri, Leopold Bloom rifiutandosi di ascoltare, Seymour Levov, l’eroe della Pastorale americana, rifiutandosi di vedere, Oskar Schell, il bambino newyorkese protagonista di
Molto forte e incredibilmente vicino, concependo invenzioni su invenzioni, fino a quella che permette di tornare indietro nel tempo, alla sera 10 settembre 2001, per chiedere al padre di non andare al lavoro la mattina dopo. C’è spesso in tutti questi tentativi un po’ di ironia, una sottile consapevolezza di non farcela. “Anziché congedare
la visione unitaria del mondo, l’ironia sembra la strategia ideale per
mantenerla in vita: è un formidabile meccanismo di difesa, che elude
il double bind della forma ereditata, e permette all’epica di sopravvi-
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vere nel mondo nuovo”.6 C’è ironia, o c’è disperazione come nel libro di Roth. Non c’è sorriso per quanto amaro che possa rendere ragione dei brandelli di mondo che precipitano addosso a Seymour Levov, ebreo benestante americano: lo Svedese, lo chiamavano, la razza
migliore degli americani, quelli che meglio e più facilmente diventano americani. Lo troviamo subito vecchio quando chiede a un amico
di scrivere la propria storia, una storia che non capisce. È sempre vissuto così senza voler mai vedere troppo: la famiglia, il basket, i successi amorosi... poi la figlia, la rivoluzione, il ’68, il Vietnam, Angela
Davis, il terrorismo, la bomba. Una figlia improvvisamente sconosciuta. Ma dove aveva sbagliato? “Tutto è contro di loro, tutto ciò e tutti
coloro che non apprezzano la loro vita. Tutte le voci che dall’esterno
condannano e ripudiano la loro vita! Ma cos’ha la loro vita che non
va? Cosa diavolo c’è di meno riprovevole della vita dei Levov?”.
2. Il grande romanzo della società
I francesi amavano leggere la storia che Balzac pubblicava a puntate. Era evidentemente la loro storia L’avranno forse letta con qualche
presa di distanza: spesso avranno pensato ‘non è di me che parla’, ma
‘di un mio vicino, di un mio conoscente’. Si dice che i tedeschi amino
fare un passo avanti e gli italiani un passo indietro: i francesi sono maestri evidentemente nel fare un passo di lato. Balzac ha scritto un’opera sola La Comédie humaine: o meglio tutto quello che ha scritto dal
1829 in poi doveva trovare posto in quella costruzione. Ne parla per
la prima volta in una lettera al suo editore del 1839, ma nello scritto
che premette alla prima edizione dell’opera (1842) scrive di averla
sognata, accarezzata, fantasticata da tredici anni e cioè da sempre o
per lo meno dal primo romanzo che aveva firmato con il suo vero
nome, Les Chouans. Ed è probabilmente vero, tanto che nella prefazione a Gars (Ragazzi), prima versione di Les Chouans, Balzac, par6
F. Moretti, Opere mondo, Einaudi, Torino, 1994.
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lando di quel libro come di una delle prime opere di uno sconosciuto
autore di provincia, Victor Morillon, scrive: “Quest’opera è, in un certo senso, solo una delle pietre dell’edificio che l’autore cercherà di elevare, se non si è ingannato sulla sua vocazione”.
Quando sia nato il romanzo è questione vecchia e probabilmente
poco sensata: il romanzo è rinato molte volte, ma forse l’ atto di nascita del romanzo post-illuminista sta proprio in questo passaggio da
Gars (1828) a Les Chouans (1829). Balzac, come aveva fatto fino ad
allora, aveva firmato Gars con uno pseudonimo Victor Morillon.
L’anno dopo in Les Chouans anche quest’ultimo artificio della precedente età del romanzo cade; ora non si pubblica un manoscritto ritrovato: Les Chouans è firmato per la prima volta Honoré Balzac. Per
altro il romanzo balzachiano nasce subito come genere incompiuto:
Gars-Les Chouans doveva essere il primo atto di un ciclo di romanzi
sulla storia della Francia: Histoire de France Pittoresque. Romanzi
storici, sulle tracce di Waler Scott, o meglio di un Walter Scott, come
vedremo, subito rovesciato. 7
Ma presto l’idea della storia di Francia per romanzi verrà decisamente abbandonata. Dalla storia della Francia si passa alla storia dell’umanità per romanzi: che poi l’umanità fosse per Balzac l’umanità
di Parigi più – ad una certa distanza – la popolazione francese che
non aveva avuto la fortuna di nascere a Parigi, è altro discorso. Era
un mondo che incalzava, esperienze che si potevano osservare da vicino e descrivere “nell’immensa verità dei dettagli”.
“L’autore – scrive nella prefazione alla prima edizione di Scène
de la vie privée (1830) – crede fermamente che solo i dettagli costituiscono ormai il pregio delle opere impropriamente dette Romanzi
7
La bibliografia balzachiana è talmente ampia che non vale la pena neanche accennarne. Utilizzo qui principalmente la biografia famosa di André Maurois, Prométhée
ou la vie de Balzac, Editions Laffont, Paris 1993 (1974). Le opere di Balzac in italiano spesso non riportano le preziosissime prefazioni balzachiane. Queste prefazioni sono state finalmente raccolte e annotate da Daniela Schenardi in: Honoré de Balzac, Poetica del romanzo, Sansoni, 2000. In linea di massima leggo la traduzione
delle opere di Balzac in I capolavori della Commedia umana, voll. I –VI, edizione
Casini, 1958-1960.
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(corsivo di Balzac)”.
Balzac pensa ormai ad un’opera del tutto originale e grandiosa:
qualcosa, appunto, come descrivere il mondo per dettagli. Il meno
che può fare – ancora nella Prefazione a Gars – è chiedere “umilmente al lettore di sospendere il suo giudizio almeno fino a quando
un primo ordine di pietre sia riuscito a dare l’idea dell’edificio intero”. Uno studio per romanzi dell’umanità francese contemporanea,
uno studio che fosse anche sociologico, psicologico, filosofico e culturale (Les Ètudes des moeurs ), ben prima che queste parole fossero
d’uso comune.
Il 1829 è l’anno del successo! La Physiologie du mariage fa scandalo (“Il matrimonio non deriva dalla natura… il matrimonio è una
sorta di guerra civile”), vende e fa discutere la Francia intera (“Di
tutte le scienze umane quella del matrimonio era la meno avanzata…
Queste migliaia di libri sono state divorate…non tutti hanno la cravatta.. mentre tutti si sposano almeno un po!”): poi Scènes de la vie
privée e nel ’31 La Peau de Chagrin.
Mentre i critici classicisti si scatenavano individuando nel feuilleton la crisi del romanzo (ma non era la prima volta) e anzi la fine di
ogni arte letteraria, puntata dopo puntata, romanzo dopo romanzo,
l’opera di Balzac comincia a comporsi. Balzac progetta volumi su
volumi:
“In tre anni, dal dicembre del 1833 al dicembre 1836, l’autore avrà pubblicato i dodici volumi che compongono le prime tre parti delle Ètudes des
moeurs au dix-neuvième siècle. È probabile che le altre tre parti, le Scène de
vie politique, le Scène de vie militare e le Scène de vie de campagne, non richiederanno un maggior lasso di tempo…” (Prefazione alla prima edizione
delle Illusioni perdute, 1837).
Superata l’idea de Histoire de France Pittoresque, tutto ciò doveva essere compreso sotto il titolo di Études sociales, titolo che forse
più di ogni altro corrispondeva a quel che Balzac aveva in mente:
“Qui infatti ogni romanzo non rappresenta che uno dei capitoli del grande romanzo della società. I personaggi di ogni storia si muovono in una sfera circoscritta da limiti che sono quelli della società stessa. Quando uno di
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questi personaggi viene fermato nel mezzo della sua carriera come Rastignac nel Père Goriot, è perché voi dovete ritrovarlo in Profil de marquise,
nell’Interdiction, nella Haute Banque…. Questa osservazione si applica a
quasi tutti i personaggi che compaiono in questa lunga storia della società:
…e non ce ne saranno meno di un migliaio in quest’opera che, a prima vista
sarà di venticinque volumi…” (Prefazione alla prima edizione delle Illusioni perdute, 1837).
Gli ‘studi’ nascono l’uno dall’altro per autofecondazione, per
simmetria, per opposizione, perché le storie continuano, perché si
contraddicono, perché si intrecciano: a Louis Lambert, il ritratto
dell’uomo di genio, doveva far riscontro Le Crétin; Illusions perdues
(Un grand homme de province à Paris) doveva ribaltarsi nella storia
di Un grand homme de Paris en province… E così di seguito, in un
quadro che aveva una sua logica, una logica simile a quella della vita
“illustrata di recente dal grande Goethe”, una logica autopoietica che
pretendeva la pazienza degli zoografi.
Non c’è che un principio vitale, non c’è che un mondo, non c’è
che una pianta, un animale, un uomo. Il mondo è un mosaico i cui
pezzi simili si incastrano diversamente a formare i disegni della vita
delle piante, degli animali, degli uomini, ma anche situazioni, relazioni, storie, per processi di adattamento, repulsione, attrazione (“la
bella legge, scrive Balzac – del sé per sé, sulla quale si basa l’unità di
composizione”).
“Il creatore si è valso di un solo e unico modello per tutti gli esseri organizzati. L’animale è un principio che assume la sua forma esteriore, o per esprimersi in modo più appropriato i caratteri specifici della sua forma negli
ambiti nei quali è chiamato a evolversi… Convinto di questa teoria ben
prima dei dibattiti a cui essa ha dato vita osservai che sotto questo aspetto la
Società somiglia alla Natura. La Società non fa forse dell’uomo a seconda
degli ambienti nei quali la sua azione si dispiega tanti uomini differenti
quante sono le specie nella zoologia? Le differenze fra un soldato, un operaio, un amministratore, un avvocato, un ozioso… sono altrettanto degne di
considerazione di quelle che distinguono il lupo, il leone, l’asino etc....”.
Con la differenza che
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“Quando Buffon descriveva il leone, esauriva la leonessa in poche frasi,
mentre nella società la donna non sempre si limita ad essere la femmina del
maschio… Tra gli animali, poi, si creano poche situazioni drammatiche, la
confusione non vi gioca alcun ruolo…” (Prefazione alla Comédie humaine,
1842).
Dopo il ’39, sulla falsariga dantesca, Études sociales diventa, un
po’ per opportunità editoriali, molto per ragioni intrinseche, La Comédie humaine. La commedia dell’umanità, una descrizione che testimoni la condizione dell’umanità ai suoi tempi, un poema epico
grandioso, una costruzione prometeica. Poco importa che i critici del
nuovo romanzo condannino le sue descrizioni troppo minute, la sua
etnografia, diremmo oggi, troppo pedante:
“L’autore si è spesso sentito rimproverare alcune descrizioni; ma i suoi
critici non capiscono che questo supposto difetto deriva da una eccessiva
ambizione: egli vuole raffigurare il paese, mentre ne raffigura gli uomini,
raccontare le più belle località e le principali città della Francia… Grazie a
questa sua attenzione forse si potrà sapere nel 1850 com’era la Parigi
dell’Impero. Grazie a lui gli archeologi conosceranno la condizione del
tourniquet Saint-Jean e lo stato del quartiere adiacente, oggi completamente
demolito. Lo stesso farà per certi angoli di provincia, per certi dettagli della
vita militare… Che ricchezza sarebbe per noi se qualche autore romano avesse avuto il coraggio di incorrere nelle critiche che lo avrebbero certamente condannato perché raccontava la vita romana ai romani realizzando
degli studi di costume sul primo secolo dell’era cristiana, e raccontando i
mille dettagli…” (Prefazione alla prima edizione di Une fille d’Ève, 1839)
E più andava avanti e più si accorgeva dell’enormità dell’impresa.
Ma non era una questione di volumi e di personaggi. Il fatto è che
non solo rispetto ai personaggi della natura i personaggi dell’umanità
di moltiplicano, perché appunto per sua natura la donna non è solo la
femmina dell’uomo, e un ladro può essere in altre condizioni un gentiluomo, un eroe, un gesuita e una fortuna rivelarsi una disgrazia, e
un amore convertirsi in odio, ma il fatto più rilevante è che nella storia si era dato qualcosa di nuovo che complicava veramente la situazione. Era successo che l’uguaglianza prodotta dal caos della rivoluzione e del primo impero aveva generato nuova confusione:
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“In passato tutto era semplificato dalle istituzioni monarchiche. I caratteri erano ben distinti: un borghese mercante o artigiano, un nobile del tutto
libero, un contadino schiavo. Era questa la società dell’Europa di un tempo;
contribuiva in modo esiguo agli avvenimenti di un romanzo. Pensate a ciò
che fu il romanzo fino al regno di Luigi XV. Oggi l’uguaglianza genera
sfumature infinite in Francia. Prima la casta conferiva a ciascuno una fisionomia che dominava l’individuo; oggi l’individuo prende la sua fisionomia
solo da se stesso. Le società non hanno più nulla di caratteristico: non ci sono più né costumi, né vessilli; non c’è più nulla da conquistare, il terreno
sociale è di tutti; l’unico tratto distintivo rimasto è nelle professioni, l’unica
comicità nelle abitudini” (Prefazione alla prima edizione di Une fille d’Ève,
1839).
Per questo la Francia diventava per Balzac la patria naturale del
nuovo romanzo: perché in Francia i sentimenti e i diversi personaggi
che vivono in ogni uomo possono esporsi liberamente, ma per questo
“se pensare un romanzo è cosa facilissima, scriverlo è poi cosa difficilissima”. I personaggi di quel grande unico romanzo non solo sono
tanti, ma possono cambiare da romanzo a romanzo, e nel corso di
uno stesso romanzo, possono rivelarsi per quel che non sono, possono mutare i loro sentimenti, perché così vanno le cose nella vita di
Parigi:
“In un salotto incontrate un uomo perso di vista dieci anni prima: è primo ministro, o capitalista. Voi l’avete conosciuto senza redingote, senza
spirito nella sfera pubblica o privata… Non c’è nulla in questo mondo che
sia tutto d’un pezzo: tutto è mosaico…” (Prefazione alla prima edizione di
Une fille d’Ève, 1839).
Il territorio di questa confusione è Parigi, la città “dove tutto accade”, “la città dei centomila romanzi”8. Parigi è il grande teatro di
Balzac e di tutti i suoi personaggi. Il romanzo moderno non sarebbe
mai nato senza la rivoluzione borghese e la rivoluzione si è fatta a
Parigi. Le descrizioni di Parigi sono tanto ricorrenti in Balzac che si
8
H. de Balzac, Storia dei tredici, in I capolavori della Commedia umana, cit, vol.
VI, p. 302.
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può aprire a caso una qualunque delle sue opere: da Parigi si scappa,
a Parigi si va per conquistarla, per sfidarla (“Rastignac… vide Parigi
tortuosamente distesa lungo le rive della Senna… – E ora a noi
due!”), ma anche se vinti la si continua ad amare. La descrizione balzachiana più famosa di Parigi è forse quella che apre La storia dei
Tredici, le visioni più incantate le troviamo nelle Illusioni perdute:
“Questa è la città degli scrittori, dei pensatori e dei poeti. Qui solamente
si coltiva la gloria e io conosco le belle messi che essa oggi produce... Infine
a Parigi c’è nell’aria e nelle più piccole cose un’essenza che si respira e che
si imprime nelle creazioni letterarie. Si apprendono più cose conversando
mezz’ora al caffè o al teatro di quante non se ne apprendano in dieci anni in
provincia. Qui veramente tutto è spettacolo, confronto e istruzione. Un eccessivo buon mercato, una eccessiva costosità; ecco Parigi; la città dove ogni ape trova la sua cella, dove ogni anima assimila ciò che gli è proprio. Se
dunque in questo momento io soffro non mi pento di nulla… Addio mia cara sorella, non aspettarti di ricevere regolarmente mie lettere: una delle particolarità di Parigi è che il tempo passa senza che ci si accorga…”9.
Eccola la differenza con Walter Scott! Proprio nelle Illusioni perdute il giovane poeta Daniel d’Arthez l’ha spiegata a Lucien Rubempré: Walter Scott non aveva a disposizione il teatro della città, le situazioni che cambiano, i personaggi che possono indossare mille maschere. Il suo mondo sono le taverne, la foresta, i castelli, luoghi senza storia viva: i suoi personaggi sono immortali, ma statici, senza
passioni, sempre uguali a se stessi. Per questo i suoi romanzi possono
cominciare con lunghi dialoghi e solo dopo arriva l’azione.
“Rovesciate i termini del problema. Sostituite quei lunghi dialoghi, che
sono magnifici in Scott ma senza colore nella vostra opera, con le descrizioni
alle quali si presta tanto bene la nostra lingua. Entrate subito nell’azione. Affrontate l’argomento ora di traverso, ora prendendolo per la coda; insomma
variate il disegno dell’opera in modo da non essere mai lo stesso. In tal modo
farete qualcosa di nuovo pur adattando alla storia di Francia la formula del
dramma dialogato dello scozzese. Walter Scott è senza passioni, le ignora o
9
H. de Balzac, Illusioni perdute, Garzanti, 1966, p. 183.
I quaderni del Cream, 2005, IV
17
forse gli erano interdette dai costumi ipocriti del suo paese…”. 10
Descrivere il mondo per particolari! Un’opera senza fine, perché
per dirla con Séraphita, nell’omonimo romanzo, il mondo umano
procede non per linee rette, come il mondo metafisico, ma per linee
curve: perché, detto in altri termini, si tratta appunto della Commedia
umana e non della Divina Commedia.
“L’autore dichiara qui il suo rispetto per i grandi geni impegnati a estendere i confini della scienza umana; egli adora la linea retta, ma ama ancora, sfortunatamente un po’ troppo la linea curva; si inchina, tuttavia, davanti alle glorie della matematica e ai miracoli della chimica, egli crede, se si ammette
l’esistenza di Mondi Spirituali, che i più bei teoremi non vi siano di alcuna
utilità, che tutti i calcoli del finito siano sorpassati dall’infinito, che, dovendo
essere l’infinito, come Dio, uguale a se stesso in tutte le sue parti, la questione
dell’uguaglianza del cerchio e del quadrato deve esservi risolta e che tale eventualità dovrebbe ispirare ai geometri l’amore per il cielo”. 11
Il modello balzachiano è quello unificante di Buffon, di Cuvier:
l’unità del mondo, del comportamento della natura e del comportamento dell’uomo. Di più: i confini della scienza vanno estesi al di là
del nostro mondo verso una dimensione dove la quadratura del cerchio non pone problemi e dove le linee rette non si distinguano dalle
linee curve. Il tout se tient di Balzac non ha un Dio che lo governi
(Balzac non era religioso se non per ragioni moraleggianti e strumentali), ma Balzac amava pensare che quella totalità fosse dotata di un
qualche senso, rispondesse ad una legge del sé per sé ancora più serrata. Era affascinato dal pensiero mistico e in particolare per il pensiero del mistico svedese Emmanuel de Swedenborg che nel Settecento aveva predicato la possibilità di percepire “la divina commedia”, l’assoluto, le leggi nascoste che ordinano l’universo in un solo
atto. Il miracolo delle scienze della natura lascia intravedere qualcosa
di quel mondo, ma la nostra commedia umana, “malgrado molti si
10
11
Idem, p. 203.
H. de Balzac, Séraphita, in I capolavori della Commedia umana, vol. VI, p. 150.
I quaderni del Cream, 2005, IV
18
facciano avanti in difesa delle Sante Scienze dell’Uomo (corsivo nostro)”, appare regolata da leggi troppo profonde, troppo mutevoli: le
scienze dell’uomo faticano a costruire la geometria della società, a
incastrare le parti, a trovarne una logica.
3. “Non sarà più letteratura, ma statistica o etnografia”
In questa prospettiva la letteratura occupa per Balzac un posto
centrale: per un verso indaga sul mondo, comprende in sé le scienze
dell’uomo, procede per linee curve, cerca di vedere l’ordine dell’agire, per altro verso, per la sua natura poetica (Balzac amava definirsi un poeta), può evocare il mondo delle linee rette. Per un verso
queste opere “impropriamente” dette romanzi, sono piuttosto studi di
casi particolari. Raramente Balzac usa il termine romanzo (racconto
romanzesco), molto spesso usa il termine ‘studio’: “Lo scopo di questo STUDIO (i caratteri maiuscoli sono di Balzac)… è di mettere in
rilievo le principali figure di un popolo dimenticato da tante penne in
caccia di nuovi soggetti…”.12 Studi che fanno proprio il metodo delle
scienze della natura, isolano, descrivono, raccordano, in modo tale
che spesso dal dato, dal dettaglio, dalla descrizione, nasca quasi
spontaneamente la trama. D’altro canto, lo scrittore di genio, Victor
Morillon, o Louis Lambert protagonista dell’omonimo romanzo (tutte controfigure dello stesso Balzac), hanno la straordinaria capacità
(l’uomo interiore di Emmanuel de Swedenborg) di evocare mondi
segreti, invisibili ai comuni lettori:
“La conversazione cambiò e il giovane (Morillon) si mostrò particolarmente versato nella conoscenza delle lingue morte e soprattutto di quelle orientali: parlava l’ebraico perfettamente, ma specialmente esprimeva molte
sottili osservazioni da moralista su uomini che assicurava di non aver mai frequentato, e rilevò una conoscenza rara dei segreti della bellezza di donne che
mai aveva visto... Parlava come se possedesse la facoltà di osservarsi da solo
12
Prologo a I contadini, in I capolavori della Commedia umana, cit, vol.IV, p. 221.
I quaderni del Cream, 2005, IV
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a distanza, serio e spensierato, euforico e allegro, insomma era se stesso, simile ai rovi che lo circondavano” (Prefazione a Gars, 1828).
La letteratura è essa stessa scienza sociale, anzi è la scienza sociale per eccellenza perché contiene tutte le scienze sociali e principalmente perché ha la possibilità (e in ciò la letteratura è un arte) di evocare quell’unità del mondo, quel senso ultimo delle cose che a volte, per altra strada, ci fanno intuire le scienze esatte, la geometria e la
chimica. Ma anche la musica e la pittura “Leggete quanto ha scritto il
vostro amato berlinese Hoffmann su Gluck, Mozart, Haydn e Beethoven, e vedrete quali leggi segrete uniscono la letteratura, la musica e la pittura”13. La letteratura, la musica e la geometria appartengono per Balzac ad una stessa cultura, ad una stessa tensione verso
l’unità per vie diverse.
Questo è il posto della letteratura, princeps fra le scienze dell’uomo, scienza e arte al tempo stesso, punto di raccordo fra scienza
e arte. E in quanto scienza deve avere un metodo e questo non può
che essere analogo al metodo delle scienze della natura: l’osservazione e la descrizione, innanzi tutto.
“Molti uomini non comuni sono dotati di capacità di osservazione senza
però possedere quella di dare forma viva ai loro pensieri, allo stesso modo,
altri scrittori hanno avuto in dono uno stile meraviglioso ma non sono guidati
da quel genio sagace e curioso che vede e registra ogni cosa. Da queste due
disposizioni intellettuali derivano, in un certo senso, un modo di vedere e di
sentire letterari. Il primo passo è dunque l’osservazione: il romanziere sarà
pure un suonatore ambulante, ma un suonatore ambulante curioso e sagace
che conosce i segreti e le nozioni scientifiche dei grandi violinisti: e le nozioni
sono gli uomini e le cose, sono gli usi nelle loro mode più effimere, la lingua
con un neologismo per ogni avvenimento, i mobili, l’architettura, le leggi che
cambiano, le usanze, bisogna insomma, per un’opera anche mediocre, avere
incredibilmente letto, studiato, riflettuto” (Prefazione a Gars, 1828).
Balzac si recava a fare sopraluoghi nei posti che avrebbe descrit13
Lettera a Schlesinger, 1837, in Honoré de Balzac, Poetica del romanzo, op. cit., p.
336.
I quaderni del Cream, 2005, IV
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to, passava intere giornate a passeggiare per Parigi, prendeva appunti, entrava nelle case, intratteneva corrispondenza con chi avesse familiarità con i luoghi che doveva descrivere, ascoltava parlare la gente, annotava il gergo di questa o di quella parte della popolazione,
delle donne, dei militari, dei commercianti, del popolo minuto, dei
criminali14.
E il secondo passo è la descrizione: la capacità di dare forma viva
alla realtà. Balzac è un osservatore minuto, ma per altro verso, hanno
ragione tutti coloro che hanno visto in Balzac tutto tranne che un esponente del primo realismo, a cominciare da Baudelaire:
“... mi è sempre sembrato che il suo principale merito fosse di essere un
visionario e un visionario appassionato. Tutti i suoi personaggi sono dotati
dello stesso ardore vitale di cui anch’egli era animato. Tutte le sue finzioni
sono tanto profondamente colorate come lo sono i sogni. Dai vertici dell’aristocrazia fino ai bassi fondi della plebe, tutti gli attori della Commedia
sono ben più attaccati alla vita, più attivi e impegnati nella lotta… di quanto
non ci mostri la vera commedia del mondo. In breve, ciascuno in Balzac,
anche i portieri, ha del genio. Tutte le anime sono delle anime cariche di volontà fino alla gola. C’est bien Balzac lui-même…”. 15
Ma questo realismo visionario ha un metodo. Obbligato dai suoi
committenti, Balzac lavorava a scadenze fisse, spesso iniziando una
storia della quale non sospettava minimamente non solo gli esiti, ma
neanche i passaggi più prossimi, o altre volte abbozzando una storia
nei suoi termini più generici ripromettendosi poi di riempirla. Di
questi abbozzi ne sono rimasti molti esempi: André Maurois nel suo
Prométhée ou la vie de Balzac, ne ricorda alcuni: Una giovane ragazza povera vuole catturare un marito facendo sfoggio di grande
ricchezza, e finendo per sposare un povero diavolo che ha fatto come
lei… Una giovane ragazza sbagliandosi sulle premure di un uomo se
ne crede amata. Non essendolo, lo odia e allora la ama… Sul tavolo
14
Alfredo Niceforo, Il gergo dei criminali e altri speciali o bassi linguaggi nell’arte
narrativa e in specie nella Commedia Umana di Honoré de Balzac, Napoli, 1957.
15
Charles Baudelaire, L’Art romantique, Garnier, Paris, 1962, p. 678.
I quaderni del Cream, 2005, IV
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del suo laboratorio le idee arrivavano dai posti diversi: dalla cronaca,
dalla storia recente, dal sentito dire, dall’ osservazione, dalle sue letture, dalle sue idee filosofiche. Per lo più Balzac non nasconde le sue
fonti e in genere l’opera di Balzac non presenta nei contenuti particolare originalità: la sua prima ispirazione è la quotidianità parigina.
Gli incipit dei romanzi sono incredibilmente simili. Un inizio fra i
più ricorrenti è quello che colloca il personaggio in questo o quell’anno in questa o quella zona della Francia. Prendo i romanzi compresi in un volume che ho sul tavolo da lavoro, il terzo volume delle
opere complete di Balzac nell’edizione italiana di Casini: “Verso le
tre del pomeriggio del mese d’ottobre del 1944, un uomo di circa
sessant’anni... se ne andava lungo il Boulevard des Italiens” (Il cugino Pons); “Nel 1836, una bella sera del mese di settembre, un uomo
di circa trent’anni stava appoggiato al parapetto della riva da cui si
può vedere a monte la Senna…” (Il rovescio della storia contemporanea); “Al principio dell’autunno 1826, l’abate Birotteau, principale
personaggio di questa storia, fu sorpreso da un acquazzone mentre
tornava a casa…” (Il curato di Tours).
Il fatto è che poi questo materiale grezzo, un’idea elementare, un
inizio di maniera, viene posto sotto gli strumenti dello scrittore: una
lente che permette di vedere molto da vicino, quasi dall’interno, e una
che permette di vedere molto da lontano, quasi dall’esterno. E allora le
storie si addensano di particolari, di dettagli, ma così facendo si moltiplicano, si incastrano, o, per altro verso, si accostano, si semplificano,
si rivelano simili ad altre storie, diventano variabili di altre vicende; i
fatti si comportano più o meno come accade negli esperimenti delle
scienze della natura. L’abilità sta quasi nel tenere dietro agli eventi:
“l’autore qui non desidera essere altro che il più umile dei copisti” (Preambolo alle prime edizioni di Eugénie Grandet).
Si capisce meglio la sterminata produzione di Balzac. Si metteva
a letto alle sei della sera, dormiva fino a mezzanotte, si faceva svegliare per scrivere dodici, quindici ore consecutive. Scriveva tre,
quattro libri contemporaneamente. Impiegò venti giorni per scrivere
la prima parte di quello che è forse il suo capolavoro, Le illusioni
perdute. E principalmente si capisce meglio quel suo comporre e
I quaderni del Cream, 2005, IV
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scomporre, mettere insieme in raccolte, curare nuove edizioni, disporre in altro modo, modificare, immaginare romanzi che non avrà
mai il tempo di scrivere. Lo portavano a scrivere mille ragioni:
c’erano i debiti, le imprese fallite, c’era l’ambizione, l’amore, c’era
quel sogno vicino alla follia di poter racchiudere il mondo in un libro: “La prima idea della Comédie humaine fu per me all’inizio come un sogno, come uno di quei progetti impossibili…” (Prefazione
alla Comédie humaine, 1842).
Ma quel moltiplicare l’osservazione e la scrittura era in primo
luogo un’istanza di metodo: l’idea che, come nelle scienze della natura, accumulando fatti, approfondendo l’osservazione si potesse
giungere a ordinare e quasi a prevedere. Balzac aveva fatta sua quella
teoria dei tipi di cui si era già servita la scienza della natura del secolo precedente.
“Un tipo nel significato che si deve attribuire a questa parola è un personaggio che riassume in sé i tratti caratteristici di tutti coloro che più o meno
gli somigliano, è il modello di quel genere. Si troveranno perciò dei punti di
contatto tra quel tipo e molti personaggi del tempo presente; ma fate che egli sia proprio uno di quei personaggi, e l’autore sarebbe condannato, perché l’attore non sarebbe più una sua invenzione” (Prefazione a Une ténébreuse affaire, 1843).
E ancora nella Prefazione alla Commedia, quando non si tratterà
più di fare i conti con poche centinaia di figure come nei primi romanzi.
“Non era un compito da poco ritrarre le due o tremila figure salienti, visto che è questa in definitiva la somma dei tipi che ogni generazione offre e
che la Comédie humaine comporterà… Questo gran numero di figure, di
caratteri, questa moltitudine di esistenze richiedevano delle cornici e, mi si
perdoni l’espressione, delle gallerie… Non solo gli uomini, ma anche i
principali avvenimenti della vita, si esprimono attraverso tipi. Ci sono certe
situazioni che si ripresentano in tutte le esistenze, delle fasi tipiche, ed è
questa una delle coincidenze che ho maggiormente ricercato” (Prefazione
alla Comédie humaine, 1842).
E questi tipi andranno a loro volta ordinati in classi superiori,
I quaderni del Cream, 2005, IV
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mettendo in evidenza ciò che hanno in comune e ciò che li distingue,
in modo da spiegare, secondo Balzac, molta parte della fisiologia sociale. È un metodo sociologico che richiama subito alla mente tanta
parte della sociologia francese nella direzione di Comte per finire
con Emile Durkheim (evidentemente buon lettore di Balzac). Ed è un
metodo che Balzac usa continuamente nel suo lavoro. Ad esempio
(visto che abbiamo introdotto Durkheim) quando parla di un fenomeno sul quale ha a lungo riflettuto: il suicidio. Siamo alla fine delle
Illusioni perdute Lucien, vinto da Parigi, è disperato e sulla strada
del ritorno medita il suicidio:
“È stato scritto assai poco sul suicidio; poco in relazione alla gravità
dell’argomento. Forse è una malattia che sfugge all’osservazione… Vi sono
suicidi di tre specie; innanzi tutto il suicidio che è l’ultimo eccesso di una
lunga malattia e che rientra senz’altro nel campo della patologia; poi il suicidio per disperazione, e infine il suicidio per ragionamento. Luciano voleva
uccidersi per disperazione e per ragionamento, i due tipi di suicidio sui quali
si può cambiare idea perché solo il suicidio patologico è irrevocabile; ma
spesso le tre cause si trovano riunite…”16.
Questa sul suicidio era una tipologia alla quale Balzac era giunto
studiando le reazioni di molti dei suoi personaggi di fronte alla disperazione ed un’immagine con la quale aveva fatto probabilmente i
conti in molti momenti della sua vita: “I poeti, loro, non si ribellano!
Muoiono in silenzio. Innalzate dunque un altare al suicidio, invece di
condannarlo e incidetevi sopra: Diis ignotis”.
La tipologia più nota è comunque quella che distingue la popolazione parigina in cinque classi sociali, quella che fece dire ad Engels:
“Ho appreso più da Balzac che da tutti i libri di storia, di economia e
di esperti del lavoro riuniti insieme”
Siamo nell’ultima parte de La storia dei Tredici:
“Esaminiamo per prima la categoria degli indigenti. L’operaio, il proletariato, colui che per vivere deve muovere piedi e mani, lingua e schiena,
16
H. de Balzac, Illusioni perdute, cit. p. 605.
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braccia e dita; colui che dovrebbe economizzare le proprie forze vitali, non
fa invece che logorarle, aggioga la moglie a qualche macchina, sfibra i figlioli inchiodando anch’essi a qualche meccanismo… Comprendendovi coloro che tendono la mano per l’elemosina, per il legittimo salario o per cinque franchi di tariffa delle prostitute… questo popolo è formato da trecentomila persone… Saliamo di un piano e andiamo al magazzino… entriamo
insomma fra la gente che possiede qualcosa… I commercianti all’ingrosso, i
loro figlioli, i galantuomini, gli impiegati della piccola banca, i furbi, le anime dannate, i commessi, gli scrivani di notai. Ed eccoci giunti al terzo girone di questo inferno, che prima o poi troverà il suo Dante… la folla di avvocati, medici, notai, procuratori, affaristi, banchieri… Al di sopra di questa
sfera vive il mondo degli artisti… Stremati dalla necessità di produrre, sorpassati dai loro costosi capricci, stanchi per il morso divoratore del genio,
avidi di piaceri… Ma entriamo nei grandi saloni aerati e dorati, nei palazzi
con giardino, nel mondo ricco, ozioso, felice, che vive di rendita. Qui i volti
sono intrisi e corrosi dalla vanità…”17.
Ma questo non basta: seguendo il metodo delle scienze della natura si sarebbe dei buoni pittori, dei grandi esecutori, degli ottimi storici, e bisogna essere anche questo, ma l’autore di romanzi deve avere
in sé per Balzac qualcosa di più: bisogna:
“Avere in sé un non so quale specchio concentrico in cui seguendo la
sua fantasia, l’universo viene a riflettersi… un fenomeno morale, inspiegabile, inaudito, del quale la scienza difficilmente può dare spiegazione. Si
tratta di una specie di seconda vista (corsivo nostro) che permette di cogliere la verità in tutte le possibili situazioni; o meglio ancora un’inspiegabile
forza che li trasporta là dove devono, dove vogliono essere. Inventano il vero per analogia (corsivo di Balzac), o vedono l’oggetto da descrivere, sia
che l’oggetto venga a loro, sia che loro stessi vadano verso l’oggetto… Così
quel tale scrittore (Balzac parla di sé) è riuscito a ritrarre meravigliosamente
il deserto, le sue dune, i suoi miraggi e le sue palme, senza essere andato da
Dan al Sahara”. (Prefazione alla prima edizione della Peau de Chagrin, 1831)
17
H. de Balzac, Storia dei tredici, in I capolavori della Commedia umana, cit,
vol.VI, p. 536.
I quaderni del Cream, 2005, IV
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Inventare il vero per analogia. Conosciuta Parigi, si può descrivere New York senza averla mai vista e forse anticipando quel che
saranno molte città da lì a pochi decenni, in una pagina che quasi
cent’anni dopo avremmo potuto leggere in George Simmel:
“New York, paese dove la speculazione e l’individualismo sono spinti al
massimo grado; dove la brutalità degli interessi giunge al cinismo; dove
l’uomo sostanzialmente isolato, si vede costretto a procedere fidando soltanto nella sua forza e a farsi ad ogni momento giudice della propria causa; dove la cortesia non esiste…” .18
“Non sa il lettore quanta fatica costi all’autore scrivere un romanzo”. Inventare, ma con metodo e con fatica: “Egli è avaro, oppure capace di concepire temporaneamente l’avarizia allorché traccia il ritratto di Laird di
Dumbiedikes. È criminale, concepisce il crimine, oppure lo invoca e lo contempla, allorché scrive Lara” (Prefazione alla prima edizione della Peau de
Chagrin, 1831).
