ombrerosse - 22 June 2012 (www.miogiornale.com)

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ombrerosse - 22 June 2012 (www.miogiornale.com)
controlacrisi.org
di Ombre Rosse - 22 June 2012
miogiornale.com
Mafia & Co, lo sporco groviglio tra politica e affari
15/06/2012 (Ombre Rosse)
Il parlamento è impegnato proprio in questi giorni nella (faticosa) approvazione della nuova legge contro la
corruzione. Una nascita sofferta e accompagnata da aspre polemiche e compromessi al ribasso, come sempre
quando si vanno a toccare i rapporti tra economia, affari e politica. Una lentezza che sparisce quando, invece,
si deve mettere mano alla riforma delle pensioni o a quella del lavoro. Ma intanto, il malaffare - che spesso va
a braccetto con la criminalità organizzata - ingrassa e prospera. Come raccontiamo in questo nuovo numero di
Ombrerosse : dalla gestione, privata, dei beni pubblici all’Expo 2015, dalle mani sulla Tav alla ‘ndrangheta che
avanza al Nord.
www.controlacrisi.org/ombrerosse
L'inchiesta. La
'ndrangheta nelle
nebbie: così i boss
tengono in pugno
l'economia del Nord
15/06/2012 di Alessia Candito (Ombre
Rosse)
Il 3 aprile 2012 le Procure di
Reggio Calabria e Milano spiccano
otto avvisi di garanzia destinati a
provocare un terremoto nelle
settimane
successive.
Tra
i
destinatari c’è infatti l’ormai ex
tesoriere
della
Lega
e
sottosegretario
del
Ministro
Calderoli,
Francesco
Belsito.
Leghista d'affezione e vibonese
d'origine, il cassiere del partito di
Bossi è accusato dai magistrati di
ben due Procure di truffa ai danni
dello Stato, finanziamento illecito
ai partiti e riciclaggio. Tutte
operazioni nelle quali Belsito
sarebbe stato coadiuvato da
uomini
del
gotha
della
'ndrangheta
reggina.
Sembra
quasi un paradosso o una
vendetta karmica, eppure proprio
la Lega - il partito che ha costruito
il proprio capitale politico sulla
retorica anti-terroni e che fino a
qualche mese fa rispondeva
inviperito a chi denunciasse la
presenza delle 'ndrine al Nord
Italia - sembra aver legato le
proprie fortune e le proprie
finanze alla potentissima cosca
De Stefano di Reggio Calabria.
Coloro che per anni hanno tuonato
contro furti e malversazioni, si
scoprono coinvolti in un affare di
bustarelle, fondi neri e riciclaggio
22 June 2012
che non solo ha toccato da vicino
la famiglia del grande capo,
Umberto Bossi, costretto alle
dimissioni insieme al figlio, ma
anche il fedelissimo Belsito e tutto
il “Cerchio Magico”, dissolto al
calor bianco dell’inchiesta.
Un’indagine
complicata
e
delicatissima,
nella
quale
–
insieme a Belsito – sono coinvolti
l’oscuro procacciatore di business
Romolo
Girardelli,
noto
alle
procure come vicino a Paolo
Martino e Antonio Vittorio Canale,
considerati gli ambasciatori della
cosca De Stefano al Nord Italia e
in Francia, Bruno Mafrici, nato a
Melito
Porto
Salvo
(Reggio
Calabria), ma residente a Milano
e socio della Mgim dell’ex Nar –
anche lui calabrese – Lino
Guaglianone,
l'imprenditore
veneto Stefano Bonet, la sua
segretaria
Lisa
Trevisan,
il
promotore finanzirio Paolo Scala,
Leopoldo Caminotto e Nadia
Arcolin. Ed è proprio nel triangolo
Belsito-Mafrici-Girardelli
che,
secondo gli inquirenti, si nasconde
il cuore di un’inchiesta che va
molto oltre una storia di ordinaria
malversazione e potrebbe portare
a riscrivere intere pagine della
storia italiana. Pagine oscure, che
sanno di stragi e di morti
ammazzati, di latitanti neri in fuga
coperti da servizi più o meno
deviati e di un inconfessabile
patto fra la 'ndrangheta e lo Stato.
Una rete a maglia fitta che
personaggi
della
Repubblica
hanno iniziato a tessere fin dagli
anni Settanta con la tanto evocata
ombrerosse
strategia
della
tensione,
nell’ambito
della
quale
la
'ndrangheta, o meglio alcune
famiglie di 'ndrangheta, si sono
dimostrate interlocutori ricettivi e
attendibili. Ed in cambio hanno
guadagnato l’ingresso a pieno
titolo nella stanza dei bottoni non
solo
delle
istituzioni
locali
calabresi, ma dell’intera Italia.
Una rete nella quale è incappata
la Lega, ma che va oltre il
Carroccio e i suoi guai e nella
quale si potrebbe nascondere la
ragione ultima dell’insediamento
ormai stabile della ndrangheta al
Nord. Non si tratta solo di
semplice
colonizzazione
affaristica o criminale. Ormai le
'ndrine siedono gomito a gomito
con la buona borghesia lombarda
nei salotti in cui si decidono i
destini economici e politici del
Settentrione. E non solo.
A dare il metro della portata
dell’indagine in corso tra Milano e
Reggio Calabria è lo stesso calibro
dei personaggi coinvolti o lambiti
dalle indagini che i pm di Reggio
Calabria e Milano stanno nel più
stretto riserbo portando avanti.
Sotto la lente degli investigatori
passano in queste ore centinaia di
milioni di terabyte di documenti
custoditi nei server dello studio
Mgim di Milano, di cui Mafrici è
socio e nei quali potrebbero
essere
custodite
le
chiavi
dell’intera indagine. Una società
con uffici in via Durini 14 – a un
passo da piazza San Babila, cuore
della Milano da bere e della destra
meneghina – e portafoglio clienti
1 di 11
di quelli che contano. Insieme a
Mafrici, a gestire la Mgim ci sono
Pasquale Guaglianone, ex leader
della destra eversiva, attualmente
nel cda delle Ferrovie Nord e
presidente del collegio sindacale
della Fiera Congressi di Milano, il
reggino Giorgio Laurendi, che
dello studio Mgim detiene il 20 per
cento. Un altro reggino d'origine,
Antonio Italica, fondatore dello
studio, ha ceduto le sue quote nel
marzo 2009. Ma non sono solo i
proprietari di quell'ufficio ad avere
ascendenze
tutto
fuorchè
"lumbard". Dai locali di via Durini
14 sono passati anche i titolari
delle più importanti imprese
calabresi, che casualmente al
Nord hanno fatto fortuna. Insieme
a nomi altisonanti del mondo
bancario e industriale italiano, fra
i clienti della Mgim – che, stando
al
Registro
imprese,
si
occuperebbe
di
"servizi
di
elaborazione dati contabili riferiti
alla tenuta delle scritture contabili
ed alle paghe e contributi" – vi
sarebbero
i
Montesano,
i
Matacena, i Mucciola.
Proprio il titolare di quest'ultima,
Fabio Mucciola, romano di nascita
ma con residenza e uffici a Reggio
Calabria, il 15 settembre del 2009
è stato fotografato – si legge nelle
carte di un'altra inchiesta della
Dda milanese – davanti agli uffici
di via Durini 14. Non è strano che
Mucciola sia a Milano, la sua ditta
da anni colleziona appalti nel
capoluogo
meneghino,
come
quello messo sul piatto nel 2008
dal Pio Albergo Trivulzio. Quello
che è strano è l'uomo con cui si
incontra e che lo accompagna
all'interno
dell'edificio:
Paolo
Martino, considerato la mente
finanziaria del clan De Stefano a
Milano
e
vicinissimo
a
Guaglianone.
dei fondi neri. Ma Bonet, a sua
volta è anche socio di Belsito e
di Romolo Girardelli. Ed anche
quest'ultimo
è
una
vecchia
conoscenza di Paolo Martino. Nel
2002 i loro nomi compaiono
nell’inchiesta sulla latitanza di
Salvatore Fazzalari, esponente di
spicco
della
'ndrangheta
calabrese, che Girardelli avrebbe
coperto attraverso la messa a
disposizione di somme di denaro a
ciò destinate – alla negoziazione,
allo
sconto
ovvero
alla
monetizzazione
di
"strumenti
finanziari
atipici"
di
illecita
provenienza".
Arrestato nel marzo del 2011,
nell'ambito di un'inchiesta che
coinvolge il clan Flachi – reggenza
tra Comasina e Bruzzano, ma
radici al sud – Martino sembra
essere
il
grande
tessitore
seguendo le cui tracce gli
inquirenti sono arrivati a tutti gli
indagati dell'inchiesta che ha
messo a soqquadro la Lega. È lui
che porta i pm sulle tracce di
Mafrici, all'epoca consulente e
uomo ombra di Belsito, ma anche
"avvocato
di
fiducia"
dell'imprenditore veneto Stefano
Bonet, attraverso le cui società
sarebbero
stati
riciclati
–
sospettano gli inquirenti – molti
Da giovane killer, Martino cambia
modi e pelle, diventa l'anima
imprenditoriale degli "arcoti", il
tentacolo della cosca che ha il
compito di curare gli interessi dei
De Stefano in Lombardia. Si
trasferisce in corso Como, si
muove in Jaguar, veste abiti di
sartoria e frequenta politici e
imprenditori. È l'uomo ombra che
viene sfiorato da tutte le inchieste
degli ultimi decenni, senza che
nessuna
riesca
a
toccarlo
davvero. Era socio di Francesco
Lampada – elemento di spicco
dell'omonimo
clan
della
'ndrangheta milanese, ritenuto
espressione diretta della cosca
22 June 2012
E Martino non è uno sconosciuto
nella storia della ndrangheta.
Cugino prediletto del potentissimo
boss
Paolo
De
Stefano,
storicamente
la
massima
espressione della famiglia che
scrive di proprio pugno la storia
della nuova 'ndrangheta, Martino
inizia la propria carriera criminale
da minorenne quando, a 15 anni,
nel corso della prima guerra di
'ndrangheta, ha commesso un
omicidio per il quale è stato
condannato dal Tribunale dei
minori. Terminata la condanna, si
trasferisce al Nord. Dove la
'ndrangheta, fin dagli anni 70, ha
iniziato a mettere radici grazie
all’istituto del confino, che ha
spedito boss e picciotti tra le
nebbie. E dove famiglie di
'ndrangheta di ogni parte della
Calabria
hanno
rapidamente
messo radici, impiantato affari e
creato nuovi centri di potere. La
parabola di Paolo Martino non è
che un esempio di quello che
dieci,
cento
famiglie
di
'ndrangheta hanno fatto nel corso
degli ultimi trent’anni. A Milano
come a Genova. A Torino come
nella rossa Emilia.
ombrerosse
reggina dei Condello – nella
società Lucky world, un'impresa
che
si
occupa
della
compravendita di videopoker, poi
passata nelle mani del messinese
Antonino
Currò,
legato
alle
cooperative di pulizie delle figlie
di Vittorio Mangano. È stato in
società con la cosca Valle,
ascendenza reggina e presente
lombardo,
ma
può
vantare
importanti
e
ultradecennali
conoscenze anche tra gli uomini
della cosca Papalia di Bucinasco, a
Milano Sud, tanto da potersi dire
"ospite graditissimo" del boss
Antonio Papalia nella sua villa
bunker. Ma Paolo Martino ha
anche tante amicizie in politica. E
non solo calabresi. L'ambasciatore
dei De Stefano al Nord conosce
Giuseppe Scopelliti, presidente
della Regione Calabria ed ex
primo cittadino di Reggio Calabria,
con cui Martino si incontrerà nel
2006 alla Bit di Milano e a cui
presenterà Lele Mora, in seguito
coinvolto
dall'allora
sindaco
nell'organizzazione
di
alcuni
eventi
in
città.
Nella
rete
dell'ambasciatore dei De Stefano
al Nord, c'è Luca Giuliante,
avvocato di Mora, del presidente
della regione Lombardia, Roberto
Formigoni, e anche di Karima El
Mahroug, meglio conosciuta come
Ruby Rubacuori, ma soprattutto
tesoriere del Pdl. Grazie a lui, il
18 maggio 2009, Martino non solo
verrà invitato addirittura a una
delle "cene eleganti" dell'allora
presidente del consiglio Silvio
Berlusconi, ma – dimostreranno le
intercettazioni raccolte nel corso
dell’inchiesta Redux – riferiva
regolarmente a Martino una serie
di notizie "in merito a una gara
d'appalto, non meglio specificata,
in cui risultano interessati i fratelli
Mucciola". Se gliene avessero
lasciato
il
tempo
–
stava
lavorando ad un incontro –
probabilmente Martino fra i suoi
contatti
avrebbe
potuto
annoverare anche il presidente di
Bpm
Massimo
Ponzellini,
recentemente finito nei guai per
un finanziamento da 148 milioni
di euro alla società di Atlantis di
Francesco Corallo, figlio di quel
Gaetano Corallo ritenuto vicino al
boss di Catania Nitto Santapaola.
Era un uomo importante Paolo
Martino e dai contatti importanti,
che
direttamente
o
indirettamente,
utilizzava
per
giocare partire decisive su tutti i
tavoli che contano, attraverso
2 di 11
tutte le 'ndrine che a Milano
hanno voce in capitolo. Come
quella dei Flachi, la cosca che ha
costruito il suo impero tra
Bruzzano
e
la
Comasina,
smantellata
dall'operazione
Redux-Caposaldo. In mano al clan
che ha fatto fortuna fra le nebbie,
scoprono gli investigatori, non c'è
solo il controllo del movimento
terra e degli scavi, dei locali
notturni, di cui uno – il notissimo
De Sade – addirittura acquistato
attraverso
intermediari,
della
distribuzione della Tnt (ex Traco) e
dei chioschi dei paninari. Secondo
gli indizi raccolti dagli inquirenti,
i Flachi avevano messo le mani
– o almeno tentato – su molte
campagne elettorali. Come quella
della consigliere regionale Pdl
Antonella Majolo, sorella della più
celebre Tiziana, già assessore
comunale a Milano, cui si era
"interessato" lo stesso boss Pepè
Flachi. Il figlio del boss, Davide
partecipava invece a cocktail
elettorali
organizzati
da
Massimiliano Bonocore (Pdl), figlio
di quel Luciano Bonocore, storico
esponente della destra milanese,
cofondatore del Pdl.
Ma i contatti con la politica al Nord
non
sono
una
prerogativa
esclusiva né di Paolo Martino né
del clan Flachi. Solo per rimanere
alla cronaca degli ultimi mesi, a
Milano aveva il suo regno anche
Giulio Lampada, il capo della
famiglia inviata a Milano in nome
e per conto della potentissima
cosca Condello di Reggio Calabria,
che attorno a sé avrebbe tessuto
una
fitta
rete
di
politici,
professionisti e personaggi noti
sull’asse
Calabria-Lombardia.
Insieme a lui, travolgerà nella sua
caduta nomi che fanno rumore
come quello del Presidente della
Sezione Misure di Prevenzione del
Tribunale di Reggio Calabria, Enzo
Giglio, del consigliere regionale
Franco
Morelli,
dell’avvocato
calabrese d’origine e milanese
d’adozione Vincenzo Minasi e del
magistrato Giancarlo Giusti.
Lambiti, ma non indagati nella
medesima inchiesta personaggi
come Gianni Alemanno, principale
sponsor politico di Morelli, o come
l’attuale assessore ai Trasporti
della Regione Calabria, Luigi
Fedele
o
ancora
come
il
consigliere comunale del Pdl
Armando Vagliati e l’ex assessore
della giunta Penati, Antonio
Oliverio. Al di là dell’appoggio
22 June 2012
elettorale, per Vagliati – riportano
le carte – il clan si spende perché
conquisti una non precisata
“vicepresidenza”, nel tentativo di
creare un tandem politicamente
trasversale
ma
egualmente
criminale con Oliverio. In cambio,
il politico “costituiva l’elemento di
riferimento dei Lampada con il
Comune di Milano”. Oliverio
invece, già indagato e assolto
nella maxi-inchiesta “Infinito”, era
per il gip “individuo a disposizione
della famiglia Lampada, nonché
come pedina fondamentale nella
rete dei rapporti politici lombardi
e calabresi”.
Ma le propaggini della rete dei
boss della Lomellina vanno ben
oltre la Calabria e la Lombardia,
per arrivare fino in Emilia
Romagna. E a Tarcisio Zobbi,
aiutato dai Valle-Lampada nella
corsa alla Camera dei deputati del
2008.
E
non
per
mera
benevolenza. Quello che Giulio
Lampada concede non è un
appoggio casuale, ma risponde a
un’unica strategia. “L’etichetta o
il partito di volta in volta scelto è
una casuale totalmente variabile”,
annota Gennari, “l’unica cosa
importante è che si tratti della
parte vincente”.