Ci vuole metodo, studio, capacità di osservazione, esperienza, accumulare dati su dati, dettagli su dettagli, “con rigorosa precisione”
per riuscire ad entrare “temporaneamente” nella testa altrui.
Le Curé de Tours non è certo uno dei romanzi più felici di Balzac, ma è qui che in pagine giustamente famose Balzac (per primo?)
utilizza una tecnica più volte ripresa nella letteratura successiva: far
dire ai personaggi frasi di maniera, frasi di poco conto, svelando al
tempo stesso fra parentesi (in questo caso) il loro vero pensiero.
“Qualche disegnatore si è divertito a rappresentare in caricatura il
contrasto frequente che esiste fra quello che si dice e quello che si
pensa. Qui per ben cogliere l’interesse del duello di parole che avvenne fra il prete e la gentildonna…”. Vederli dialogare dall’esterno,
ma essere capaci di entrare nella testa dell’uno e dell’altro per cogliere l’altro dialogo silenzioso. E la possibilità di passare dall’uno
all’altro piano si appoggia sull’osservazione di piccolissimi dettagli,
per lo più giochi di sguardo, toni della voce, indecisioni compromet18
H. de Balzac, Il Colonnello Bridau, Mondatori, Milano, 1970, p. 65.
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tenti, che tradiscono le parole dette. Piccole cose che diventano significative per quel che Balzac chiamava “la seconda vista”.
“Il male è fatto, signora – disse l’abate con voce grave – la virtuosa signorina Gamard è in punto di morte (Non mi interesso a quella sciocca più
che non mi interessi al prete Gianni, pensava, ma vorrei proprio addossarvi
la sua morte…)”. “Avendo saputo della sua malattia, signore – gli rispose la
baronessa – ho voluto che il Vicario desistesse dal processo e venivo a portarne il documento a quella santa ragazza (T’indovino, astuto briccone!... ti
infilzerai da te…)”.
Ci fu un momento di silenzio. “Gli affari temporali della signorina Gamard non mi riguardano – disse finalmente il prete abbassando
le larghe palpebre sui suoi occhi d’aquila per velare le sue emozioni
– (Oh! Oh! Non riuscirete a compromettermi…)”.19
Lasciamo che a tirare le somme sia Flaubert. Dopo avere studiato
agricoltura, chimica, medicina, astronomia, geologia e storia, finalmente Bouvard e Pécuchet arrivano alla letteratura:
“Senza l’immaginazione la storia è lacunosa. Per cominciare lessero Walter Scott… L’opera di Balzac li meravigliò, come se fosse al tempo stesso una
Babilonia e grani di polvere posti sotto il microscopio. Dalle cose più banali
emergevano aspetti sconosciuti. Non avevano mai sospettato che la vita moderna fosse tanto profonda. ‘Che osservatore!’ esclamava Bouvard. ‘Io lo trovo un visionario, finì per dire Pécuchet. Crede alle scienze occulte, alla monarchia, alla nobiltà, è abbagliato dai furfanti, maneggia i milioni come fossero centesimi. E i suoi borghesi non sono borghesi, ma colossi… Ne avremo su
tutte le province, poi su tutte le città, e sui piani di tutte le case, e su ogni individuo, e questa non sarà più letteratura, ma statistica o etnografia”.20
19
H. de Balzac, Il curato di Tours, in I capolavori della Commedia umana, cit,
vol.III, p. 712.
20
Gustave de Flaubert, Bouvard e Pecuchet, Feltrinelli, Milano,1998, p. 140.
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4. Rimase attonito e… ritardò il suicidio
Attraverso i suoi romanzi Balzac costruisce al tempo stesso una
teoria della letteratura e delle scienze sociali: l’una si appoggia sull’altra; non ci sarebbe una buona letteratura se non ci fosse un’osservazione attenta del mondo, una capacità di penetrare nei suoi dettagli, di descrivere il mondo come insegnano le scienze della natura
ordinandolo per insiemi sempre più piccoli o sempre più grandi e osservando gli effetti delle combinazioni; ma se qui terminasse la ricerca avrebbe ragione Pécuchet: la letteratura sarebbe etnografia e forse
una onesta etnografia, quella che Wittgenstein chiamava etnologia
naturale, la descrizione dell’esistente. Il punto alto delle scienze sociali è per Balzac la letteratura, è lì che si sperimenta, si conosce al di
là delle combinazioni date, si fa esperienza con il possibile, si immaginano mondi, si inventa il vero per analogia. E la letteratura spinge
le scienze sociali verso la filosofia, verso la possibilità di intravedere
i primi rudimenti di quel che lo stesso Balzac chiama “la metafisica
della letteratura”.
Grosso modo, del resto, questo procedere ricalca lo schema della
Commedia. In primo luogo gli Études de moeurs
“rappresenteranno non i fatti immaginari, ma quello che accade tutti i giorni
(ce qui se passe partout); poi verranno gli Études philosophiques, dove si
studieranno le cause di quei costumi e le si giudicheranno, ma se negli Études de moeurs si procede a tipicizzare gli individui, perché si osserva come
gli individui facciano parte della storia, della massa, del senso comune e si
comportino gli uni come gli altri, negli Études philosophiques si tornerà agli
individui, perché sono pochi gli individui nei quali si coglie qualcosa ‘di
più’, la sensazione di una diversa verità. Qui è come se la tela del senso comune, della storia, della vita quotidiana si squarciasse per lasciare intravedere altre possibilità. “E così io avrò dato il pensiero al frammento e al pensiero vita individuale”. Dopo aver esaminato gli effetti e le cause, verranno
gli Études analytiques dove si studieranno i principi ultimi… “Les principes, c’est l’auteur” (corsivo di Balzac).
Ma quando l’opera raggiunge in spirale i suoi punti più alti, essa
si rinserra e si condensa… “Ma dopo aver fatto la poesia, la dimoI quaderni del Cream, 2005, IV
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strazione di tutto il sistema, io farò la scienza nell’Essai sur les forces humaines…”.21
Quest’ultimo libro Balzac non lo scriverà mai o forse è nascosto
qua e là fra le pagine della sua opera. Doveva esporre in forma scientifica quel che fin’ora aveva detto in poesia, la scienza di un “fenomeno morale, inspiegabile, inaudito, del quale la scienza difficilmente può dare spiegazione” appunto, “la metafisica della letteratura”,
dove i principi analitici si serrano e si condensano, il punto più alto
di tutta la sua costruzione, ma per altro verso il punto che la sorregge
tutta, il punto irrinunciabile che permette e garantisce il tout se tient
della Commedia. In questo punto estremo il romanziere diventa filosofo e qualcosa di più di filosofo: si sdoppia, si fa estraneo al mondo,
anche se solo per un attimo vede il mondo dall’esterno, lo coglie in
una sola unità compositiva. Spesso la pretesa di esplicitare la componente mistica appesantisce l’opera di Balzac, riducendosi (in Séraphita) ad una esposizione ingenua della dottrina di Emmanuel de
Swedenborg. Louis Lambert è il romanzo che più si sarebbe dovuto
avvicinare a questa sintesi filosofica (si capisce perché Balzac lo percepisse centrale nella sua opera complessiva) ed è un romanzo (con
quella sorta di catechismo mistico finale) sinceramente brutto. Ma in
molti casi l’effetto di straniamento provocato dalla “seconda vista”
produce pagine famose. Si vede “dall’esterno”, in maniera nuova un
particolare, qualcosa che non si era mai notato e a partire da quel
nuovo particolare tutto il mondo intorno assume contorni e ordine
diversi. Come osservano Bouvard e Pécuchet: “Dalle cose più banali
emergevano aspetti sconosciuti. Non avevano mai sospettato che la
vita moderna fosse tanto profonda”. Non si vede meglio, si vede diversamente. È una tecnica che Balzac autore usa spesso nelle sue descrizioni e che spesso fa usare ai suoi ‘rappresentanti’ nella Commedia, specie quando si trovano in situazioni limite. Accade a Lucien
che nella sua cella della Conciergerie ha ormai deciso di morire
(Spendori e miserie delle cortigiane): sale su un tavolo, riesce ad ar21
In una lettera del 1834 in Lettres à l’Étrangère, t. I, p. 205, cit. in A. Maurois, cit.
I quaderni del Cream, 2005, IV
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rivare alla finestra, a legare la cravatta a una sbarra e a farla girare
intorno al collo, poi, da quella posizione… vede Parigi. Vede la galleria detta Saint-Louis.
“Rimase attonito e la sua contemplazione ritardò il suicidio… Lucien
vide il palazzo in tutta la sua originaria bellezza. Il colonnato divenne snello, nuovo, fresco, e Lucien ammirava le proporzioni babiloniche e le fantasie orientali… Mentre si preparava a morire si chiedeva come mai quella
meraviglia rimanesse ignorata a Parigi. Vi erano due Lucien…”.22
Dalla descrizione dei moeurs tipici dei suoi contemporanei al
principio filosofico più alto, alla sensazione e alla visione profetica
dell’unità. Egli stesso si diceva ora un modesto copista della realtà
ora un vate, “visionario del presente”, “precettore degli uomini”.
Scendere e salire la scala della commedia umana, senza che tutto
questo si dia in un ordine prestabilito, così come accade nei salotti, in
modo tale che ogni sentimento, ogni azione, ogni pagina dovesse
prevederle tutte. E poi sotto quella piramide, a fondamenta del tutto,
“moi enfant et rieur, j’aurai tracé l’immense arabesque des Cent
Contes drolatiques…”.23
Balzac offre una nitida tripartizione delle Sante Scienze dell’Uomo: l’etnografia, la letteratura, la filosofia delle cose ultime (per questo Sante scienze sociali). Nella Commedia doveva esserci ognuno di
questi livelli, ognuno con il suo compito, ognuno con il suo metodo:
osservare e descrivere il particolare, costruire tipologie, studi di caso,
comparare, immaginare per analogia, fino al punto più alto: ritrovare
l’individualità capace, anche se solo temporaneamente, di renderci
estranei al mondo (“Les principes, c’est l’auteur”, corsivo di Balzac).
In più in Balzac c’era quella risata finale, quei cento racconti drolatiques, l’ironia sulla pretesa di prenderci per i capelli e tirarci fuori
dal mondo per vederlo meglio. Altro libro sparso in tante sue pagine.
22
23
H. de Balzac, Splendori e miserie delle cortigiane, Garzanti, Milano, 1968, p. 388.
In una lettera del 1834 in Lettres à l’Étrangère, cit.
I quaderni del Cream, 2005, IV
30
È largamente condivisibile la tesi di Pierre Chartier24 secondo cui il
rapporto fra scienze sociali e letteratura è in Balzac talmente lucido e
realizzato da diventare almeno in Francia il punto di riferimento di
tutti gli autori di romanzi venuti dopo di lui. Balzac copre tutto lo
spazio letterario del secolo, fino ai suoi esiti più estremi, dal misticismo romantico al darwinismo letterario, e dentro questo spazio finiscono per essere pensati non solo Stendhal, i Goncourt, Zola, ma
anche Flaubert e Maupassant. Ci stanno dentro per vicinanza o per
differenza, ma comunque ci stanno dentro.
E quel che Chartier dice per la letteratura noi lo potremmo dire
per le scienze umane, per la sociologia e per l’antropologia di buona
parte del secolo. L’evoluzionismo nei suoi due grandi esiti filosoficoantropologici, in Bachofen e in Frazer, ripete senza volerlo, senza
saperlo, utilizzando strategie diverse, il modello balzachiano dell’opera mundi, di un opera che partendo dal “frammento d’osso” lasci
intravedere le linee di quel disegno metafisico che Balzac chiama “la
storia segreta del genere umano”. Essere scienziati sociali voleva dire
essere romanzieri e filosofi, e non poteva essere diversamente, del
resto, in un secolo in cui le scienze sociali scoprivano in pochi decenni alterità e mondi psichici mai immaginati, dilatavano di millenni la storia umana, ribaltavano convinzioni secolari.
Antropologi che non potevano non essere filosofi e letterati come la
gran parte degli esploratori che pubblicavano i loro diari, come tutti
coloro che tentavano mettere insieme quei pezzi di mondo antico e
moderno. Non c’è molto da meravigliarsi se può sembrare che Balzac
o Poe abbiano anticipato Marx e Durkheim, o che Flaubert abbia anticipato gli studi tardo ottocenteschi sulla psicologia femminile e Stevenson il letto di psichiatria e antropologia e se Conrad…
Ma l’esaurirsi delle ragioni di quella alleanza fra scienze sociali,
letteratura e filosofia, a fine secolo era ormai evidente. I danni da
qualche tempo avevano cominciato a superare i vantaggi. Il naturalismo letterario rischiava di diventare pura etnografia: il suo compito
24
Pierre Charter, Teorie del romanzo, La Nuova Italia, 1998 (1990), p. 135 e sgg.
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31
si riduceva a descrivere con la massima precisioni i fatti sociali, senza inventare, senza immaginare altro che non fosse quanto era accaduto; l’etnografia sacrificava se stessa, la precisione delle sue osservazioni e delle sue analisi, al desiderio di fare letteratura e offrire
materiale più appagante per “la bella legge del sé per sé”, e quest’ultima diventava sempre più esoterica: appariva sempre più lecito
dubitare – per dirla con una felice espressione, di Furio Jesi – che la
macchina dei miti fosse vuota.
Si capisce meglio l’odio-amore di Malinowski per i romanzi. Fosse pure il romanzo frazeriano. Il romanzo, il mondo di Vanity Fair gli
doveva sembrare ben più affascinante rispetto all’etnografia delle
Trobriand, ma ormai gli sembrava di possedere tanta verità su altri
mondi da poter far concorrenza all’immaginazione di Thackeray. Fare scienze sociali significava rompere quel vincolo, anche quando
come nel caso del romanzo sperimentale di Zola, ribaltando i termini
dell’impostazione balzachiana, si riconoscesse senza ombra di dubbio
la superiore funzione della scienza come guida di tutte le arti, letteratura compresa. Anche da questa letteratura che si chinava alla scienza bisognava prendere le distanze. L’antropologia aveva bisogno di
una seria etnografia e principalmente di un linguaggio proprio.
***
Prima di giungere a Malinowski questa vicenda avrà altri capitoli.
Ma è con Malinowski che antropologia e letteratura romperanno la
loro alleanza, almeno per quanto riguarda un fronte dell’antropologia
e un fronte della letteratura. Vi potrei offrire una data ufficiale della
fine di quel patto: il 1922. Nel 1922 esce Argonauti e esce l’Ulisse di
Joyce. Due libri che marciano in parallelo per molti versi e non solo
per la comune eco dei titoli. In Argonauti Malinowski si è liberato (o
quasi) della letteratura e può lavorare alla costruzione di un nuovo linguaggio (questo è l’interesse maggiore del libro), un linguaggio non
letterario, appunto. Nell’Ulisse Joyce mette decisamente da parte il linguaggio balzachiano, il linguaggio che permetteva la costruzione di
tipi sociali e va alla ricerca capitolo per capitolo di nuovi linguaggi, di
nuovi modi per parlare dell’alterità. Se Argonauti allontana da sé la
I quaderni del Cream, 2005, IV
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letteratura, Joyce allontana da sé le semplificazioni dell’antropologia.
Come ricorderete nel primo capitolo dell’Ulisse i due amici Stephen
Dedalus e Buchk Mulligan non vedono l’ora di allontanare dalla torre
un tale Haines, un inglese. Che faceva di mestiere questo inglese?
l’antropologo! Uno che in un libro voleva descrivere tutta l’Irlanda!
quando non bastano mille pagine per descrivere la giornata del povero
Leopold Bloom. Inutile domandarsi poi perché Joyce ce l’avesse tanto
con gli antropologi e in particolare con Lévy-Bruhl. Ma questa è
un’altra storia.”.
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I quaderni del Cream, 2005, IV
34
SILVIA BARBERANI
∗
MORTI E RITI DI MEMORIA
1
IN UNA COMUNITÀ DELLA GRECIA
1. Antenati vicini e lontani.
Questo articolo ha per oggetto il processo di trasformazione dei defunti in figure spirituali, investite di un potere simbolico ed inscrivibili
nella categoria di antenati, oggetto di culto da parte dei discendenti e
dei membri della comunità.
La morte non trasforma automaticamente una persona morta in antenato. In molte società, come evidenzia Hertz2, tale trasformazione è
il prodotto di un passaggio ritualizzato che può compiersi in due tempi, mediante l’istituzione della pratica della doppia sepoltura: le prime
esequie, consacrate al trattamento del cadavere; le seconde, finalizzate
alla trasformazione dello spirito in antenato e occasione per la comunità di riaffermare la propria coesione.
∗
Docente a contratto di Antropologia del Turismo ed Etnologia Europea presso
l’Università degli Studi di Milano Bicocca.
1
La ricerca di cui questo articolo si inscrive nel contesto del progetto Cofin “Tanatometamorfosi. Il corpo dopo la morte in una prospettiva multidisciplinare e comparativa”, cofinanziato dall’Università di Milano Bicocca e dal Miur ed è stata resa
possibile grazie al finanziamento concesso dal dipartimento di Epistemologia ed
Ermeneutica della Formazione dell’Università di Milano-Bicocca di cui ringrazio il
Direttore Prof. Ugo Fabietti.
2
Hertz, 1994.
I quaderni del Cream, 2005, IV
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La Grecia, mediante la pratica dell’esumazione3 – che, secondo i
dettami della religione cristiana ortodossa, deve avere luogo entro cinque anni dalla sepoltura – rientra di diritto nella tassonomia delineata
da Hertz: tuttavia, non si può propriamente parlare di culto degli antenati, quanto piuttosto di culto dei morti, poiché essi rappresentano un
riferimento puramente spirituale e non figure dotate di autorità o in
grado di intervenire nelle questioni relative al mondo dei vivi, come
avviene invece in altre società.
Esistono tuttavia alcuni casi, come vedremo, in cui i morti non sono trasformati in antenati attraverso azioni dirette ai cadaveri, ma attraverso la mediazione esercitata dalla memoria e dal racconto dell’evento di cui essi sono stati protagonisti. Grazie a queste operazioni i
morti vengono trasformati in figure del ricordo, simboli investiti di un
forte potere evocativo dell’identità collettiva della comunità.
Per comprendere la differenza tra queste due tipologie di defunti, è
possibile ricorrere alla distinzione, proposta da Bonte e Izard tra antenati “vicini” e antenati “lontani”: nel primo caso, la relazione genealogica che lega i discendenti all’antenato è reale e il culto di cui l’antenato è fatto oggetto riguarda solo una piccola componente della società, il gruppo di discendenza o l’unità domestica; nel secondo caso, la
relazione genealogica è per lo più fittizia e gli antenati oggetto di culto
sono figure trascendenti che assolvono la funzione di eroi mitici e
“fondatori”4.
È soprattutto nel carattere autopoietico implicito nel culto degli antenati vicini e fondatori, evidenziato dai due autori, che risiede l’origine del potere di cui i defunti sono investiti: in entrambi i casi, gli antenati trasmettono qualcosa ai discendenti che in cambio li onorano:
diritti, privilegi e beni, nel caso di antenati “vicini”; norme e valori, nel
caso di antenati “fondatori”. Sono dunque i discendenti che “fanno”
l’antenato, in modo che, alla morte, è l’esistenza di una discendenza
che permette la trasformazione del defunto in antenato.
3
Attualmente praticata dalle comunità rurali e tradizionali, seppure parzialmente
inibita dalle autorità statali.
4
Bonte, Izard, 1991.
I quaderni del Cream, 2005, IV
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Nel caso della Grecia, i rituali funebri che coinvolgono i tre attori
del dramma rituale enunciati da Hertz – il cadavere, l’anima e i sopravvissuti – e che si concludono con l’esumazione, operano la trasformazione dei defunti in antenati “vicini” per utilizzare la terminologia
di Bonte e Izard, figure spirituali oggetto di culto da parte dei discendenti, la cui memoria è mantenuta, nel corso degli anni, attraverso la
recitazione pubblica dei loro nomi in chiesa, in occasione dei rituali
commemorativi collettivi, e mediante la pratica dell’imposizione del
nome dei nonni ai figli primogeniti.
Nel contesto di questo processo di trasfigurazione un ruolo fondamentale è rappresentato dalla recitazione dei lamenti funebri eseguiti
dalle donne, i miroloya5, a cui è affidata la trasmissione del ricordo del
defunto.
Un tema ricorrente nei miroloya e nelle canzoni che vengono cantate in occasione di matrimoni e riunioni familiari che hanno luogo
quando uno dei presenti sta per partire o in assenza di parenti lontani, è
quello del morire in xenitia (stis xenitia o sta xena): “in terra straniera”
(xenos: straniero, alieno, altro). Il termine xenitia, utilizzato per indicare terre lontane o straniere e al tempo stesso la condizione di solitudine
del vivere una vita in esilio, non è solo un’immagine evocata nei lamenti funebri, ma una realtà psicologica e sociale in molte parti della
Grecia e un tema ricorrente nelle conversazioni quotidiane dei locali,
in cui spesso si esprime il timore che qualcuno possa morire in xenitia
o che qualcuno muoia a casa mentre tutti i parenti sono in xenitia. In
quest’ultimo caso, l’assenza di parenti prossimi in grado di dare al de5
Da myra (letteralmente porzione e per estensione fato, destino, morte) e logos (parola o canzone): canzone del fato. È interessante sottolineare come lamenti funebri e
canti nuziali (nifikà traghoudia) presentino un’analogia strutturale, per forma musicale, struttura narrativa ed iconografia, che fa sì che essi siano cantati indistintamente in occasione di matrimoni e funerali e che sia solo la melodia a consentire una
distinzione. Entrambi i canti condividono una struttura fissa che comporta l’uso di
formule e metafore ricorrenti – uccelli, acqua, cibo per la loro abilità di oltrepassare
il confine tra mondo dei vivi e mondo dei morti, tema della separazione, del viaggio,
dell’analogia tra morte e matrimonio – su cui si innestano variazioni regionali e legate all’identità degli attori sociali, di cui i canti presentano una breve biografia.
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funto una “buona morte”, attraverso il compimento dei rituali che includono la recitazione dei lamenti funebri in cui le donne diventano
depositarie della memoria del defunto e il coro silenzioso degli uomini
assolve la funzione di testimonianza del suo onore e della sua reputazione, è considerata una vergogna pubblica, definita in termini di morte “silenziosa” o “nuda”.
Il tema della xenitia, così come l’analogia tra morte e matrimonio,
evoca una partenza dolorosa e la difficile separazione dalla rete sociale
di familiari, amici, compaesani: matrimonio e viaggio in terre lontane
sono metafore dell’esperienza della morte come attestano l’espressione
“i xenitia kai o thanatos adhelphià loghounde”(la xenitia e la morte
sono considerate sorelle) e gli attributi “nero” (colore che accomuna
gli abiti del lutto e la terra) e pesante (aggettivi comunemente connessi
alla terra e al dolore) ad esse associati.
Il tema della xenitia introduce il punto su cui vorrei soffermare l’attenzione: il processo di trasformazione, attraverso la mediazione operata dalla memoria, di alcuni defunti in antenati “fondatori”, mezzo
che consente a soggetti appartenenti a comunità dislocate, lontane dai
luoghi della memoria e a stretto contatto con altre popolazioni, di reinventare la rete di relazioni attraverso cui si articolano memoria e identità .
2. Memoria, eventi e narrazioni.
Mi sia consentito attingere dal mio campo di ricerca, l’isola greca
di Kastellorizo (Dodecaneso), un episodio che illustri questo processo.
Sull’isola, oltre all’esigua popolazione locale che comprende circa
250 residenti, è presente una comunità di australiani, originari di Kastellorizo, emigrati in Australia nell’arco di tempo incluso tra i primi
anni del secolo scorso e gli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, che include greci di seconda e terza generazione, figli dei primi emigrati e figli dei figli di questi ultimi, i quali
hanno cominciato, in anni recenti, a fare ritorno a Kastellorizo, dove
soggiornano per svariati mesi nel corso dell’anno. I kassi – come si autodefiniscono – australiani per nazionalità, rivendicano origini greche,
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che sono oggetto di costanti negoziazioni con la popolazione locale.
In questo processo di autorappresentazione di un’identità greca, i
kassi attribuiscono ad un episodio – il naufragio, avvenuto il 29 settembre del 1943, dell’Empire Patrol, la nave che riportava in patria
334 kastelloriziani, di cui 33 persero la vita, provenienti dai campi profughi palestinesi, in cui avevano trascorso tre anni, in seguito all’evacuazione dell’isola predisposta dagli inglesi – assunto ad evento
di memoria, e alla morte dei suoi protagonisti, trasformati in figure mitiche, sussumibili, come vedremo, nella categoria di “antenati fondatori”, un potere coesivo ed evocativo dell’identità collettiva della loro
comunità.
Il naufragio, oltre ad essere rievocato oralmente dai circa cinquecento kastelloriziani superstiti e ad essere tramandato nel corso degli
anni dai figli e dai nipoti di questi, mettendo in atto un racconto inscrivibile nella modalità narrativa autobiografica, rappresenta l’oggetto
dell’attenzione di diverse iniziative da parte della comunità kastelloriziana in Australia: numerosi articoli e una monografia, Embers On the
Sea, di Boyatzis e Pappas, sono stati scritti su questo argomento e
commemorazioni annuali hanno luogo in Australia regolarmente.
Come spiegare la centralità di questo avvenimento nella narrativa
dei kassi? Qual è il significato che gli viene attribuito? Perché proprio
questo episodio e non altri – il terremoto del 1926 o il bombardamento
tedesco del 1943, per esempio – assurge allo statuto di “evento della
memoria”, attraverso il quale il presente si richiama al passato? Che
cosa significa il processo di appropriazione di questo evento, messo in
atto dalla comunità kassi? In che misura la rievocazione di un avvenimento passato può contribuire a fornire un senso al presente di Kastellorizo e dei kassi?
Prima di tentare di trovare delle risposte a queste domande, interroghiamoci brevemente sul nesso esistente tra memoria e identità.
La memoria, unitamente alla temporalità e alla storia, costituisce il
fondamento a partire dal quale gli individui e le società elaborano le
costruzioni di senso chiamate a rendere ragione della loro esistenza e
può essere definita come il processo di costruzione del passato, avente
la funzione di offrire una rappresentazione dotata di senso del proprio
presente.
I quaderni del Cream, 2005, IV
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Analogamente a quanto avviene per gli individui, i membri di una
comunità, grazie alla memoria possono istituire una continuità tra passato e presente, mantenere inalterato il proprio senso di appartenenza e
pensare l’identità collettiva come eterna, nonostante, di fatto, tanto
l’identità stessa che i contenuti della memoria collettiva, mutino attraverso il tempo.
Nel contesto di una comunità, la memoria non è dunque la riproduzione fedele del passato ma una sua rappresentazione, finalizzata al
rafforzamento di un’identità collettiva, che implica processi di selezione, ricordo ed oblio come conseguenza dell’assunzione di determinati
elementi a cui viene attribuito un preciso significato simbolico e della
rimozione di altri.
Assumendo come punto di partenza la definizione di Halbwachs6 di
memoria collettiva come ricordo di un passato condiviso, caratterizzata dal riferimento a coordinate spazio-temporali determinate, da una
relazione simbolica del gruppo con se stesso e da una ricostruzione
continua della memoria stessa, essa può essere definita un’espressione
del pensiero sociale, una “forma di selezione sociale del ricordo”7.
La seconda riflessione che si può avanzare, consiste nella constatazione della compresenza di diverse memorie nel contesto della memoria collettiva di una comunità. Considerando le memorie come espressione del pensiero sociale, forma selettiva del ricordo in relazione alla
quale si costituiscono le molteplici forme di identità collettiva, gruppi,
comunità, società possono avere diverse memorie del proprio passato,
diverse versioni su cui può esserci accordo o disaccordo.
Questa considerazione ci consente di interrogarci sul ruolo dell’individuo nella trasmissione del passato nel contesto della memoria collettiva e al tempo stesso, di analizzare le differenti modalità di ricordo.
Nel contesto di questo dibattito, il sociologo Halbwachs8 e l’antropologo Maurice Bloch9 possono essere considerati come esempi rap6
Halbwachs, 1976, 1987.
Fabietti, Matera, 1999, p. 9.
8
Halbwachs, 1976, 1987, 1988.
9
Bloch, 1993, 1998.
7
I quaderni del Cream, 2005, IV
40
presentativi di due posizioni antitetiche.
Halbwachs, assumendo come punto di partenza della sua riflessione una definizione di matrice durkheimiana della memoria come
fatto sociale, nega alla mente dell’individuo un ruolo attivo nella trasmissione del passato, sottolineando come anche la memoria autobiografica derivi dal contatto sociale, poiché ogni atto di rievocazione implica una comunicazione con altre persone, perdendo così il carattere
dell’individualità. Il sociologo francese sostiene dunque la perfetta
coincidenza tra memoria autobiografica e memoria collettiva, sottolineando come le memorie non condivise finiscano con il cadere inevitabilmente nell’oblio.
Bloch rivendica invece il ruolo giocato dall’individuo nel processo
di costruzione della memoria collettiva, sottolineando come i processi
mnemonici individuali siano in grado di riattivare memorie sociali anche diverse tra loro: il passato, pur essendo incorporato in una memoria collettiva, è dunque una risorsa che cambia continuamente a seconda della situazione e degli stati d’animo dei soggetti che di volta in
volta attivano il processo di rievocazione di un dato evento.
Bloch fonda sulla distinzione tra l’atto del rievocare e quello del ricordare la differenza tra due tipologie di memoria: quella autobiografica e quella semantica10, di cui la memoria storica rappresenta a sua
volta un sottoinsieme.
Mentre Halbwachs, come abbiamo visto, sostiene la coincidenza
della memoria autobiografica con la memoria collettiva, Bloch tenta
invece di applicare alcune riflessioni prese a prestito dalla psicologia
cognitiva anche alla memoria storica, arrivando a sostenere la reciproca convergenza, nella storia intesa come fatto sociale nelle vite delle persone, della memoria autobiografica e della memoria storica. La
somiglianza tra queste due tipologie di memoria, si fonda, secondo
10
Bloch (1998) riprende dallo psicologo cognitivo E. Tulving (1972) la distinzione
tra queste due tipologie di memoria: la memoria autobiografica o episodica, che ha
per oggetto i ricordi di eventi successi all’individuo che attiva il processo di rievocazione; quella semantica, che ha per oggetto i fatti del passato che l’individuo che
ricorda ha appreso da altri.
I quaderni del Cream, 2005, IV
41
Bloch, sull’evidenza della mediazione operata dalla componente narrativa: anche nel caso della memoria storica infatti, l’evocazione di un
passato remoto implica che i partecipanti/informatori si basino sui resoconti che hanno sentito raccontare da altri. Ciò che si deposita nella
mente degli informatori non è il racconto effettivo, ma la rappresentazione non esplicita degli eventi raccontati, un insieme di immagini ed
emozioni prodotto dal processo di immaginazione di “come avvennero
i fatti”11. Un racconto non viene dunque conservato come tale, ma come il prodotto di un processo di ri-rappresentazione di una successione
di fatti, come se fossero stati vissuti in prima persona.
Al tempo stesso, è possibile, secondo Bloch, individuare un’inversione di tendenza nella modalità narrativa autobiografica: gli studi
condotti nell’ambito della psicologia cognitiva hanno infatti evidenziato la tendenza degli individui che hanno direttamente preso parte, in
qualità di protagonisti o testimoni, agli eventi rievocati, a ricordare
questi eventi come se non li avessero vissuti in prima persona. Questa
tendenza è inoltre rafforzata dal fatto che, come altri studi12 hanno mostrato, spesso chi racconta un evento vissuto non ricorda tanto l’evento
in sé quanto l’ultimo racconto da lui effettuato. Bloch conclude dunque
che la rappresentazione del passato nel presente, a causa della mediazione operata dalla modalità di trasmissione orale dei fatti, rende relativa la
distinzione tra memoria autobiografica e memoria semantica.
Ritornando alla nostra riflessione iniziale, mentre l’identificazione,
teorizzata da Halbwachs, tra memoria autobiografica e memoria collettiva, esclude a priori qualsiasi contributo individuale al processo di trasmissione del passato nel presente, la somiglianza tra memoria autobiografica e memoria storica sostenuta da Bloch, ci consente, non solo
di evidenziare l’apporto dei singoli individui nel contesto del processo
di costruzione della memoria collettiva, ma rende anche ragione dell’esistenza di una pluralità di memorie, all’interno di una comunità caratterizzata dal comune ricordo di un passato condiviso.
11
12
Bloch, 1998, p. 49.
Nigro, Neisser, 1983; Neisser, Hupsey, 1974.
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42
La distinzione qui introdotta tra memoria autobiografica e memoria
semantica rinvia ad un’ulteriore differenza, teorizzata dal filosofo J.
Assmann, fondata sulla corrispondenza tra due differenti modalità di
ricordo e due diverse tipologie di memoria: il ricordo biografico, che si
rifà alle esperienze e al passato recente, su cui si fonda la “memoria
comunicativa”13, di natura temporanea, e il ricordo fondante, che si ricollega alle origini e fonda la “memoria culturale”14, in cui il passato si
coagula in figure simboliche a cui viene agganciato il ricordo.
Nonostante l’eccessiva rigidità, la categorizzazione elaborata da
Assmann ci consente di distinguere da un lato una memoria che non
travalica l’esperienza dei singoli individui e che ne rappresenta una
modalità di percezione della comune appartenenza alla collettività;
dall’altro una memoria sociale più ampia, prodotto dell’esigenza di istituzionalizzazione delle norme, dei valori e dei ricordi fondanti che
caratterizza ogni società, che si avvale della tecnologia e dei supporti
di mediazione – primo tra tutti la scrittura, ma anche rituali, miti, celebrazioni, racconti e narrazioni – a sua disposizione, per selezionare e
fissare in modo definitivo la rappresentazione del passato che si vuole
tramandare.
Occorre sottolineare come questo processo di utilizzazione del passato nel presente, non si configuri come un atto neutro, ma come il
prodotto di un’intenzionalità, culturalmente determinata, che mira a
mettere in primo piano quegli elementi del passato, reale o presunto,
che possono avere un senso per l’azione presente. Nel contesto di questo processo di selezione, interpretazione e trasmissione degli eventi,
13
Assmann definisce la memoria comunicativa in termini di una memoria che “si
innesta e cresce storicamente nel gruppo: essa nasce nel tempo e passa con il suo passare o, più precisamente, con il passare dei suoi detentori; quando coloro che la incarnano muoiono, essa lascia il posto ad una memoria nuova”. Assmann, 1997, p. 25.
14
Per quanto riguarda la memoria culturale, Assmann scrive che essa: “si orienta in
base a punti fissi del passato. Anche in essa il passato non è in grado di conservarsi
in quanto tale, ma si coagula piuttosto in figure simboliche a cui viene agganciato il
ricordo: le storie dei padri – l’esodo, la peregrinazione nel deserto, la conquista del
paese, l’esilio – sono alcune di tali figure del ricordo celebrate liturgicamente nelle
feste, le quali gettano luce su situazioni del presente”. Assmann, 1997, p. 26.
I quaderni del Cream, 2005, IV
43
in cui l’uso del passato è sempre orientato al presente, la memoria può
essere strumentalizzata per fini immorali. T. Todorov15 si interroga
sulle differenti modalità di utilizzazione della memoria, nel tentativo di
elaborare un’antropologia della memoria accompagnata da un’etica
della memoria, distinguendo tra due differenti modalità di ricordo di
un evento: quello letterale e quello esemplare. Nel primo caso, il recupero letterale di un evento del passato, trasfigurato simbolicamente in
un luogo, oggetto, evento, immagine della memoria, istituisce la continuità passato/presente e genera la totale sottomissione del presente al
passato. L’avvenimento ricordato in modo letterale, rimane un fatto
“intransitivo” che non consente di andare al di là di esso, ma estende le
sue conseguenze nel presente. Il recupero esemplare di un evento del
passato consiste invece nel considerarlo come un caso di una categoria
più generale e come griglia interpretativa per comprendere situazioni
nuove, ma simili: l’evento ricordato funge dunque da modello, esempio che apre uno spazio alla comparazione e alla ricerca di analogie
con altri avvenimenti, al fine di trarne insegnamenti. Questa schematizzazione, consente a Todorov di distinguere tra un uso negativo ed
un uso positivo della memoria, istituendo un parallelismo tra memoria
letterale, identità unica, intolleranza e chiusura, da un lato, e memoria
esemplare, identità relazionale, apertura e tolleranza, dall’altro.