Il network di contatti, conoscenze
e cointeressenze messo in piedi
da Giulio Lampada non è che un
esempio – solo nella cronaca più
recente – del radicamento ormai
ultratrentennale
delle
'ndrine
calabresi
in
Lombardia.
La
'ndrangheta che ha messo radici
a Milano – scrive non più di una
settimana fa il giudice del
Tribunale
di
Milano
Roberto
Arnaldi nelle motivazioni della
sentenza di condanna per i 110
imputati arrestati nel corso della
maxi operazione “Infinito” del
luglio
2010
–
“non
è
un’articolazione
periferica.
I
membri delle ‘ndrine sono da
lungo tempo radicati al Nord, dove
risiedono stabilmente e ciò ha
consentito
una
perfetta
conoscenza del territorio”. Una
conoscenza che ha permesso alle
'ndrine prima di infiltrarsi, quindi
dettare legge in tutti i settori
commerciali, leciti o illeciti che
fossero. Sono i ras del movimento
terra nei cantieri, del traffico e
dello spaccio di cocaina, della
gestione dell’ortofrutta, dei night
club, hanno interessi nelle pompe
funebri come nell’immobiliare,
nella grande come nella piccola
ombrerosse
distribuzione. Giocano un ruolo
fondamentale nei piccoli cantieri
come nelle maxi infrastrutture,
come la Pedemontana o la nuova
Expo. Ci sono arrivati in silenzio,
mettendo sul piatto un’infinita
liquidità e anni di strategia
economica e criminale ed oggi
siedono a buon diritto nei salotti
buoni milanesi, senza più bisogno
neanche di bussare per essere
invitati. Perché stringono in mano
il cuore economico, politico e
finanziario
del
gotha
della
borghesia lombarda. E sono
passati all’incasso.
L'inchiesta. La Calabria
in cattive acque
15/06/2012 di Tiziana Barillà (Ombre
Rosse)
Ancora una volta la Calabria è
teatro di esasperazioni e conflitti.
Perché profitto e bene comune
sono due concetti che fanno a
pugni. Ecco un esempio lampante
di cosa succede se il privato
gestisce i servizi pubblici.
La gestione privata dei servizi
idrici.
Quattro
imprenditori
calabresi
accedono
a
una
cassaforte, prendono le buste
contenenti le offerte per le gare
d’appalto, le controllano e le
sostituiscono con una migliore, la
loro. Poi richiudono la busta e la
rimettono in cassaforte. Il tutto
con
l’“aiutino”
di
qualche
funzionario pubblico. Dove è
successo? In Calabria. Come?
Semplicemente rimuovendo dalle
buste la ceralacca. “Ceralacca”,
appunto, è il nome dell’inchiesta
condotta dalla Guardia di finanza
di Reggio Calabria che, il 9 marzo
scorso,
ha
eseguito
nove
ordinanze di custodia cautelare in
carcere e sequestrato beni per 8
milioni di euro. Gli arrestati sono:
quattro
imprenditori,
un
funzionario della Provincia di
Reggio, un usciere e tre funzionari
della Sorical, la società a capitale
misto - 53,50 per cento delle
azioni alla Regione Calabria e
46,50 a Acque di Calabria spa (del
Gruppo Siba-Veolia environment)
- che con mandato trentennale
gestisce
le
risorse
idriche
calabresi. Ecco uno spaccato di
“mala
gestione”
dei
servizi
pubblici. E non sono solo le gare
ad essere sporche, ma anche le
acque. Un’altra operazione giunge
3 di 11
in quel di Calabria: “Acqua
sporca”. L’indagine della procura
di Vibo Valentia inizia tre anni fa
dopo numerose segnalazioni dei
cittadini su colore, sapore e odore
dell’acqua
potabile
che
dall’invaso artificiale dell’Alaco
(territorio
comunale
di
Brognaturo), finisce nella rete
idrica pubblica. E il 15 maggio
scorso la procura di Vibo dispone
il
sequestro
preventivo
dell’impianto dell’Alaco e di 57
apparati
idrici.
Sequestro
convalidato dal Gip (giudice per le
indagini preliminari) il 29 maggio.
La diga in questione serviva
decine di paesi dal vibonese al
catanzarese, entrando nelle case
e nei rubinetti di circa 400mila
persone. Pesanti le ipotesi di
reato: avvelenamento colposo di
acqua e frode in pubbliche
forniture in concorso con alcuni
dirigenti della Sorical, per un
totale di 26 avvisi di garanzia.
I conti non tornano. Da tempo
il Coordinamento calabrese Acqua
pubblica “Bruno Arcuri” solleva la
questione delle partecipate. Già
da quando, lo scorso dicembre, la
Corte dei Conti aveva rilevato
alcune anomalie sulle tariffe
applicate dal gestore ai Comuni
calabresi: un unicum nazionale,
con conseguente menomazione
dei diritti e degli interessi dei
cittadini. La normativa nazionale,
per
situazioni
come
quella
calabrese dove non è ancora
entrato in vigore il cosiddetto
metodo “normalizzato” (la formula
che gli enti locali usano per
determinare la tariffa tenendo
conto anche degli investimenti
effettuati), prevede che la tariffa
idrica sia fissata «dal legislatore
statale». Il compito spetta in
particolare al Cipe (il comitato
interministeriale
per
la
Programmazione economica della
presidenza del Consiglio dei
ministri). Concetto ribadito anche
dalla Corte Costituzionale: le
Regioni non possono decidere
sugli adeguamenti tariffari del
settore idrico. In Calabria invece
gli adeguamenti sono stati decisi
proprio con delibere regionali,
perciò in maniera illegittima. La
partecipata vende acqua a 385
comuni, di cui ben 300 morosi.
Secondo
i
conti
del
Coordinamento le amministrazioni
comunali
calabresi
hanno
sborsato in più, al 31 dicembre
2008, circa 30 milioni di euro. A
Sorical
spettava
anche
22 June 2012
l’attuazione di un piano di
investimenti:
progettazione
e
realizzazione di opere necessarie
sul territorio. Cento milioni di euro
da investire, nei primi cinque anni.
Ma le opere sono rimaste tutte
sulla carta. Da parte sua, Veolia
dichiara la chiusura in rosso del
bilancio 2011: chiude qualche
rubinetto e fa sapere che intende
lasciare
la
regione
per
rifocalizzarsi sui “mercati forti”,
tra cui di certo non viene
contemplata la Calabria. Veolia
lascia, dunque, ma prima chiede i
danni.
La reazione. La parte calabrese
del
Forum
nazionale
dei
movimenti per l’acqua pubblica,
intanto, prosegue. Presentando
una diffida alla Regione in cui
chiede di «adottare in tempi brevi
un
testo
unico
regionale
sull’acqua che recepisca l’esito
referendario». Non solo, come da
principio costituzionale, si chiede
che
vengano
riattribuite
le
competenze
indebitamente
sottratte ai Comuni. In Calabria lo
scorso
anno
oltre
800mila
calabresi
hanno
votato
il
referendum chiedendo la gestione
pubblica,
partecipata
e
democratica
dell’acqua
bene
comune. E 800mila calabresi sono
la maggioranza assoluta della
regione, consensi che superano
anche quelli del super presidente
Scopelliti.
E gli enti pubblici? In un mare di
guai, è proprio il caso di dire. Tra
gli avvisi di garanzia relativi alla
vicenda dell’Alaco, spicca quello
a Sergio Abramo: neosindaco di
Catanzaro
(nonostante
il
marasma elettorale del capoluogo
calabrese), nonché presidente di
Sorical. Abramo ha dichiarato la
sua assoluta e totale estraneità ai
fatti oggetto dell’indagine: «Il
presidente della Sorical non ha
alcuna responsabilità gestionale e
tale circostanza sarà presto
chiarita al magistrato, al quale ho
già chiesto, tramite il mio legale,
di essere al più presto sentito»,
si
difende
il
sindaco.
Contemporaneamente
il
governatore Giuseppe Scopelliti,
nel corso di una conferenza
stampa, conferma il prossimo
abbandono di Veolia e difende la
scelta della Sorical di tagliare
l’acqua ai Comuni morosi. E,
soprattutto, riconferma la ferma
volontà
di
mantenere
una
gestione privata, annunciando un
ombrerosse
bando per la scelta di un nuovo
socio privato, a cui addirittura
adesso si potrà anche affidare la
maggioranza assoluta delle quote
societarie. La gestione privata, del
resto, funziona talmente bene.
Il libro. Pio La Torre deve
morire
15/06/2012 di Maria R. Calderoni
(Ombre Rosse)
Quando muore un
comunista.
Palermo, piazza
Generale Turba.
«Verso le 9,30 del
30.4.1982 la Fiat
131 guidata da Rosario Di Salvo e
con a bordo l'on. Pio La Torre
veniva bloccata da una Ritmo
verde, da cui discendevano due
individui armati, che iniziavano a
sparare contro il parlamentare e il
suo autista, subito coadiuvati da
altre due persone, sopraggiunte a
bordo di una moto Honda 650».
Così il rapporto di polizia. Rosario
riesce a sparare qualche colpo con
la sua pistola ma non ha scampo,
insieme a Pio da quell'auto uscirà
solo da morto. I killer riescono a
fuggire, sul luogo sono ritrovati 22
bossoli e 16 proiettili - due interi
caricatori - sparati da una
mitraglietta. «Tutti segni di una
terribile
accuratezza,
determinazione,
professionalità
criminale e militare».
"Pio La Torre", ha questo titolo il
libro che Vito Lo Monaco e
Vincenzo Vasile hanno scritto
(Flaccovio editore) sull'omicidio di
La Torre e del suo autista,
trent'anni fa.
E' il primo parlamentare ucciso
dalla mafia,
impressione e sgomento sono
enormi. «Trenta aprile 1982, nove
e trenta del mattino. Non c'erano
ancora i telefonini. Ma bastò un
passaparola
commosso
e
frenetico, sintetizzato nella pagina
strappata di un quaderno a
quadretti e affissa con lo scotch a
una delle statue dei Quattro Canti,
nel cuore di Palermo, con
l'annuncio in lettere maiuscole:
HANNO
AMMAZZATO
IL
COMPAGNO PIO LA TORRE TUTTI
AL POLITEAMA». In poche ore
accorsero in centinaia; migliaia e
migliaia il 2 maggio parteciparono
ai funerali, e anche in tante città
la sinistra scese in piazza nel
4 di 11
nome di Pio.
Morto ammazzato dalla mafia,
aveva 55 anni; per il duplice
omicidio in cui perse la vita anche
il suo autista - il compagno
Rosario Di Salvo, «un uomo
gentile, guidava senza scosse,
anche il volante lo teneva con la
punta delle dita e parlava piano
con la sua voce profonda. Altro
che autista, le riunioni se le
sorbiva tutte, perché gli piaceva
la politica, quella dei militanti
comunisti come lui, e gli piaceva
la politica di Pio» - sono stati
condannati ormai definitivamente
all'ergastolo
in
diversi
procedimenti i componenti della
commissione di Cosa Nostra
Salvatore
Riina,
Bernardo
Provenzano, Pippo Calò, Giovanni
Brusca e Antonio Geraci, i killer
Giuseppe Lucchese e Antonio
Madonia (Pino Greco "scarpa" nel
frattempo era stato ucciso nella
guerra di mafia, come pure Mario
Prestifilippo,
mentre
il
collaboratore
di
giustizia
Salvatore Cucuzza, giudicato con
rito abbreviato, ha avuto una forte
riduzione della pena). «Il processo
ai
mandanti
occulti
dopo
trent'anni è probabile che non si
faccia mai», concludono gli autori.
Pio
La
Torre,
una
morte
annunciata. Quando i killer lo
trucidano insieme a Rosario in
piazzale Turba, lui è segretario
regionale del Pci in Sicilia, ha alle
spalle
dieci
anni
di
vita
parlamentare
e
sull'isola
è
all'epoca impegnato soprattutto
sul fronte della battaglia contro i
missili a Comiso. Vita e morte di
Pio; è scritta tutta lì dentro, nella
sua lunga lotta di comunista per
gli ideali in cui crede, libertà e
giustizia sociale.
Povero, figlio di contadini poveri
e
analfabeti,
riesce
miracolosamente a studiare (si
laureerà in Scienze politiche), e a
sedici anni è già da "quella" parte,
lì dove resterà, da combattente,
fino al tragico appuntamento di
piazzale Turba. Ucciso sul campo,
perché i killer lo fermano per
sempre mentre sta andando ad
organizzare una manifestazione
per Comiso.
"Dentro", nel vivo delle grandi
lotte contadine per la terra (sono
i tempi cruenti dei baroni
latifondisti, dei gabellotti, di
Portella
della
Ginestra,
di
Salvatore Giuliano e di Placido
Rizzotto): Pio a vent'anni è in forza
alla Camera del Lavoro di
Altarello, il suo paese; ed è un
22 June 2012
"costruttore di partito" (fonda tre
sezioni del Pci nella zona dove
comanda la famiglia mafiosa più
forte, che decreterà: «Stu partito
non lo possiamo digerire»); poi si
impegna nella Federterra (sono gli
anni
altrettanto
cruenti
dell'occupazione della terra e
dell'eccidio di Melissa (subirà lui
stesso 17 mesi di carcere);
diventa segretario della Camera
del Lavoro provinciale di Palermo;
nel '62 è segretario regionale del
Pci succedendo a Macaluso.
Il ragazzo povero di Altarello ha
scelto la strada del "rivoluzionario
di professione", la via non proprio
lastricata
del
funzionario
comunista. «Andavo a dormire in
via Gaspare Palermo, dove il
segretario
della
Federazione,
Pasquale De Pancrazio, aveva una
stanza in famiglia insieme al
segretario della Fgci, Emilio
Arata». E poiché Arata «era
piccolino di statura, si decise che
io potevo dormire nel letto
insieme a lui. Era una situazione
un po' scomoda. Eravamo senza
stipendio», racconta nel suo libro
autobiografico.
Nel 1972 viene eletto deputato,
sesta
legislatura:
sostituirà
Girolamo
Li
Causi
nella
Commissione
parlamentare
d'inchiesta sulla mafia. In seno
all'Antimafia, La Torre lavora con
Cesare Terranova, il magistrato
che sarà ucciso dalla mafia nel
1979. E' infatti in corso quella che
viene chiamata "la seconda
guerra di mafia", iniziata nel 1978
con
l'omicidio
di
Peppino
Impastato e conclusa nell'83 con
l'autobomba che uccide Rocco
Chinnici, la sua scorta e il portiere
dello
stabile
(passando
tra
centinaia di delitti politico-mafiosi,
alcuni anche "eccellenti", come il
segretario della Dc Reina, il
presidente dc della Regione
Piersanti Mattarella). E il gen.
Alberto Dalla Chiesa è ucciso nel
settembre dello stesso 1982.
Ha il nome di Pio La Torre la legge
che Cosa Nostra non può
perdonare (e non gli perdonerà).
La legge che oggi porta il n. 646:
composta di 34 articoli suddivisi in
sei capitoli, «con l'introduzione del
416 bis nel Codice penale segna
una svolta storica nell'impegno
dello Stato contro la mafia. Essa è
una legge sistema, che introduce
modifiche
nella
legislazione
penale, in quella processuale e
sostanziale». L'art.1 stabilisce:
«Chiunque fa parte di una
associazione di stampo mafioso è
ombrerosse
punito». E stabilisce:
«Nei confronti del condannato è
sempre obbligatoria la confisca
delle cose che servirono o furono
destinate a compiere il reato e
delle cose che ne sono il prezzo, il
prodotto, il profitto o costituiscono
l'impiego».
Pio La Torre deve morire.
Tav, alta voracità
15/06/2012 di Maurizio Pagliassotti
(Ombre Rosse)
E’ passato un
anno da quando
con
un
blitz
degno dei più
truculenti
film
d’azione lo Stato
è
riuscito
a
mettere le mani
su un pezzettino di territorio
difeso permicamente dal suo
popolo. Un anno in cui lo Stato
non è riuscito a rispondere, se non
con la repressione del dissenso,
alla domanda che aleggia in
sempre più vaste schiere della
popolazione italiana: cosa fare di
un minoranza che ha ragione?
Una minoranza che, tra l’altro, in
questo tumultuoso anno appena
passato ha ampliato le sue
dimensioni
infiltrandosi
trasversalmente all’interno di ogni
appartenenza
sociale
ed
ideologica.
La risposta, come si accennava, è
stata
esemplare:
avanti
il
controllo del territorio strappato in
battaglia con l’uso delle forze di
polizia ed anche dell’esercito. E
basta. Perché oltre a questo di più
non v’è. A meno che per “inizio di
lavori nel cantiere” si intenda la
costruzione di un recinto degno di
una base militare ed il taglio di
una decina di castagni secolari.