Le differenti tipologie di memoria qui analizzate – autobiografica e
semantica (Bloch), comunicativa e culturale (Assmann), letterale ed
esemplare (Todorov) – rivelano la condivisione di una caratteristica
comune: la tendenza a creare dei riferimenti concreti, siano essi oggetti, luoghi, persone, eventi, e a trasformarli in figure simboliche a cui
agganciare il ricordo.
Questi materiali di natura eterogenea, a partire dai quali si esercita
l’attività mnemonica, condividono il duplice statuto di realtà e di simbolo: reali o immaginari, essi rappresentano la reificazione delle rappresentazioni del passato che hanno un particolare significato per una
comunità, evocando, al tempo stesso, il senso di appartenenza condivi15
Todorov, 1996.
I quaderni del Cream, 2005, IV
44
so dai suoi membri.
Luoghi, oggetti16 ed eventi della memoria rappresentano delle figure del ricordo, punti di riferimento fissi in cui ha luogo l’incontro tra
presente e passato; principi fondanti l’identità presente di una collettività, di cui rievocano la storia passata. In esse la dimensione individuale e quella collettiva della memoria si intrecciano costantemente.
Al di là della somiglianza semantica, tuttavia, luoghi, oggetti ed
eventi della memoria svolgono la duplice funzione di attivazione del
ricordo e di evocazione dell’identità collettiva, secondo modalità diverse.
A differenza dei luoghi e degli oggetti, infatti, un evento per divenire un evento della memoria, “accadimento investito dal potere simbolico di evocare la comune appartenenza di alcuni individui a una collettività”17, deve in qualche modo supplire la sua mancanza di materialità, attraverso il ricordo di cui è fatto oggetto da parte di coloro che ne
perpetuano la memoria.
L’iscrizione di un accadimento nella categoria degli “eventi di memoria”18 necessita che esso venga ricordato, condizione necessaria per
sottrarsi all’oblio, rinviando alla presenza di testimoni, unici depositari
del suo ricordo ed artefici della sua trasmissione. Ciò consente di
riflettere sullo statuto dei testimoni nel processo di rappresentazione
del passato, da un lato, e di interrogarci sulla funzione esercitata dal
racconto, prodotto dalle testimonianze, in cui gli eventi si sedimentano, dall’altro.
Gli eventi di memoria sono dunque rappresentazioni culturali in cui
la realtà di un accadimento è solo secondaria rispetto alla loro efficacia
16
Fabietti e Matera definiscono i luoghi e gli oggetti di memoria rispettivamente in
termini di siti e di prodotti materiali dell’attività umana, investiti di un significato
“totale”, Fabietti, Matera, 1999, p. 63. Relativamente ai luoghi di memoria si veda
anche: Halbwachs, 1988; Bloch, 1993. Relativamente agli oggetti di memoria si veda in particolare: Lévi-Strauss, 1964; Kilani, 1992, 1998.
17
Fabietti, Matera, 1999, p. 91.
18
Per quanto riguarda l’analisi degli eventi di memoria vedi in particolare Sahlins,
1986; Bloch, 1998.
I quaderni del Cream, 2005, IV
45
simbolica, che consiste nella capacità di creare coesione e di evocare
l’identità collettiva di una comunità. Di per sé né veri né falsi, gli
eventi di memoria, così come le altre figure del ricordo, sono finzioni,
costruzioni in cui: “la finzione gioca il ruolo di una pseudo-mitologizzazione, in assenza di una scrittura garante, di documenti probanti, di testimonianze affidabili; con l’aiuto di questa, a livello degli avvenimenti
e delle costrizioni della vita comunitaria, le identità sono costruite, disfatte, modellate, smembrate, frammentate, sostituite le une alle altre, in
un groviglio dove diventa difficile discernere un filo conduttore”19.
Queste riflessioni introducono l’ultimo punto su cui vorrei richiamare l’attenzione: la definizione stessa di evento e il rapporto tra evento e narrazione. Francis Affergan così risponde a questo duplice interrogativo: “che cos’è un evento? Appare chiaro, di primo acchito, che
un evento non esiste se non incluso in una narrazione. L’unità di senso
evenemenziale non è intrinseca ai fatti stessi, ma a una temporalità dispiegata dalla narrazione. In altre parole, i momenti del tempo, soprattutto il prima e il dopo non provengono da un’ontologia della memoria, ma si costruiscono nelle maglie stesse del racconto”20.
Gli eventi esistono dunque solo se inseriti in un racconto.
Koselleck ci aiuta a chiarire questa affermazione. Egli sottolinea infatti come il tempo dell’evento sia di per sé opaco, non costituisca una
semantica storica. Perché ci siano eventi storici invece, è necessaria
l’istituzione di una relazione tra ciò che succede e una struttura di significato. Questo processo di strutturazione del tempo è messo in atto
nel racconto in cui la narrazione istituisce una semantica storica fondata, non sulla successione lineare dal passato al presente, ma sullo
scambio tra passato, presente e futuro implicito nella ricostruzione del
passato, nel contesto di quell’intreccio temporale, che Koselleck21 definisce in termini di tensione tra lo “spazio dell’esperienza” presente e
l’“orizzonte di aspettativa” dei soggetti. La narrazione istituisce un le19
Affergan, 1998, p. 125.
Affergan, 1998, p. 130.
21
Koselleck, pp. 300-322.
20
I quaderni del Cream, 2005, IV
46
game sintetico di senso tra diverse posizioni temporali e diversi orizzonti di senso. Il racconto dunque, istituendo la temporalità produttrice
di senso, trasforma gli accadimenti in eventi. Il ricordo inserito in un
racconto crea l’evento della memoria e contribuisce a rafforzare
l’identità collettiva di una comunità.
3. Il Navayo.
Prima di tentare di applicare gli spunti di riflessione delineati
all’analisi dell’episodio dell’Empire Patrol, presentiamo un breve resoconto degli accadimenti contenuti nelle narrazioni di questo evento.
Accanto ai racconti orali dei sopravvissuti, riconducibili alla categoria
della memoria autobiografica, prenderemo in esame la ricostruzione
storiografica dell’evento operata da due storici australiani, originari di
Kastellorizo, Pappas e Boyatzis, nel loro libro Embers on The Sea: vedremo come, in questo caso, il racconto dei due autori conferisca senso
all’evento, inserendolo entro la dimensione temporale della narrazione
scientifica (storiografica) occidentale.
Alla fine della guerra, Kastellorizo rimase per un breve periodo sotto il controllo militare inglese, in attesa che entrasse in vigore il trattato
di pace con l’Italia22 che prevedeva la sua annessione alla Grecia: gli
abitanti mantennero la cittadinanza italiana, poiché l’occupazione inglese era di natura puramente militare e temporanea. Tra il 23 e il 26
ottobre 1943, gli inglesi, giudicando ormai prossimo l’inizio dei bombardamenti tedeschi su Kastellorizo e per dare al nemico l’impressione
che l’isola fosse stata abbandonata, optarono per l’evacuazione immediata della popolazione civile. Fu garantito agli abitanti che questo allontanamento avrebbe avuto breve durata, perciò essi partirono lasciando nelle loro case tutti i loro averi: circa mille persone furono
condotte a Cipro, per essere temporaneamente alloggiati nei campi
22
Kastellorizo, unitamente alle altre isole del Dodecaneso fu soggetta all’occupazione italiana a partire dal 1912. In seguito alla resa dell’Italia dell’8 settembre 1943,
l’isola fu occupata dagli inglesi.
I quaderni del Cream, 2005, IV
47
profughi. I tedeschi si mostrarono tuttavia riluttanti ad occupare l’isola, preferendo invece continuare a bombardarla nei mesi di ottobre e
novembre. Da Cipro dunque, contrariamente alle promesse iniziali, la
maggior parte dei rifugiati fu trasferita, via Haifa, nei campi profughi
dell’UNRRA (United Nations Relief and Rehabilitation Administration) a Nuseirat, in Palestina, dove rimasero fino al mese di settembre
del 1945.
Il 29 settembre, un solo contingente di rifugiati doveva ancora essere rimpatriato: 497 kastelloriziani che sognavano di ritornare a casa,
perlopiù donne e bambini, furono imbarcati sulla nave inglese Empire
Patrol23, che prese fuoco poco dopo la sua partenza da Porto Said,
causando la morte di trentatré rifugiati kastelloriziani24.
È possibile tentare una rapida ricostruzione degli accadimenti che
ebbero luogo quel giorno, grazie all’analisi dei documenti ufficiali,
ma soprattutto in base alle testimonianze presentate durante il processo condotto dalla “Commissione di Inchiesta” stabilita dalla Marina inglese per “investigare le circostanze che portarono alla perdita
dell’Empire Patrol”25 e in base ai ricordi dei superstiti raccolti nel
corso degli anni successivi da alcuni storici.
In seguito all’ordine ricevuto, il comandante e l’equipaggio intrapresero i preparativi per accogliere i profughi: fu stabilito a 486 il nu23
La nave era in realtà italiana e fu utilizzata dagli italiani nell’Egeo, fino alla sua
cattura ad opera degli inglesi. Riequipaggiata dalla Marina britannica, fu ribattezzata
e convertita dagli inglesi da nave adibita al trasporto di passeggeri a nave per il trasporto di truppe militari: furono eliminate la maggior parte delle cabine e furono
conservate solo 44 cuccette riservate alle emergenze. Tra il mese di giugno 1942 e il
mese di settembre 1945, la nave intraprese diversi viaggi in tutto il Mediterraneo,
trasportando truppe militari britanniche e prigionieri di guerra.
24
497 rifugiati furono imbarcati sulla Empire Patrol: 79 uomini, 210 donne, 83 ragazzi (di età compresa tra gli 11 e i 17 anni), 99 bambini (di età compresa tra i 4 e i
10 anni) e 26 neonati. Poche ore dopo la partenza, a 20 miglia da Porto Said, scoppiò
un incendio a bordo della nave, nel quale morirono 35 persone: due militari appartenenti all’equipaggio e 33 rifugiati kastelloriziani, tra i quali 27 donne (13 delle quali
di età superiore ai 50 anni) e 6 uomini. 13 delle vittime risultarono essere bambini.
25
Boyatzis, Pappas, 1995, p. 119.
I quaderni del Cream, 2005, IV
48
mero di passeggeri che potevano essere regolarmente imbarcati, cifra
comunque superiore ai 464 rifugiati e ai 4 membri dell’UNRRA, attesi
a bordo per il giorno successivo.
Il mattino del 28 settembre, al momento dell’imbarco, ebbe luogo
una prima controversia relativa al numero di passeggeri: il comandante della nave aveva ricevuto l’ordine di imbarcare 464 rifugiati,
mentre il luogotenente incaricato del censimento registrò 497 civili, 4
membri dell’UNRRA e 11 guardie greche, per un totale di 512 persone, 26 persone in più rispetto al numero massimo stabilito dalle istruzioni riservate al comandante della nave. Stranamente, come attestano i registri di bordo dell’Empire Patrol, il numero dei rifugiati
imbarcati fu registrato come composto da 485 unità, una in meno rispetto al limite massimo consentito, ma 12 in meno rispetto al numero di persone effettivamente imbarcate. I rifugiati realmente imbarcati furono 497.
La nave salpò alle 7:20 del mattino successivo. Intorno alle 10:00
i rifugiati furono convocati in alcuni punti di riunione dislocati sulla
nave per prendere parte, secondo l’ordine del comandante, alle esercitazioni con i salvagenti. Le istruzioni furono comunicate in inglese
attraverso un altoparlante e recepite, nonostante l’immediata traduzione di alcune guardie greche, solo da una minima percentuale dei
rifugiati, la maggior parte dei quali disponevano solo di pochi rudimenti della lingua inglese.
Mentre era in corso l’esercitazione, alcuni ufficiali effettuarono
un’ispezione dei ponti, normalmente riservati alle truppe, eccezionalmente convertiti in giacigli per i rifugiati, con lo scopo di verificare che tutto fosse a posto e soprattutto che i rifugiati non avessero
portato a bordo oggetti pericolosi per la sicurezza della nave che, se
trovati, dovevano essere requisiti. Il comandante, come ebbe modo di
sottolineare durante la testimonianza resa alla Corte, non partecipò
all’ispezione, dando per scontato che l’ordine di confisca venisse applicato a qualsiasi fornello a cherosene eventualmente trovato.
Mentre era in corso l’esercitazione, l’infermiera dell’UNRRA,
Arlene Waldhaus, si trovava nella cabina 29, riservata ai rifugiati
malati che necessitavano di cure continue (in questo caso Kristina
Papoutsis e i suoi due bambini), intenta a riscaldare acqua e latte da
I quaderni del Cream, 2005, IV
49
distribuire ai rifugiati, mediante un fornello a cherosene di proprietà
dell’UNRRA. Uno dei sergenti, pur avendo visto il fornello durante
la sua ispezione mattutina, aveva deciso di non confiscarlo poiché,
come ebbe modo di illustrare alla Corte nel corso della sua deposizione, di proprietà dell’UNRRA e già utilizzato nei viaggi precedenti. Dal canto loro, l’infermiera e il suo assistente, stando alle loro deposizioni, sarebbero stati all’oscuro delle disposizioni vigenti a bordo
circa il divieto di utilizzare fornelli a cherosene.
Alle 11:00, terminate le esercitazioni, i rifugiati si ritirarono nelle
loro cabine. Secondo la testimonianza resa alla Corte, Katerina Palassi, madre di Kristina Papoutsis, rientrando in cabina, trovò la figlia
addormentata con i figli. Uscendo, la Palassi, notò che l’infermiera
dell’UNRRA era ancora intenta a scaldare acqua e latte.
Alle 11:15 circa, la Waldhaus terminò il suo lavoro al fornello ed
uscì dalla cabina 29 per iniziare il suo giro di ricognizione.
Alle 12:25 furono udite le grida di Kristina Papoutsis, gravemente
ustionata nel tentativo di uscire dalla sua cabina, dove era stata trovata dalla madre, ormai avvolta, insieme ai figli, dalle fiamme.
Katerina Palassi dichiarò durante la sua deposizione, che il suo
primo pensiero fu che lo scaldabagno avesse preso fuoco. Questo sospetto si diffuse rapidamente tra i rifugiati alloggiati sullo stesso ponte. Come fu rievocato da diversi membri dell’equipaggio nel corso
degli interrogatori, nel momento in cui si udì l’allarme antincendio i
rifugiati cominciarono a correre verso i ponti superiori, al grido di
“Ta kazania! Ta kazania!” (gli scaldabagni!), senza sapere dove
l’incendio fosse scoppiato esattamente; mentre i rifugiati alloggiati
sugli altri ponti interpretarono il suono della sirena come il segnale di
inizio di un’altra esercitazione sul ponte superiore, verso il quale si
diressero immediatamente.
Nel frattempo, la cabina 29 era completamente in fiamme: secondo la ricostruzione operata in seguito dai periti, il fuoco divampato
dal fornello caduto sui materassi, si estese alle mura della cabina e da
qui nel corridoio, rendendo vani i tentativi dell’equipaggio e del personale dell’UNRRA di spegnere il fuoco con gli estintori.
Ormai la notizia del fuoco si era diffusa in tutta la nave. Alle
12:30, circa 5 minuti dopo lo scoppio dell’incendio, il capitano ordiI quaderni del Cream, 2005, IV
50
nò di fermare i motori e spegnere il sistema di ventilazione interno
per dare maggiore forza alle pompe idriche, nel tentativo di domare
l’incendio: paradossalmente, come fu messo in evidenza dai tecnici
incaricati della perizia, la chiusura del sistema di ventilazione accelerò la diffusione del fuoco, poiché la presenza di aria compressa nei
condotti di ventilazione avrebbe potuto forse arrestare il rapido propagarsi delle fiamme. Fu ordinato l’immediato trasferimento di tutti i
rifugiati sul ponte superiore della nave. Mentre solo una piccolissima
minoranza riuscì a salire attraverso i boccaporti, la maggior parte,
soprattutto anziani e bambini, furono costretti a dirigersi verso la scala principale, nell’esatta direzione in cui era divampato l’incendio,
impietriti e terrorizzati alla vista delle fiamme.
Alle 12:59 il comandante Tylor lanciò un messaggio di SOS.
Nel frattempo, a bordo dell’Empire Patrol la situazione era peggiorata e il capitano diede l’ordine di calare in mare le quattro scialuppe di salvataggio, cariche di donne e bambini. Molti dei rifugiati
rimasti sul ponte decisero, colti dal panico, di gettarsi in mare, dopo
essersi legati delle corde in vita: rimasero aggrappati a salvagenti, a
pezzi di legno, a qualunque cosa galleggiasse, tentando con ogni
sforzo di rimanere attaccati alle fiancate della nave.
Ormai la sezione centrale della nave era completamente in fiamme, con la sala motori abbandonata a causa dell’intensità dei vapori.
Il fuoco divideva i passeggeri e l’equipaggio in due gruppi, a prua e a
poppa: la caduta di un grosso pezzo di legno nella parte centrale della
nave contribuì, unitamente al fuoco e al fumo, ad isolare completamente le due parti. Il fuoco si diffuse rapidamente nei piani bassi.
Alle 13:45, circa un’ora e un quarto dopo lo scoppio dell’incendio, le speranze di salvezza sembravano ormai poche e, dati gli infausti presagi, il comandante comunicò via radio: “mandate un rimorchiatore; fuoco completamente fuori controllo”. La temperatura
del mare che circondava la nave si era notevolmente alzata, divenendo pericolosa per i molti rifugiati che si trovavano in acqua, aggrappati con corde alle fiancate della nave.
Alle 14:30 le pompe della nave si fermarono, in seguito all’incendio della sala motori. Il comandante diede ordine di gonfiare i
galleggianti e trasferire i rifugiati fuoribordo. Fu gettato in acqua
I quaderni del Cream, 2005, IV
51
qualsiasi cosa fosse in grado di galleggiare.
Le testimonianze di alcuni sopravvissuti, raccolte da Boyatzis e
Pappas, contribuiscono a ricostruire la dinamica di quei momenti disperati.
Nick Lucas, 8 anni all’epoca del naufragio e successivamente trasferitosi in Australia, così rievoca il tentativo di 60 rifugiati di salire
a bordo di un gommone omologato per il trasporto di 12 persone:
“Ero una delle 12 persone che scese dalle scalette di corda nel gommone, assicurato alla nave per mezzo di una cima. Si decise di tagliare la cima
per paura che l’Empire Patrol esplodesse e che ciò causasse un’ondata che
ci trascinasse lontano. Mio fratello Lucas, realizzando che il gommone era
sovraffollato, si gettò in acqua. Essendo un buon nuotatore, nuotò fino ad
una barca nei paraggi e fu soccorso molto tempo dopo di noi. Pensammo
che fosse annegato”26.
Analogamente Evanghelia Mallis, scampata al naufragio e poi
stabilitasi in Australia:
“Mio padre calò i miei due fratelli, Paul e Lefy, nel canotto, con mia zia
Zoe e mio cugino Paul, affinché almeno qualche membro della famiglia avesse la possibilità di sopravvivere. A quel punto pensavamo che i soccorsi non
sarebbero mai arrivati. Per come andarono le cose, noi che eravamo ancora a
bordo della nave, fummo soccorsi prima di loro. Essi non furono recuperati
fino al giorno seguente e per un po’ pensammo che fossero annegati”27.
Mentre si tentava di trasferire i rifugiati dalla prua alla poppa della nave, ancora relativamente risparmiata dal fuoco, fu avvistata
all’orizzonte la sagoma della portaerei HMS Trouncer, che si trovava
a circa 5 miglia di distanza. La gioia si diffuse tra i rifugiati che cominciarono ad abbracciarsi e ad innalzare preghiere di ringraziamento.
Alle 15:30 il Trouncer si trovava a circa 500 metri dalla nave in
fiamme: furono calate in mare scialuppe per il recupero dei sopravvissuti situati in acqua tra le due navi, per poi passare a liberare i ri26
27
Boyatzis, Pappas, 1995, p. 49.
Boyatzis, Pappas, 1995, p. 49.
I quaderni del Cream, 2005, IV
52
fugiati intrappolati sul ponte di prua. Portata a termine questa prima
operazione, il Trouncer tentò di avvicinarsi alla poppa dell’Empire
Patrol per consentire ai rifugiati di scendere. L’eccessiva vicinanza
determinò la collisione tra la prua della portaerei e la poppa della nave in fiamme. Fu impossibile tendere una cima tra le due navi per
mantenerle vicine. Si decise quindi per l’unica soluzione possibile:
calare in mare i rifugiati sulle lance e sui gommoni. Fu data la priorità ai bambini e alle donne. Fu difficile per l’equipaggio riuscire a
mantenere l’ordine, anche a causa della difficoltà di comunicazione
in inglese.
Sul far della sera, i rifugiati, imbarcati sul Trouncer, furono curati
e rifocillati. Non si avevano più notizie di tre scialuppe di salvataggio, trascinate dalla corrente lontano, quattro ore prima. Molte scialuppe e gommoni carichi di rifugiati si trovavano ancora in balia delle onde: molti furono capovolti.
Gli ultimi rifugiati rimasti a bordo furono trasferiti sul Trouncer
senza intoppi. Il comandante e gli ultimi ufficiali abbandonarono la
nave alle 20:00. Con il buio la ricerca dei sopravvissuti in mare divenne praticamente impossibile. Il numero dei sopravvissuti ammontava a 329 tra coloro che erano stati sbarcati dall’Empire Patrol e coloro che erano stati recuperati dalle scialuppe e dai gommoni.
Nel corso delle ore successive, anche grazie all’intervento di alcune navi e pescherecci che avevano raccolto l’SOS, furono recuperate alcune scialuppe cariche di rifugiati, tra cui John Karayannis, tra
i primi a gettarsi fuori bordo allo scoppio dell’incendio, rimasto per
lungo tempo appeso ad una scala di corda:
“Vidi che le fiancate della nave erano incandescenti e decisi di tagliare la
corda. Tutti e tre (n. d. t. madre e sorella) restammo appesi ad una scatola che
era stata lanciata in mare dalla nave, per più di 17 ore. Vedemmo molti kastelloriziani affogare accanto a noi ma non potevamo fare nulla. Quando il giorno
successivo la scialuppa di salvataggio ci trovò, ci trascinò di peso a bordo”28.
28
Boyatzis, Pappas, 1995, p. 62-63.
I quaderni del Cream, 2005, IV
53
Il bilancio complessivo delle persone recuperate fu di 497 rifugiati, 11 guardie greche, 4 membri dell’UNRRA, 49 membri dell’equipaggio, per un totale di 562 persone. I morti furono complessivamente 35, 2 membri dell’equipaggio e 33 rifugiati kastelloriziani.
L’Empire Patrol continuò a bruciare: il giorno successivo si tentò
di rimorchiarla ma affondò a 28 chilometri da Porto Said.
Questa, a grandi linee, la ricostruzione degli accadimenti operata a
partire dalle testimonianze dei marinai, degli ufficiali, dei membri
dell’UNRRA nel corso del processo. Ma se il tono asettico delle deposizioni dei testimoni non seppe rendere conto del carattere emotivo
degli eventi, esso ci è in parte restituito dal ricordo, a tratti confuso e
sbiadito dal succedersi degli anni, di una rifugiata, sopravvissuta al
naufragio e in seguito ritornata a vivere a Kastellorizo, Irini Palaiologou:
“Arrivammo con la terza missione. Ci caricarono sul treno e scendemmo
a Porto Said. Lì la Bay Patrol29 era pronta, salimmo a bordo e cominciammo
a partire. Eravamo tutti felici e cantavamo. Cantavamo perché stavamo facendo ritorno a Kastellorizo. Non appena andammo a dormire udimmo le
sirene30. Ci alzammo, terrorizzati. Che cosa si vedeva? Fiamme che saltavano, voci, commozione, pianti, una moltitudine rumorosa. “La nave va a fuoco, la nave va a fuoco”, gridavamo, che potevamo fare? Alcuni si gettavano
in mare, altri si infilavano sulle barche, tagliavano le cime per lanciarsi in
mare, le barche si capovolgevano, la gente affogava. Vedevamo donne
sommerse nuotare nel mare. ”Michali”, gridavo “cosa dovremmo fare? I
bambini. Mio Dio, dove è Nikos, dove è il nostro bambino?” Egli disse: “è
sotto coperta che dorme”. Mio marito corse nel fuoco, tra le fiamme, svegliò il bambino, lo portò di sopra. Il mio adorato bambino. Non aveva idea.
Mio marito dice di andare al cannone. Va al cannone, getta una pietra dentro, è vuoto: ci sediamo qui e quando arriverà il fuoco ci getteremo in mare”. Dico: “Michali o bruceremo tutti o ci salveremo tutti”. Egli dice di get29
Deformazione fonetica di Empire Patrol.
Qui la Palaiologou confonde il succedersi degli eventi. L’incendio scoppiò infatti
poco dopo mezzogiorno, quando i rifugiati rientrarono nelle cabine dopo le esercitazioni antincendio e non durante la notte.
30
I quaderni del Cream, 2005, IV
54
tare il bambino in mare così il nostro nome continuerà… “Per amor di Dio”,
rispondo “gettare il nostro bambino in mare con le nostre mani. Per amor di
Dio, o ci salveremo tutti o bruceremo tutti”. Ad ogni modo, ad un certo punto un aereo vola sopra di noi. “Siamo salvi ora” dice mio marito. “Togliti i
vestiti, segnala: aiuto, aiuto” e piangiamo. Gli aerei ci videro e volarono in
cerchio sopra di noi, ci gettarono bottiglie, acqua e medicine. Meno di
mezz’ora dopo una portaerei arriva, così enorme che non posso descriverla... Un’intera città. Ma non poteva avvicinarsi alla nave per non prendere
anch’essa fuoco. Inviò alcune lance a motore e gli inglesi vennero con queste e ci caricarono. Caricarono immediatamente quelli che erano saltati in
mare, li fecero sedere sulla barca, li portarono sulla nave. La prima cosa che
fece mio marito, poiché avevo un bambino di tre mesi, fu togliersi i pantaloni e farne una sorta di imbracatura e calarlo con una cima. Srotolò un intero rotolo di corda e prendemmo il bambino senza farlo cadere in mare. Il
piccolo, di soli tre mesi. Gettammo gli altri bambini in mare con i loro
giubbotti salvagenti, li presero e li misero nella lancia, e quando fu piena li
condussero sulla nave e li depositarono lì”31.
Quello stesso anno, fu costituita una “Commissione di Inchiesta”
della Marina inglese per scoprire le cause dell’incendio e per rimuovere qualsiasi sospetto di responsabilità degli ufficiali inglesi nell’accaduto. La Commissione si riunì a Porto Said il 9 ottobre e nei nove
giorni successivi interrogò 26 testimoni: 23 membri dell’equipaggio
(tutti militari), un’infermiera americana dell’UNRRA, una sola rifugiata (Katerina Palassi), un medico dell’ospedale di Porto Said.
La Commissione stabilì che il fuoco, scatenato da un fornelletto a
cherosene adibito al riscaldamento di latte e acqua, di proprietà dell’UNRRA, lasciato casualmente acceso nella cabina adibita ad infermeria, si fosse rapidamente propagato a causa della presenza di
materiale combustibile, determinando l’incendio. L’inchiesta concluse che la morte dei passeggeri fosse da attribuirsi ad una “mancanza
di disciplina tra i rifugiati”32, i quali cominciarono a lanciarsi fuori31
La testimonianza di Irini Palaiologou è stata raccolta e filmata da Karakostas nel
1985, nel contesto del documentario My Little Kastellorizo, prodotto nel 1994.
32
Il verdetto della Corte è interamente riportato in Boyatzis, Pappas, 1995, p. 113119.
I quaderni del Cream, 2005, IV
55
bordo, contravvenendo agli ordini degli ufficiali e rendendo difficoltose le manovre di messa in mare delle scialuppe di salvataggio. Ad
essa andarono ad aggiungersi le difficoltà di comunicazione poiché i
rifugiati non parlavano inglese e la traduzione era affidata solo alle
undici guardie greche presenti a bordo: l’impossibilità di recepire le
istruzioni circa le manovre in atto non fece che accrescere il panico e
la confusione, rallentando l’attività dell’equipaggio.
Come attesta la lettura del rapporto redatto dal capitano dell’Empire Patrol, all’indomani dell’incidente, le cause che determinarono
lo scoppio dell’incendio sono liquidate come “ignote”, mentre indubbia appare la responsabilità dei rifugiati che con il loro panico avrebbero impedito all’equipaggio di compiere al meglio le procedure necessarie allo spegnimento dell’incendio.
La lettura degli atti del processo, rivela il sovrapporsi di differenti
questioni: il numero di rifugiati imbarcati, superiore al numero massimo di passeggeri (pari a 486) consentito dalle norme di sicurezza;
la mancanza di dettagliate ispezioni nelle cabine prima della partenza, che sottintende un problema tassonomico relativo alla definizione
dell’imbarcazione – si tratta di veicolo militare o commerciale?33 –;
33
Durante questo viaggio l’Empire Patrol era in possesso dello statuto ibrido di nave, normalmente destinata al trasporto di militari, eccezionalmente adibita al trasporto di rifugiati. La sua condizione ambigua, rese difficile non solo una sua classificazione, ma soprattutto la decisione su quale regolamento seguire, quello relativo alle
navi militari o commerciali, in particolare per quanto riguarda le modalità di ispezione delle cabine antecedenti la partenza. Mentre nel caso di navi militari, le ispezioni prevedevano il controllo dei bagagli dei militari, per assicurarsi che essi fossero in possesso di lenzuola, coperte, gavette e uniformi, nel caso di navi commerciali
le ispezioni erano finalizzate semplicemente ad accertarsi che i passeggeri si fossero
sistemati adeguatamente, senza che ciò comportasse la perquisizione dei bagagli e
soprattutto una seconda ispezione prima della partenza. Quest’ultimo particolare solleva la questione relativa allo statuto dei passeggeri stessi, sempre classificati in termini di “rifugiati” da parte degli ufficiali e dei membri dell’equipaggio interrogati
durante il processo: questo statuto ibrido rappresentava infatti l’elemento a cui i militari si appellavano per giustificare la mancata seconda perquisizione delle cabine.
Come recita l’Articolo 60 delle Regulations for His Majesty’s Sea Transport Service: “sulle navi adibite al trasporto di truppe o sulle navi da carico che trasportano 50
o più passeggeri governativi (“government passengers”) di terza classe, avrà luogo
I quaderni del Cream, 2005, IV
56
la trasgressione della “Regola 94”34 delle “Instructions to Sea Transport Officers” – secondo la quale nessuna imbarcazione, priva del
“Board of Trade Passenger Certificate” o del “Colonial Passenger
Certificate” rilasciati dal Ministero del Commercio britannico, poteva essere adibita al trasporto di uomini, se non in caso di emergenza;
ed infine lo statuto attribuito al fornelletto a cherosene, – parte dell’equipaggiamento dell’UNRRA o oggetto da requisire in quanto potenzialmente pericoloso? – riconosciuto come causa dell’esplosione
dell’incendio.
Il 18 ottobre, la Corte emise il verdetto: il fuoco era divampato nella
cabina attigua all’infermeria, in cui erano custodite provviste ed attrezzature appartenenti all’UNRRA, tra cui un fornello a cherosene, utilizzato per scaldare acqua e latte e riconosciuto come origine dell’incendio.
La Corte accettò la deposizione dell’infermiera dell’UNRRA secondo
un’ulteriore ispezione dopo l’imbarco, per accertare che ogni cosa sia in ordine e,
verificato ciò, la nave prenderà il mare” (citato in Boyatzis, Pappas, 1995, p. 93). Il
testo dell’articolo, che non opera alcuna distinzione tra navi militari e da carico, si
scontra però con l’evidenza della mancata perquisizione alle cabine dell’Empire Patrol, giustificata dagli ufficiali responsabili mediante il ricorso alla distinzione tra
rifugiati da un lato e passeggeri governativi o militari dall’altro.
34
Questo il testo della regola 94: “eccetto in caso di emergenza, nessuna nave,
sprovvista del Board of Trade Passenger Certificate o di un Colonial Passenger
Certificate, riconosciuto dal Ministero del Commercio, può essere adibita al trasporto di uomini” (Pappas, Boyatzis, 1995, p. 80). Il testo citato apre lo spazio per alcune
importanti questioni. In primo luogo, l’espressione “in caso di emergenza” pone un
problema di classificazione: il trasferimento in tempo di pace di rifugiati da un porto
straniero (Porto Said) ad un altro (Kastellorizo) rientra nella definizione di “caso di
emergenza”? L’interrogativo, sollevato nel corso del processo, è rimasto tuttavia
senza risposta. Inoltre, essendo l’Empire Patrol una nave inglese, immatricolata a
Malta, dominio britannico, in navigazione tra due porti stranieri, doveva sottomettersi alla legislazione inglese, che come abbiamo visto richiedeva il certificato passeggeri del Ministero del Commercio britannico, oppure, trovandosi in territorio straniero, non era tenuta a rispettare tale legislazione? I testimoni interrogati, in particolare
il primo ufficiale dei Trasporti Marini a Porto Said, chiamato a testimoniare in qualità di esperto delle condizioni richieste dal Merchant Shipping Act e della legislazione correlata, sostennero la necessità, in casi analoghi a quello dell’Empire Patrol, di
sottostare alle legislazioni locali dei paesi in cui si naviga.
I quaderni del Cream, 2005, IV
57
la quale avrebbe provveduto a spegnere il fornello prima di uscire
dalla stanza, giungendo alla conclusione che il fornello fosse stato in
seguito manomesso da qualcuno non autorizzato.
Fu esclusa qualsiasi responsabilità da parte degli ufficiali, la cui
condotta fu giudicata soddisfacente, tenuto conto delle “difficili” circostanze.
A giudizio della Corte, l’attrezzatura antincendio presente a bordo
fu ritenuta adeguata ed utilizzata prontamente e al meglio, date le critiche condizioni in cui l’equipaggio si trovò ad operare, soprattutto
negli attimi immediatamente successivi allo scoppio dell’incendio, a
causa del panico dilagante tra i rifugiati. Anche l’attrezzatura di
salvataggio fu giudicata adeguata rispetto al numero dei passeggeri e
utilizzata correttamente nonostante le difficoltà linguistiche e il terrore
dei rifugiati. Analogamente le procedure di salvataggio messe in atto
dalle navi accorse in aiuto furono valutate soddisfacenti e tempestive.
È interessante sottolineare come, nel formulare il verdetto, la Corte abbia incentrato l’attenzione su alcuni elementi, escludendone altri: in primo luogo, la confusione e il caos a bordo, prodotti dal panico dei passeggeri – come fu ripetuto costantemente nel corso dell’inchiesta – furono assunti come postulati, non verificati mediante le
testimonianze dei rifugiati stessi, ma semplicemente dedotti dalle asserzioni dei membri dell’equipaggio e degli ufficiali interrogati. Non
fu invece tenuto conto del fatto che i rifugiati superavano i membri
dell’equipaggio in un rapporto di almeno uno a dieci; né fu attribuita
importanza all’assenza di interpreti ufficiali tra i membri dell’UNRRA
o al ritardo nell’invio dei soccorsi e nel coordinamento delle operazioni di salvataggio da parte delle autorità navali di Porto Said.
Il giudizio della Corte si concluse con una duplice esortazione per
il futuro: da un lato la raccomandazione che, in caso di trasporto di rifugiati, il numero di passeggeri imbarcati fosse molto inferiore a quello autorizzato in caso di trasporto di militari; dall’altro, l’obbligo di estendere il divieto di utilizzo di fornelli a cherosene anche ai membri
dell’UNRRA. Queste disposizioni, seppure parzialmente in contrasto
con il verdetto della Corte, presentate sotto la veste di semplici raccomandazioni, celano indirettamente il riconoscimento del fatto che un
numero eccessivo di passeggeri fosse stato imbarcato e il sospetto che
I quaderni del Cream, 2005, IV
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le procedure di controllo fossero state compiute in modo superficiale
da parte dei membri dell’equipaggio e degli ufficiali incaricati.