Una inutile dimostrazione di forza
dai costi non precisati che
impegna ogni giorno decine di
militari nella difesa di un deserto
dei tartari italiano.
Uno spreco di forze e risorse che
ha fatto esclamare ad un alto
ufficiale dell’Arma dei Carabinieri:
«A Chiomonte sono impegnati
troppi uomini che servirebbero
maggiormente in città». Gli
uomini di cui parla il generale
hanno difeso il nulla nei mesi
torridi dell’estate, poi hanno visto
l’autunno e le sue foglie, poi è
5 di 11
arrivata la neve a congelarli fino
ad aprile, poi è stato il tempo della
nuova primavera e adesso è
nuovamente tempo di estate
torrida. Sempre lì. A girare per il
cantiere, a tener d’occhio i val
susini che con ostinazione hanno
continuato, col sole o con la
pioggia, a disturbare i “lavori”.
Uno spreco di risorse che ha reso
ancor più dura la volontà di
resistenza
da
parte
della
popolazione perché mentre il
paese fallisce ogni tipo di governo
non riesce a svincolarsi dalla
logica del buco nella montagna
che crea ricchezza. Questo nella
migliore delle ipotesi che prevede
la buona fede dei decisori.
E,
tra
pochi
giorni,
sarà
nuovamente
tempo
di
contestazioni pesanti perché il
campeggio Notav sta per ripartire
e come un anno fa, si svolgerà a
pochi metri dalle prime reti che
proteggono il “cantiere”. Al di là
di ciò, quest’anno è stato invece
surreale. Oltre alle continue
manifestazioni di protesta, i
ricercatori e gli uomini di cultura
che hanno sottoscritto l’appello
contro la realizzazione dell’alta
velocità sono passati da 360 e
oltre 1700. Il Portogallo ha cassato
la sua parte di tratta sul famoso
Corridoio n 5. La Cmc di Ravenna,
la cooperativa che realizzerà il
tunnel geognostico ha subito
un’apertura d’inchiesta a Milano
nell’ambito degli appalti relativi
all’altra mega opera Expo 2015.
La gara al massimo ribasso, le
sette offerte più vantaggiose tutte
sotto la «soglia di anomalia»,
sospetti su fughe di notizie
segrete, funzionari compiacenti e
l'ipotesi di un cartello d'imprese
che
avrebbe
inquinato
le
procedure
e
aggiustato
l'assegnazione dei lavori. Fin qui,
lo
scenario.
L'accusa,
ora:
turbativa d'asta. La Procura ha
messo sotto inchiesta il primo
appalto
di
Expo,
la
maxi
commessa da 90,4 milioni (più
altri 6,8 milioni di oneri sicurezza)
per
«la
rimozione
delle
interferenze presenti nel sito
espositivo», e cioè la pulizia e lo
sgombero dell'area che ospiterà i
padiglioni internazionali nel 2015.
Gli investigatori della Guardia di
Finanza hanno messo sotto la
lente d’osservazione le buste sono
state aperte il 20 ottobre 2011.
La vincitrice ha offerto un ribasso
d’asta pari al 42,83% rispetto alla
base d'asta (58,5 milioni anziché
22 June 2012
90,4), al di là quindi del limite
imposto dalla società Expo 2015,
il 38,396%.
Il criterio del massimo ribasso,
voluto dalla precedente giunta
milanese, era stato cambiato
dall’attuale sindaco Pisapia. La
vicenda
appare
interessante
perché i soggetti coinvolti forse
saranno gli stessi che eseguiranno
i lavori del tunnel di base. Se mai
inizieranno.
Poi ci sono le note di colore: il libro
Tavsì , finalmente un libro a favore
della Tav. Scritto da due esponenti
del Partito Democratico torinese è
scaricabile
da
internet.
Nonostante la battente campagna
pubblicitaria cittadina pare non
abbia
avuto
un
travolgente
successo di pubblico. Anzi, il Pd
ha dovuto ingurgitare palate di
veleno
perché
due
comuni
storicamente fedeli (Avigliana e
Rivalta), sono stati conquistati da
liste dichiaratamente Notav. Il
caso di Avigliana è esemplare: qui
il partito di Bersani nel tentativo
di spostare il paese sul fronte dei
favorevoli all’alta velocità ha fatto
un accordo con Pdl e centro,
dando vita a quella che sarà la
futura marmellata nazionale. Un
accordo tra Notav di ogni
schieramento politico (compreso il
M5S) ha bloccato questa deriva.
Un anno in cui la lobby pro tav
è salita direttamente al governo:
il sottosegretario Ciaccia era
l’amministratore
delegato
e
direttore generale di Banca
Infrastrutture
Innovazione
e
Sviluppo (braccio operativo di
Intesa Sanpaolo nel finanziamento
delle grandi opere). Corrado
Passera non è nemmeno il caso di
ricordare il suo curriculum, idem
per la Fornero. Tutti pezzi di Intesa
Sanpaolo, banca di sistema nella
grandi opere per eccellenza. Basti
ricordare gli 800 milioni di euro
garantiti dallo Stato prestati per le
Olimpiadi Invernali di Torino 2006.
Giochi costati sei volte più di
quanto preventivato secondo gli
studi dell’Istituto Bruno Leoni.
L’avvocato
difensore,
poi
decaduto ovviamente, di Paolo
Comastri,
amministratore
delegato di Lyon Turin ferroviaiere,
Paola Severino, è stata nominato
ministro della giustizia. L’inchiesta
risale al 2005: mentre infuriava la
solita battaglia tra la popolazione
e
le
forze
dell’ordine
per
ombrerosse
l’occupazione del territorio, la
Procura di Torino si trovò a
indagare l’allora viceministro delle
Infrastrutture, Ugo Martinat, oggi
defunto, numero due di Pietro
Lunardi. I pm si concentrarono
sulle opere stradali legate alle
Olimpiadi e, appunto, al Tav. Il
processo di primo grado si è
concluso nel maggio scorso con
otto condanne tra cui quella di
Comastri
a
otto
mesi
di
reclusione. Oggi è in attesa della
sentenza di appello.
Expo 2015, protocollo di
illegalità
15/06/2012 di Daniele Nalbone
(Ombre Rosse)
Che Expo 2015
non fosse quel
carrozzone
dorato celebrato
a
Parigi
nel
gennaio 2011 in
pompa magna dall'allora sindaco
di Milano Letizia Moratti era cosa
nota. Che fosse più un baraccone
politico che non una reale
occasione di sviluppo, idem. E,
ovviamente, è normale che oggi le
dimissioni dell'attuale sindaco,
Giuliano Pisapia, dal ruolo di
commissario straordinario per il
Grande
evento
occupino
le
(poche) pagine di cronaca che si
dedicano
alla
manifestazione
giunta ormai a poco più di mille
giorni dal suo inizio.
Quello che stiamo però per
portare alla vostra attenzione non
è
un
problema
secondario,
tutt'altro. Perché mentre tutti i
giornalisti erano impegnati a
capire perché Pisapia avesse
deciso, proprio ora, di rassegnare
le dimissioni dal sempre più
scomodo ruolo di commissario, in
provincia
il
12
giugno
il
capogruppo della lista civica
Un'altra
provincia-Prc-PdCi,
Massimo
Gatti,
presentava
un'interrogazione
urgente
al
presidente
Guido
Podestà,
all'assessore al Territorio Fabio
Altitonante
e
all'assessore
all'Expo, Silvia Granero, avente ad
oggetto "Controlli sulla legalità
degli appalti per Expo 2015".
Come detto, non una cosa da
poco.
L'interrogazione di Gatti parte da
una premessa e da un protocollo.
La premessa è che la Provincia di
6 di 11
Milano è azionista della società
Expo 2015 Spa con un totale di
azioni (del valore di un euro l'una)
di oltre un milione, pari al 10% del
capitale sociale.
Il protocollo è quello "di legalità"
che la Prefettura di Milano e la
società Expo 2015 Spa hanno
sottoscritto lo scorso 13 febbraio
in base al quale la società Expo,
«in
qualità
di
stazione
appaltante», è «responsabile della
sicurezza delle opere che appalta,
anche
sotto
il
profilo
dell'antimafia, ed ha il compito di
garantire verso gli organi deputati
ai controlli il flusso informativo dei
dati relativi alla filiera delle
imprese che, a qualunque titolo,
partecipano all'esecuzione delle
opere».
Peccato,
però,
che
questo
protocollo sia stato firmato con
circa quattro mesi di ritardo
rispetto all'affidamento del primo
appalto di Expo 2015 alla
Cooperativa muratori e cementisti
- Cmc di Ravenna, sottoscritto il
20 ottobre 2011, per quanto
concerne gli interventi relativi alla
rimozione
delle
interferenze
presenti nel sito Espositivo Expo
Milano 2015, in quel di Rho.
Ebbene, quella gara di appalto è
stata aggiudicata con il sempre
meno chiaro sistema del massimo
ribasso, che nel caso è stato
addirittura del 42,83 per cento
rispetto alla base d'asta di circa
97 milioni di euro. In quella gara
d'appalto si classificò al terzo
posto la Locatelli Spa, società
balzata agli onori della cronaca
nell'inchiesta
dello
scorso
dicembre relativa a una maxi
tangente di 50mila euro versata
all'allora
vicepresidente
della
Regione Lombardia (si veda
Liberazione) Franco Nicoli Cristiani
(Pdl) al fine di "ammorbidire" i
controlli sulla realizzazione di una
discarica di amianto a Cappella
Cantone, in provincia di Cremona.
Ed è proprio a partire da questa
inchiesta che la Procura di Milano
ha aperto un fascicolo con l'ipotesi
di reato di turbativa d'appalto in
relazione alla gara vinta dalla Cmc
di
Ravenna.
Il
motivo?
Semplicemente il classico schema
del subappalto. Non si sa come,
non si sa perché, alla fine nel giro
di soldi mossi dalla "rimozione
delle interferenze" nel sito di Rho
che ospiterà i padiglioni della
Fiera è entrata - come società
22 June 2012
subappaltatrice - la Testa Battista
& C. di Ghisalba (Bergamo),
praticamente da sempre socia
d'affari del gruppo Locatelli e,
come denuncia il consigliere
provinciale Massimo Gatti nella
sua
interrogazione
urgente,
«coinvolta
nell'inchiesta
sulla
discarica di Cappella Cantone».
Primo risultato del primo appalto:
vedere tra le ditte subappaltatrici
chi è indagato per aver dato
mazzette a consiglieri regionali.
Nel medesimo cantiere figura
impegnato il Consorzio Stabile
Litta, il cui vicepresidente è
indagato per una tangente di
30mila euro che risulterebbe
pagata all'ex consigliere regionale
Angelo
Giammario
per
l'affidamento di appalti per la
manutenzione e sistemazione del
verde pubblico in Brianza.
Non male per il primo appalto di
Expo. Ma non finisce qui.
Sempre in quel di Rho opera la
Elios Srl, società piacentina che,
spiega
Gatti
nella
sua
interrogazione, «è implicata in
un'inchiesta nel novarese per
traffico illecito di rifiuti con
tentativo di infiltrazione mafiosa».
A partire dai nomi di queste
società
coinvolte
nell'appalto
"numero uno" di Expo, lo scorso
23
maggio
la
Direzione
investigativa antimafia di Milano
ha effettuato un sopralluogo nel
cantiere pochi giorni dopo che
l'Asl di Rho ha bloccato ben tre
camion che stavano portando nel
cantiere dei carichi di terra di
riporto già inquinati. Guarda caso
proprio
lo
stesso
sistema
applicato
nei
cantieri
della
BreBeMi dalla ditta Locatelli (si
veda Contropiano).
Per
questo
il
consigliere
provinciale Gatti ha posto quattro
interrogativi al presidente Podestà
e agli assessori competenti: se la
Provincia
sta
verificando
l'attuazione del Protocollo di
legalità; quali esiti hanno portato i
controlli effettuati; quali iniziative
verranno prese in futuro; se la
Provincia ha intenzione di farsi
parte attiva per interrompere i
lavori del cantiere e fare una
nuova gara d'appalto.
Domande alle quali segue quella
di una parte di cittadinanza,
riunita nel Comitato No Expo, che
si chiede «se esiste un cartello tra
i politici che amministrano la
Regione Lombardia e le società
ombrerosse
che lavorano nel cantiere di Rho».
Una domanda alla quale sono loro
stessi a rispondere: «A guardare
gli intrecci tra le società che
hanno partecipato alla gara
d'appalto,
le
società
subappaltatrici e alcuni politici
lombardi già indagati per aver
preso mazzette da queste società,
sembrerebbe di sì».
Ed è anche per questo che
Antonello Patta, segretario del Prc
e portavoce della Federazione
della Sinistra di Milano, si dice
convinto, «anche alla luce delle
polemiche
dimissioni
da
commissario
straordinario
di
Giuliano Pisapia», che «sarebbe
opportuno che si facesse un passo
indietro, rinunciando ad ospitare
Expo 2015».
Una scelta dovuta a vari fattori,
in primis a quello politico: «Pisapia
- spiega Patta - è sceso dal
carrozzone Expo in primis per la
decisione del Governo di non
derogare al patto di stabilità. I
costi di Expo, evento di portata
nazionale, ricadrebbero quindi
solo su Milano e sulle sue
disastrate casse». E sulla stessa
scia si inserisce la convivenza con
Formigoni alla testa dell'evento:
«Formigoni va in giro come
testimonial di una manifestazione
le cui conseguenze negative
sarebbero scaricate tutte su
Pisapia e sul Comune».
Due motivi per cui «tornare
indietro
sarebbe
quantomai
saggio. Che Expo la prenda in
carica il Governo». Anche perché,
chiude Patta, «quanto avvenuto
nel primo appalto di Expo
dimostra fino a che livello arrivino
le infiltrazioni della criminalità a
Milano: c'è un cartello, e l'asse
Nicoli Cristiani–Locatelli ne è la
prova, tra imprenditoria criminale
e politica talmente saldo e
radicato
che
dovrebbe
far
riflettere. In fondo, la Lombardia
è la terza “economia criminale”
d'Italia e, stando alle ultime
relazione
della
Direzione
distrettuale antimafia, sono ben
tredici i politici che sono stati
eletti direttamente con i voti della
criminalità organizzata».
Zero tituli. Alta mafia
15/06/2012 di Mrc (Ombre Rosse)
7 di 11
Mica sempre si ha la coppola
storta. Mica sempre si usa la
lupara. Mica sempre si scioglie un
bambino nell'acido. A volte può
bastare avere una banca.
Fabrice Tourre, Ray Dalio, Stephen
Schwarzman,
Jamie
Dimon,
Vikram Pandit, Carl Icahn, Bob
Diamond, John Paulson, Jerome
Kerviel, Kweku Adoboli, questi
dieci nomi vi dicono qualcosa?
Certo che no. Sconosciuti a tutti
noi comuni mortali, sono invece
notissimi al 56mo piano di quei
grattacieli che fanno capo a Wall
Street. I "magnifici Dieci", i dieci
"tipi" che hanno in mano il famoso
Mercato, quello che se si arrabbia
sono cavoli nostri.
Quando ci dicono che Il Mercato
non gradisce, sono loro; che Il
Mercato alza i prezzi, sono loro;
che fa crollare i prezzi, sono loro;
che fa crollare le Borse, sono loro;
che crea la speculazione, sono
loro. i Magnifici Dieci del Dio
Mercato, che appunto, anche lui,
vede e provvede.
I Dieci sopra nominati infatti
rappresentano il Gotha della
Finanza e dei Mercati mondiali,
per dire: Goldman Sachs, Societé
Genérale, Ubs, Barclays, J P
Morgan, Citigroup... Per dire, nomi
e cognomi delle più grandi rapine
planetarie dette anche operazioni
bancarie. Nomi e cognomi delle
truffe,
delle
perdite
e dei
guadagni più grandi del mondo.
Vere stragi. A colpi di "bolle",
hedge fund, derivati, hot shots,
bond, trading, mai un colpo di
lupara. Alta Mafia.
Finestra sul mondo.
Legislative francesi, in
attesa del secondo turno
15/06/2012 di Fabio Amato (Ombre
Rosse)
I risultati elettorali del primo turno
in Francia hanno stupito per il
livello di astensione raggiunto.
Solo il 58 per cento dei francesi
ha scelto di votare per eleggere la
nuova assemblea nazionale. Una
percentuale del 20 % inferiore a
quella ottenuta nelle elezioni
presidenziali di poche settimane
prima. In
realtà
il
problema
dell’astensione
è
spiegabile
proprio con la vicinanza delle
consultazioni presidenziali con
22 June 2012
quelle
legislative.