La principale critica che ancora oggi viene rivolta alla Commissione di Inchiesta da parte dei kastelloriziani che evocano l’accaduto,
è di non aver interrogato Kristina Papoutsis, l’unica testimone presente al momento dello scoppio dell’incendio, ricoverata, durante il
processo, all’ospedale di Porto Said, in seguito alle ustioni riportate,
nonostante il consenso del medico che l’aveva in cura ad un eventuale interrogatorio entro pochi giorni.
Sulle pagine del libro di Boyatzis e Pappas sono stati fissati i ricordi di Kristina Papoutsis, ritornata a Kastellorizo non appena fu
dimessa dall’ospedale e rimasta sull’isola fino alla morte, avvenuta
nel 1997: l’assenza di ispezioni precedenti la partenza; il mal di mare
che quella mattina del 29 settembre 1945 la costrinse a letto con i
suoi due bambini; l’immagine sfocata di qualcuno intento a riscaldare acqua e latte nella cabina adibita ad infermeria; il brusco risveglio
dal sonno in seguito al rumore provocato dalla caduta del fornelletto
acceso su un materasso adiacente al suo letto, che subito prese fuoco.
I ricordi narrati, ancora vividi, a dispetto dei 50 anni trascorsi, consentono di confermare l’ipotesi che il fornello fosse acceso, per dimenticanza o a causa della manomissione da parte di qualcuno non
autorizzato e mai scoperto.
Quale contributo avrebbe potuto fornire la testimonianza della
Papoutsis all’indagine e quali siano stati i motivi che indussero la
Corte a porre fine al processo senza attendere i pochi giorni richiesti
dal medico per acconsentire all’interrogatorio, rappresentano ulteriori interrogativi destinati a rimanere senza risposta. È tuttavia evidente
che l’Inchiesta lasciò in sospeso molte questioni, arrivando a costruire una rappresentazione dell’accaduto il meno possibile negativa per
le autorità inglesi, che auspicavano la rapida chiusura dell’intera vicenda, senza eccessivi clamori.
Il ricordo del “naufragio” dell’Empire Patrol rimane, a quasi 60
anni di distanza, come “evento della memoria”, elemento coesivo
della piccola comunità di sopravvissuti che fece ritorno a Kastellorizo, così come della più vasta comunità di kastelloriziani che decisero
di emigrare in Australia, come attestano i nomi delle vittime scritti in
I quaderni del Cream, 2005, IV
59
un’apposita bacheca nella chiesa di San Costantino ed Eleni, a Kastellorizo, e le celebrazioni commemorative che hanno luogo ogni
anno in Australia.
4. Antenati lontani.
L’episodio dell’Empire Patrol rientra nella categoria, precedentemente delineata, degli “eventi di memoria”, eventi simbolici dotati
di una capacità coesiva ed evocativa dell’identità collettiva di una
comunità.
Agli occhi dei suoi membri, il naufragio rappresentò il “colpo di
grazia” inferto alla vita economica e sociale dell’isola, già duramente
provata dalla guerra e dalla forte emigrazione che, in seguito al naufragio, non fece che aumentare, e al tempo stesso, il “punto di svolta”
simbolico nella storia di Kastellorizo nel XX secolo, poiché coincise
con una seconda fase: l’avvio di una nuova esistenza in Australia, in
“una comunità distante, molto più grande di quella di nascita”35.
L’episodio del naufragio viene dunque trasformato dalla comunità
dei kassi, attraverso la mediazione del ricordo, in un “evento della
memoria”, in grado di connettere Kastellorizo, l’Heimat originaria,
con l’Australia, la nuova patria che divenne la casa di più dell’80%
di tutti i kastelloriziani e dove “la memoria della saga dell’Empire
Patrol è più vividamente promossa”36, mediante commemorazioni
annuali durante le quali le vittime del naufragio, i cui nomi vengono
recitati pubblicamente, subiscono un processo di trasfigurazione in
eroi mitici, fondatori della comunità kastelloriziana australiana che
raggruppa oggi circa 50.000 discendenti originari di Kastellorizo.
Il valore simbolico attribuito al naufragio viene sintetizzato nelle
righe dedicate da Pappas al ricordo di tutte le volte che udì i parenti
più anziani raccontare gli accadimenti che ebbero luogo:
35
36
Boyatzis, Pappas 1995, p. 122.
Boyatzis, Pappas 1995, p. 121.
I quaderni del Cream, 2005, IV
60
“Allora non capivo che la storia dell’Empire Patrol non è solo il racconto dell’affondamento di una nave che trasportava rifugiati nel Mediterraneo
orientale. È invece una storia che è divenuta l’elemento centrale dell’identità kastelloriziana del XX secolo. Diverse nazionalità e gruppi culturali sono spesso definiti dalle calamità che li hanno colpiti… Mentre, da un lato,
esso rappresentò il colpo finale ad una comunità già devastata dalla guerra e
dalla miseria, esso fu anche il punto di svolta nelle sorti della comunità”37.
In questa prospettiva, il naufragio rappresenta l’elemento catalizzatore intorno al quale si è costruita l’identità e la coesione della comunità kastelloriziana in Australia, come attesta il commento di Boyatzis e
Pappas alla cerimonia che ebbe luogo a Perth nel 1985, in occasione
del quarantesimo anniversario del “Navayio” (naufragio), considerato:
“… più come l’elemento catalizzatore del processo migratorio in Australia e punto di riferimento per la comunità kastelloriziana, che come perdita
di vite umane. Il disastro stesso ha contribuito a definire l’identità kastelloriziana. …Il retaggio dell’Empire Patrol rimane con loro (n.d.t. sopravvissuti emigrati in Australia) e serve come ricordo per i loro figli della loro buona
fortuna in un’altra terra”38.
La comunità kassi rientra pienamente nella categoria delle comunità diasporiche, nell’accezione elaborata da Safran di “comunità di
minoranze espatriate”39: è caratterizzata dalla dispersione dei suoi
membri su un territorio estremamente esteso come l’Australia; è de37
Boyatzis, Pappas 1995, p. 8.
Boyatzis, Pappas 1995, p. 122.
39
Definizione di Safran, che tenta di elaborare una vera e propria tassonomia dei
criteri di definizione delle diaspore che sono 1) distaccate da un “centro” immaginario in almeno due luoghi “periferici”; 2) che mantengono “una memoria, una visione, o un mito circa la loro terra di origine”; 3) che “ritengono di non essere – e magari di non potere essere – pienamente accettate dal paese che le ospita”; 4) che vedono la terra degli antenati come il luogo di un eventuale ritorno; 5) che si preoccupano del mantenimento o della restaurazione della patria di origine; 6) la cui coscienza ed identità di gruppo sono “definite in maniera rilevante” dal permanere di
questa relazione con la patria lontana (Safran, 1991). Le definizioni tra virgolette
sono riprese da Clifford (1999, p. 303).
38
I quaderni del Cream, 2005, IV
61
finita dall’elemento fondativo comune della nave, mezzo con il quale
gli emigrati kastelloriziani giunsero in Australia, ma anche mezzo su
cui si consumò la tragedia dell’Empire Patrol; è caratterizzata da una
Heimat sulla quale si è perso il dominio e che ha portato di conseguenza alla sua idealizzazione.
La comunità dei kassi rappresenta inoltre la comunità in xenitia
per antonomasia.
Tre sono le caratteristiche che rendono l’episodio del naufragio e i
suoi protagonisti idonei a rappresentare rispettivamente l’evento costitutivo e gli eroi fondatori della suddetta comunità kassi.
In primo luogo, la modalità scritta – il libro di Boyatzis e Pappas,
ma anche gli articoli sui quotidiani locali che ogni anno accompagnano la celebrazione della ricorrenza del naufragio – a cui è affidata
la trasmissione del ricordo dell’evento, caratteristica delle comunità
migranti, distribuite su un territorio esteso.
In secondo luogo, il racconto dell’evento-naufragio coincide con
il racconto della perdita del dominio sull’Heimat originaria da parte
della comunità dei kassi, indotti da quello che viene percepito come
l’ultimo anello di una catena di eventi responsabili del crollo definitivo di Kastellorizo, a cercare altrove la loro fortuna.
Infine, il naufragio dell’Empire Patrol rappresenta l’evento diasporico per antonomasia: avviene su una nave, elemento chiave del
subconscio collettivo che accomuna tutti i membri della comunità
poietizzata da quell’evento. La nave rappresenta infatti il mezzo di
trasporto che consente di realizzare il sogno che in un caso si infrange – quello dei rifugiati che a bordo dell’Empire Patrol ritornano a
Kastellorizo – e nell’altro si realizza – quello dei tanti kastelloriziani
che a bordo di anonime navi sbarcano in Australia –, elemento che
accomuna tutti i membri della comunità e che ne evoca al tempo
stesso la condizione di esuli ed emigranti. Significativo, a questo
proposito, il fatto che molti kassi, nel rievocare l’episodio del naufragio, sia in qualità di testimoni in prima persona, che in quella di
depositari di un racconto tramandato di generazione in generazione,
siano convinti che l’incidente abbia avuto luogo sulla nave che stava
conducendo i primi kastelloriziani che emigrarono in Australia: Boyatzis e Pappas sottolineano la difficoltà di numerosi kassi da essi
I quaderni del Cream, 2005, IV
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intervistati ad attribuire all’episodio del naufragio la sua esatta collocazione spaziale e temporale, spostando il ricordo in una fase successiva e su di un’altra imbarcazione che rappresenta l’archetipo di tutte
le navi che consentirono ai kastelloriziani di effettuare “il viaggio di
andata in Australia”40.
L’episodio analizzato rappresenta un’efficace illustrazione del
processo di selezione sociale del ricordo messo in atto dalla memoria
collettiva di una comunità, attraverso il quale si costruisce la continuità tra passato e presente e si rafforza il senso di appartenenza ad
essa. Attraverso la mediazione del ricordo, attivata dal racconto dei
testimoni e dei loro discendenti, si opera la trasformazione di un episodio della storia locale in “evento di memoria” e la trasfigurazione
dei suoi protagonisti in figure spirituali dotate di un forte potere evocativo della coesione e dell’identità della comunità. La realtà dei fatti che
ebbero luogo nel corso del navayo e la morte dei suoi protagonisti appaiono secondarie rispetto all’efficacia simbolica di cui sono investiti e
in cui la dimensione individuale e quella collettiva della memoria si
intrecciano costantemente: attraverso il loro ricordo si fonda l’identità
presente della comunità dei kassi e di riflesso della comunità kastelloriziana. Il ricordo delle 33 vittime del naufragio, trasformate dalla narrazione dell’evento messa in atto dai kassi, in eroi fondatori, in “antenati lontani”, sepolti nel cimitero di Kastellorizo, rimane vivo anche tra i
kastelloriziani rimasti sull’isola, come attesta l’elenco dei nomi, incisi in
ordine verticale, accompagnati dall’indicazione dell’età, su una lapide
commemorativa situata nella piazza principale, preceduti dalla scritta:
“affinché non li si dimentichi”.
40
Questa l’espressione più ricorrente nelle interviste. Gli autori sottolineano anche
come alcuni kassi ritengano che il naufragio sia stato causato da un bombardamento,
anche se non sono in grado di attribuirne la responsabilità.
I quaderni del Cream, 2005, IV
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I quaderni del Cream, 2005, IV
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LIVIA NAPOLEONI
LE GUERRE DIMENTICATE:
LA GUERRIGLIA MAOISTA IN NEPAL
E LA QUESTIONE FEMMINILE.
TENDENZE RIVOLUZIONARIE E TENDENZE DEMOCRATICHE
NELLE ORGANIZZAZIONI DELLE DONNE.
IL SISTEMA CASTALE E IL FEMMINISMO.
1. La situazione attuale
Nel composito panorama politico del Nepal assistiamo già da
qualche anno (esattamente dal 1996, data ufficiale dell’inizio della
“Guerra di popolo”, dichiarata dai Maoisti durante il regno di Birendra) al tentativo da parte della guerriglia maoista di sovvertire
l’ordine politico, già precario, della monarchia, che dovrebbe presumibilmente acquisire un carattere costituzionale. La situazione politica attuale infatti, vede schierati da un lato, una monarchia che dovrebbe garantire i diritti costituzionali (ma nella quale, l’attuale re
Gyanendra della dinastia Shah, accusata di nepotismo e corruzione,
si serve di poteri extraparlamentari per contrastare la guerriglia maoista ma anche nel tentativo di tornare all’autocrazia) e, dall’altro, gli
insorti, che dichiarano di lottare contro la povertà e contro le discriminazioni fondate sulla casta e l’etnia, ma che hanno più volte esplicitato i loro obiettivi politici: abolire la monarchia attraverso la lotta
di classe e instaurare una repubblica monopartitica.1 Nel 2003 le implicazioni della guerra civile sono cambiate. Infatti, gli eventi del
2001 (il massacro della famiglia reale a giugno; l’attacco dell’11 set1
Gouverneur, 2003.
I quaderni del Cream, 2005, IV
67
tembre a New York e a Washington) hanno segnato l’inizio della
guerra al terrorismo guidata dagli USA. La fine del dialogo tra Maoisti e Governo e la Dichiarazione dello Stato di Emergenza, il 26 novembre 2001, hanno contribuito a cambiare il contesto politico della
guerra. Il conflitto non è più considerato una questione locale di pertinenza solo della polizia2: nel dicembre 2002 infatti il Dipartimento
di Stato americano ha inserito il Communist Party of Nepal (CpnMaoist) nella lista delle organizzazioni terroristiche internazionali.
D’altra parte lo spostamento verso il centro dell’ex partito comunista
UML (Communist Party of Nepal United Marxist-Leninist), diventato neoliberale, potrebbe liberare uno spazio a sinistra per il CpnMaoist, permettendogli di rientrare nell’arco costituzionale. Il conflitto ha avuto un primo inizio già nel ’94 quando i Maoisti iniziarono una campagna di mobilitazione politica in quella che sarebbe diventata la Zona Rossa (l’area considerata il quartier generale dei Maoisti che comprende i distretti del Rolpa e del Rukum, nella regione
centro-occidentale del Nepal. Nel novembre ’95, per tutta risposta, la
coalizione del primo ministro Deuba, iniziò una campagna di polizia
conosciuta come Operazione Romeo. Un rapporto sui diritti umani
descrive l’operazione come “massiccia, brutale, con gravi violazioni
dei diritti umani, che includono tortura, stupri e omicidi”. A Kathmandu l’Operazione Romeo fu percepita da molti come un assalto
violento, la cui estensione geografica è andata ben oltre il distretto
del Rolpa.3 L’insurrezione si è radicata in modo specifico in questa
zona montagnosa ricoperta di foreste che, dalla fine degli anni trenta
fino al 1976 (data dell’“Atto contro l’uso e il traffico di droga”), era
la principale area di produzione di hashish del Nepal. I Maoisti sono
entrati in queste aree senza trovare opposizione, in primo luogo perché il governo, durante i primi cinque anni del conflitto, non mobilitò
l’esercito, in secondo luogo perchè l’intimidazione maoista, secondo
Gersony, rende obbedienza alla loro amministrazione. La natura del2
3
Karki, Seddon, 2003, p. IX.
Gersony, 2003, p. 38.
I quaderni del Cream, 2005, IV
68
la politica dei Maoisti in queste zone remote vede i simpatizzanti mitizzare i loro scopi e le loro azioni, mentre altri li demonizzano asserendo che hanno ridotto le loro terre in rovina nel corso della Campagna Anno Zero che richiama alla mente le azioni dei Khmer Rossi
in Cambogia.4 Gli intervistati da Gersony hanno raccontato di casi di
violenza, stupri, amputazioni, sgozzamenti. Sono testimoniati anche
casi di mutilazioni atroci, senza precedenti nella storia nepalese,
compreso il taglio della lingua, l’asportazione degli occhi, etc. Il peso maggiore di questa situazione ricade su donne e bambini. I bambini vengono usati per trasportare esplosivi e spesso molti di loro restano disabili o muoiono. La percentuale delle donne uccise è molto
alta sia tra le guerrigliere sia tra le donne inermi sospettate di sostenere i Maoisti. Ci sono prove evidenti che le donne sospettate di appoggiare i terroristi in queste zone siano torturate e violentate dalla
polizia. L’uso di donne e bambini come scudi umani è praticato sia
dai maoisti che dalla polizia. Le donne delle zone rurali non possono
andare nella foresta a tagliare legna a causa del rischio rappresentato
sia dai Maoisti sia dalla polizia. A causa del terrore i giovani fuggono dai villaggi che restano abitati solo da vecchi, donne e bambini.
Le donne devono sopportare da sole il peso della situazione: il terrore e la lotta per la sopravvivenza. Problemi particolari sono dovuti
alla mancanza di centri medici che il governo ha spostato altrove e
che il governo dei Maoisti non ha pensato a rimpiazzare, soprattutto
per quanto riguarda la maternità e le cure post-parto. Molti insegnanti sono stati trasferiti dalle zone di guerra, privando i bambini del diritto allo studio.5 Secondo Robert Gersony, la sfiducia nei confronti
della democrazia multipartitica non costituisce la causa del conflitto.
I residenti della Zona Rossa non hanno dato una valutazione negativa
nei confronti di tutti i dodici governi che si sono succeduti negli ultimi dieci anni. Ma, secondo il loro modo di vedere, il processo democratico è un processo nuovo che non ha avuto ancora modo di af4
5
Gersony, 2003, pp. 95-98.
Shakya, 2003, p. 393 e seg.
I quaderni del Cream, 2005, IV
69
fermarsi a causa dello scoppio del conflitto proprio pochi anni dopo
il suo inizio (il “Movimento popolare per la democrazia” e la nascita
della Costituzione risalgono infatti al 1990). La maggior parte dei residenti della Zona Rossa percepisce quindi la democrazia come la sola fattibile alternativa alle due autocrazie gemelle: il vecchio stato
feudale e i Maoisti.6 Conformemente a quanto afferma la più autorevole organizzazione per i diritti umani del Nepal (CWIN), i sei distretti del Rolpa, Rukum, Surkhet, Banke, Salyan e Bardiya sono i più
implicati nel conflitto e in questi sei distretti si sono avute all’incirca
un terzo di tutte le vittime fino a metà del 2003. Secondo il rapporto
di Gersony (2003), in sette anni di guerra, dal febbraio ’96 al gennaio
2003, 7.400 persone, compresi 2.400 combattenti armati e 5000 civili, sono state uccise, mentre oggi la stima è salita a circa 10.000. Un
esempio coinvolgente delle condizioni che riguardano i civili in questo contesto ci è dato da una ricerca sul campo svolta da Judith Pettigrew7 che esamina le interpretazioni, le rappresentazioni e le relazioni tra abitanti e combattenti nel villaggio di Maurigaun (nome fittizio), vicino ad una zona gravemente interessata dal conflitto. Questo
lavoro considera come la presenza dei Maoisti e dell’esercito colpisca la vita degli abitanti ed esamina gli effetti della cultura del terrore
che si è diffusa nel villaggio e le strategie di sopravvivenza degli abitanti, chiedendosi quali risorse culturali e psicologiche diventino significative per resistere alle vicissitudini della violenza armata. Uno
dei principali contributi antropologici allo studio della violenza politica secondo Pettigrew, è stata la diffusione del concetto di “culture
del terrore” (Taussig; Sluka). Una “cultura del terrore è un sistema
istituzionalizzato di intimidazione permanente delle masse oppresse
da una èlite e caratterizzato dall’uso di tortura, rapimenti ed esecuzioni sommarie come prassi consolidata… Una cultura del terrore
instaura la ‘paura collettiva’ come mezzo brutale di controllo sociale… Quando la paura diventa consuetudine, la cultura del terrore si è
6
7
Gersony, 2003, p. 96 e seg.
Pettigrew, 2002, p. 261 e seg.
I quaderni del Cream, 2005, IV
70
affermata”.8 Lo scopo principale di questo lavoro sul campo di Pettigrew è quello di analizzare i fatti culturali e le conseguenze che la
“cultura del terrore” ha prodotto a Maurigaun. Mentre apparentemente la vita quotidiana procede nei consueti ritmi, essa può essere sconvolta in qualsiasi momento dal terrore e dalla violenza. Linda Green
suggerisce che “con la ripetitività, con l’abitudine, la gente si adegua
al terrore e alla paura che diventa routine”.9 “Il coprifuoco – riferisce
Pettigrew – i posti di blocco, la militarizzazione della vita in Nepal e
persino la vita con i Maoisti, sono diventati abituali”. Tornata nel villaggio di Maurigaun nel giugno del 2002, dopo la sua ultima visita
avvenuta l’anno precedente, Pettigrew ha avuto contatti con diverse
persone del luogo, soprattutto donne conosciute precedentemente.
Secondo la testimonianza di Gita, la donna che l’ha ospitata: “…i
Maoisti arrivano e costringono gli abitanti a fornire loro vettovaglie,
poi arriva l’esercito e incolpa la gente di complicità…Un mio amico
insegnante è stato ucciso davanti a tutti gli abitanti; lo hanno sgozzato dopo averlo legato ad un albero. Era accusato di aver fornito informazioni alla polizia su un maoista e di aver insegnato il sanscrito
che i maoisti hanno bandito. Gli insegnanti sono molto preoccupati
perché i Maoisti hanno chiesto loro due mesi di stipendio e vogliono
lasciare il villaggio”. Durga, proprietaria di un teashop, riferisce:
“Sono entrati nel mio negozio. Tra di loro c’era una ragazza molto
giovane. Per fortuna ho mandato mia figlia in città, altrimenti sarebbe stata reclutata a forza. Hanno chiesto cibo e riparo per la notte. Ho
chiesto loro di non dormire qui, altrimenti tutta la mia famiglia sarebbe stata uccisa dall’esercito…” Sotto l’apparente normalità, a detta di Pettigrew, si avvertiva un clima di intimidazione. Prima della
Dichiarazione dello Stato di Emergenza c’era stata nel villaggio solo
qualche visita da parte dell’esercito. “Come molti contadini nepalesi
– riferisce Pettigrew – gli abitanti del villaggio si proteggono con
armi proprie. In passato la polizia veniva solo per crimini gravi.
8
9
Pettigrew, 2002, p. 262.
Green citato in Pettigrew, 2002, p. 262.
I quaderni del Cream, 2005, IV
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L’esercito raramente si è visto prima del 2001: gli abitanti dicevano
che non c’era bisogno di loro. L’esercito reale nepalese è visto come
un gruppo appartenente a etnie diverse da quelle del villaggio e i soldati sono considerati degli estranei”.10 Alle domande di Pettigrew riguardo alla vita quotidiana e alla presenza dei Maoisti, Sunita, un’altra donna del villaggio, ha risposto:
“Oggi ce n’è un gruppo qui: sono seduti al teashop; probabilmente li hai
visti, ma non hai notato le armi… Un paio di mesi fa io e Kancha eravamo
al lavoro nei campi. All’improvviso sono arrivati gli elicotteri dell’esercito.
Di solito i soldati si accampano per una notte intorno al villaggio. Chiedono
dei Maoisti. Penso di essere stata fortunata quel giorno a restare viva. In un
villaggio vicino i Maoisti hanno ucciso tutti i soldati, poi hanno dato fuoco
alle case. I soldati invece sono entrati in casa di un mio conoscente. Hanno
sparato alla figlia appena sposata e a suo marito: cercavano i Maoisti. Il
giorno dopo ne hanno arrestati diversi che si nascondevano all’interno della
scuola, li hanno portati verso la foresta e li hanno uccisi. La radio ha trasmesso la notizia dicendo che erano stati uccisi in combattimento. I soldati
hanno ucciso un ragazzo minorato mentale che fuggiva spaventato. Hanno
ucciso anche una donna che lavorava nella foresta: hanno sentito il rumore
ed hanno fatto fuoco”.11
Gita consigliava Pettigrew di indossare sempre il sarong e di vestire abiti tradizionali. Infatti, sempre secondo le testimonianze raccolte,
“l’esercito cerca le donne che vestono il kurta (abito Punjabi), poi notano
l’assenza del tika sulla fronte e dei bracciali tradizionali indossati dalle donne nepalesi, quindi sparano. Molte donne sono morte in questo modo scambiate per maoiste: queste ultime infatti calzano scarpe da ginnastica, indossano il kurta e non portano né il tika né i bracciali. L’esercito non perde
tempo neanche ad identificare le persone: è sufficiente avere un abbigliamento diverso per essere uccise. Il passaggio degli elicotteri sul villaggio
annuncia di solito la venuta dell’esercito: a differenza dell’arrivo delle trup10
11
Pettigrew, 2002, p. 269 e seg.
Pettigrew, 2002.
I quaderni del Cream, 2005, IV
72
pe c’è pochissimo tempo per fuggire. I soldati sono ben equipaggiati, cosa
mai vista prima: dispongono di elicotteri, armi automatiche, radio ricetrasmittenti etc. Mangiano in disparte e non parlano con nessuno. Le pattuglie
dell’esercito sono viste come il pericolo maggiore: nella foresta sparano a
caso. Lavorare nella foresta implica i maggiori pericoli perché si rischia di
essere scambiati per Maoisti. Quando arriva l’esercito la gente ha paura di
essere accusata di collaborazionismo. Quando l’esercito si allontana la gente
ha paura delle ritorsioni dei Maoisti specialmente se qualche loro leader
viene ucciso”.12
A detta di Pettigrew la vita nel villaggio di Maurigaun sembrava
migliore che in precedenza: gli abitanti lavoravano tranquilli, si occupavano di matrimoni e funerali, visitavano l’ambulatorio, parlavano del più e del meno negli spazi pubblici del villaggio, si recavano
in città, senza prestare attenzione ai Maoisti seduti nel teashop ad ascoltare la radio o a chiedere rifornimenti. “Sembrerebbe che la gente
abbia imparato a convivere con i ribelli” – afferma Pettigrew –
“Eppure questa normalità è solo di facciata. Nel privato, in famiglia,
la gente parla con un altro tono: le persone sono terrorizzate. Molte
case sono vuote a causa dell’aumento dell’emigrazione verso la città
ma anche per sfuggire agli arruolamenti forzati”.13 Pettegrew ha indagato inoltre sulle risorse culturali e spirituali che possono fungere
da elemento protettivo contro l’ansietà, la paura e il terrore costanti.
Il guaritore locale operava rituali di protezione per le persone, per la
casa o per l’intero villaggio, ma non esistono rituali specifici contro i
Maoisti o contro l’esercito. Per quanto riguarda l’effetto della violenza sugli abitanti e la profanazione dei luoghi circostanti il villaggio, il
guaritore spiegava che “le anime delle persone vittime di morte violenta, si aggirano nei dintorni del villaggio causando problemi ai vivi. Molte persone attraversano gli spazi sacri della foresta senza rispettare gli dèi locali e non chiedono il permesso di entrarvi; in questo modo gli dèi si adirano e inviano il dukha (sofferenza/avversità)
12
13
Pettigrew, 2002.
Pettigrew, 2002.
I quaderni del Cream, 2005, IV
73
ai vivi”.14 Lo spazio costituisce un elemento importante nella cultura
locale. Spostarsi liberamente da un luogo all’altro simboleggia anche
una trasformazione durante la transizione da una sfera sociale all’altra. Secondo Antonius Robben citato da Pettigrew, “le divisioni socio-spaziali rinforzano la differenziazione dell’ego tra interno ed esterno. Una irruzione è vissuta come un attacco all’ego e viola la protezione fisica, culturale ed emozionale rappresentata dalla casa”.15
Afferma Pettigrew:
“L’esercito entra negli spazi sacri, perquisisce le abitazioni e ne prende
possesso, spara sulle case dagli elicotteri. I Maoisti entrano nei villaggi in
cerca di cibo, non fanno perquisizioni e non attraversano i possedimenti, ma
violano lo spazio interno… Appellandosi ai modelli culturali di gerarchia
(diritto degli anziani a mantenere l’autorità sui giovani) e di obbligazione
(dell’ospite verso l’ospitante) gli abitanti locali possono soltanto simbolicamente contrastare i loro giovani invasori”.16
2. Donne guerrigliere e donne neoliberali: la All Nepal
Women’s Association
Oltre alle due autocrazie costituite dalla monarchia e dai Maoisti,
esiste un altro dualismo nella storia politica del paese: il movimento
femminista delle donne nepalesi di sinistra. Attualmente il movimento delle donne nepalesi “All Nepal Women’s Association” è diviso in
due associazioni gemelle: l’ANWA progressista legata al Cpn-UML
(nato dal raggruppamento di diversi gruppi della sinistra preesistenti
che hanno abbracciato la politica parlamentare agli inizi degli anni
’90 e che rivendica il primato tra le organizzazioni di sinistra, opponendosi ai Maoisti, fautori della lotta armata, anche attraverso numerosi scontri) e l’ANWA-Revolutionary legata al Cpn-M. C’è una for14
Pettigrew, 2002.
Pettigrew, 2002, p. 281.
16
Pettigrew, 2002, p. 283.
15
I quaderni del Cream, 2005, IV
74
te differenza di vedute tra i due schieramenti nell’impegno per superare le tradizioni legate al sistema castale. Lo schieramento delle
donne della sinistra parlamentare rifiuta la lotta armata, anche come
lotta di classe, per cambiare la situazione delle donne. Sujita Shakya,
membro del comitato centrale dell’UML (che si presenta come oppositore al Nepali Congress – il partito di governo – e come alternativa
strategica per realizzare le riforme), e dirigente del dipartimento degli affari esteri dell’associazione Anwa, è fortemente critica nei confronti dei Maoisti e sulla questione delle donne, anche alla luce delle
testimonianze di donne che hanno lasciato il partito deluse dal divario tra retorica e politica su questi problemi. Ella evidenzia l’importanza della rivoluzione sociale ma è convinta che sia necessario
un lungo processo prima di arrivare all’emancipazione delle donne. Il
punto di vista dei Maoisti è deducibile invece da quanto afferma la
guerrigliera Parvati (nome fittizio), esponente dell’ Anwa-R, ala
femminista del movimento maoista:
“L’oppressione economica delle donne è saldamente radicata nel periodo economico attuale del paese, feudale e semi-feudale. Nonostante sostengano un doppio carico di lavoro, in famiglia e nel lavoro agricolo, le donne
non possono ereditare alla pari con gli uomini la terra e le proprietà familiari. Come risultato esse hanno un accesso limitato al credito. L’assenza di
infrastrutture di base a livello familiare, inclusa la mancanza di facili accessi
alle fonti di combustibile e di acqua, fa ricadere il maggior peso del lavoro
sulle donne. Ci sono molte aree dove le donne impiegano l’intera giornata a
trasportare acqua e fieno e a badare agli animali. La migrazione di massa
degli uomini abili al lavoro verso le aree urbane del Nepal, verso l’India e
altri paesi, lascia donne e bambini da soli. Dato che le donne sono socialmente emarginate, il loro lavoro è sottovalutato: sono pagate meno – talvolta la metà – rispetto agli uomini, per la stessa occupazione e per la stessa
quantità di lavoro. La condizione delle donne nelle zone urbane è di poco
migliore. Se le donne nelle zone rurali soffrono per l’arretratezza feudalemedievale, le donne che vivono nelle città sono sottopagate e sfruttate dalle
aziende, soprattutto aziende tessili”.17
17
Parvati , 2003, p. 166-167.
I quaderni del Cream, 2005, IV
75
Le cause dell’oppressione delle donne non sono dovute soltanto
alla struttura economica del paese, ma anche alle strutture sociali e
culturali. L’oppressione sociale delle donne, secondo la guerrigliera
Parvati, è fortemente ancorata alla religione di stato hindu che sostiene il ruolo feudale brahmanico basato sul sistema delle caste e
sulla differenza di genere (gender). L’argomento principe delle rivendicazioni è costituito dalla legge di eredità patrilineare, che impedisce alle donne di ereditare la proprietà fondiaria. Secondo questa
testimonianza le donne sono obbligate a qualsiasi cosa pur di generare figli maschi, anche a rischio della propria salute, allo scopo di garantire la loro parte di terra attraverso i figli. Le donne senza figli sono generalmente abbandonate o socialmente escluse e diventano concubine. Il Nepal ha il più alto indice di mortalità da parto, aggravato
da matrimoni precoci, e un alto indice di mortalità infantile. Secondo
Parvati, mentre le altre organizzazioni condannano le violenze dei
rivoluzionari, l’Anwa-R le considera legittima difesa contro il presente stato di repressione armata.18 Le donne che appartengono ai
fuoricasta (intoccabili o Dalit) sono ancora più vulnerabili sessualmente, economicamente e socialmente. Secondo Garzilli19, per far
fronte ad un qualsiasi bisogno di denaro, ad esempio per un matrimonio, le famiglie a minor reddito prendono piccoli prestiti dai privati, prestiti che devono poi restituire con interessi altissimi. Non potendo ripagare un debito che si ingigantisce rapidamente a causa del
tasso usuraio, i debitori vendono come lavoratori se stessi e i propri
figli, diventando a tutti gli effetti schiavi (kamaiya). Nel 2001 il governo del Nepal ha ammesso che esistono nel paese almeno 40.000
schiavi bambini, anche se, nell’agosto del 2001 ha ingiunto la liberazione di tutti i kamaiya e, in seguito, la loro riabilitazione, pur lasciandoli senza mezzi di sostentamento. Per le disastrose condizioni
economiche, specie nei distretti più poveri, è molto esteso anche il
fenomeno della prostituzione, specie minorile, per cui ogni anno
18
19
Parvati, 2003, p. 171.
Garzilli, 2003.
I quaderni del Cream, 2005, IV
76
5.000-7.000 donne e bambini vengono venduti nei bordelli indiani.20
Il lavoro infantile è generalizzato: l’Organizzazione non governativa
nepalese CWIN ha contato 127.000 bambini sfruttati, spesso per
quattro dollari al mese, e precisa che il 90% sfugge alle statistiche.
L’istruzione e le cure mediche sono a pagamento. Lussi inaccessibili
per la maggior parte della popolazione. Conseguenza: due nepalesi
su tre sono analfabeti e ogni due ore una donna muore di parto.21 Secondo Mandira Sharma (che ha visitato le prigioni di stato e i villaggi
colpiti dal conflitto per intervistare le donne) e Dinesh Prasain il
coinvolgimento attivo delle donne è stato uno degli argomenti più
discussi riguardo all’insurrezione maoista in Nepal. Nei reportage
giornalistici si vedono le maoiste abbigliate in tenuta da combattimento; hanno ruoli di infermiere, messaggere, trasportano armi etc.
Tali avvenimenti, secondo le due autrici, hanno indotto gli analisti a
chiedersi quali cambiamenti siano sopravvenuti nelle differenziazioni
di genere nell’ambito di una cultura tradizionale come quella dominante in Nepal, che vede le donne deboli e sottomesse, e quali siano
le ragioni che hanno indotto così tante donne, soprattutto nelle campagne, a prendere parte all’insurrezione.22 Le autrici riflettono su alcuni aspetti delle relazioni tra le donne e il movimento maoista, basando la loro discussione sull’analisi di esperienze e prospettive di
donne che sono attualmente coinvolte (o lo sono state) nelle attività
di partito, e su interviste realizzate nel maggio del 2002 con donne
dei villaggi dei distretti di Bardiya e Banke, nel “tarai” occidentale,
come pure con donne allora detenute nelle prigioni di stato. Sempre
secondo questa ricerca, le donne possono arruolarsi nel movimento
dei maoisti sia tramite le organizzazioni loro affiliate come la “All
Nepal Women’s Association”-Revolutionary (ANWA-R), la “All
Nepal National Free Students Union (Revolutionary), diversi fronti
di liberazione etnica e “associazioni culturali del popolo”, sia diret20
Garzilli, 2003, p. 5.
Gouverneur, 2003.
22
Sharma, Prasain, 2002, p. 152-153.
21
I quaderni del Cream, 2005, IV
77
tamente, tramite il partito. Esse hanno il compito di promuovere la
“consapevolezza” nei gruppi sociali, di persuadere il maggior numero di gente possibile a sostegno della causa maoista e di fornire supporti logistici per gli appartenenti al partito. Donne appartenenti alle
organizzazioni affiliate ai Maoisti hanno partecipato attivamente come membri di giurie popolari e come giudici nei tribunali del popolo
che sono stati istituiti per risolvere dispute locali. Ci sono due modi
in cui una donna può essere direttamente coinvolta nel partito. Uno è
attraverso la sua ala politica, l’altro attraverso l’ala militare. La principale funzione delle fazioni organizzative è il reclutamento, l’indottrinamento degli affiliati e dei possibili futuri attivisti. L’ala militare
è divisa in due categorie principali: le milizie popolari e l’esercito del
“popolo”. Quelle coinvolte nella milizia ricevono un addestramento
militare di base e usano armi rudimentali. Sono chiamate all’azione
quando necessita ma per la maggior parte del tempo sono impegnate
nei loro normali lavori agricoli. Esse non indossano l’uniforme.
Quelle che sono arruolate nell’esercito del popolo sono considerate
come i militari professionisti, soggette a comandi, regole e ad una
gerarchia ufficiale. Sebbene sia difficile da verificare, esse costituiscono il 30 o il 40% della forza militare, la quale conta, secondo alcune stime, 10.000 unità. Tra il personale militare femminile, è stato
riscontrato che la maggior parte proviene da gruppi etnici Dalit, ma
ci sono anche donne che provengono dalle caste Bahum-Chhetri.
Anche in questo caso la loro esatta distribuzione percentuale è difficile da accertare. Ideologicamente i Maoisti affermano di favorire la
fine dell’organizzazione patriarcale della società. Nel contesto nepalese questa posizione è esemplificata dalla loro richiesta di uguali diritti, per le donne, di ereditare la proprietà di famiglia. Nella ben nota
“Richiesta in quaranta punti”23 fatta pervenire al Governo poco prima
della Dichiarazione della “Guerra di popolo”, una delle richieste tratta esclusivamente di questo: “Lo sfruttamento patrimoniale e la discriminazione delle donne dovrebbe finire. Alle figlie si dovrebbe
23
Vedi anche: Karki, Seddon, 2003, pp. 183-187.
I quaderni del Cream, 2005, IV
78
permettere l’accesso alla proprietà paterna”. Tuttavia, secondo i Maoisti, la piena liberazione delle donne e le pari opportunità si possono
ottenere soltanto in una società comunista senza classi, quindi, le
donne avrebbero tutte le ragioni nel prendere parte alla rivoluzione.
Tali posizioni vengono spiegate alle donne attraverso la stampa propagandistica e i programmi “culturali”. Mandira Sharma e Dinesh
Prasain si chiedono se siano state tali dichiarazioni e tali posizioni
ufficiali dei Maoisti ad ottenere grande successo tra le donne contadine o se esista qualche altra ragione che ha attratto o forzato le donne a sostenere il movimento maoista, dal momento che affermazioni
e posizioni simili sono state poi adottate da molti altri partiti politici
e gruppi di impegno civile. 24
3. Ogni bambina è una dea: la donna nella tradizione
brahmanica hindu.
La storia del Nepal è strettamente collegata alla storia del movimento delle donne.
Nel 1814 le donne nepalesi presero parte alla battaglia di Nalapani (durante la guerra anglo-nepalese) portando i propri bambini sulle
spalle. Nel 1917 Yoga Maya Neupane fondò l’organizzazione Nari
Samitee che diffondeva messaggi di riforma e libertà attraverso Vajan e Kirtan (recitazione di inni religiosi) non avendo a quel tempo
altri mezzi di protesta contro il regime instaurato dal primo ministro
Rana nel 1846. Figura leggendaria, nata nel Bhojpur tra il 1860 e il
1868, Yoga Maya ha lottato strenuamente contro la discriminazione
castale e la pratica dell’intoccabilità in Nepal. Dato il suo attivismo è
considerata uno dei pionieri del movimento per i diritti delle donne e
per l’uguaglianza. Nel 1940 si suicida per protesta, insieme con sessantotto seguaci, annegandosi nel fiume Arun. Nel 1936 viene fondato il Movimento per il diritto all’istruzione delle donne. Nel 1943
24
Sharma, Prasain, 2002, pp. 154-155.
I quaderni del Cream, 2005, IV
79
viene fondata l’Adharsa Mahila Samaj/Società ideale delle donne.
Nel 1947 viene fondata la All Nepal Women’s Association per il diritto all’istruzione femminile, il diritto al lavoro e il diritto di voto.
Nel 1950 la All Nepal Women’s Association si impegna contro una
serie di pratiche inerenti il matrimonio: la proibizione di risposarsi
per le vedove, il matrimonio di bambini, la poligamia, lo sfruttamento in nome della religione e della cultura castale. Secondo Louis
Dumont “…l’espressione matrimonio di bambini (infant marriage)
indica il matrimonio celebrato molto prima che la coabitazione possa
incominciare, di fatto alla più tenera età, soprattutto per quanto concerne la bambina. L’usanza è, o piuttosto era, in vigore presso i Brahmani e le caste alte in generale, e valeva come segno di status elevato”25. Questo, secondo Dumont “…è uno dei caratteri che sono stati
più combattuti dai riformatori come rivoltanti per la mentalità moderna e al tempo stesso sprovvisti di un chiaro fondamento religioso.
Eppure l’usanza è antica; per i legislatori del dharma si trattava essenzialmente di dare in sposa la figlia prima della pubertà…”26 perché nell’ideologia brahmanica una donna è considerata pura solo
prima della pubertà. “…Il risultato più scandaloso per i moderni era
l’esistenza di giovani “vedove” che non avevano mai vissuto con il
marito… Per quanto riguarda l’indissolubilità, essa si esprime innanzi tutto con l’inesistenza del divorzio… e, per la donna, con la proibizione di risposarsi dopo la vedovanza”27. Le vedove, afferma Dumont, conducevano, ancora di recente, una vita di penitenza. Nelle
caste reali l’aspetto era diverso, c’era una poliginia gerarchizzata, ma
alle vedove era ugualmente proibito risposarsi e si deve in sostanza
far risalire a queste caste l’usanza della satī (sposa virtuosa), secondo
la quale la moglie principale (almeno) si immolava sul rogo funerario
del marito (uso praticato talvolta anche dai Brahmani e presto vietato
dagli Inglesi in India).28 Nella realtà però, afferma Dumont, per
25
Dumont, 1991, p. 223.
Dumont, 1991, p. 223.
27
Dumont, 1991, p. 223.
28
Dumont, 1991, pp. 223-224.
26
I quaderni del Cream, 2005, IV
80
quanto riguarda le seconde nozze delle vedove,
“…la maggior parte delle caste e la maggioranza schiacciante della popolazione le permettono, una consistente parte della popolazione conosce perfino il divorzio e fa sposare le figlie dopo e non prima della pubertà… La differenza sta tra caste che vietano e caste che permettono, dopo il primo matrimonio, in caso di vedovanza o di divorzio, una specie inferiore di matrimonio per la donna (matrimonio secondario)”29
che ha molto meno prestigio del matrimonio primario. Secondo
Chiara Letizia, nella società nepalese (newar) ogni figlia è considerata nella sua casa come una dea (la dea Kumari, impersonificata da
una bambina, onorata come una dea e per questo detta la dea vivente
del Nepal). In famiglia la bambina ha uno status divino cui la pubertà
pone fine. Letizia afferma che nei tratti principali del sistema di parentela indo-nepalese
“…la filiazione è patrilineare, il matrimonio esogamo e patrilocale. È il figlio maschio che assicura la continuità del lignaggio patrilineare. Il rito di
iniziazione fa di lui un membro della sua casta, il successore del padre, alla
morte del quale egli si occuperà dei riti funebri. Al contrario, è solo con il
matrimonio che la figlia diventa membro della sua casta a pieno diritto: è
dunque all’interno di un altro lignaggio che ella riceve la sua identità. Nella
casa di suo padre ella non fa che passare, è in attesa di ciò che la definirà
socialmente: il suo stato di sposa. Ella è più o meno ben conservata
nell’attesa di aderire al lignaggio maritale. Per suo padre e per il suo lignaggio ella vale per il dono che sarà fatto di lei a suo genero – don méritoire à
condition qu’on ne reçoive aucun paiment en échange”30
“Il dono, in generale” – afferma Dumont – “è un’azione estremamente meritoria” – in quanto si acquisiscono meriti spirituali con il
dono di beni ai Brahmani e – “il dono di una fanciulla è una forma di
dono particolare”.31 Sempre secondo Dumont,
29
Dumont, 1991, p. 224.
Letizia, 2004, p. 143. In corsivo citazione dal testo francese di Dumont (1991).
31
Dumont, 1991, p. 231.
30
I quaderni del Cream, 2005, IV
81
“…nella formula ipergamica lo status superiore rende la famiglia del fidanzato più esigente… tutto avviene come se questa famiglia accettasse di imparentarsi con una famiglia inferiore solo mediante denaro liquido, ma proprio questo corrisponde esattamente alla formula del dono: si danno una
fanciulla e doni a superiori in cambio non di meriti, ma di qualcosa di molto
simile, ossia del prestigio o della considerazione che risultano da un intermatrimonio con loro”.32
Secondo Letizia –
“Per questo aspetto gratuito, per il merito potenziale che ella rappresenta
per il lignaggio che la alleva in vista del suo dono, una bambina è
considerata come sacra, degna di essere onorata. Questo rispetto si oppone
alla sessualità, che è bandita dalla famiglia paterna e riservata alla famiglia
coniugale… qualsiasi manifestazione della sua sessualità, la più evidente è
la pubertà, non sarà tollerata nella casa paterna. Quando una bambina
raggiunge la pubertà, se è sposata, può passare il rito di reclusione mestruale
nell’attico della casa del marito, ma se vive ancora nella casa del padre,
deve immediatamente andarsene. Accolta in una casa amica, ella resta
reclusa in una stanza buia per quindici giorni”.33
Al termine di questo periodo la ragazza viene purificata e riceve dal
padre e dai fratelli un vestito rosso e gli accessori di donna sposata.
Per Parvati l’oppressione politica delle donne è radicata anche
nelle strutture e relazioni economiche patriarcali e sociali che sono
“approvate dall’attuale sistema monarchico-parlamentare”. Secondo
la sua testimonianza, il fatto che l’erede al trono debba discendere in
linea maschile, induce alla personificazione del re come dio vivente.
Entrambe le cose simbolizzano e rinforzano il predominio maschile.
Il re rappresenta un patriarca, nel corpo e nello spirito.34
32
Dumont, 1991, pp. 231-232.
Letizia, 2004, pp. 143-144.
34
Parvati, 2003, p. 168.
33
I quaderni del Cream, 2005, IV
82
4. La dimensione etnica e di casta e l’aspirazione ad un
Nepal multietnico
La dimensione etnica e di casta gioca un ruolo importante anche
nel conflitto. L’8,7% circa dei 23 milioni di cittadini nepalesi fanno
parte dei Dalit (noti come intoccabili), inoltre vi sono all’incirca sessanta gruppi etnici comprensivi di oltre il 35% della popolazione nazionale, che risiede principalmente, ma non esclusivamente, sulle
colline. I Dalit sono i fuoricasta per la religione hindu e per la cultura
nepalese. La pratica antichissima dell’intoccabilità fu legalmente
sancita dal codice Muluki Ain emanato dal primo ministro Jang Bahadur Rana nel 1854. Mentre la discriminazione basata sull’intoccabilità nei luoghi pubblici è stata abolita dal re Mahendra nel nuovo
Codice Civile del 1963, il Nepal è un paese dove, a questo riguardo,
“contano più i costumi sociali che non le leggi”.35 Le discriminazioni
nelle scuole, nell’impiego e nel commercio sono comuni. I Dalit della Zona Rossa intervistati da Gersony riferiscono che solo una frazione del loro gruppo segue i Maoisti. Un esperto Dalit riporta che
solo due dei 37 membri del Comitato Centrale maoista sono Dalit.
Secondo la retorica maoista il sistema castale deve essere superato,
ma i Maoisti continuano ad aderire alla pratica dell’intoccabilità: il
fatto che la maggior parte della leadership faccia parte delle caste superiori, riflette la struttura della società in generale e, secondo Gersony, non è sfuggita all’attenzione di molti Dalit e di gruppi etnici
minoritari. In aggiunta ai problemi della minoranza etnica e di casta,
ci sono le rivendicazioni che riguardano le minoranze di gruppo. Ad
esempio una ricerca pubblicata dalla Nepal Press Digest nel 1991 rivelava che il 93% degli impieghi nell’amministrazione civile era
svolto da Brahmani, Chhetri e Newar. Secondo una statistica riportata da Garzilli36 i Brahmani, che rappresentano solo il 12,9% della popolazione, occupano circa i ¾ degli impieghi burocratici e i Section
35
36
Gersony, 2003, p. 31.
Garzilli 2003.
I quaderni del Cream, 2005, IV
83
Officers, cioè gli alti dirigenti statali, sono nel 73,3% dei casi appunto dei Brahmani, mentre gli Chhetri, la seconda casta indù dal punto
di vista della purezza rituale, occupa un altro 16% delle posizioni.
Infine vi è la popolazione newari che occupa l’8% dei posti tecnici
mentre gli appartenenti a tutti gli altri gruppi sociali sono presenti per
un misero 2%.
Tuttavia, nonostante l’introduzione del sistema democratico, la
tendenza alla concentrazione del potere nelle mani di pochi individui
favoriti dal monarca non è cambiata.37 La nuova Costituzione del
‘90, secondo quanto affermano Deepak e Bandita,
“diede speranza a tutti coloro che si sentivano discriminati per la loro etnicità, casta, lingua, regione di provenienza o religione. Essi speravano nel riconoscimento di un modello multietnico di costituzione e nel riconoscimento delle varie lingue del paese come lingue nazionali, ma nella Costituzione,
il nepali fu definito lingua ufficiale della nazione. Inoltre sul problema della
religione, si chiedeva che lo stato del Nepal fosse uno stato secolare e ci si
opponeva all’ortodossia dell’organizzazione hindu, ma la religione hindu
venne dichiarata religione di stato”.38
Al giorno d’oggi si contano una trentina di caste, jat, con al vertice della gerarchia i Brahmani (operatori rituali hindu) e, al di fuori,
gli intoccabili.
Il gruppo originariamente indiano dei Brahmani e in parte Chhetri, di religione hindu e di cultura sanscrita ha lentamente acquisito,
nel corso della storia il predominio sugli altri. La progressiva induizzazione del territorio, dal ’400 d.C. fino a metà ’700, ha cristallizzato
la tripartizione della società nepalese in un’èlite dominante indiana o
indianizzata, colta e con grandi proprietà terriere; una classe mercantile principalmente newari, lontana dai centri di potere ma che controllava i commerci, e i vari gruppi etnici privi di proprietà e senza
accesso diretto al potere.39 In Nepal vi sono cinque principali aree
37
Garzilli, 2003, pp. 4-6.
Deepak, Bandita, 2003.
39
Garzilli, 2003, pp. 4-6.
38
I quaderni del Cream, 2005, IV
84
culturali ed economiche.40 Nelle pianure del Terai, nel Nepal meridionale, vivono i Madeshe, gruppo di caste di lingua hindi; queste
etnie sono di religione hindu e si sentono più indiane che parte del
regno nepalese. Sempre in questa regione vivono i Tharu, un gruppo
tribale con la sua lingua e le sue peculiari tradizioni. Anche la maggioranza dei Tharu, originari dell’India e residenti stanziali nella fertile area del Terai, i cui distretti sono Banke e Bardiya, inclusi i lavoratori schiavi (kamaiya) recentemente liberati dai loro debiti dalla
legge nazionale, non sostengono apparentemente il movimento maoista. Gli Indonepalesi o Parbatiya, costituiscono invece il gruppo dominante sia dal punto di vista numerico che politico e sono originari
dell’ovest. Sono chiamati anche Gorkhali perché il re Shah che unificò il Paese nel XVIII secolo apparteneva a questo gruppo e proveniva dalla città di Gorkha, ad ovest della Valle di Kathmandu. Gli Indonepalesi sono di lingua nepali, di cultura hindu e vivono nella zona
delle colline, a sud della catena himalayana. Ci sono poi le etnie di
lingua tibeto-birmana, che vivono anch’esse nella zona delle colline,
ma ad altitudini superiori. La cultura di queste etnie è stata profondamente influenzata dal buddhismo e dall’induismo, ma ha conservato dei tratti autoctoni, in particolare dei miti e dei riti peculiari, spesso definiti di tipo “sciamanico”.41 Tra le tribù delle colline, i più conosciuti sono i Magar e i Gurung ad ovest della valle, i Tamang attorno ad essa e i Rai ed i Limbu ad est. La popolazione della Zona
Rossa appartiene prevalentemente al gruppo etnico dei Magar e, secondo la testimonianza di De Sales42 riportata da Gersony, combattono una guerra che non è la loro. Essi sono vittime delle caste alte,
dato che sia i leaders del Nepal Congress sia i leader del movimento
maoista sono Brahmani.
I Newar invece sono concentrati soprattutto nella valle di Kathmandu, il loro centro di origine; nei secoli si sono diffusi nei vil40
La classificazione è tratta da Letizia (2004), alle pp. 191-192.
Sullo sciamanismo vedi anche: Mastromattei, 1995.
42
De Sales, 2000, in Gersony, 2003, p. 28.
41
I quaderni del Cream, 2005, IV
85
laggi-bazar delle colline del Terai, dove sono rinomati commercianti
e negozianti. I Newar che oggi contano circa un milione di individui,
parlano una lingua tibeto-birmana, il newari. Il buddhismo della società newar ha sofferto un certo declino; nel corso della storia l’hinduismo ha profondamente influenzato il sistema sociale, il pantheon,
il calendario festivo buddhista; i buddhisti hanno preso a prestito
l’intero sistema hindu dei riti del ciclo della vita, ma la loro cultura
ha continuato ad influenzare profondamente la cultura nepalese.43
L’originalità di questo sistema di caste è data quindi dal fatto che è
organizzato secondo una gerarchia doppia: da una parte buddhista e
dall’altra hindu. Le alte caste hindu (Brahmani, Chathariya e Srestha)
corrispondono a delle alte caste buddhiste (Vajracarya, Šakya e Udas). A livello inferiore la distinzione non è così netta: la maggior
parte delle caste si dicono buddhiste (come ad esempio i tradizionali
Jyapu), e utilizzano i Vajracarya per i loro rituali domestici, mentre
una minoranza di caste si dice hindu e si serve dei Brahmani. Non
mancano esempi di caste che usano per certi riti i Brahmani e per altri i Vajracarya.44 Infine vi sono le popolazioni tibetane del nord-est
del paese, spesso localizzate al di là della catena himalayana. Sono etnie definite con il termine generalizzante e peggiorativo di Bhote, parlano delle lingue peculiari e hanno un sistema mitico-rituale particolare, ma possono essere assimilati generalmente alla cultura tibetana.45
5. La costituzione del 1990 e i diritti fondamentali delle
donne
Secondo Sujita Shakya le donne non possono essere liberate solo
da provvedimenti legali, ma devono esse stesse essere coinvolte nella
“destrutturazione” della vecchia società feudale e maschilista. Sha43
Letizia, 2004, pp. 151-153.
Letizia, 2004, p. 192.
45
Letizia, 2004, pp. 191-192.
44
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86
kya fa riferimento alla storia del movimento femminista e cita il testo
engelsiano del 1884, L’origine della famiglia, della proprietà privata
e dello Stato, un testo la cui influenza è stata molto grande su un settore agguerito del femminismo.46 Riscrittura in termini marxisti dell’opera di Morgan (Ancient Society del 1877), nell’origine della famiglia, insieme alla problematica e ai concetti della concezione materialistica della storia riemergevano anche i temi dell’umanesimo
marxista.47 Shakya riprendendo le idee di Engels, afferma:
“le donne sono costrette ad essere arretrate dalle forze economiche, politiche, sociali e culturali. Anche i testi religiosi e l’oppressione religiosa
sminuiscono le donne. Ma le donne stesse difendono il ruolo loro destinato
alla procreazione, per la conservazione della tradizione e della nazione: le
madri impediscono alle figlie di partecipare alla vita politica, le donne stesse insomma sono le conservatrici della casta, dell’intoccabilità e delle altre
tradizioni. Non soltanto le donne di sinistra ma anche altre donne stanno lottando per instaurare l’uguaglianza attraverso una riforma politica e legale.
Ma tutto questo non è realizzabile a colpi di canna di bamboo”.48
Qui Shakya si riferisce ai metodi punitivi usati dai Maoisti soprattutto nella loro campagna, fallimentare a suo parere, contro l’alcolismo dilagante ed è fortemente critica nei confronti dell’estremismo
dei Maoisti. Di diverso avviso invece, sono le testimonianze riportate
da Mandira Sharma e Dinesh Prasain.49 Il lavoro più noto dell’ANWA-R infatti, è la sua campagna contro l’alcolismo. Le ricercatrici citate ripotano diverse esperienze di donne (i nomi delle donne
e, in alcuni casi, i nomi dei villaggi, sono stati cambiati per sicurezza), che hanno aderito al movimento maoista, alcune delle quali sono
detenute, come Saraswati, che testimonia: “Mio padre è alcolizzato.
Dopo essersi ubriacato aggredisce me e mia madre. I miei fratelli sono andati via di casa e sono emigrati in India. Per sfuggire a questa
46
Restaino, Cavarero, 1999, pp. 27-33.
Fabietti, 2000, pp. 205-207.
48
Shakya, 2003, pp. 375-404.
49
Sharma, Prasain, 2002, pp. 155-157.
47
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87
situazione io mi sono associata all’ANWA-Revolutionary”.50 E ancora, la testimonianza di una donna di Purandhara nel distretto di Dang.
“…Sono venuti a casa mia e abbiamo parlato della mia sofferenza, hanno messo in guardia mio marito che mi picchiava ogni giorno. Hanno detto
che potevamo andare dal presidente della Commissione Sviluppo del villaggio (VDC) ma non ci sono andata. Non penso che lui possa fare giustizia
per le donne, dal momento che lui stesso picchia sua moglie. Da quando i
Maoisti sono attivi in questo villaggio hanno svolto azioni contro molti mariti violenti. Dato che erano persone dello stesso villaggio non c’era bisogno
che raccontassi loro la mia storia. La conoscevano benissimo. Così li sostengo, e ottengo vera giustizia per le donne”.51
Nonostante sia stata torturata dalla polizia per il suo supporto ai
Maoisti e sia ancora in prigione, Saraswati ammette apertamente di
essere ancora una convinta sostenitrice dei Maoisti. La ragione principale che lei cita a sostegno dei Maoisti è proprio la campagna contro l’alcolismo (che in Nepal costituisce una vera e propria piaga sociale),lanciata dall’ANWA-R. Nonostante la violenza contro le donne sia radicata nelle relazioni di potere che esistono tra uomini e
donne nella società, il movimento contro l’alcolismo ha riscosso adesioni tra le donne dei villaggi nepalesi, specialmente quando vedono
che è direttamente collegato alla violenza domestica. La maggior
parte delle donne dei villaggi ha subito un qualche tipo di violenza in
famiglia, o nell’ambito della comunità. La violenza sulla moglie dopo l’abuso di alcool è una pratica diffusa nel Nepal rurale. Gli uomini passano molte ore del giorno giocando a carte, bevendo e chiacchierando con gli altri uomini nelle sale da the. Sono le donne che
lavorano nei campi, vanno nella foresta per raccogliere legna da ardere e fieno, si prendono cura dei bambini, allevano il bestiame e cucinano per la famiglia. Questa generalizzazione sembra racchiudere
tutte le differenze nelle relazioni uomo-donna tra i più disparati
50
51
Sharma, Prasain, 2002.
Sharma, Prasain, 2002.
I quaderni del Cream, 2005, IV
88
gruppi nepalesi. Non ci sono associazioni pubbliche alle quali le donne vittime di violenza possano rivolgersi. Le Commissioni per lo
Sviluppo del Villaggio (VDC) o qualunque altra istituzione pubblica
che si occupi di questi problemi, in genere è dominata da uomini che
vedono la violenza contro le donne come un fatto normale e come un
affare privato, di famiglia. Tali istituzioni sono così poco familiari
alle donne che le vittime di violenza sono scoraggiate dal rivolgersi a
loro. L’intero sistema giudiziario ha in qualche modo fallito nel rispondere ai problemi che le donne affrontano in Nepal. La mentalità
patriarcale di molti giudici e presidenti di VDC rende inaccessibile la
giustizia alle donne. Uno studio rivela che il 57% dei giudici in carica pensa che un marito abbia la piena libertà di schiaffeggiare sua
moglie per “correggere” il suo comportamento e il 66% è dell’opinione che anche le donne siano responsabili della violenza contro di
loro. Questa situazione, secondo Mandira Sharma e Dinesh Prasain, è
diversa nelle zone occupate dai Maoisti. I Maoisti si mostrano interessati alla questione della violenza contro le donne; minacciano e
picchiano i mariti violenti: ne hanno persino costretti alcuni ad occuparsi di faccende domestiche che tradizionalmente non hanno mai
svolto.52
Nel 1990 viene approvata la Costituzione democratica a seguito
di un movimento popolare (Jana Andol o Primavera del risveglio)
formato da tutti i partiti di centro e di sinistra per il ripristino della
democrazia. Secondo Sujita Shakya:
“furono elaborati otto punti programmatici per la Costituzione riguardanti i
diritti delle donne e furono sviluppati in collaborazione con giuristi, attivisti
politici, lavoratrici e intellettuali. Vi erano contenuti i seguenti argomenti:
uguaglianza tra figli maschi e femmine sui diritti di successione; diritto di
cittadinanza nel caso di donne nepalesi sposate con uno straniero; appositi
provvedimenti per l’indipendenza economica; il 5% della rappresentanza
delle donne al Parlamento; concordati costituzionali concernenti la formazione di una Commissione per occuparsi della violenza contro le donne”.53
52
53
Sharma, Prasain, 2002, pp. 155-157.
Shakya, 2003.
I quaderni del Cream, 2005, IV
89
La Costituzione del Regno del Nepal secondo Shakya:
“rispecchia il concetto dei diritti fondamentali delle donne, ma la
conquista dei diritti costituzionali non è stata tradotta in pratica dalle
donne. Centinaia di donne hanno sacrificato la loro vita dal tempo
dell’opposizione ai Rana fino ad oggi, centinaia di donne sono state
imprigionate, molte, oggi, preferiscono scegliere la vita durissima di
clandestine”.54
Le testimonianze riportate da Mandira Sharma e Dinesh Prasain,
forniscono una chiara visione di tali scelte: “Tutti gli uomini della
famiglia hanno lasciato la casa. Di notte vado a dormire nella casa
dei miei vicini per paura delle perquisizioni e delle atrocità della polizia. La vita non era né facile né sicura. Così sostengo il partito maoista sperando di liberarmi di una tale vita” (Uma Chaudhary del distretto di Udayapur). E ancora: “Se gli uomini dell’esercito entrano
nel villaggio… torturano e violentano le donne. Bruciano le case e
terrorizzano le persone. Questa povera gente non ha nessun posto
dove andare per avere giustizia. Così vengono da noi ed entrano nel
partito” (guerrigliera maoista del Rolpa).55 I Maoisti sono spesso persone del villaggio che hanno capitalizzato lo scontento delle contadine perché le donne nepalesi soffrono di discriminazioni a causa della
casta, dell’etnia o della classe. È stato possibile per i Maoisti far leva
sugli svantaggi delle donne per varie ragioni:
- i Maoisti svolgono una propaganda sistematica basata sulla conoscenza dettagliata delle situazioni locali;
- hanno sempre più il potere di reprimere le opposizioni, avvantaggiati dalla sempre minore presenza del governo, dei partiti politici
e della società civile;
- conoscono la situazione concreta delle contadine, organizzano
tribunali popolari che procurano alle donne giustizia, velocemente ed
54
55
Shakya, 2003.
Sharma, Prasain, 2002, p. 157 e seg.
I quaderni del Cream, 2005, IV
90
efficientemente.56
Complessivamente, afferma Shakya,
“la Costituzione è progressista, sfortunatamente non lo è il Nepal Congress.
L’articolo 11, comma 1, stabilisce che tutte le persone sono uguali davanti
alla legge e che nessuno può essere privato della garanzia dell’uguaglianza
dei diritti. Sempre l’articolo 11, comma 3, dà la priorità alla creazione di
specifiche leggi per l’emancipazione delle donne. Eppure c’è una grande
differenza in confronto alle condizioni sociali reali delle donne. Nonostante
ci sia tanto progresso nelle scienze e nella tecnologia, le donne nepalesi credono ancora che la luna sia una dea e sono ancora private dell’istruzione”.57
6. Perché l’antropologia
Considerando la complessità della cultura nepalese, nei suoi aspetti religiosi, sociali e politici, stupisce ancor più il tentativo di emancipazione femminile portato avanti dalle guerrigliere maoiste.
Un tentativo dai risvolti anacronistici e astorici inserito com’è in una
visione totalitaria dello Stato e nel suo interagire con un assetto sociale che è ancora fermo, per molti aspetti, ad uno stadio semi-feudale anche se, dalle testimonianze delle guerrigliere e delle donne
della sinistra costituzionale, emerge una figura di donna che lotta per
i diritti di eredità, contro il patriarcato, per l’applicazione e la realizzazione delle riforme costituzionali. A questa società in gran parte
rurale, gerarchizzata in caste, si aggiungono inoltre gli influssi globalizzanti della società occidentale, ma non vi è traccia, per quanto mi
risulti, delle tendenze femministe più recenti, come ad esempio
l’ecofemminismo di Vandana Shiva, nella vicina India, riguardanti
sia un diverso ruolo della donna nei problemi economici del Sud del
mondo sia una idea diversa di sostenibilità ecologica. Secondo Lanternari, anche la contemporanea ricerca antropologica registra l’esi56
57
Sharma, Prasain, 2002, p. 164.
Shakya, 2003, pp. 384-385.
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genza, tra le altre, di indagare i fenomeni culturali e sociali, economici e di cooperazione, che riguardano le interazioni fra culture locali e cultura globale, in una “visione planetaria dei fatti umani e dei
rapporti fra questi e l’ambiente, considerato anch’esso in prospettiva
globale”.58 Inoltre, afferma Nussbaum, l’antropologia è stata una tra
le prime scienze a comprendere l’importanza del punto di vista femminile quando si descrive una società. Secondo Nussbaum la vita
delle donne si è trasformata in un tema di ricerca fin dai tempi di
Margaret Mead (Coming of Age in Samoa, 1928).59 “Quando si parla
del prodotto nazionale lordo di un paese moderno, in politica o in economia, il lavoro domestico, ad esempio, non viene considerato come lavoro produttivo, sebbene risulti essenziale per comprendere
l’economia complessiva di una nazione e la qualità della vita dei suoi
membri”.60 Per la Nussbaum senza i nuovi metodi di ricerca, legati ai
women’s studies in ambito accademico statunitense, sarebbe difficile
prendere in considerazione il lavoro e il punto di vista delle donne e
valutarne l’importanza. Un recente tentativo, riferisce la studiosa, di
analizzare la situazione delle vedove in India, ad esempio, ha rivelato
che non erano disponibili dati sulla loro posizione nutrizionale e sanitaria, perché il modello economico più usato per la famiglia61 prende in considerazione soltanto la posizione del capofamiglia maschio,
che dovrebbe incarnare adeguatamente gli interessi di tutti i membri
della famiglia.
Per dirla con Nussbaum, “affinchè questi fatti possano essere evidenziati, è necessario che vengano individuati nuovi metodi di ricerca”.
58
Lanternari, 2003, p. 13.
Nussbaum, 2001, p. 224.
60
Nussbaum, 2001, pp. 212-213.
61
Becker, 1991, in Nussbaum, 2001, p. 212.
59
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Bibliografia
Si ringrazia per la consulenza e i dati forniti, il prof. Romano Mastromattei,
titolare della cattedra di Antropologia culturale dell’Università degli Studi
di Roma “Tor Vergata”.
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I principali avvenimenti nella creazione del moderno Stato nepalese.
1769 – Unificazione dei tre regni (Kathmandu, Patan e Bhaktapur) ad opera di
Prthvi Narayan Shah.
1814 – Guerra anglo-nepalese. Il Nepal sconfina nei territori della Compagnia
Britannica delle Indie Orientali. Sconfitta del Nepal.
1816 – Trattato di Sagauli. Il Nepal perde 1/3 del suo territorio, la maggior
parte situata nelle pianure del Terai.
1846 – Massacro del Kot. Presa del potere da parte del comandante delle forze armate Jang Bahadur Kunwar Rana che diviene primo ministro. Inizio della Ranarchia.
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1854 – Introduzione del codice Muluki Ain che codifica le leggi castali.
1924 – Abolizione della schiavitù.
1951 – Rivoluzione e fine della Ranarchia. Restituzione del potere a re Tribhuvan Shah.
1955 – Regna Mahendra, figlio di Tribhuvan. Nasce la democrazia parlamentare. Vengono fondati il Nepal Congress ed altri partiti.
1959 – Promulgazione della prima Costituzione. Prime elezioni generali.
1961 – Re Mahendra mette fuorilegge tutti i partiti restaurando l’autocrazia.
Viene istituito il sistema della Panchayat, basato su 4.000 assemblee di villaggio e diretto dal re.
1963 – Abolizione ufficiale del sistema delle caste.
1972 - Re Birendra succede al padre (Mahendra); mantiene inalterato il sistema della Panchayat.
1979 – Birendra legalizza nuovamente l’attività politica dei partiti.
1980 – Referendum. Viene riconfermato il sistema della Panchayat. Proteste
dell’opposizione per i risultati elettorali. I partiti politici vengono nuovamente
messi al bando.
1989 – Jana Andol o Primavera del Risveglio. Tutti i partiti di centro e di sinistra si uniscono in un movimento per il ripristino della democrazia.
1990 – Il re viene costretto a legalizzare di nuovo i partiti politici. Viene promulgata la Costituzione democratica. Il Nepal viene dichiarato stato indù.
1994 – La Commissione per le elezioni esclude il Cpn (Maoista), derivato dal
Cpn del ’49. Prime azioni violente dei Maoisti nel Rolpa e repressione da parte delle forze governative.
1996 – I Maoisti dichiarano la “Guerra di Popolo”.
1997 – Birendra apre le trattative con i Maoisti e allo stesso tempo prepara
l’esercito per rispondere alla guerriglia. Il governo trasforma in legge l’Anti
Terrorist Bill.
2001- 1° giugno: strage al palazzo reale di Narayanhiti attribuita al principe
ereditario Dipendra Bir Bikram Shah Devi che muore “suicida”. Muoiono
dieci membri della famiglia reale, compresi il re e la regina. Gyanendra, il fraI quaderni del Cream, 2005, IV
95
tello superstite di re Birendra, diviene re del Nepal. Viene emanato il Kamaiya Abolition Act (liberazione di tutti i kamaiya, i lavoratori-schiavi, e loro
riabilitazione tramite il condono dei debiti contratti).
2001 – Novembre: Dichiarazione dello Stato di Emergenza da parte di Gyanendra. Sospensione dei diritti democratici. Nuova legge antiterrorismo.
2002 – Maggio: Gyanendra scioglie la Camera Bassa del Parlamento e annuncia le elezioni per il novembre dello stesso anno.
2002 – Ottobre: destituzione del Primo Ministro Deuba da parte del re. Scioglimento del Consiglio dei Ministri e rinvio delle elezioni a data indefinita.
Nomina a primo ministro di Lokendra Bahadur Chand.
2002 – Dicembre: il Dipartimento di Stato americano inserisce il Cpn (Maoista) nella lista delle organizzazioni terroristiche internazionali.
2003 – Gennaio: gli insorti firmano il cessate il fuoco.
2003 - Agosto: fine della tregua.
2005 – I° febbraio: Dichiarazione di Stato di Emergenza decretato dal re, con
dimissioni del primo ministro e presa diretta del potere esecutivo, con restrizioni sulla stampa e sospensione delle telecomunicazioni, compresi telefonia
mobile ed internet.
2005 – Maggio: Stati Uniti e Gran Bretagna hanno richiamato i loro ambasciatori. Gyanendra, per dare un segnale di normalizzazione, ha fatto ripristinare le comunicazioni e rilasciato alcuni leader comunisti. L’India ha bloccato
gli aiuti militari al Nepal.
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96
FABRIZIO FLORIS*
NON-LUOGHI, CITTÀ E VILLE NUE
Premessa: città e campi
Città. Fin dall’inizio la città è “investita” da una duplice corrente
di “desideri”: si desidera la città come “grembo”, come “madre”, e
insieme come “macchina”, come “strumento”: la si vuole ethos nel
senso originario di dimora e soggiorno, e insieme mezzo, complesso
di funzioni; le si chiede sicurezza e pace e insieme si pretende da essa estrema efficienza, efficacia, mobilità. La città è sottoposta a contraddittorie domande. Voler superare tale contraddittorietà è cattiva
utopia. Occorre dar forma proprio ad essa. La città nella sua storia è
il perenne esperimento per dar forma alla contraddizione, al conflitto.