Un
cambiamento
introdotto
da
Sarkozy che sgonfia le seconde a
discapito delle prime, portando a
quell’effetto
che
giustamente
Pierre Laurent, segretario del PCf,
ha
definito
di
“presidentalizzazione”
delle
elezioni politiche. Buona parte del
corpo
elettorale,
archiviato
Sarkozy, ha pensato che ciò fosse
sufficiente
a
determinare
il
cambiamento auspicato e si è
astenuto. Un’altra parte, invece,
ha voluto rafforzare proprio il
partito del Presidente eletto, che
ha goduto di un indubbio effetto
di
trascinamento,
abilmente
ottenuto anche con l’annuncio di
misure che andavano incontro alle
aspettative del popolo della
sinistra, quali quelle sull’età
pensionabile. E’ molto probabile
che d’ora in poi Hollande inizi a
comunicare quelle dolorose, visto
che la crisi avanza e che su
questioni quali il fiscal compact e
la politica economica i nodi
verranno al pettine adesso. Il suo
asse con Monti e, allo stesso
tempo, il suo ignorare la Grecia e
le richieste di Syriza (sospensione
del
Memorandum
e
rinegoziazione),
non
lascia
presagire grandi cambiamenti
nell’impianto liberista temperato
che
caratterizza
le
socialdemocrazie europee.
Il bipolarismo indebolito nel primo
turno presidenziale, con i due
maggiori candidati al ballottaggio
poco al di sopra del 50 per cento,
e con alla loro sinistra e alla loro
destra due candidature oltre il
10%, Melenchon e Le Pen, viene
invece
rafforzato
in
quelle
legislative. I blocchi legati al Ps
e all’Ump si affermano entrambi
con percentuali vicine al 35 %.
Insieme raccolgono il 70 per cento
dei suffragi. Fdg e Fn, all’11% e
al 17 % alle presidenziali, arrivano
al 7 e al 13 rispettivamente.
Scompare il centro di Bayrou,
colpito
già
duramente
alle
presidenziali, e definitivamente
affondato alle legislative. Il Fronte
de Gauche ottiene, per la
precisione, il 6,8 dei voti. Rispetto
alle elezioni legislative di 5 anni
fa, aumenta del 2,1 % e di 550000
voti assoluti rispetto al 4,7
raggiunto dal Pcf. Eppure rischia
di eleggere meno deputati. E’
l’effetto del sistema a doppio
turno, un sistema pensato e
costruito
per
favorire
il
bipolarismo, e difatti cosi accade.
ombrerosse
Questa differente distribuzione è
dovuta al parallelo aumento nei
seggi di sinistra dei socialisti e dei
loro alleati, che hanno in alcuni
casi superato i candidati del Front
de Gauche, che pur arrivando al
ballottaggio,
in
virtù
della
consolidata
tradizione
repubblicana
di
sostegno
reciproco a sinistra, si ritireranno
al secondo turno in favore dei
migliori
piazzati.
E’
quanto
accaduto nel collegio dove Jean
Luc Melenchon ha combattuto una
dura e aspra battaglia contro
Marine Le Pen. Per pochi voti è
stato superato dal candidato
socialista, e Melenchon, anche se
ha raggiunto il 21% e avrebbe
potuto comunque concorrere, ha
deciso di ritirare la propria
candidatura per sostenere quella
socialista. Il Front National può per
la prima volta eleggere, e per la
prima volta si aprono crepe sul
patto repubblicano nella destra
gollista. Un segnale inquietante e
da non sottovalutare.
Domenica si vedrà se il Ps avrà la
maggioranza assoluta o meno dei
seggi all’assemblea nazionale. E’
probabile di sì, anche se le gaffe
della première dame non aiutano
l’obiettivo. Il Front de Gauche ha
comunque da tempo annunciato
che non parteciperà al governo.
Una scelta dovuta alle enormi
differenze
programmatiche.
Soprattutto riguardo alla crisi e
all’Europa. Su fiscal compact e
Unione europea, liberismo e
intervento pubblico in economia,
Hollande è incerto. Il Fdg ha
comunque
vissuto
mesi
straordinari, per partecipazione
popolare, sostegno e anche per
risultati. Certo, brucia eleggere
meno deputati, ma una nuova
dinamica si è messa in moto in
Francia. La seconda forza della
sinistra è il Fdg, ha una
dimensione di massa e un profilo
nazionale, ed è chiaramente
antiliberista. Ha le proposte per
uscire dalla crisi da sinistra.
Quella crisi su cui si misurerà la
vera natura di Hollande.
La recensione. Libia, una
rivoluzione con mamma
Nato
15/06/2012 di Tonino Bucci
8 di 11
Si può discutere
sulla
portata
reale
delle
primavere arabe,
se esse abbiano o
meno portato a
compimento
la
democrazia,
invocata
dai
protagonisti che un anno fa sono
scesi in piazza. Non c'è dubbio
però che i paesi del Maghreb e del
Medioriente siano stati sconvolti
da sommovimenti sociali di
proporzioni epocali come non se
vedevano da tempo. Regimi più
che decennali sono stati spazzati
via nel giro di pochi giorni. Le
popolazioni si sono ribellate. Le
giovani generazioni sono venute
in primo piano. Le società arabe
proliferano oggi di movimenti,
sigle,
partiti,
forze
laiche,
formazioni islamiste. Dalla Tunisia
alla Siria, il magma è ancora
ribollente.
Il senso e l'esito definitivo delle
rivolte arabe, però, non è ancora
chiaro. E' di questi giorni, per
esempio,
la
notizia
dell'annullamento delle elezioni
che si sono tenute in Egitto, vinte
dai Fratelli Musulmani. La corte
costituzionale egiziana le ha
invalidate, suscitando le reazioni
degli islamisti. Il parlamento è
stato sciolto e il potere torna nelle
mani del consiglio delle forze
armate. Oggi e domani si terrà il
ballottaggio tra l'ex primo ministro
Ahmed Shafiq e il candidato dei
Fratelli
Musulmani,
Mohamed
Mursi. In caso di irregolarità,
avvertono
questi
ultimi,
si
scatenerà
una
«grande
rivoluzione». A oggi il quadro delle
primavere
arabe
è
ancora
provvisorio,
instabile.
Troppo
presto
perché
si
possano
pubblicare
studi
esaurienti
sull'argomento. Chiunque ci provi,
deve inevitabilmente fare i conti
con una situazione ancora in
divenire. Vale anche per il libro di
Farid Adly - giornalista libico,
analista, da decenni trapiantato in
Italia e collaboratore del Corriere
della Sera - appena uscito per il
Saggiatore con il titolo La
rivoluzione
libica.
Dall'insurrezione di Bengasi alla
morte di Gheddafi , (pp. 232, euro
15). Se c'è una tesi centrale nel
volume è che la vicenda libica
debba essere interpretata e letta
all'interno dei confini nazionali
della Libia. Nella ricostruzione
degli eventi l'autore non fa alcun
riferimento
al
ruolo
eventualmente
svolto
dalle
22 June 2012
potenze occidentali che hanno
interessi
geopolitici
nell'area
mediterranea, Francia e Gran
Bretagna
in
prima
fila.
Contrariamente a molti altri
analisti, Farid Adly non ritiene che
la «maledizione del petrolio»
abbia avuto negli sviluppi della
rivolta
un
ruolo
negativo,
proporzionale
al
richiamo
esercitato sugli interessi delle
nazioni
occidentali.
La
sua
convinzione, paradossalmente, è
che la presenza dell'oro nero
renderebbe svantaggioso per i
paesi
stranieri
puntare
alla
destabilizzazione
della
Libia.
«L'interesse
del
mondo
industrializzato per il petrolio
libico, se ha mosso le diplomazie
per l'intervento, non lavorerà per
la destabilizzazione né lascerà la
situazione
in
condizioni
di
anarchia. Il paese è sotto la lente
delle diplomazie e del mondo
degli
affari.
Nessuno
degli
osservatori esterni ha interesse
alla somalizzazione della Libia e
questo è un bene».
Farid Adly punta tutto sulla tesi
della rivoluzione libica come
processo nazionale autonomo e
indipendente, al massimo favorito
dal movimento di opinione nelle
società arabe in seguito alle
“primavere". Il ruolo delle potenze
occidentali, gli interessi geopolitici
stranieri e, soprattutto, la parte
sostenuta dall'intervento militare
della Nato rimangono sullo sfondo
- ombre appena evocate. La
rivoluzione libica si spiegherebbe
completamente con gli sviluppi
della lotta coraggiosa portata
avanti da un gruppo di avvocati
e familiari delle vittime, in gran
parte islamisti, della strage nel
carcere di Abu Selim, commessa
dal regime gheddafiano nel
lontano giugno 1996. La lotta
delle
famiglie
per
ottenere
giustizia è stata «la scintilla che
ha infiammato la Libia nel 2011».