Ciò premesso, la storia della città è la storia di diverse forme di
organizzazione dello spazio. Non esiste la città, ma le città. La polis
greca non è l’urbs, tanto meno la civitas; la città mediterranea medievale non è quella barocca; la città moderna non è la metropoli
contemporanea. La città mediterranea è anti-classica, non applica alcuno schema ideale, concresce nell’uso, nel determinarsi temporale
*
Dottore di ricerca Università di Torino. L’articolo è una sintesi di una ricerca condotta nel campo profughi di Kakuma in Kenya nel periodo luglio-settembre 2003 attraverso il sostegno della Missione Etnologica in Africa Equatoriale diretta dal prof. Francesco Remotti e nasce da una riflessione comune con Camillo Boano e Chiara Marchetti
che hanno scritto alcuni paragrafi. Sono di Camillo Boano «Ma perché i campi?» e
«Perché città», mentre è di Chiara Marchetti «Nonluoghi o fuoriluoghi?».
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97
delle sue funzioni. La città moderna ne costituisce il violento superamento: essa impone sullo spazio-tempo della città medievale un
ordine a priori, una forma a priori, fondati sulla sinergia tra fabbrica
e mercato, spazio di produzione e spazi di scambio e di consumo. Il
tempo del rapporto produzione/consumo regola tutti gli altri; la sua
logica viene applicata ovunque, dalla scuola, all’ospedale, al teatro.
Possiamo parlare di “attrazione ipnotica” esercitata da essa su ogni
funzione e ogni aspetto della vita collettiva.1
Col tempo si è ampliata l’ipotesi che non si abitano più le città, ma
i territori. A Kakuma, campo profughi del Kenya, ad esempio, pian
piano che si attraversano le varie zone dello stesso (Kakuma I, Kakuma II e Kakuma III) si può dire di uscire dal campo, ma è evidente che
si tratta di un “confine” sui generis: esso esiste soltanto per essere superato. Esso è in perenne crisi. Dal campo si entra e si esce, ma senza
alcun riferimento al diritto.
Tuttavia, spazio chiuso non sono soltanto i campi, ma anche le
gated communities, i parchi di divertimento, dove il divertimento
stesso viene cronicizzato, come la malattia negli ospedali, l’istruzione nei campus, la cultura nei musei. Si è ossessionati da immagini
e miti di velocità, mentre si costruiscono spazi che insistono pervicacemente nel definire, delimitare, confinare.
Campi. Nell’immaginario occidentale la parola campo ha subito
una sorta di scivolamento evocativo. Essa infatti, dall’indicare un
luogo senza case, non abitato – il campo si coltiva, nel campo cresce
qualcosa ma non si insediano gli umani –, ha assunto per analogia
anche un significato legato all’abitare.2 Evoca un luogo abitato provvisoriamente che interrompe la vita normale e contestualizza una
provvisorietà là dove non dovrebbe esserci.3 Così «se un luogo può
1
Cacciari 2004, p. 51.
Piasere 1999, p. 34.
3
Iber, rifugiato di Kakuma, identifica bene la condizione del campo quando afferma
che “qui è come se la vita si fosse fermata” (colloquio del 10 agosto 2003). “Siamo
come in un limbo”, in attesa, tutto viene spostato in un perenne avanti: se verrà la
2
I quaderni del Cream, 2005, IV
98
definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non
può definirsi né identitario né relazionale né storico, definirà un nonluogo», scrive Marc Augè.4 Si tratta di shopping mall, grandi stazioni, aeroporti, parchi giochi, villaggi turistici, ma anche di campi profughi. “Luoghi” uguali, indistinguibili nella loro collocazione geografica, siano essi a nord o ad oriente, nel continente africano o asiatico. Stesse strutture, dinamiche e tipi di relazioni. Questioni rilevanti
o si è di fronte ad una disquisizione meramente accademica? Proviamo a riflettere.
Il campo è una città?
È utile premettere che il periodo post guerra fredda ha visto
l’aumentare drammatico dei rifugiati, dei richiedenti asilo e degli
sfollati. Il numero della cosiddetta refugee population è passato da
2,4 milioni del 1975 a 10,5 milioni nel 1985 fino a 14,9 milioni nel
1990.5 Nel 1993 si è arrivati a 18,2 milioni, mentre gli ultimi dati disponibili dell’UNHCR, riferiscono che ad oggi il numero di rifugiati
è di 20 milioni.6 Di questa popolazione oltre la metà risulta vivere in
campi per rifugiati7 gran parte dei quali con popolazione superiore ai
50.000 abitanti.
Data la dimensione, la durata e le dinamiche socio-economiche di
questi insediamenti si è iniziato a discutere sulla dimensione quasipace, se ci daranno il resettlement anche la vita, l'amore, la fede, la nascita e la morte
assumono nel campo significati diversi perché anch'essi parte della transizione. Ogni
giorno è un ostacolo da superare più che un momento da vivere. Anche le storie
sembrano appiattirsi nel già detto, sentito, visto.
4
Augé, 1992, p. 73.
5
UNHCR, 2002.
6
UNHCR, 2003.
7
Secondo la definizione di Federico Rahola (2003) i campi sono luoghi che “concentrano masse in eccesso rispetto a condizioni contingenti e politicamente determinate”.
I quaderni del Cream, 2005, IV
99
urbana degli stessi dovuta ad estensione, densità abitativa, layout,
concentrazione di infrastrutture tecniche, profilo socio-occupazionale
e attività economiche che in essi si sviluppano.8
Inoltre i campi presentano molti caratteri comuni con le fastgrowing cities9 dei paesi in via di sviluppo, quali le dinamiche di invasione, di sovrappopolamento, di occupazione, di infrastrutture a
basso costo e di autocostruzione.
Il campo sembrerebbe essere una città contemporanea di nuova
fondazione, organizzata secondo i principi del controllo, sulla codificazione di flussi,10 immaginata e costruita sulla paradossale dinamica
tra esclusione ed inclusione, situata in una “zona di indistinzione”11
Una città-campo ed un campo-città che non fanno che confermare
quello che negli anni ’60 Park asseriva: «una città cresce per espansione, ma si caratterizza perché seleziona e segrega»12, attraverso le
dinamiche proprie della contemporanea società del controllo13 nella
quale la geografica ed istituzionale dicotomia tra dentro e fuori, viene resa obsoleta da nuovi strumenti socio-tecnologici, favorendo una
cultura di ordine e disciplina “anti-nomadica” in grado di fissare ed
immobilizzare la mobilità.14
Ma perché i campi?
L’opzione campo è determinata da quella che è stata definita come “territorializzazione dello spazio” conseguente alla definizione di
territorializzazione come “sforzo di individui o gruppi [stati] di influenzare e controllare persone e relazioni, delimitando e favorendo
8
Perouse de Montclos, Mwangi Kagwanja, 2000.
Payne, 1985; Payne, 1989.
10
Castells, 1996.
11
Agamben, 1995.
12
Park, 1967.
13
Dicken, Bagge-Launsten, 2002; Palidda, 2000; Hyndman, 2003.
14
Foucault, 1977.
9
I quaderni del Cream, 2005, IV
100
il controllo su una determinata area geografica”.15
Rifugiati e migranti sono letteralmente “immobilizzati” in non
luoghi, nei quali vivere una “transitorietà congelata”.16
Come sostenuto da Agier,17 i campi possono essere considerati gli
emblemi delle condizioni sociali create dai conflitti e dalle relative
azioni umanitarie, ma nel contempo possono essere anche considerati
come sperimentazione di una segregazione definita e stabilita su scala planetaria.
Il sistema umanitario non è solamente modellato sul concetto di
“salvare le vite”,18 ma anche sul desiderio e lo sforzo di minimizzare
l’impatto dei rifugiati sui paesi ospitanti.19
Il campo è quindi considerabile come un phisycal device, uno
strumento di gestione, funzionale ai bisogni di sicurezza, protezione
e separazione attraverso l’uso di aree definite, chiuse e controllabili,20 ma anche ai bisogni di visibilità: le immagini di sovrappopolati
campi fatti di tende e plastic sheetings che viaggiano per l’universo
mediatico, sono fondamentali per attrarre fondi e stimolare l’opinione pubblica.21
Per Bauman22 i campi per rifugiati assumono una nuova qualità:
quella della “frozen transience” ovvero un continuo stato di temporaneità che nega totalmente l’esperienza del lungo termine e delle sue
conseguenze. Come in una prigione o in un iper-ghetto23 i rifugiati
imparano a vivere, o meglio sopravvivere, giorno per giorno
nell’immediatezza del momento.
15
Kibreab, 1999.
Bauman, 2002.
17
Agier, 2002b.
18
Macrae; 2001; Terry, 2002.
19
Ferretti, 2004.
20
Bakewell, 2000; IASC, 2002.
21
Per approfondire il dibattito tra media ed aiuti umanitari vedere Thiele, 2000;
Terry, 2002; Philips, 2003.
22
Bauman, 2002.
23
Waquant, 2001.
16
I quaderni del Cream, 2005, IV
101
Questa transitoria permanenza non ha a che vedere con la contingenza o con la specificità dei contesti, ma con la vera essenza e con
la logica stessa del campo che emerge quando l’eccezione diventa la
regola,24quando la transitorietà permanente diventa la regola.
I campi di rifugiati, come altre tipologie di campi, sono parte integrante delle dinamiche globali “sono nel contesto in cui sono localizzati senza farne parte”, condividono la mancanza di simbologie e
significati, così come la permanenza nella transizione.
Nei campi la vita viene quotidianamente “donata” al rifugiato dal
principio umanitario, grazie a una trasfusione internazionale. È questo flusso continuo e assolutamente unidirezionale che lo mantiene in
vita, tanto che si può parlare di “vita sotto trasfusione”, di vie sous
perfusion25 in cui vengono annichiliti tutti gli sforzi di partecipazione
attiva del rifugiato. È questa continua trasfusione l’essenza stessa del
meccanismo del campo.
La sospensione dei rifugiati nel limbo del campo profughi ben
rappresenta la loro invisibilità e la loro non-appartenenza ad alcuna
comunità politica.
Nonluoghi o fuoriluoghi?
Direttamente collegato a queste considerazioni, si inserisce il
concetto di “fuori dallo spazio”, hors des lieux. Il campo rappresenta
una discontinuità non solo temporale, ma anche spaziale nella vita
dei rifugiati:
«I profughi vengono sempre più a trovarsi sotto un fuoco incrociato, o, più esattamente, in una duplice morsa. Vengono cacciati a
forza o indotti col terrore a lasciare il paese natio, ma viene loro
rifiutato l’ingresso in qualsiasi altra nazione. E dunque il loro non è
un semplice cambio di luogo: di fatto essi perdono un posto sulla
terra e vengono catapultati in un niente».26
24
25
Agamben, 1995.
Agier 2002a, 85.
I quaderni del Cream, 2005, IV
102
vengono catapultati in un niente».26
Queste caratteristiche permettono un confronto tra i campi profughi, che si possono definire come fuoriluoghi [hors-lieux], e come
nonluoghi [non-lieux]. I nonluoghi sono caratterizzati dall’extraterritorialità, dal non appartenere a nessun luogo. Sono degli “spazi” –
non dei “luoghi” – di transito, delle parentesi spazio-temporali dove
il deficit di socialità e l’anonimato sono la regola. Lo spazio del
campo non può essere segnato dall’uomo, non può farsi attraversare
e vivere dalle presenze che lo abitano. I fili delle vite che lo animano
non possono intrecciarsi in alcuna trama permanente.
Il tipo di extraterritorialità e di transitorietà che i campi profughi
rappresentano, tuttavia, si distingue almeno in parte dal tipo di extraterritorialità e di transitorietà offerte dagli altri nonluoghi individuati
da Augé.
Il campo profughi si colloca in un “fuori” territoriale, presenta
l’estraneità piuttosto che la negazione del luogo antropologico. Negli
altri nonluoghi, il soggetto può esercitare la propria facoltà di scelta:
la transitorietà è voluta e cercata. Accede al nonluogo attraverso un
ingresso sorvegliato e controllato, e ne esce da porte ampie e libere.
Questi nonluoghi sono i punti di transito della mobilità planetaria.
La temporaneità dei campi profughi invece è resa permanente e
“congelata”. Al rifugiato viene negata una forma compiuta di agency,
cioè la possibilità di essere responsabile delle proprie azioni. I campi sono hors-lieux, perché qui “il provvisorio è vissuto come definitivo”,27
ma allo stesso tempo “il definitivo è percepito come provvisorio”.28
Si è definito lo spazio del campo come un “fuori” costruito artificialmente contrapposto al “dentro” inclusivo delle nostre società.
Tuttavia lo spazio chiuso del campo, con i suoi confini definiti e facilmente riconoscibili, individua allo stesso tempo un “dentro” inclusivo, laboratorio di nuove identità e appartenenze, che si contrappone
26
Bauman 2003, 114.
Augé 1994, 172.
28
Rahola 2003, 160.
27
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103
al “fuori” della comunità locale e, a un altro livello, al “fuori” del
personale amministrativo che lì opera: una contrapposizione tra internati e staff che riproduce in qualche misura la divaricazione tra interno ed esterno.
Pur considerata la mancanza di agency dei rifugiati e fatta salva la
difficoltà di uscire dallo spazio del campo, resta valida la considerazione che il campo costituisce un microcosmo, una realtà sociale che
si distingue nettamente dallo spazio circostante e che individua un
“dentro”, allo stesso tempo protettivo e costrittivo. La combinazione
della politica degli organismi umanitari e dei governi ospitanti, con il
comportamento della comunità locale, rende il territorio esterno al
campo off-limits per i rifugiati.
Si può osservare come i confini del campo siano, su un’altra scala, la riproduzione di una frontiera:29 delimitano il “dentro” dello
spazio fisico e sociale del campo, distinguendolo dal “fuori” della
comunità locale, con le sue attività e la sua specifica organizzazione:
«i suoi limiti marcano la differenza tra l’uno e l’altro, tra l’autoctono
e lo straniero, tra il cittadino e l’esiliato. Il campo profughi appare
come un’enclave, una concessione territoriale assegnata alle organizzazioni umanitarie [più che ai rifugiati], in modo tale che ciò che
succede all’interno colpisca il meno possibile l’esterno».30 Si delinea
così una prima contrapposizione tra il “dentro” familiare del campo e
il “fuori” ostile della comunità locale.
Ma vi è un ulteriore “fuori” che caratterizza l’esistenza dei rifugiati ed è determinato dall’assenza di cittadinanza, dal non appartenere pienamente ad alcuna comunità. «La disgrazia degli individui
senza status giuridico non consiste nell’essere privati della vita, della
libertà, del perseguimento della felicità, dell’eguaglianza di fronte
alla legge e della libertà di opinione [formule intese a risolvere i problemi nell’ambito di determinate comunità], ma nel non appartenere
più ad alcuna comunità di sorta».31
29
Sul concetto di frontiera si consulti, tra gli altri, Fabietti, 1997, pp. 7-21.
Cambrézy 2001, 88.
31
Arendt 1996, 409.
30
I quaderni del Cream, 2005, IV
104
Perché città?
Superata la prima fase della emergenza, caratterizzata normalmente da un alto afflusso di popolazione, di agenzie umanitarie, di
aiuti e di attenzioni dei mass media, i rifugiati diventano una sorta di
“urban dwellers in the making” ed i campi vivono una fase intermedia nel percorso della urbanizzazione.32
Questa pratica forzata di urbanizzazione, attraverso la sperimentazione di una alto livello di prossimità relazionale, di densità, di
“cosmopolitismo da emergenza”, provoca un cambiamento drammatico in termini psicologici, antropologici e culturali.33
I campi sono quindi opzioni e icone di un meccanismo sociospaziale creato in situazioni di emergenza, sono strumento protettivo in
grado di offrire sicurezza fisica e soddisfacimento di bisogni primari,
ma sono anche città di nuova fondazione disegnate da neo-esperti della
pianificazione con tanto di standards34 riempiti da “non cittadini” la
cui presenza ed appartenenza spaziale è giustificata dal solo punto di
vista umanitario come vittime, come recipienti di aiuto.35
L’alta densità, la complessità delle infrastrutture civili e sociali, e
quella che Sayigh36 ha chiamato “un sistema di layers complessi” diventano le caratteristiche dominanti che permettono di paragonare il
campo ad una città.
Perouse de Montclos e Mwangi Kagwanja37 hanno tentato questo
esercizio di comparazione analizzando le dinamiche socio-economiche di due dei più estesi campi per rifugiati dell’Africa, Kakuma e
Daadab nel Nord del Kenya, chiedendosi, inizialmente che cosa fos32
Perouse de Montclos, Mwangi Kagwanja, 2000.
Per approfondire vedi Rogge, 1991; Harrell-Bond, 1986; Kibreab, 1991; 1994.
Sulla distinzione tra cultura come “contenitore” e cultura come “ambiente comunicativo” si veda, tra gli altri, Fabietti, 2002, p. 95.
34
Sphere Project, 2003.
35
Agier, 2002b.
36
Sayigh, 1994.
37
Perouse de Montclos, Mwangi Kagwanja, 2000.
33
I quaderni del Cream, 2005, IV
105
se una città e quindi verificando se i campi oggetto di ricerca soddisfacessero le stesse caratteristiche. Sottolineando una difficoltà oggettiva, nel ritrovare una definizione condivisa di città [non solo in
Africa, ma come concetto globale], hanno utilizzato, dopo un’attenta
analisi, alcuni parametri, universalmente riconosciuti quali il numero
minino di abitanti; la densità per chilometro quadrato; i livelli di aggregazione spaziale [distanza tra unità abitative e strutture]; l’esistenza di infrastrutture tecniche [strade, fognature, comunicazioni,
ecc.]; profili socio-occupazionali [es: il numero di abitanti non addetti all’agricoltura sul totale della popolazione]. L’analisi ha portato a
confermare che Kakuma e Dadaab, rispondono numericamente ai parametri, possono essere quindi considerate vere e proprie città.
Nel 2003, Kakuma aveva una popolazione di 86.000 rifugiati con
una densità per ettaro media di 400 abitanti; il layout del campo era
rigidamente strutturato con 76 blocks [quartieri], intervallati da strade principali e secondarie; le infrastrutture presenti impiantate dal
sistema umanitario contavano 4 cliniche, 21 scuole, 3 ospedali; attività commerciali ed economiche interne ed esterne venivano realizzate disegnando una sorta di nuove dinamiche mercantili.38 Elementi
questi che attestano la natura urbana del campo.
Gli stessi autori, come altri39 si sono chiesti se i soli parametri
numerici e socio-tecnici potessero essere sufficienti per dimostrare la
validità del paragone; certo è che il senso di cittadinanza, l’essere cittadini, lo “status di pensiero”,40 che ne potrebbero evidenziare le caratteristiche urbane non sono presenti e in questo senso il campo non
è una città. Per contro, se il campo viene inteso come complesso sistema di sopravvivenze,41 come un relativamente esteso, denso, socialmente eterogeneo e, molto spesso, non temporaneo insediamento,
può sicuramente essere inteso, per questa sua complessità, come città. Tuttavia, il campo non è un “modo di vita”, lo spazio di azione
38
Perouse de Montclos, Mwangi Kagwanja, 2000.
Agier, 2002b; Zetter, 1995.
40
Park 1925b.
41
Agier, 2002b.
39
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dell’essere cittadini, l’eterogeneo insieme di risorse identitarie.42
I campi si presentano come fuori dal luogo e dal tempo di un comune e ordinario e prevedibile presente, come dinamica di contrazione tra interno ed esterno tra dentro e fuori: sembrano essere più
una crescita del deserto43 che una città.
Come sottolineato da Bauman44 e da Agier,45 lo studio dei rifugiati e l’analisi dei campi attraverso il prisma degli studi urbani e
l’analisi delle relazioni che si instaurano in questa indotta esperienza
di umana coabitazione, una quasi-città, proto-città o neo-città,46 al di
la della evidente metafora, non è mai stato ampliamente sviluppato
data la natura transitoria di tali insediamenti, smentita dalla pratica e
dai numeri tanto che, in molti casi, questi insediamenti diventano
permanentemente il living environment per molti anni: basti pensare
ai campi profughi palestinesi di Gaza, del Libano,47 o quelli dei rifugiati Afgani in Pakistan,48 o a Kakuma stessa; sedimentandosi e tessendo relazioni con il territorio circostante si evolvono come entità
sociali ed economiche,49 assurgendo a landmarks, a icone di presenze
sociali e politiche, incarnanti le self-asserting logic50 di “deserti non
atti alla vita umana” condividendo con altri spazi “definitivamente
temporanei” la non reale appartenenza al luogo: un essere “in”, ma
non “del” luogo.51
42
Wirth, 1938.
Arendt, 1993.
44
Barman, 2002.
45
Agier, 2002b.
46
Bianco, Boano, 1997.
47
Per approfondimenti si consulti, tra gli altri, Shamir, 1971; Sayigh, 1994; Jarrar,
2003 e Boano, Rottlaender, Sanchez-Bayo, Villani, 2003.
48
Per approfondimenti si consulti, tra gli altri, Anderson, Dupreen, 1990.
49
Marx, 1992.
50
Bauman, 2002.
51
Rahola, 2003.
43
I quaderni del Cream, 2005, IV
107
Kakuma la ville nue
La socialità che si può sviluppare all’interno del campo è sempre
“in difetto”. Pur presentando molte delle caratteristiche di una città,
con i suoi spazi vissuti e segnati dalla presenza dell’uomo, con le sue
dinamiche di interazione, di confronto e di scambio, il campo rimane
sempre una città monca, perché segnata dall’anomalia della sua genesi e dalla provvisorietà indefinita che ne mina le fondamenta sociali. «Il campo è paragonabile alla città, ma non la raggiunge mai veramente».52
Si fa tutto, come in una città, ma, senza la legittimazione dall’alto,
senza il consenso esplicito dell’UNHCR e del governo keniano, tutto
rimane nel sommerso, in quel limbo di diritto e di fatto che non permette una gestione autonoma del tempo e dello spazio. Si può fare
tutto fino a nuovi ordini, fino a prova contraria, nel silenzio dei superiori, nel vuoto della legge. Ma allo stesso modo non si può fare nulla
di permanente, nulla di definitivo. Così, all’interno dei campi, né il
lavoro [inteso come attività economica] né la politica [intesa come
rivendicazione d’autonomia] possono veramente svilupparsi e consolidarsi. «I campi rimangono delle città nude».53
La città nuda è una forma apparentemente urbana, cui è stata amputata una parte di vita: spogliata della componente economica e politica e congelata nel tempo in un eterno presente.
Questi aspetti rendono difficile, per non dire impraticabile, la trasformazione dello spazio del campo in una vera città, intesa come
luogo antropologico che l’uomo riesce a modellare e plasmare in
funzione della sua presenza e delle sue attività. La stessa “urbanistica” del campo profughi si discosta dall’urbanistica di una città, in cui
i cittadini possono, nel tempo, lasciare la loro impronta su edifici, costruzioni, ma anche sulla viabilità, sulla disposizione delle strade,
degli spazi pieni e degli spazi vuoti. I campi, per contro, sono pensati
52
53
Agier 1999, 111.
Agier 1999, 113.
I quaderni del Cream, 2005, IV
108
a tavolino, dall’esterno, costruiti in nome dell’efficienza e della sicurezza, e non dell’antropologia dei suoi abitanti. I campi non possono
essere città perché i rifugiati non possono essere cittadini. La città
nuda è l’unico asilo possibile per la nuda vita dei rifugiati. Si tratta di
una vita indefinita «che è stata separata dal suo contesto e che, essendo per così dire sopravvissuta alla morte, è diventata incompatibile col mondo umano».54 Si tratta della sommatoria delle indigenze,
nel punto in cui la vita biologica non è presa in carico, al di fuori di
ogni discorso di cittadinanza.
La tripartizione spaziale
Tuttavia, queste realtà non sono un tutto omogeneo, ma come le
città presentano una stratificazione sociale ed una gerarchia urbana.
Il campo di Kakuma è caratterizzato da una tripartizione sociale che
si delinea su su almeno tre livelli: Kakuma-UNHCR, Kakuma-Ong e
Kakuma-refugees. Il primo è una cittadina euro-americana trapiantata nel deserto. È un centro amministrativo, organizzativo con reti di
comunicazione, collegato ai centri del sistema internazionale con
luoghi di svago e confort.
La seconda è un ricca città africana a circuito chiuso. Acqua corrente, bar e impianti sportivi.
La terza è una città nonsense che è caratterizzata dalla serialità e
dalla standardizzazione degli oggetti localizzati sul territorio. I luoghi sono comunità: sudanesi, somali, congolesi…, le distanze si misurano sulla base del costo del boda-boda.55
Queste tre “città” si intrecciano nel momento in si rimettono in
“campo” i soggetti, che rappresentano la connessione tra i luoghi. La
serialità è così solo un punto di partenza a cui dare significato, su cui
54
Agamben 1995, 34.
I border to border sono tassisti con la bicicletta; il nome in origine proviene dalla
frontiera tra Uganda e Kenya: lì i tassisti in bici ti accompagnano da una frontiera
all’altra e si chiamavano per l’appunto border-border (confine), da cui boda-boda.
55
I quaderni del Cream, 2005, IV
109
costruire flussi identitari.56 Su questi tre spazi agiscono due livelli
economici e due monete: il dollaro e lo scellino keniano57 che rappresentano, il primo, la crescita esogena, il secondo, lo sviluppo endogeno. I dollari pagano gli aiuti, sia che provengano da UNHCR
che da connazionali ed amici immigrati all’estero, lo scellino ed il
baratto “animano” gli scambi locali, i bricolage produttivi che integrano la sussistenza, svolgendo inoltre una funzione di medium ed
incontro tra popolazione locale e rifugiati.
Le soggettività “nascenti dal basso” hanno un vincolo giuridico
che le impedisce di crescere, di essere protagoniste. Si tratta di un
vincolo che “immobilizza” la dipendenza.58 A livello politico le
leadership sono comunitarie e spesso si trovano nei paesi d’esodo cosicché vi è un ulteriore fattore esogeno che determina la vita locale.
Il tutto si associa ad una frammentazione culturale e religiosa. Le differenze non sono soppresse, ma nemmeno connesse; sono in contatto, ma non si contaminano perché l’ideale è sempre “altrove”.
Il luogo non è quindi il terreno della cultura su cui far nascere una
società locale, un’economia specifica ed antropologie non banalizzate dagli standard. Sono queste le assenze che fanno di Kakuma un
non-luogo, un semplice spazio “ricevente” con il conseguente “scolorimento” delle persone che diventano corpi da curare, stomaci da
riempire, popolazione in eccesso.
Un popolo senza nazione, un argine “provvisorio”, un’astrazione
giuridica immersa in un arco temporale incerto, remoto ed imprevedibile.
In questo c’è una logica strutturale ed un compromesso politico che
56
Per approfondimenti sul concetto di identità e in particolare sulla identità come
flusso si veda, tra tutti, Remotti 1996, pp. 3-18.
57
Vi è anche discreta presenza di forme di baratto in particolare tra i locali Turkana
e i rifugiati. Essenzialmente lo scambio è tra carbone e cibo. Ogni scambio ha una
precisa tariffa, un chilo di carbone contro due di grano o contro uno di fagioli ecc. Il
“prezzo” varia in base alla disponibilità delle merci sul mercato per il noto “gioco”
della domanda e dell’offerta.
58
Barman, 2002.
I quaderni del Cream, 2005, IV
110
definiscono un orizzonte immobile, una dis-percezione del futuro, che
risulta intrinsecamente entropico perché si tende a separare l’uso pratico del territorio dalla sua dimensione di senso dilatata nel tempo.
Tempo e spazio
Il tempo della dipendenza prolungata, determina l’impossibilità di
essere protagonisti della propria vita favorendo la passività e riducendo quella che è l’essenza della vita. La passività lentamente erode
ogni tentativo del pensiero che già debilitato dalla violenza e dalla
guerra lentamente regredisce per dare spazio agli istinti primordiali.
Si vive nell’attesa che qualcosa, dall’esterno, accada. Di sei mesi
in sei mesi aspettando il dis-topico resettlement – reinsediamento –
per gli Stati Uniti così lentamente da undici anni. L’unico problema è
trovare il modo di affrontare questa attesa, di “ingannare” il chronos,
la storia e la propria intelligenza, evadere verso altre realtà virtuali
dove l’esistenza e la sofferenza siano almeno per un certo tempo meno dure. I modi per mettere in piedi questo inganno sono essenzialmente quattro e riflettono la stratificazione sociale, economica e culturale del campo nonché la qualità della vita delle donne e degli uomini che vivono in questo territorio.
Video: si cerca di distrarre il tempo guardando film, telenovelas e
partite di calcio trascorrendo ore nelle varie sale video presenti in varie zone del campo;
Changaa: è l’alcool di produzione illegale più noto e bevuto del
Kenya. Una sorta di grappa di mais spesso pericolosa soprattutto
quando per alzarne la gradazione viene mescolata con altre sostanze:
tipicamente si utilizza l’olio esausto dei motori e il cherosene;
Sessualità anticipata: è un’altra modalità di “vivere il tempo” dovuta alla fortissima pressione psicologica che c’è soprattutto nei confronti delle ragazze ad anticipare gli anni della vita sessuale completa, la cui ricaduta è una rilevante presenza delle malattie sessualmente trasmissibili, tra tutte l’AIDS, che in questo contesto risulta essere
una malattia sociale il cui impatto va ridotto attraverso una risposta
più sociale che sanitaria essendo legata all’utilizzo del tempo, al fatto
I quaderni del Cream, 2005, IV
111
“che qui non c’è niente da fare”. La diffusione dell’AIDS deriva anche da un contesto culturale che sfavorisce l’uso degli anticoncezionali specie dei profilattici con un effetto non secondario sulla natalità, il campo cresce dell’8-10% all’anno solo per la parte della crescita interna, solo nell’ultimo mese sono nati 700 bambini. Una bella
notizia perché la vita “aumenta” in senso quantitativo più complesso
sarà verificarne la qualità quando queste mamme di quattordici anni
si troveranno sole perché “i fidanzati” hanno trovato qualcosa di meglio e di meno faticoso che trovare il modo di nutrire i figli.
“Lavoro” e forme di auto-impiego: è la quarta modalità di utilizzare il tempo, anche in questo caso più per “ingannarlo” che per viverlo, comunque la più efficace e costruttiva. Si cerca di svolgere
una qualche forma di impiego che si concretizza in forme di volontariato associate a piccoli incentivi di carattere monetario presso le varie organizzazioni non governative [ong] che gestiscono i vari aspetti
della vita del campo [distribuzione del cibo, sanità, scuola, sicurezza]. Volontariato perché per le leggi del Kenya i rifugiati non possono lavorare, perché “ci sono già troppi disoccupati keniani”, ha affermato il ministro locale. Tuttavia, è difficile comprendere fino a
che punto si tratti di incentivi e di stimoli nei confronti dei rifugiati o
di forme di sfruttamento mascherato dato che i rifugiati svolgono le
stesse attività del personale locale ricevendo però un decimo del loro
stipendio [2000 o 3000 ksh tra 15 e 40 € al mese contro i 20.000 o
30.000 cioè € 150 e 400]. Auto-impiego [self emploiment], lentamente nel campo sono nate diverse attività che vanno dalla piccola impresa alle varie forme di auto-impiego. Con le rimesse dall’estero
[per chi ha parenti e amici che sono riusciti ad avere il resettlement
per gli Stati Uniti] diversi hanno avuto la possibilità di aprire negozi
di generi alimentari, abbigliamento, bar, parrucchieri, sale video,
computer café, copisterie tutto in piccolo ad esempio computer café
significa che una persona ha un computer non dieci, che permettono
un’accumulazione monetaria a tratti rilevante visto che le attività sono poche rispetto alla quantità di popolazione presente e anche nonostante la scarsa circolazione monetaria presente. Se non si beneficia
delle rimesse estere si possono cercare modalità interne di accumulo
del capitale sufficiente per avviare un piccolo business: lavorare per
I quaderni del Cream, 2005, IV
112
altri rifugiati – incombenze domestiche, aiuto nella costruzione o riparazione delle abitazioni, lavaggio di biancheria – oppure si può
cercare di risparmiare una parte della razione cercando poi di rivenderla e con il capitale ottenuto acquistare o far acquistare ad esempio
delle stoffe a Nairobi che si potranno rivendere nel campo ad un
prezzo maggiorato e così reinvestire il guadagno per altri acquisti ed
altre vendite. Le attività di questo tipo sono svolte dalle persone più
preparate ed istruite che provengono generalmente da contesti urbani
e che quindi valorizzano le proprie esperienze e consentono un tenore di vita oggettivamente migliore rispetto agli altri rifugiati.59 Conseguentemente si è sviluppata nel campo una stratificazione sociale
tipicamente urbana; a parte i funzionari delle Nazioni Unite e gli operatori delle ONG, tra i rifugiati è presente una gerarchia sociale ai
cui vertici compaiono i commercianti seguiti dai lavoratori “volontari” presso le ONG ed infine nel livello minimo si possono contare
tutti quelli che non hanno nulla e non fanno nulla, i destinatari della
59
Tuttavia, soggettivamente vi può essere una sofferenza maggiore da parte di questi
ultimi proprio a causa del declino sociale che rappresenta la vita nel campo rispetto
allo stile ed alla qualità della vita precedente. Pertanto se per una pastore sudanese
proveniente da una zona relativamente vicina al campo la vita da rifugiato può risultare non eccessivamente faticosa, diversa è la condizione di un’insegnate di scuola
superiore proveniente da Kigali, anzi per il pastore il campo può essere un’opportunità di accesso all’istruzione ed alla sanità oltre che avere razioni di acqua e cibo
garantite nonché la possibilità di raggiungere quando vuole il proprio paese, impossibile, al contrario, per chi proviene dalla regione dei grandi laghi. Per chi giunge da
Sudan, Somalia, Uganda ed Etiopia l’aspetto fisico del territorio, il clima e le condizioni di vita sono relativamente simili ed in più si ha la garanzia di una serie di servizi inoltre il problema culturale della prospettiva, di immaginare la vita in un tempo
dilatato non si pone. Normalmente già nelle lingue di origine il tempo è solo quello
presente perché vi è una sorta di dis-percezione del futuro che come tempo non esiste, vi sono solo le parole domani o dopo domani. Diversa è la condizione per chi
proviene da culture che hanno nel saper pensare e costruire in una dimensione dilatata e spostata nel tempo uno dei fattori del processo maturativo umano. Un ulteriore
distinzione da considerare è l’età dei soggetti: per i bambini la vita nel campo è simile a quella del villaggio con in più, rispetto a quest’ultimo, la possibilità di poter studiare, diversa è la situazione di chi ha terminato gli studi, di chi ha studiato e che si
ritrova senza prospettive.
I quaderni del Cream, 2005, IV
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politica generalizzata di trasfusione umanitaria, dipendenti in tutto e
per tutto dagli aiuti della comunità internazionale. Quest’ultimo gruppo è di gran lunga il più numeroso, almeno due terzi dei rifugiati di
Kakuma, a ricordarci che questo embrione di stratificazione sociale e
di organizzazione politica non può celare la diffusa realtà dell’inattività e della dipendenza.60
Come nella società della pubblicità si è creato un sistema che genera un continuo stato di bisogni è proprio del modello generare la
sensazione di scarsità ed un costante livello d’insoddisfazione. Come
ha dimostrato Pearson nel celebre “l’economia non ha surplus”61 il
problema è istituzionale, strutturale è proprio il progetto assistenziale
del campo che induce a chiedere e a pensare “se avessi… se avessi
questo..., se avessi solo un po’ più...,” impedendo il presente, chiudendo la possibilità di considerare come opportuno anche questo
tempo d’esilio. Si vivono anche qui quelli che Hirsch62 ha chiamato i
limiti sociali allo sviluppo “non basta avere dei beni per essere soddisfatti della propria condizione, ma è necessario averne in misura
maggiore degli altri”.
Inoltre vi è lo spettro dell’occidente che riecheggia continuamente
sebbene una persona possa avere un lavoro, un’attività ha sempre
come obiettivo l’Europa, gli Stati Uniti e vive in un continuo stato di
frustrazione perché pensa che “la vita potrebbe essere migliore” dimenticando che l’uomo non è una somma di beni e che anche l’occidente ricco conosce la sofferenza.
La soluzione che propone la struttura è sempre una fuga. Il campo
è costruito, pensato e gestito come qualcosa di instabile la cui prospettiva è partire così non si attivano le risorse non si tira fuori dalle
persone le capacità che possono utilizzare qui. Non si valorizza il
presente e si ragiona sempre in termini di “se ci fosse”, “se fossi”,
tutto ipotetico e poco probabile se non impossibile.
60
Agier 2002a, pp. 107-8.
Pearson, 1982.
62
Hirsch, 1981, p. 34.
61
I quaderni del Cream, 2005, IV
114
Sulla base di queste contraddizioni si può osservare che il campo
“è” e “non è”. È “città” ed è “non-città”.
La dimensione urbana dei campi risulta essere un tipico caso di
teorema non dimostrabile che è tuttavia anche irrefutabile, perché
nemmeno la sua negazione è dimostrabile: essa infatti è falsa. Si tratta di un esempio di affermazione che rimane costantemente indecisa.
Seguendo Gödel63 si può ridurre la sintassi e decomporre il problema
e dimostrare che il campo è città nella forma, non-città nelle dinamiche sociali e di cittadinanza.
Bibliografia di riferimento
Agamben G., 1995, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino.
Agier M., 1999, L’Invention de la ville. Banlieues, townships, invasions et favelas,
Editions des archives contemporaines, Paris.
Agier M., 2002 a, Aux bords du monde, les réfugiés, Flammarion, Paris.
Agier M., 2002 b, Between war and city. Towards an urban anthropology of refugee camps, Ethnography, vol.3 [3], pp. 317-341.
Anderson E., Dupreen, N., 1990, The Cultural Basis of Afghan Nationalism,
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118
FEDERICA RIVA •
DONNE, AMBIENTE E POLITICHE DELLO SVILUPPO
NEL GARHWAL
(HIMALAYA INDIANO NORD-OCCIDENTALE):
TRA PRATICHE LOCALI E ICONE GLOBALI
♦
Introduzione
“Le donne hanno un ruolo vitale all’interno della gestione e sviluppo ambientale. La loro piena partecipazione è dunque essenziale
per raggiungere lo sviluppo sostenibile”. Come evidenziato dal ventesimo principio della dichiarazione di Rio del 1992, le donne sono
state progressivamente integrate nei discorsi sullo sviluppo come “attori” principali o addirittura “essenziali” per affrontare questioni ambientali sempre più urgenti. L’immagine della “donna del terzo mondo” come vittima del degrado ambientale, che ha dominato i mass
media e con essi l’immaginario collettivo negli anni ’80, viene sostituita da quella di “donna esperta” nella gestione delle risorse, ultimo
bastione di speranza ambientalista per la conservazione ambientale.
All’interno della vasta letteratura che è stata prodotta negli ultimi
quindici anni su questioni di genere e ambiente, il paradigma teorico
del WED, Women Environment and Development, è risultato uno
dei più influenti nella pianificazione allo sviluppo. Rifacendosi alle
analisi eco-femministe dei movimenti sociali post-coloniali legati al•
Dottoranda Università degli Studi d Milano Bicocca.
Un ringraziamento al Comitato di EVK2-CNR che ha supportato la ricerca sul
campo e l’editing del materiale raccolto.
♦
I quaderni del Cream, 2005, IV
119
la gestione delle risorse, il WED ha enfatizzato il ruolo svolto dalle
donne, come evidenza del legame “speciale” tra donne e natura.
La tendenza a dare visibilità alla ‘produttività’ ed agency delle
donne, le grandi assenti nel passato nei progetti di modernizzazione,
ha portato ad una romanticizzazione delle loro pratiche quotidiane in
una “partnership with nature”1 e della loro partecipazione a mobilitazioni collettive, per evidenziare l’intrinseca identità di interessi tra
donne e conservazione ambientale.
La vita delle “donne del terzo mondo”, in particolare nel contesto
rurale indiano che prenderò in considerazione, viene assunta quindi a
simbolo di tale unione, omettendo, però, qualsiasi analisi delle politiche di genere che sono alla base del crescente divario tra le responsabilità femminili per la sussistenza e i loro diritti effettivi nella gestione delle risorse. L’interazione tra donne e ambiente locale viene
quindi riportata ad un piano puramente ideologico dove si perdono di
vista le “realtà materiali” delle donne2 e le dinamiche di genere discriminatorie che danno forma a tale relazione. Ciò che si censura in
tale rappresentazione è la complessità della realtà, la costruzione culturale dell’ambiente secondo la molteplicità dei posizionamenti individuali – di casta, classe, età, relazioni di parentela – e i fattori sociopolitici che limitano il potere di contrattazione delle donne. Per questa
inaccuratezza nell’analisi del locale e semplificazione concettuale delle relazioni di genere, “despite efforts to include women, many projects have not (…) benefited women, or have not ensures the conditions for women participation”.3
Le rappresentazioni eco-femministe del Chipko Andolan (dall’hindi: movimento che abbraccia),4 sono probabilmente le immagini
egemoni di un attivismo ambientalista femminile a livello internazionale che hanno legittimato le retoriche del WED. La traduzione di
1
Jewitt, 2000, p. 980.
Agarwal, 1992.
3
Jackson, 1998, p. 273.
4
La denominazione del movimento deriva dalla strategia di protesta che consisteva
nell’abbracciare gli alberi per impedirne l’abbattimento.
2
I quaderni del Cream, 2005, IV
120
questo movimento sociale sorto durate gli anni ’70 nell’area himalayana del Garhwal, in mito ambientalista globale dallo straordinario
potere iconografico, si è fatta simbolo autoevidente di un legame privilegiato di interdipendenza tra donne e natura su di un palcoscenico
internazionale.
L’abbracciare gli alberi, strategia e metafora usata durante le proteste nel Garhwal, è diventato il simbolo del movimento che ha lasciato un segno nell’immaginario collettivo occidentale, ispirando
azioni ecologiste in contesti e per obiettivi completamente differenti5.
La transazione discorsiva del dissenso ha inoltre avuto un impatto
sulle visioni di sviluppo a livello locale, fornendo la base ideologica
per la pianificazione allo sviluppo montano da parte di agenzie internazionali quali la Banca Mondiale. Queste traduzioni hanno infatti
conferito autorevolezza all’immagine delle donne come target privilegiato per uno “sviluppo sostenibile”, come soggetti di sapere agricolo e promotrici di un’economia di sussistenza.
L’attenzione esclusiva alla dimensione metaforica e all’immagine
idealizzata di donne che abbracciano gli alberi delle montagne Himalayane sfidando le autorità, ha però creato il vuoto attorno a se stessa;
decontestualizzata, ha potuto viaggiare leggera e ottenere quella notorietà in occidente che ha avuto non poche ripercussioni, e non sempre benevole, a livello di politiche locali.6
Cosa viene perso nel processo di traduzione globale di ambientalismi locali?
Queste formazioni discorsive hanno legittimato e si sono legittimate attraverso un’astrazione dal contesto storico, politico ed economico del Garhwal, dalle politiche identitarie e dalle dinamiche di
5
Cfr. Garb, 1997.
Sumi Krishna (1996) delinea le conseguenze a livello di politiche statali del processo di traduzione del Chipko da protesta contadina a mito ambientalista internazionale e che ha spostato l’attenzione dal piano economico a quello ecologico. “The
government, which had begun to feel the momentum of the global environmental
movement (…) responded to Chipko primarily as a conservation group” (Krishna,
1996, p. 157). Krishna evidenzia gli effetti “anti-people” di questa appropriazione
statale del movimento.
6
I quaderni del Cream, 2005, IV
121
genere delle popolazioni pahari (montane) canalizzandole in una retorica globale di ambientalismo e femminismo. L’effettiva agency
delle donne garhwali come soggetti materiali delle loro storie collettive (Mohanty 1991) è stata traslata in una rappresentazione reificata
di “donna del terzo mondo” come vittima del degrado ambientale e
che lotta per il diritto alla sopravvivenza. I suoi bisogni sono fatti
coincidere con quelli di conservazione ambientale cari agli ambientalisti occidentali, senza un’analisi del locale che consenta di individuare la dimensione politica che dà forma alle dinamiche di genere,
tra le altre, e le rispettive interazioni con l’ambiente.
Per avanzare una critica alle retoriche del WED, nel tentativo di
chiarire l’impatto della costruzione simbolica del dissenso a livello
locale sulle visioni di sviluppo, ripartirò da un’analisi del processo di
socializzazione della natura attraverso le pratiche agricole che caratterizzano il Garhwal. Il mio lavoro di campo e “sui campi”, insieme
alle donne che mi hanno ospitato durante i periodi trascorsi negli ultimi 3 anni in un villaggio di Tehri Garhwal, costituirà la base della mia
analisi di decostruzione e contestualizzazione del mito del Chipko.
1. Strategie di sussistenza e controllo delle risorse locali
Il sistema agricolo del Garhwal costituisce la chiave di lettura per la
comprensione delle strategie di sopravvivenza famigliare, delle relazioni nella gestione delle risorse locali e quindi della definizione delle identità collettive e di genere che hanno caratterizzato le lotte ai
modelli di sviluppo (vikas) ecologicamente insostenibili e indifferenti ai bisogni delle comunità contadine autoctone. Il Chipko7, come
7
L’evento scatenante della mobilitazione è da rintracciare nell’attribuzione, da parte
del dipartimento forestale dell’Uttar Pradesh di 10 frassini della foresta di Chamoli
ad una compagnia commerciale di Allahbad per la produzione di mazze da cricket
piuttosto che ad una cooperativa locale per la costruzioni di aratri leggeri. Questo
evento ha messo in evidenza il conflitto tra gli interessi locali nell’uso della foresta e
le politiche del dipartimento forestale che invece favorivano gli interessi di compagnie private delle zone industrializzate dell’Uttar Pradesh. Come riferito in una con-
I quaderni del Cream, 2005, IV
122
risposta delle popolazioni montane (pahari log) alla crescente degradazione ambientale e sociale del Garhwal, deve essere compreso nel
contesto della realtà materiale delle loro interazioni quotidiane con la
natura e dipendenza da essa per la sopravvivenza.
Il Garhwal comprende quattro degli otto distretti dello stato dell’Uttaranchal, area montana che fino al 2001 faceva parte dell’Uttar
Pradesh, circondata a nord dal Tibet, dall’Himachal Pradesh a occidente, confinante con i piani gangetici dell’Uttar Pradesh a sud, e il
Kumaon a est. Comunemente definita come “the poorest and most backward region not only in the state but in the whole country”,8 il Garhwal è caratterizzato da un sistema agrario di sussistenza in cui
l’agricoltura e l’allevamento di bestiame (tori per l’aratura e bufali
per latte e concime) costituiscono le attività economiche primarie per
il 78% della popolazione montana. Per la configurazione geografica,
la terra disponibile per uso agricolo è limitata al 12% del totale e la
proprietà media famigliare in Tehri Garhwal è secondo la TechnoEconomic Survey dell’U.P del 1959, limitata a 1,34 acri di terra. Piccoli proprietari terrieri, quindi, le cui pratiche di agricoltura integrata
per la soddisfazione dei bisogni famigliari sono estremamente dipendenti dallo stato dell’ecosistema montano e dal libero accesso alle
risorse disponibili.
L’agricoltura è praticata lungo le strette valli dei fiumi con sistemi di irrigazione (kyiare) ma per lo più è dipendente da acqua
piovana sui terrazzamenti (ukhar) che rendono coltivabili i profili
scoscesi delle montagne.
Le proprietà agricole, frammentate in piccoli appezzamenti a diverse altitudini, sono categorizzate dalla popolazione montana in reversazione personale con Sumi Krishna “what is forgotten is that the demands of
people were mainly economic and political: the abolition of the contractor system
and the formation of forest labour cooperatives; people’s participation in forest management and protection; establishment of local, small-scale forest based industries to
generate employment; a forest settlement to determine the people’s rights to forest
produce; assistance to village efforts for afforestation; ban on felling green trees in
areas critical for protection of water sources and prevention of landslidedes.”.
8
Sisodia, 1975, p. 114.
I quaderni del Cream, 2005, IV
123
lazione alla loro posizione rispetto al villaggio e quindi alla facilità di
trasporto del concime dalle stalle, alla loro esposizione al sole, qualità del terreno, alla distanza dalla foresta, all’accessibilità alle risorse
idriche. Questo rivela un complesso sistema di strategie agricole contestuali a variabili che determinano la produttività del terreno in un
sistema agricolo integrato. Terre a coltivazione, aree di supporto (es.
foresta, pascolo etc.), bestiame e persone sono quattro componenti le
cui connessioni dinamiche implicano pratiche e saperi agricoli complessi e diversificati.
Dal breve quadro tracciato si può intuire come la foresta giochi un
ruolo fondamentale ed integrato nelle strategie agricole, fornendo erba da foraggio e foglie per il bestiame, legna per costruzione di attrezzi, concime e cibo in periodi di carestia. Inoltre, la legna e i prodotti forestali minori sono usati per i bisogni domestici e per gli scopi
rituali che spesso scandiscono i cicli agricoli (la semina, il raccolto,
la mondatura), per le erbe medicinali, oli e resina.
Il rapporto di dipendenza dalle risorse naturali diventa un connotato sociale che distingue il Garhwaldal contesto rurale degli adiacenti piani di Dehra Dun e Uttar Pradesh e che fu istituzionalizzato
attraverso una serie di pratiche sociali e culturali. Tradizionalmente,
infatti, la religione e il folklore delle comunità rurali montane hanno
costituito un sistema informale di conservazione delle risorse comuni
che assicurava la rigenerazione della foresta tramite delle limitazioni
al suo sfruttamento9 . I sistemi informali di regolazione nell’uso delle
9
Le credenze religiose tradizionali hanno spesso assunto un ruolo importante nella
conservazione e rigenerazione della natura. Le sommità delle colline erano spesso
dedicate alle divinità; sacred groves o boschetti sacri, aree protette e rispettate dagli
abitanti dei villaggi adiacenti. Alcune terre venivano lasciate incoltivate e dedicate
alle fate della foresta che si riteneva venissero di notte a giocare. Tuberi e radici, che
costituiscono una fonte importante di cibo in situazioni di carestia, sono usati solo in
periodi specifici dettati da esigenze rituali, per impedirne uno sfruttamento indiscriminato che ne metterebbe a rischio la capacità di autorigenerarsi. Limitazioni consuetudinarie allo sfruttamento della foresta ne hanno assicurato il rinnovo; consuetudini che hanno perso progressivamente la loro rilevanza sociale con l’accentramento
statale della gestione forestale.
I quaderni del Cream, 2005, IV
124
risorse e i legami comunitari su cui questi si basavano, hanno perso
progressivamente la loro pertinenza e rilevanza sociale con l’accentramento del controllo delle risorse da parte dello stato in nome di
una gestione “scientifica” e “produttiva” della foresta.
Il bisogno di legna per la costruzione di reti ferroviarie durante il
periodo coloniale, rappresenta un momento di radicale cambiamento
dei modelli di gestione comunitaria delle risorse. La silvicoltura
scientifica, l’uso commerciale della foresta e la creazione di un dipartimento forestale, diedero inizio ad una delle più radicali trasformazioni delle relazioni agrarie dell’Uttarakhand10, la cui analisi va
oltre gli obiettivi di questo articolo11. È importante evidenziare, però,
come, le strategie di controllo e di gestione delle foreste per scopi
commerciali iniziate durante il periodo coloniale e portate avanti
dall’India indipendente dopo il 1947, si siano imposte in contrasto
con le pratiche di gestione tradizionale, le priorità economiche e i valori culturali delle comunità rurali. Come afferma Voelcker gli interessi di questa nuova gestione forestale “were opposed to agriculture
and its intent was rather to exclude agriculture than to admit it to participation in the benefits”.12 Nel contesto ecologico del Garhwal, la
gestione commerciale della foresta nunzionale all’esportazione di
materie prime nelle pianure industrializzate dell’Uttar Pradesh, colpisce alla radice la tradizionale organizzazione sociale ed economica,
dando inizio a un processo di crescente marginalizzazione delle aree
rurali dell’Uttarakhand e l’avvio di proteste contadine per la riaffermazione del diritti d’uso delle risorse forestali da parte delle popolazioni locali.
10
Uttarakhand comprende otto distretti della zona dell’Himalaya occidentale: Dehra
Dun, Pithoragarh, Chamoli, Tehri Garhwal, Pauri Garhwal, Uttarkashi, Almora e
Nainital, raggruppati nelle due divisioni del Garhwal e Kumaon. L’Uttarakhand ha
ottenuto l’indipendenza dallo stato dell’Uttar Pradesh nel 2001, prendendo il nome
di Uttaranchal.
11
Cfr. Guha, 1989.
12
Voelcker 1987, p. 135.
I quaderni del Cream, 2005, IV
125
2. Geografia di genere e pratiche di donne sui campi
La divisione sessuale del lavoro agricolo, costituisce l’aspetto più
importante per la comprensione dell’impatto dei cambiamenti socioeconomici e ambientali del Garhwal sulle dinamiche di genere locali,
in relazione alla più vasta economia politica nazionale. Per dinamiche di genere intendo le relazioni di potere tra uomini e donne che
supportano idee, rappresentazioni, l’attribuzione di diverse abilità,
conoscenze, desideri, aspirazioni e modelli di comportamento a uomini e donne, ma che si rivelano anche nelle pratiche agricole, come
i ruoli, la divisione del lavoro e l’allocazione delle risorse. La realtà
materiale e ideologica delle donne in relazione al cambiamento del
paesaggio è fondamentale per un’analisi della partecipazione femminile al Chipko andolan e delle rappresentazioni che ne hanno fatto un
movimento “eco-femminista”.
Il deterioramento dell’ecosistema che mina alla base l’economia
agraria dell’Uttarakhand, la crescita della popolazione montana e
l’ulteriore frammentazione delle terre in appezzamenti sempre più
piccoli13, insieme alla statalizzazione e privatizzazione delle risorse
forestali, hanno portato ad una crescente dipendenza delle comunità
rurali da un’economia di mercato “esterna”. L’intenso lavoro agricolo è sufficiente a soddisfare i bisogni famigliari dai 3 ai 6 mesi l’anno
e la mancanza di opportunità lavorative extra-agricole nel Garhwal
ha reso la migrazione degli uomini una strategia economica indispensabile alla sopravvivenza. La migrazione maschile e l’attuale
tendenza ad assicurare un’educazione ai figli maschi, ha eroso la
complementarietà dei ruoli agricoli tra donne e uomini. Come afferma Mehta, “women and their daughters are expected to absorb a
greater share of domestic and family farm labour demands in order to
free up male labour for the off-farm sector, and are tied to the land
through lack of alternatives”.14
13
I modelli ereditari sono patrilineari e prevedono, quindi, la divisione delle terre tra
i discendenti maschi.
14
Mehta, 1996, p. 190.
I quaderni del Cream, 2005, IV
126
Camminando tra le valli del Garhwal si è sorpresi dalla presenza
quasi esclusivamente femminile tra i lavoratori agricoli, anche se il
loro ruolo produttivo rimane spesso invisibile, all’interno della famiglia o nel più vasto contesto degli interventi governativi allo sviluppo
della regione. Quando ho chiesto alla figlia di un’amica, in un villaggio vicino a Tathyur, blocco di Tehri Garhwal, che intenzioni avesse
per gli anni a venire, mi ha risposto che voleva sposarsi e fare la
“donna di casa” (ghar ki orat) come sua madre. La risposta mi ha lasciata stupefatta visto che sua madre lavorava una media di 15 ore al
giorno tra campi (khet) e stalle (chappar), dedicando solo il tempo
residuo a quelli che a me sembravano lavori di casa (cucinare e pulire). I campi di fatto sono intesi come estensione della casa. In un certo senso si tratta di una contrattazione con la pratica del purdah15,
consentendo, così, di non mettere in discussione la rispettabilità della
donna che lavora sui campi, in quanto non “fuori casa”. Ma un’altra
implicazione è che il lavoro agricolo svolto dalle donne, non essendo
pagato, non viene considerato “vero” lavoro, a differenza di quello
degli uomini. In questo modo si arriva ad un compromesso attraverso
cui le famiglie di casta alta16 risolvono la contraddizione tra un ideale
femminino hindu, per cui la donna non deve lavorare e accedere a
luoghi pubblici da sola, e la necessaria partecipazione delle donne,
qualsiasi sia la casta di appartenenza, all’economia agraria famiglia15
Mehta definisce la pratica del purdah “seclusion ideologies (…) operationalized
by (…) an etiquette of public invisibility (…) Seclusion ideologies also define the
unique relationship women have to the geographical spaces in which their life and
work are embedded (Mehta, 1996, p. 190). La pratica del purdah sulle montagne himalayane è solo formale. Infatti, come sottolinea Mehta, le esigenze ecologiche dei
terreni montani richiedono alle donne di essere mobili e visibili in aree pubbliche.
16
Il purdah è una pratica rispettata dalle famiglie di casta alta. Nel contesto del Garhwal, la pratica del purdah è molto meno rigida rispetto ad altre regioni indiane a
causa delle particolari relazioni di casta che lo caratterizzano. Le distinzioni di casta
giocano infatti un ruolo assai minore nel differenziare l’occupazione delle donne di
diverse categorie sociali. La maggior parte, infatti, svolge un lavoro agricolo. Le differenze vengono enfatizzate soprattutto tra chi lavora su campi di altri in cambio di
denaro (donne di casta bassa) e chi lavora esclusivamente sui propri.
I quaderni del Cream, 2005, IV
127
re. È una forma di purdah adattato al contesto socio-economico del
Garhwal: il lavoro sui campi è diventato, per la maggior parte delle
famiglie garhwali, un’occupazione femminile e un lavoro paradossalmente invisibile, in quanto considerato “improduttivo”.
Sono d’accordo con Shobita Jain quando afferma che “traditionally the basis for sex-role differentiation and types of relationship
between different sexes are mainly linked with patterns of cultivation”:17 spesso rinforzati da tabù che sanciscono il carattere strettamente sessuato (gendered) di alcune pratiche agricole. Questi tabù,
che sono principalmente divieti rivolti a donne, legittimano il controllo maschile sul processo di produzione o sul surplus agricolo. Il
tabù più significativo è il divieto di aratura (hal chalana). Alle donne
è vietato iniziare il ciclo agricolo, riaffermando così, la loro dipendenza dagli uomini che sono anche i proprietari effettivi delle terre.
Le donne vedove e senza figli maschi si trovano sicuramente nella
posizione più difficile, mancando loro spesso anche l’appoggio da
parte della famiglia allargata (patrilineare, e quindi del marito mancato) e trovandosi a dover pagare qualcuno per svolgere il lavoro di
aratura.
La giustificazione più comune all’esclusivo controllo maschile
dell’aratura è che si tratta di un lavoro troppo pesante per le donne.
Difficile da credere vista l’incredibile forza richiesta da altre operazioni agricole svolte quotidianamente dalle donne. Secondo Bina
Agarwal, il controllo sull’aratura significa il controllo su un’operazione che è generalmente di importanza critica per un buon raccolto
e quindi per un potenziale surplus; esso conferisce, quindi, la giustificazione ideologica per il diritto maschile sulla produzione.
L’esclusività maschile dell’aratro rivela anche un uso “sessuato”
delle energie nel lavoro agricolo. Gli uomini possiedono e controllano i mezzi che implicano energia animale mentre le donne utilizzano
attrezzi e svolgono mansioni che richiedono l’uso esclusivo della loro energia fisica. Questa divisione degli attrezzi di lavoro e il diverso
17
Jain, 1984, p. 92.
I quaderni del Cream, 2005, IV
128
uso dell’energia corporea che implicano, servono a riconfermare il
pregiudizio che il lavoro svolto dalle donne sia meno produttivo.
In teoria anche oggi i lavori agricoli, esclusa l’aratura, non sono
legati ad identità di genere e, fino agli anni ’70, le attività di sussistenza erano caratterizzate da una necessaria flessibilità e da una coordinazione tra tutti i membri della famiglia allargata. Ma la crescente dipendenza delle pratiche agricole da reti di mercato (per semi ibridi, pesticidi e fertilizzanti chimici e per la vendita di parte dei raccolti destinati al commercio) sostenute dagli interventi allo sviluppo,
ha portato ad un irrigidimento degli spazi maschili e femminili nella
partecipazione all’economia agraria e nei valori ad essi attribuiti.
La connessione simbolica del lavoro femminile con le attività di
sussistenza e gli spazi “domestici” cruciali nel sistema agrario (casa,
villaggio, pascoli, foresta, campi), si regge sull’esclusione delle donne da spazi considerati maschili in quanto pubblici (per es. il mercato, la banca, e diverse istituzioni governative) e dalle attività, cui viene attribuito alto valore sociale, che implicano qualche forma di transazione monetaria. Il lavoro degli uomini, legato al dominio commerciale, svolge un ruolo fondamentale nella mediazione con “il
mondo esterno”(strutture burocratiche, istituzioni di credito, servizi
di formazione agronomica) per le risorse e servizi ormai diventati
parte indispensabile delle attività di sussistenza, di cui le donne nella
pratica rimangono responsabili. Le restrizioni culturali dell’accesso
femminile al dominio monetario e al mercato (bazaar), rappresentano, quindi, notevoli limitazioni all’effettiva gestione delle terre da
parte delle donne, all’esercizio del controllo sul proprio lavoro e ad
una maggiore dipendenza dalla mediazione maschile. Come afferma
Mehta, “women access to and exclusion from certain spaces also
makes an important statement about the differential exercise of
power between the sexes”.18
La definizione stessa del proprio ruolo da parte delle donne è paradigmatica della divisione di genere degli spazi e della conseguente
18
Mehta, 1996, p. 191.
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129
valorizzazione di diversi compiti agricoli: “keto par kam karti hu”
(lavoro sui campi). Le donne non sono contadine (kisan), agricoltrici,
non gestiscono la terra ma “lavorano” i campi.
Questo aspetto viene esacerbato dall’erosione dei sistemi di sapere locale e dalla mancanza di accesso ai luoghi pubblici dove gli uomini si scambiano informazioni utili sulle nuove pratiche agricole,
sulle qualità di semi ibridi, sull’utilizzo dei fertilizzanti chimici o dei
pesticidi. Nonostante il sapere delle donne nella selezione e conservazione dei semi (ghar ka biij), sui composti per la concimazione
(gobaar), sul tipo di piante ed erbe da usare come foraggio per gli
animali, rimanga cruciale, è comunque percepito localmente come
meno prestigioso, “arretrato” (pichara), rispetto al sapere agricolo
“moderno” che esprime il crescente legame di dipendenza delle strategie di sussistenza da investimenti e sistemi di sapere esterni. Il monopolio di genere sull’informazione ha ripercussioni sull’autorità agricola delle donne, esasperando la distanza tra chi lavora la terra e
chi la gestisce; l’ultima parola su questioni agricole cruciali rimane
quella dell’uomo, sia esso il marito o, in sua assenza, un componente
maschile della famiglia allargata. La costruzione culturale di un appropriato comportamento femminile per quanto riguarda l’accesso a
luoghi pubblici e al dominio monetario, insieme alla svalutazione del
sapere tradizionale, supportano, quindi, un’ideologia di genere secondo cui il lavoro delle donne è comunque meno produttivo e necessita della gestione “razionale” maschile.
Inoltre, è importante considerare il ruolo di alcuni spazi rappresentati come femminili, la foresta (jungle) e le terre da pascolo (gochar), per comprendere l’impatto di genere delle politiche nazionali
sulla gestione forestale. Le donne sono responsabili delle attività
quotidiane della raccolta di legna (lakri) per la cucina (chulla) e di
foraggio per il bestiame. Attività faticose che richiedono, in condizioni favorevoli, una media di almeno 4 ore giornaliere e da cui dipendono indirettamente le altre pratiche agricole in un sistema integrato. Ma jungle e gochar, come spazi collettivi femminili, assumono anche un’importanza sociale. Infatti, questi luoghi sono occasioni
di intimità tra donne, lontane dalle strutture comportamentali dettate
da gerarchie generazionali e di genere che caratterizzano, invece, le
I quaderni del Cream, 2005, IV
130
interazioni del villaggio. Il numeroso repertorio di canzoni legate al
taglio dell’erba e ai tragitti nella foresta testimonia l’importanza sociale di questi spazi per le donne, occasione di privacy, condivisione
e supporto reciproco.
Il processo di statalizzazione e privatizzazione delle terre comuni
iniziato negli anni successivi all’indipendenza, insieme alla costruzione di strade e ad altri interventi allo sviluppo degli anni ’60 che
hanno introdotto l’economia di sussistenza montana all’interno dell’economia nazionale19, hanno portato ad una riconfigurazione della
“geografia di genere” del villaggio insieme ai valori attribuiti ai diversi spazi che lo compongono. Si è avuto un effetto di ridimensionamento delle misure di controllo femminile e dei già limitati spazi
di libertà di movimento e autonomia. Inoltre, la restrizione dei diritti
di accesso alla foresta ha avuto implicazioni materiali dirette sulla
mole di lavoro delle donne, rendendo sempre più difficile e stressante il loro ruolo di procacciatrici di sussistenza. A livello simbolico,
l’erosione delle pratiche di auto-sussistenza ha favorito una svalutazione dei luoghi femminili e delle pratiche svolte in essi, percepiti
come marginali e improduttivi.
Il cambiamento delle pratiche agricole ha ridefinito le relazioni di
potere tra donne e uomini nel contesto rurale del Garhwal, esasperando spesso la conflittualità dei loro interessi, le responsabilità e le
priorità nella gestione delle risorse naturali.
3. Che genere di Chipko?
Un evento del Chipko è particolarmente esemplificativo sulle
contese di genere nel contesto delle politiche ambientali. Nel 1980 a
19
Il governo dell’Uttar Pradesh ha spinto verso la modernizzazione dell’agricoltura
montana, favorendo l’introduzione di nuove qualità di semi e l’uso di input quali
pesticidi e fertilizzanti chimici. Il cambiamento delle pratiche agricole doveva risultare funzionale alla commercializzazione di parte dei prodotti per la generazione di
introiti famigliari.
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Dogri Pantoli, distretto di Chamoli, le donne si opposero con successo alla decisione presa dai membri del consiglio del villaggio (uomini) in accordo con il dipartimento di orticoltura, per abbattere parte
della foresta adiacente al villaggio e realizzare una coltivazione di
patate destinate al mercato. Il disboscamento avrebbe significato per
le donne un’aggiunta di altre 5 miglia al tragitto quotidiano per la
raccolta di legna e foraggio. Inoltre, erano consapevoli che i soldi ottenuti con il progetto finanziato dal governo sarebbero rimasti di dominio maschile. In questo caso si sono rese evidenti le diverse priorità di genere in gioco nella gestione delle risorse naturali locali.
Riferendomi a questo evento, non vorrei trasmettere una semplificata e idealizzata immagine della partecipazione femminile alle azioni collettive, decontestualizzandola dalle relazioni di genere che caratterizzano il Garhwal. Infatti, il conflitto d’interessi tra uomini e
donne, basato su ineguaglianze di genere, non ha trovato un effettivo
riconoscimento all’interno del Chipko, un movimento che, nonostante l’elevata partecipazione femminile, era dominato da rappresentanti
maschili20. I bisogni e le priorità delle donne, anche se pressanti e
connesse alle loro responsabilità famigliari, non si sono tradotti necessariamente in politiche di gestione dell’ambiente a loro favorevoli. Come affermano Rocheleau, Slayter e Wangari “women carry a
disproportionate share of responsibilities for resource procurement
and environmental maintenance (…) and yet they have very limited
formal rights (and limited political and economic means) to determine the future of resource availability and environmental quality.21
È importante non sottostimare l’ideologia di genere nel determinare i confini sociali e politici della partecipazione pubblica femminile e nell’agire nel proprio interesse, in conflitto con l’autorità maschile. La percezione sociale delle capacità, dei ruoli e degli spazi
20
Le ideologie di genere e i relativi meccanismi di controllo sociale hanno fatto sì
che le donne non assumessero posizioni di leadership all’interno del movimento.
(Cfr. Sharma, 1983).
21
Rochelieu, 1996, p. 13.
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femminili e l’iniqua distribuzione di potere che ha affermato la priorità degli interessi maschili, hanno limitato il ruolo decisionale delle
donne all’interno dell’agenda del Chipko. La dominazione maschile
della sfera pubblica e “manageriale” è un aspetto che non deve essere
omesso nell’interpretazione delle immagini “femministe”del movimento. Le dinamiche locali di genere, infatti, sono cruciali per la
comprensione delle politiche ambientaliste e delle concrete limitazioni alla partecipazione delle donne come agenti effettivi dei loro
interessi e bisogni nella gestione delle risorse.
Si può considerare esemplificativa a tal riguardo, l’azione a Reni
nel 1974, che ha assunto un’importanza simbolica nelle rappresentazioni nazionali e internazionali del Chipko come movimento femminista e ambientalista. Per evitare un’opposizione alle attività di disboscamento della compagnia privata cui venne data concessione statale, gli uomini dei villaggi intorno alla foresta di Reni furono convocati strategicamente a Chamoli con la scusa di una compensazione
per i terreni confiscati per scopi militari dopo la guerra con la Cina.22
Le donne del villaggio, di loro iniziativa, cercarono di convincere le
compagnie appaltatrici ad interrompere le loro attività e ad aspettare
il ritorno degli uomini al villaggio per discuterne. In seguito all’atteggiamento irrispettoso degli uomini, divertiti e spiazzati allo stesso
tempo da questa presa di posizione femminile, una trentina di donne
si sono opposte fisicamente all’abbattimento degli alberi, affermando
che la foresta era come la loro “maika” (casa della famiglia naturale)
e che la sua distruzione sarebbe stata la loro rovina.23 “It was the first
occasion in which women participated in a major way independently
of the male activists and without being biased to any ideological preoccupation”.24
Le donne, quindi, interpretarono il Chipko in base al loro processo di socializzazione della natura attraverso le pratiche di sussistenza
22
Jain, 1984.
Kunwar, 1997, p. 12.
24
Gopa, 1988.
23
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133
di cui erano prime responsabili. Foraggio, legna da ardere e la prevenzione da frane furono gli interessi diretti che le spinsero a proteggere la foresta e a sfidare le autorità pubbliche, al di là delle richieste
economiche e politiche che avevano costituito il cuore del movimento fino ad allora. Anche nel caso sopraccitato di Reni, si è reso evidente il conflitto di genere25, esacerbato dall’autonoma iniziativa
pubblica delle donne in assenza degli uomini. “During our interviews
with Chipko activists from Garhwal” scrive Kumud Sharma, “it was
reported that whenever women take iniziative in such matters, male
ego is hurt and they become hostile”.26 La vittoria del Chipko a Reni
ha sicuramente rafforzato l’identità politica collettiva e l’autostima
delle donne del Garhwal, ma le loro richieste di partecipazione ai processi decisionali non furono articolati all’interno del movimento, così
come non furono messe in discussione le strutture patriarcali che impediscono la rappresentatività degli interessi di genere.
“Le donne del Chipko”, come categoria sociale omogenea caratterizzata da identiche aspirazioni e priorità, da una stessa relazione di
dipendenza dall’ambiente e di relativo potere di contrattazione con
l’autorità maschile, non esistono. Si costituiscono come soggetti politici sessuati con l’entrata nell’arena delle relazioni sociali e in particolare nei sistemi di parentela.27 È soprattutto nelle pratiche famigliari, patrilocali e patrilineari, che le donne si costituiscono in quanto
madri (mataji), sorelle (behen), nuore (bahu), mogli (patni), definendone status e autorità all’interno della comunità. Le relazioni di potere tra donne che si configurano in base alla posizione assunta
all’interno della famiglia allargata, ne definiscono autorità decisionale, autonomia e allocazione del lavoro. In questo senso, un’analisi di
genere ha bisogno di essere contestualizzata all’interno di una più
25
L’ostilità di alcuni uomini nei confronti delle donne che avevano partecipato
all’azione è da rintracciare nelle potenzialità economiche e lavorative che probabilmente la compagnia avrebbe potuto portare al villaggio.
26
Sharma, 1983, p. 61.
27
Mohanty, 1991.
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complessa rete di relazioni sociali. La composizione di genere della
famiglia (per es. la presenza o meno di figli maschi e relative nuore,
di figlie da sposare, di capifamiglia emigrati o defunti), insieme alle
relazioni generazionali, determinano la distribuzione di responsabilità, e costituiscono aspetti fondamentali nella possibilità delle donne
di agire collettivamente per il proprio interesse. Le giovani spose
(bahu) si trovano tendenzialmente nella posizione più vulnerabile; il
loro comportamento, il rispetto per i modelli di autorità famigliare e
l’assunzione di responsabilità lavorative, sono fattori critici per la loro
accettazione all’interno della sasur (residenza famigliare patrilocale).
È indicativo a tal riguardo che, come suggerisce Kumud Sharma,28 le
donne del Chipko siano per lo più donne di età avanzata (40-50 anni),
vedove, o senza il marito.
Il genere è solo uno degli aspetti che influenzano le strategie individuali nella partecipazione al processo di gestione, controllo e allocazione delle risorse nel Garhwal. Per un’analisi femminista ambientalista risulta necessario, quindi, articolare le più ampie questioni di
genere con i numerosi fattori sociali che determinano le relazioni di
potere tra donne in relazione con l’ambiente.
4. Iconografia eco-femminista del Chipko e “sviluppo sostenibile”
Il processo di transizione delle proteste del Garhwal in un contesto globale ha implicato una forma di mitizzazione della protesta,
trasformandola in un simbolo autoevidente del significato che si è
voluto, di volta in volta, dare alla storia.
L’entrata del Chipko nell’immaginario collettivo occidentale è il
risultato di narrative ambientaliste che gli hanno conferito un significato che trascende il contesto culturale, politico e storico locale. Da
qui l’enfasi posta sull’iconografia del movimento che, decontestualizzata, si muove leggera in diversi contesti e circuiti culturali e geo28
Sharma, 1983, p. 62.
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135
grafici, investita di nuovi contenuti nell’incontro con diverse pratiche
e politiche ambientali. “These borrowing of bits and pieces of other
people’s lives” scrive Yaakov Garb “are not one-way affairs, but
feed back and alter their originating context in concrete and often
unexpected ways”.29 Le rappresentazioni del Chipko, nonostante la
loro dubbia aderenza agli eventi storici del movimento, hanno avuto
ripercussioni a livello delle politiche identitarie locali e degli interventi allo sviluppo nel Garhwal. C’è un telos, una morale in ogni narrativa, una reinvenzione della storia che ha finalità politiche e sociali.
Si rende quindi necessaria un’analisi di come, perché e a quali conseguenze la dimensione locale della protesta venga appropriata, interagisca e subisca un processo di ibridazione nella sua proiezione in
discorsi ambientalisti occidentali.
Vandana Shiva, attuale direttrice del “Research Foundation for
Science Technology and Ecology” di New Delhi, è un personaggio
chiave per comprendere il processo di traduzione occidentale del
Chipko come movimento eco-femminista30. La sua stessa autorità
internazionale su questioni riguardanti le “donne del terzo mondo” e
la loro relazione con l’ambiente, che ha avuto un impatto sulle politiche di sviluppo, è da ricollegare all’uso narrativo che l’autrice fa delle “donne del Chipko” per autenticare e dar legittimità alle proprie
analisi. Il suo libro “Sopravvivere allo sviluppo” uscito nel 1988 è
diventato una specie di punto di riferimento obbligato che ha influenzato i discorsi su politiche alternative e movimentiste.
Vandana Shiva ci offre un’interpretazione del Chipko inserendola
29
Garb 1997, p. 276.
L’eco-femminismo comprende diversi approcci basati sull’assunzione di una relazione speciale tra donne e natura. In alcuni casi questa vicinanza viene fatta risalire
alla biologia, in altri l’enfasi viene posta sulla condivisa storia di oppressione che ha
visto nelle donne e la natura le prime vittime delle istituzioni patriarcali e cultura
occidentale dominante. Ciò implica una inevitabile comunanza di obiettivi tra movimento ambientalista e quello delle donne.
30
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136
in una elaborata critica al modello dominante di “malsviluppo”31 come occidentale, patriarcale e basato sulle categorie riduzioniste della
scienza moderna. “Lo sviluppo fu ridotto ad una continuazione del
processo di colonizzazione”,32 che per Shiva è sia ideologico che materiale. Secondo l’autrice, l’idea e le icone di “donna”, “natura” e
“popolazioni sottosviluppate” prendono forma in un sistema di pensiero dualistico occidentale che riafferma il dominio dell’uomo sulla
donna, sulla natura e del cosiddetto “primo” sul “terzo mondo”.
L’ideologia dello sviluppo, così come quella di genere che essa supporta, si basa sulla naturalizzazione di una relazione gerarchica, di
relazioni di dominio ed esclusione, oscurando, così, gli interessi sociali, politici ed economici specifici che sostengono tale rappresentazione della differenza. Le donne e la natura, le cui capacità rigenerative vengono negate in termini di “produttività”, sono ridotte a risorse passive dello sviluppo. Shiva, a differenza di altre teoriche ecofemministe occidentali,33 non confina il legame tra donne e natura ad
una dimensione puramente ideologica. Lo sviluppo correntemente
definito come crescita economica, basato sullo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali per la generazione di profitti, ha distrutto la base naturale indispensabile alla produzione di sussistenza,
di cui le donne sono responsabili, rendendo sempre più insostenibili
le condizioni di sopravvivenza nel contesto rurale indiano.
All’interno di questa visione critica, il principio femminile, prakriti ,incarnato nella dialettica di creazione-rigenerazione della natura, viene rispettato in un’economia di sussistenza, come reciproca
collaborazione umana con il processo ciclico di riproduzione della
creazione. La distruzione del principio vitale e della continuità ontologica tra società e natura è insita nei processi di sviluppo ed è resa
visibile dalle numerose crisi ecologiche che ne sono seguite. L’au31
Shiva, 1988, p. 15. La traduzione in italiano non rende il significato che l’autrice
intende dare con la parola inglese di “maledevelopment”, un’ideologia di sviluppo
che è maschilista e distruttiva.
32
Shiva, 1988, p. 12.
33
Merchant, 1992.
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137
trice indiana fa quindi coincidere prakriti con le donne e con la materialità della loro relazione con la natura nella realtà del contesto rurale indiano. “Le donne del terzo mondo”, grazie al loro ruolo nell’economia di sussistenza, dipendono da, e quindi mantengono intatti, i
sistemi ecologici. Le donne hanno naturalmente interessi e valori che
servono alla conservazione dell’ambiente. È il loro ruolo nell’economia famigliare che le rende custodi di paradigmi alternativi tanto intellettuali che ecologici di pensiero ed azione, ultimo bastione di una speranza ambientalista. “Le donne del terzo mondo, i cui pensieri non sono stati espropriati o colonizzati”,34 se ascoltate, possono fornire la
chiave per modelli sostenibili di sviluppo.
“The problem”, come rivela Braidotti, “is the essentialism she has
constructed in the concrete relation of women with nature in subsistence agriculture as a theoretical category”.35
“Le donne del Chipko” per Shiva, sono l’incarnazione di questo
principio femminile, ad un tempo rinascita del potere delle donne,
non più semplici vittime del degrado ambientale, e delle questioni
ecologiche, riconosciute d’importanza primaria rispetto agli aspetti
puramente economici.
Nel tentativo di cambiare i termini dei discorsi dominanti sullo
sviluppo che si fondano sulla marginalizzazione congiunta di donne,
natura ed economia di sussistenza, la Shiva propone, quindi, una
reinterpretazione del Chipko come utopia femminista. Si ha una valorizzazione simbolica, che ha avuto forte presa nell’immaginario occidentale, sia del femminile che delle comunità rurali, dipinte in una perfezione astorica ed in un tempo altro rispetto a quello della modernità.
Nella sua proiezione dell’ideologia di genere sessista a livello di
rapporti globali tra primo e terzo mondo, però, l’autrice indiana tralascia le relazioni di genere locali e la loro dinamicità e complessità
rispetto a più ampi cambiamenti economici e sociali. La Shiva non
affronta il paradosso del crescente divario tra le maggiori responsabi34
35
Shiva 2002, p. 58.
Braidotti, 1994, p. 94.
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138
lità femminili nell’economia di sussistenza e il loro basso status nella
realtà sociale del Garhwal. Inoltre, lo stretto legame tra donne e natura cui fa riferimento, piuttosto che un’innata relazione di cura, riflette
spesso una divisione dei ruoli secondo un’ideologia di genere e
l’impossibilità di scelta esacerbata dalla mancanza di alternative a
livello economico. La sua stessa idealizzazione del lavoro di sussistenza non ha riscontro a livello locale, dove, a causa delle relazioni
di potere tra donne ed uomini all’interno dell’economia famigliare, le
fatiche delle donne rimangono invisibili.
La divisione del lavoro, la distribuzione della proprietà e del potere
che influenzano le interazioni individuali con l’ambiente e le risposte
alle crisi ecologiche, sono, come ho evidenziato in precedenza, strettamente intrecciate alle dinamiche locali di genere, casta, classe e generazionali. Per questo, le categorie di “donne del Chipko” o, ancor
più, di “donna del terzo mondo” sono puramente ideologiche, costruzioni narrative che, nel loro intento semplificatore, hanno poca presa
sulla complessità del reale. Un’enfasi sulla dinamicità delle relazioni,
piuttosto che sulla staticità dei ruoli di genere, può consentire invece
un’analisi politica femminista del controllo effettivo delle donne sulle
risorse naturali e sui prodotti del proprio lavoro, e delle barriere sociali
che limitano il loro potere decisionale e gestionale.
Nelle analisi di Shiva, il conflitto di interessi di genere viene riportato ad una dicotomia teorica tra tradizione e modernità, in cui le
donne diventano icone di una posizione “antisviluppista”. Nonostante il fatto che molte famiglie nel Garhwal dipendano dai salari di famigliari maschi emigrati e nel contesto di mancanza di alternative
locali, Shiva afferma che “they (women) expect nothing from ‘development’, they want to preserve their autonomous control over their
subsistance base, their common property resources: the land, water,
forests, hills”.36 L’opposizione al cambiamento e l’inverosimile mantenimento di una comunità rurale inalterata dalle forze di mercato,
sembrano essere, per la Shiva, le uniche condizioni per un ritorno
36
Mies, Shiva, 1993, p. 303.
I quaderni del Cream, 2005, IV
139
(pre-coloniale) ad una condizione di armonia tra donne e uomini nel
Garhwal.
Con questo, non metto in dubbio l’approfondita conoscenza di
Vandana Shiva del contesto dell’Uttarakhand; piuttosto, ho cercato
di evidenziare il processo di selezione delle narrative che hanno fatto
delle proteste, profondamente ancorate nel contesto socio-politico del
Garhwal, un mito ambientalista e femminista globale su di un palcoscenico globale.
La rappresentazione delle donne come potenti attori politici, marginalizzando il ruolo degli uomini, oscura la dominanza politica maschile sia nel Chipko che nei villaggi del Garhwal; essa tralascia le
relazioni all’interno delle quali le donne, nella loro molteplicità, si
costituiscono in “genere”, accomodando, contrattando o resistendo.
La connessione del femminile con il locale, il “tradizionale”, con il
naturale e con ciò che non ha a che fare con l’economia di mercato è
così radicale e dicotomica che lascia ben poco spazio al riconoscimento delle donne come agenti materiali delle loro storie.37 Ma, soprattutto, non danno indicazione su come gli interessi molteplici delle donne possano effettivamente trovare voce nel contesto pubblico
del Garhwal dove, al di là di qualsiasi valorizzazione simbolica, gli
uomini detengono l’autorità.
Conclusioni
La rappresentazione eco/femminista del Chipko è stata strumentale alla critica agli approcci convenzionali “top/down” e ‘male/dominated’ dello sviluppo38 ed ha costituito una risposta teorica
all’urgenza di paradigmi alternativi. Vandana Shiva ha elaborato una
37
38
Mohanty, 1991.
Jewitt, 2000, p. 980.
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140
“visione”39 che scardina i presupposti epistemologici del modello
dominante di sviluppo, enfatizzando con la sua retorica, il ruolo delle
“donne del terzo mondo” come attori principali per una gestione sostenibile delle risorse.
La problematicità di questa prospettiva sta nell’adozione, negli ultimi venti anni, delle retoriche eco-femministe come posizione critica
per la pianificazione di interventi allo sviluppoda parte di agenzie internazionali quali UNDP, Banca Mondiale e Ford Foundation.
Le narrative del Chipko sono spesso state assunte come rappresentative della realtà delle “donne del terzo mondo” e quindi potenziali linee
guida per policy making che abbia come target privilegiati le donne e
l’ambiente. Un esempio sono le argomentazioni del WED (Women Environment and Development), la cui applicazione più significativa è
l’approccio “sinergico” della Banca Mondiale che fa coincidere gli interessi delle donne con quelli dell’ambiente e che, quindi identifica nelle
donne gli attori privilegiati nei progetti di conservazione ambientale. Le
critiche avanzate in precedenza alla traduzione del Chipko proposta dalla Shiva sono anche i limiti degli approcci allo sviluppo che si rifanno
alla sua analisi del sociale, con esiti, a livello di implementazione, non
sempre benefici nei confronti delle donne.40
A partire dalle pratiche e dei saperi agricoli locali, dalla costruzione dello spazio e dell’autorità in relazione alle dinamiche di genere, ho cercato di evidenziare la complessità delle relazioni dinamiche
tra donne e ambiente nel Garhwal e l’influenza delle asimmetrie di
genere sulla percezione della natura e rappresentatività dei propri interessi a livello sociale. Il processo di costruzione discorsiva del Chipko in mito ambientalista astrae dalla realtà delle donne contadine,
facilitando una rappresentazione delle relazioni con l’ambiente in
termini di conservazione, un’immagine che risponda alle urgenze
ambientali come sono percepite in un contesto occidentale.
39
Durante un incontro tenuto il 17 marzo 2004 a Navdanya, ONG nelle campagne di
Dehra Dun e che promuove agricoltura su un modello di agricoltura sostenibile,
Vandana Shiva disse: “we have no target, no project, we have a vision”.
40
Cfr. Jackson C., Pearson R., (1998), pp. 259-283.
I quaderni del Cream, 2005, IV
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Proprio nel momento in cui si assiste all’erosione dei saperi e delle pratiche locali di interazione con l’ambiente, sotto l’influenza
dell’inglobazione del Garhwal in un’economia di mercato e in processi di modernizzazione agricola, s’inventa una tradizione nativista
e orientalista del locale. La rappresentazione statica, priva di dimensione storica e di stratificazione sociale con cui vengono rappresentate le comunità himalayane trova la sua esemplificazione in una icona
di “donna del terzo mondo” come sostenitrice della tradizione e di
una relazione “incontaminata” con la natura. Si ha la creazione dell’
“Altro” dell’Occidente, come comunità chiusa ed intatta, antecedente
ai processi di modernizzazione occidentale e, in quanto tale, custode
di modelli alternativi autentici pronti per l’uso sia da parte di movimenti occidentali che di istituzioni dello sviluppo.
Sumi Krishna, che ha svolto attività di ricerca nel Garhwal dall’insorgenza del Chipko, mi raccontava come le donne dell’Himalaya
sono arrivate a provare repulsione per l’espessione “natura” (pariavarn). Così come parlando con Sudesha Devi, una donna diventata
“famosa” per la sua partecipazione al Chipko”, mostrava risentimento per coloro che sapevano scrivere inglese e che “avevano ottenuto
la fama raccontando del Chipko”. Perché le loro proteste sono diventate simboli globali in cui, paradossalmente, si è dissolta la loro realtà storica di donne che lottano per la sopravvivenza in un ambiente in
cambiamento.
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145
ROBERTO MALIGHETTI
MERLEAU-PONTY’S CONCEPT OF THE BODY
•
Merleau-Ponty’s theory of the body subject arises as a specific problem in the course of a critical exposition of the traditional theories of
sense perception. Basically he argues that every theory of perception
presupposes a theory of sensuousness, which is itself a theory of the
body. On a few occasions he explicitly states that “the body is the
subject of perception”.1 From the point of view of the experience of
the world disclosed through the senses, to perceive something is
necessarily to be related to it by means of the body. The theory of the
body is “immediately” a theory of perception: “Every external perception is immediately synonymous with a certain perception of the
body, just as every perception of my body is made explicit in the
language of external perception [...]. The theory of the body image is
explicitly a theory of perception”.2 Having learned to feel our body,
we reawaken our experience of the world as it appears to us in so far
as we are in the word through our body, and we perceive the world
through it.
Perception for Merleau-Ponty is the active mode of existence of
the body at a preconscious level, i.e. at the level of the dialogue between the body as subject and the world presupposed by its con•
Unpublished paper presented at McGill University in 1977.
Merleau-Ponty, 1962, pp. 213-214; p. 225.
2
Merleau-Ponty, 1962, p. 206.
1
I quaderni del Cream, 2005, IV
147
scious existence. In many respects it is our primordial contact with
the world. Consequently the world is given to us through perception.
In perception, then, it is the body which plays the preponderant role.
Merleau-Ponty penetrates into the bodily being as the most profound
and primordial level – as giver of meaning.
The great merit of Merleau-Ponty's philosophy consists in the
overcoming of the cartesian dualism. In a lecture he gave in Geneva
in 1951, he attributed this credit to the twentieth century as a whole,
responsible for having opposed the distinction between body and
mind. The concept of the body subject sums up this line of thought
which transcends the antithesis between idealism and materialism,
seeing “human life as through and through mental and corporeal, always based upon the body and always (even in its most carnal
modes) interested in the relationships between persons”.3 MerleauPonty himself repeatedly represents his philosophy as a radical antithesis to the cartesian understanding of man as a dichotomy of body
– seen as a thing among other things, a factor in a reciprocal causal
process, subject to the same causal relations present in other material
objects – and spirit, considered as the origin of all knowledge, freedom or, to use his own terminology, “existence”.
Posing himself outside a dualistic framework – which at best
would entail an overcoming of the dichotomy by making primary
one or the other factor and thus merely reducing one to the other Merleau-Ponty insists that the human body is one reality which is at
the same time material and spiritual. The body subject is considered
as a mode of being and not the union, no matter how intimate, of two
essentially different ontologies. The body subject is neither pure matter nor purely bodiless thought: it has a mode of being of its own. Its
subjective character is not derived from an in-dwelling principle of a
different order ultimately connected with it. Rather, the body itself,
precisely as body, is an existence and is therefore of a subjective nature. According to Merleau-Ponty’s intentional theory of conscious3
Merleau-Ponty 1964, pp. 226-227.
I quaderni del Cream, 2005, IV
148
ness, it is the body which is a subject. What pre-vents the body from
being an object in the same sense as things disclosed by means of the
various sense organs, is that it is the condition for the existence of
other objects: “it [the body], is that by means of which there are other
objects. It is neither tangible nor visible in so far as it is that which
sees and touches”.4
In this respect Merleau-Ponty assumes a polemical attitude towards the “classical prejudices” regarding the formulation of corporeality. The aim of his critique is to reclaim the phenomenal body
from the objective body as described by mechanistic physiology and
classical psychology. Following classical psychology, MerleauPonty describes the body as that which constantly accompanies every
perception. Yet, its “permanence” is recognized quite differently
from the way in which the objects in the perceptive field are “permanent”. The latter are in fact “before me” and susceptible to infinite
explorations, while the body is “with me” and not accessible to such
explorations. The permanence of objects is reconciliable with the
possibility of their disappearance while the absence of the body from
the perceptive field is unthinkable: “I observe external objects with
my body, I handle them, examine them, walk around them, but my
body itself is a thing which I do not observe; in order to be able to do
so I should need the use of a second body which itself would be unobservable”.5
For Merleau-Ponty the human organism is not a system of particles in motion existing partes extra partes and definable “by means
of physiological and chemical laws”. On the contrary it constitutes “a
crucial moment in the genesis of the objective world”.6 Accordingly,
the relation between the body and physical objects cannot be considered as a casual relation. The relation is described as “patterning”:
the body “patterns” the data given to it.
4
Merleau-Ponty, 1962, p. 92.
Merleau-Ponty, 1962, p.1.
6
Merleau-Ponty, 1962, p.72.
5
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149
Merleau-Ponty maintains that the great advance of modern physiology is to have recognized that the neurological system in general
functions in an active manner: it differentiates and organizes sets of
sensuous excitations which are not considered as effects of a de facto
situation outside the organism. These excitations reveal the manner
in which the organism refers itself spontaneously to objects and the
way it “patterns” its data spontaneously.7
In the course of the critical discussion of the limits of the classical
method of mechanistic physiology – through an analysis of some
pathological cases which do not fit in a rationalistic or empiricist ontology – Merleau-Ponty clarifies the concept of the body subject,
particularly in its relation to objects and to the environment. The
pathological case in question are the “phantom limb” and “anosognosia”.8 Traditionally the prevailing explanations of the phantom
limb tended to be either physiological or psychological: the former
maintains, on the one hand, that the phantom limb is due to the persistence of stimulations in nerves that served the now absent member. It supports its view by noting that the phenomena could be
eliminated by severing those nerves. In this heuristic framework,
then, anosognosia would be a loss of stimulations. The psychological
explanation, on the other hand, points out the fact that the phenomenon could be prompted by recalling the circumstances of the original
loss. The phantom limb is thus consisered a particular memory while
anosognosia a forgetting.9
Merleau-Ponty's refusal of these interpretations is based on his
existential theory of the body pointing out some factors which militate against the above-mentioned explanations. According to the author both, the patient afflicted with anosognosia who regards his
paralyzed arm as a “long cold snake” and the patient who feels the
phantom limb, reveal a peculiar “remembering” in their forgetting:
7
Merleau-Ponty, 1962, pp.74-75.
Merleau-Ponty, 1962, pp. 90-105.
9
Merleau-Ponty, 1962, pp. 95-96.
8
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150
one without the distinct note of the past. The patient has constituted a
“fictive” body, and this is the reason why the phenomenon cannot be
accounted by appealing to “memory” – the phantom limb is “quasipresent” or as Merleau-Ponty stated it, it is “like repressed experience, a former present which cannot decide to recede into the past”.10
Ultimately these phenomena can be comprehended only in the perspective of “being-in-the-world”:
“What is in us which refuses mutilation and disablement, is an I committed to a certain physical and inter-human world who continues to tend towards his world despite handicaps and amputations and who, to this extent,
does not recognize them de jure. The refusal of this deficiency is only the
obverse of our inherence in a world, the implicit negation of what runs
counter to the natural momentum which throws us in our tasks, our cares,
our situation, our familial horizons. To have a phantom arm is to remain
open to all the actions of which the arm alone is capable; it is to retain the
practical field which one enjoyed before mutilation. The body is the vehicle
of being in the world, and having a body is, for a living creature, to be intervolved in a definite environment, to identify oneself with certain projects
and be continually committed to them”.11
The body, then, is not a pure object, but the way in which consciousness “is in the world”, the way it constitutes its own worlds.
The lesions of the body correspond to a menomation of the organization of the world. Consciousness tries to react to the disablements in
order to retain de facto those structures of the body which permit the
preservation of the structure of the world.
That the body is a subject and a meaning-giving existence, is furthermore deduced by Merlau-Ponty by the fact that there are many
forms of meanings which, on the one hand do not have the character
of reality existing independently of us; on the other, do not result
from a free and conscious attribution of meanings. Men, in other
words, must already be a meaning giving existence on the pre10
11
Merleau-Ponty, 1962, p. 85.
Merleau-Ponty, 1962, pp. 81-82.
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151
conscious and not yet free level, i.e. on the level of bodily existence.
Example of these are “space”, “sexuality” and other expressions
which are considered to be intentional modalities or possible ways of
relating to the world, in virtue of which the surrounding things come
to have a sense.
Merleau-Ponty argues his position regarding spatiality of the
body by following the same pattern used in the previous discussion
of the relation between body and objects. Just as the body is not an
object primarily because it is the condition for there being objects, in
the same way it is not in space because it is the source of space. Before objective space there is a dynamic spatiality constituted by the
body. This is a lived space composed and organized in term of the
body-image which is itself formed by bodily movements and actions
in specific situations, a sort of “total awareness of my posture in the
intersensory world”,12 a form in the sense used by Gestalt Psychology:
“the normal subject has his body not as a system of present positions, but
besides, and thereby, as an open system of an infinite number of equivalent
positions directed to other ends. What we call the body image is precisely
this system of equivalents, this immediately given invariant whereby the
different motor tasks are instantaneously transferable. It follows that it is not
only an experience of my body, but an experience of my body in the
world”.13
The spatiality of the body is not like that of the physical objects.
Merleau-Ponty defines it not as space of physical location, a spatiality
of position, but rather as a “spatiality of situation”.14 Referring to this
involvement of the body he calls it “the third term, always tacitly understood, of the figure background structure”.15 It is by action and
ultimately by the very movement of existence that the body enters
this “figure-background structure” or addresses its tasks. Thus it is
12
Merleau-Ponty, 1962, p. 100.
Merleau-Ponty, 1962, p. 141.
14
Merleau-Ponty, 1962, p. 100.
15
Merleau-Ponty, 1962, p. 100.
13
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152
by action that its peculiar spatiality is accomplished. In order to clarify concretely the corporeal spatiality Merleau-Ponty relies, once
again, on the analysis of pathological experiences.
A patient, Schneider, has deficiencies which make him completely incapable of abstract or imaginative movement, although his
ability to manage concrete situations is intact. His body is at his disposal only when his actions are concretely engaged in the world; but
not when the same movements have to be executed “in abstract”.
With his eye closed he cannot move on command any part of his
body; yet, although his eye are still closed, he comfortably succeeds
in performing the habitual movements, necessary to life.
Having discharged the explanations of these phenomena offered
by the theoretical assumptions of classical psychology and by its notion of objective space, Merleau-Ponty proposes an understanding
based on the concept of corporeal space. Accordingly, the fact that
the patient is capable of performing only concrete movements, is interpreted considering his conceptualization of the corporeal space as
a matrix of his habitual actions and not as an objective context. The
impossibility of performing abstract movements depends on the fact
that Schneider cannot conceptualize his body as a means of expression of an abstract thought. He is unable to “break away” from the
real situation in which he finds himself and to project himself in the
imaginary.
As in the case of the phantom limb, the understanding of this
pathological case is accomplished by renouncing to a causal interpretation and by considering the case in the perspective of being in the
world. It is by means of the body image that the body becomes unified with its organs, the senses with their objects: the senses are thus
“means of access to one and the same world”, while the world is “antepredicatively self evident, so that the equivalence of the ‘senseorgans’ and their analogy is to be read off from things and can be
lived before being conceived”.16
16
Merleau-Ponty, 1962, p. 129.
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153
The fact that the milieu disclosed by the body, is experienced as
the same for each of the organs of the body, is due to the body image
and the corporeal scheme, responsible for the unification of body,
senses and object through action:
“movement, understood not as objective movement and transference in
space, but as a project toward movement or ‘potential’ movement, forms the
basic unity of the senses […], my body is a ready-made system of equivalents and transformations, from one sense to the other. The senses translate
each other without any need of an interpreter, and are mutually comprehensible without the intervention of any idea […]. With the notion of the body
image we find that not only is the unity of the body described in a new way,
but also, through this, the unity of the senses and the object”.17
The fundamental phenomenon pointed out by Merleau-Ponty is
the body image, considered according to the kantian schematism. By
this he seems to intend certain types of actions correlated with certain types of objects: kinds of schemes of activities, modes of activities, “ways of doing”, typical manner of conduct, habits over typical
kind of objects. These modes become sedimented and the body image is precisely the total organization, the set of these sedimentations. In this way the body is “a way of access to the world and the
object, with a ‘praktognosia’, which has to be recognized as original
and perhaps as primary. My body has its world and understands its
world, without having to make use of my ‘symbolic’ or ‘objectifying
functions’”.18 On the one hand, consciousnesses is embodied, being
“in the first place, not a matter of ‘I think that’ but of ‘I can’”.19 On the
other hand the body is “grouping of lived-through meanings:
“whether a system of motor or perceptual powers, our body is not an
object for an ‘I think’, it is a grouping of lived-through meanings
which moves towards its equilibrium”.20
17
Merleau-Ponty, 1962, pp. 234-235.
Merleau-Ponty, 1962, pp. 140-141.
19
Merleau-Ponty, 1962, p. 137.
20
Merleau-Ponty, 1962, p. 153.
18
I quaderni del Cream, 2005, IV
154
It is difficult to understand the proper meaning of the concept of
the body image. For one thing the subject itself has an ambiguous nature. Secondly the difficulty stems from the fact that our philosophical terminology is permeated with dualisms which force us to speak
in dualistic terms. In order to clarify the concept we might compare it
with Gilbert Ryle’s notion of mind. Like Merleau-Ponty, Ryle’s centers his thought on a rejection of the cartesian explanation of behaviour as formed by a “two-way process”: “to do something thinking what one is doing is, according to the legend, always to do two
things: namely to consider certain appropriate propositions or prescriptions and to put into practice what these prepositions or presumptions enjoin. It is to do a bit of theory and a bit of practice”.21
Opposite to this, Ryle’s position hold that “when we are describing
people as expressing qualities of minds, we are not referring to occult
episodes of which their overt act and utterances are effects, we are referring to those acts and utterances themselves”.22 Mind for Ryle is
nothing but a person's abilities or inclinations to do certain kinds of
things: it is not placed in some inner part of man and is not the cause
of his behaviour. On the contrary, mind is located in the behaviour itself:
“The statement that ‘the mind is his own place’, as theorists might construe it, is not true, for the mind is not even a metaphorical ‘place’. On the
contrary, the chess-board, the platform, the scholar's desk, the judge's
bench, the lorry-driver’s seat, the studio and the football field are among its
places… ‘Mind’ is not the name of another person, working or frolicking
behind an impenetrable screen; it is not the name of another place where
work is done or games are played; and it is not the name of another tool
with which work is done, or another appliance with which games are
played”.23
Mind is a form of ‘praktognosia’ - an understanding in action of
21
Ryle, 1963, p. 23.
Ryle, 1963, p. 25.
23
Ryle, 1963, p. 51.
22
I quaderni del Cream, 2005, IV
155
the world. Like in the case of the body image, it is an unified whole,
part of the empirical world.
It is by motility that the body image is established. According to
Merleau-Ponty, motility itself is intentionality. The unity of the body
and its object, which is expressed by the body image, is the consequence of an ‘intentional arc’:
“The life of consciousness – cognitive life, the life of desire or perceptual life – is subtended by an ‘intentional arc’ which projects round about us
our past, our future, our human setting, our physical ideological and moral
situation, or rather which results in our being situated in all these respects. It
is this intentional arc which brings about the unity of the senses, of intelligence, of sensibility and motility”.24
The intentional arc is to be considered as the intentionality not of
an ‘absolute’ consciousness, but of a consciousness formulated concretely in the body itself. The body turns out to be “an organism, a
prepersonal cleaving to the general form of the world, as an anonymous and general existence, plays beneath my personal life, the part
of an inborn complex”.25 The body exists as an anonimous and generalized existence, a kind of substructure on which all personal life is
built:
“It is not the epistemological subject who brings about the synthesis, but
the body, when it escapes from dispersion, pulls itself together and tends by
all means in its power toward one single goal of its activity, and when one
single intention is formed in it through the phenomenon of synergy. We
withdraw this synthesis from the objective body only to transfer it to the
phenomenal body, the body, that is, in so far as it projects a certain ‘setting’
round itself, in so far as its ‘parts’ are dynamically acquainted with each
other, and its receptors are so arranged as to make possible, through their
synergy, the perception of the object. What is meant by saying that this intentionality is not a thought is that it does not come into being through the
transparency of any consciousness, but takes for granted all the latent
24
25
Merleau-Ponty, 1962, p. 136.
Merleau-Ponty, 1962, p. 232.
I quaderni del Cream, 2005, IV
156
knowledge of itself that my body possesses”.26
Merleau-Ponty maintains that the body itself is a “knower”, being
“the fabric into which all objects are woven”, and, at least in relation
to the perceive world, “the general instrument of my ‘comprehension’”.27 The body, then, is the subject, a meaning-giving existence,
pre-conscious and pre-personal. It manifests me to the world, puts
me in the world by means of my various senses.
The interiority which Descartes and later Husserl, have taken as
the essence of mind and of consciousness is shown to be erroneous
because it fails to recognize the fundamental dimension of human
reality: “being in the world”. With obvious allusion to Husserl’s quotation from St. Augustine at the end of the Cartesian Meditations,
Merleau-Ponty declares: “Truth does not ‘inhabit’ only the ‘inner
man’, or more accurately, there is no inner man, man is in the world
and only in the world does he knows himself”.28
The existential character of the body is clarified through the
analysis of another corporeal mode of being: sexuality. Schneider’s
pathological case is offered as an introduction to the discussion of
sexuality. Schneider does not spontaneously search for the sexual act
and, while he is indifferent to normal erotic stimulations, he responds
to them only when he is the object of the initiative of his partner.
However, as soon this latter stops the initiative, the sexual cycle is
interrupted.
According to Merleau-Ponty what is lacking in the patient is the
power of putting himself in an erotic situation. His sexual deficiencies are of the same intentional order as his other troubles. As the author himself puts it,
“We discover both that sexual life is one more form of original intentionality, and also bring to view the vital origin of perception, motility and
26
Merleau-Ponty, 1962, pp. 232-233.
Merleau-Ponty, 1962, p. 235.
28
Merleau-Ponty, 1962, p. XI.
27
I quaderni del Cream, 2005, IV
157
representation, by basing all these ‘processes’ on an ‘intentional arc’, which
gives way in the patient, and which, in the normal subject, endows experience with its degree of vitality and fruitfulness”.29
Like all other structures of the body (perception, motility etc.)
sexuality is a mode of being of the person: “In so far as man’s sexual
history provides a key to his life, it is because in his sexuality is projected by manner of being toward the world that is toward time and
other men”.30
The relation of sexuality - of the body - to existence is put by
Merleau-Ponty in terms of a relation between sign and signification.
The body signifies existence in a peculiar way. The signification is
embodied into the sign. “The body can symbolize existence because
it brings it into being and actualizes it”.31 The body is not something
external to existence, but is the concrete actualization of it. It is both
the sign and the signification, in an intimate union of the two: “The
body is solidified or generalized existence and existence is a perpetual incarnation”.32 Indeed Merleau-Ponty defines one in terms of the
other and maintains that this totality represents what is genuinely
real, rather then either of them taken separately:
“The same reason which prevents us from ‘reducing’ existence to the
body or to sexuality, prevents us also from ‘reducing’ sexuality to existence:
the fact is that existence is not a set of facts, (like ‘psychic facts’) capable of
being reduced to others or to which they can reduce themselves, but the ambiguous setting of their intercommunication, the point at which their boundaries run into each other, or again, their woven fabric”. 33
The body expresses existence, in the same way as speech ex29
Merleau-Ponty, 1962, p. 157.
Merleau-Ponty, 1962, p. 158.
31
Merleau-Ponty, 1962, p. 164.
32
Merleau-Ponty, 1962, p. 166.
33
Merleau-Ponty, 1962, p. 166.
30
I quaderni del Cream, 2005, IV
158
presses thought:
“Anterior to conventional means of expression, which reveal my thought
to others only because already, for both myself and them, meaning is provided by each sign, and which in this sense do not give rise to genuine
communication at all, we must […] recognize a primary process of signification in which the thing expressed does not exist apart from the expression,
and in which the signs themselves induce their significance externally”.34
This “incarnate significance” is a strong support expressing the
monistic character of the body. By showing the unbreakable interconnection between thinking and speaking Merleau-Ponty, succeeds
in demonstrating the bodily character of thought. In line with De
Soussure’s and Wittengstein’s linguistic analysis, Merleau-Ponty
writes:
“If speech presupposed thought, if talking were primarily a matter of
meeting the object through a cognitive intention or through a representation,
we could not understand why thought tends towards expression as towards
its completion, why the most familiar thing appear indeterminate as long as
we have not recalled its name, hy the thinking subject himself is in a kind of
ignorance of his thought so long as he has not formulated them by himself,
or even spoken or written them, as is shown by the example of so many
writers who begin a book without knowing exactly what they are going to
put into it”.35
A thought without word would be an unconscious thought, since
it is just the word which gives us our thought: “Thought is not ‘internal’ thing, and does not exist independently of the world and of
words” (Ibidem, p. 183). This holds true not only for language but
also for behaviour: as in the case of the linguistic sign, actions are
not proceeded by any internal process of which are a mere reflection.
The gesture itself embodies signification of a determinate sort.
34
35
Merleau-Ponty, 1962, p. 166.
Merleau-Ponty, 1962, p. 177.
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2005 – III
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(La pubblicazione può essere richiesta direttamente all’editore.)
Stampato presso Maja - Torino