A questa si è aggiunta l'iniziativa
dell'opposizione libica all'estero di
«organizzare una giornata di
protesta contro i quarantadue
anni di dittatura». «La scintilla dei
moti, prima pacifici e che in
reazione alla violenza spietata del
regime si sono trasformati poi in
lotta armata, è stata data proprio
da quel coraggioso gruppo di
familiari delle vittime di Abu
Selim. Contro tutte le teorie del
complotto che sarebbe stato
ordito
dalle
superpotenze
internazionali, teorie caldeggiate
da molte parti interessate».
ombrerosse
Tuttavia, Adly rischia di cadere
nell'errore
speculare
al
complottismo, quello di fornire
una lettura lineare, troppo lineare,
dove non c'è spazio per nessuna
nota fuori posto.
Non convince neppure la tesi
secondo cui la rivoluzione libica
non sarebbe stata una guerra
civile. Qui Adly sconta un'analisi
piatta del gheddafismo. Se alle
spalle del regime ci fosse stata
soltanto la famiglia del rais, i suoi
fedelissimi e qualche migliaia di
mercenari, non ci sarebbe stato
bisogno dell'intervento militare
della Nato. A suo modo, il
gheddafismo aveva una propria
base materiale nella società libica,
piaccia o no, senza che questa
ammissione debba comportare
una qualche forma di nostalgia
per un regime tramutatosi in
dittatura. L'analisi del potere
ultraquarantennale di Gheddafi
che Adly compie, manca di
spessore storico. Non c'è traccia
delle differenze tra le fasi che
hanno
segnato
la
politica
gheddafiana.
Niente
è
da
prendere sul serio. La Jamahiriya
dei primi tempi? Un «mostro
infermo», nient'altro che un
«socialismo
della
povertà».
L'adesione al movimento dei paesi
non allineati? Illusione. Idem per
lo stato sociale libico. Non c'è da
trovare nessuna differenza tra il
primo Gheddafi e l'ultimo, tra
l'orientamento socialisteggiante
delle
origini,
ispirato
al
nasserismo, e la svolta liberista in
politica economica nell'ultimo
decennio.
Persino
la
nazionalizzazione
del
petrolio
compiuta contro le compagnie
britanniche dopo la rivoluzione del
1969 è considerata nulla di più di
un cinico disegno di arricchimento
personale del rais.
Molto più approfondito, invece, è
il ruolo degli islamisti, una delle
forze motrici della rivolta libica e
delle primavere arabe negli altri
paesi. L'islamismo ha dalla propria
parte non solo una forza politica
e un radicamento nella società,
grazie a un'attività di mutualismo
e assistenzialismo. Esso può fare
affidamento anche su una efficace
strategia
comunicativa.
Per
esempio, Al Jazeera, l'emittente
televisiva
del
Qatar,
ha
rappresentato
un
«fattore
importante di diffusione libera di
notizie
e
opinioni,
ma
ha
funzionato anche, vista la sua
linea editoriale, come megafono
per gli islamisti dando maggiore
9 di 11
spazio
alle
loro
istanze,
ingigantendo
il
loro
ruolo,
nascondendo le loro falle e,
qualora non fosse stato possibile,
avanzando pretesti e scuse per
coprire i loro errori». «In ogni
occasione pubblica dove ci sono
responsabili militari della nuova
Libia, l'attenzione di Al Jazeera si
concentra sull'ex capo del Gruppo
islamico
combattente
libico
(Abdelhakim Belhaj, ndr), con
zoom e primi piani, regalandogli
visibilità e popolarità». Non c'è
cenno, però, al ruolo politico
svolto da Al Jazeera nel contesto
internazionale. Eppure, sono stati
pubblicati studi che evidenziano
un intervento non neutrale della
strategia comunicativa messa in
campo dall'emittente televisiva.
Basta leggere il “Glossarietto delle
bufale belliche" di Karim Mezran,
direttore
del
Centro
studi
americani di Roma, nel Quaderno
speciale della rivista Limes La
guerra di Libia , una puntuale
ricostruzione delle informazioni
distorte fornite dai mezzi di
comunicazione di massa sulle
vicende libiche. Alcune notizie che
poi si sono rivelate infondate - per
esempio, quella relativa a una
fossa comune segnalata nei pressi
di Tripoli nei primissimi giorni della
rivolta - hanno condizionato
l'atteggiamento
dell'opinione
pubblica
internazionale
e
costruito il consenso nei confronti
dell'intervento militare della Nato.
Farid Adly non approfondisce se e
in quale misura Al Jazeera possa
aver rappresentato gli interessi
geopolitici del Qatar e preferisce
darne una lettura più circoscritta,
tutta interna ai confini nazionali
della Libia. Il protagonismo di Al
Jazeera,
insomma,
sarebbe
soltanto uno dei sintomi del
confronto/scontro tra le due
principali forze che hanno dato
vita alla rivolta libica e, in
generale,
a
tutte
le
altre
primavere arabe: da un lato, il
fronte dei laici e della sinistra,
dall'altro, quello degli islamisti.
«La questione islamica è al centro
delle Primavere arabe». «La salita
al potere dei cosiddetti islamisti
era prevedibilissima». In Tunisia,
in Egitto, in Libia ci si interroga
sulla legge islamica e se inserire
la religione di Stato nelle nuove
Costituzioni e in quale misura ciò
sia possibile senza ledere i diritti
individuali e civili, in particolare
quelli delle donne e delle
minoranze religiose. Tuttavia gli
islamisti «hanno preso parte al
22 June 2012
movimento per il cambiamento»
assieme alle fazioni liberali e di
sinistra. I risultati delle urne vanno
accettati.
«Bisogna
cambiare
l'opinione
stereotipata
ed
estirpare
il
pregiudizio.
Gli
islamisti di oggi non sono quelli
di una volta (tranne gli estremisti,
quelli che abbracciano ancora la
via armata) e non fanno paura alle
altre forze democratiche arabe,
perché insieme hanno percorso un
lungo cammino di lotte per i diritti
e contro le dittature, mentre in
passato le divisioni erano state
utilizzate per mettere le forze
d'opposizione le une contro le
altre».
Il dibattito, però, rimane aperto.
Un conto è riconoscere l'Islam
come religione della maggioranza,
altro dichiararla religione di Stato.
In quest'ultimo caso, verrebbe
meno
il
principio
della
«uguaglianza di fronte alla legge,
nei diritti e nei doveri, di tutti i
cittadini, senza distinzioni di fede,
origine etnica, genere o colore
della pelle». Nella società libica i
praticanti musulmani sono la
stragrande maggioranza, però
l'Islam politico è un fenomeno di
importazione.
«L'unico
movimento
politico
religioso
libico, anche se il suo fondatore
era di origine algerina, è la
confraternita della Senussia, che
si basa su un'interpretazione
letterale del testo coranico, ma è
contraria a ogni fanatismo, e in
campo civile ha una visione
avanzata
perché
basa
l'organizzazione della comunità
sull'austerità e sul lavoro». Ciò
non
toglie
però
che
già
all'indomani della conquista di
Tripoli da parte dei ribelli si sia
manifestato uno scontro tra laici
e islamisti, destinato a riprodursi
anche all'interno del governo
provvisorio.
Il protagonismo delle giovani
generazioni è l'altro fattore messo
a fuoco nel volume. «Il male più
oscuro che colpisce la gioventù
libica è quello della frustrazione
a causa della disoccupazione. In
Libia i giovani sotto i venticinque
anni rappresentano il 47 per cento
della
popolazione,
e
la
percentuale dei disoccupati è più
alta che in Egitto». Non a caso,
le prime avvisaglie della rivolta si
sono
verificate
a
gennaio,
contemporaneamente
alla
rivoluzione
tunisina,
con
l'occupazione di case popolari e
l'assalto ai cantieri delle ditte
edilizie straniere da parte di
ombrerosse
giovani.
Infine, il ruolo della Nato nella
rivoluzione libica. Per trovarne
cenno, bisogna attendere quasi
duecento pagine, alla fine del
libro. L'argomento è liquidato in
poche battute. «Quale futuro per
la Libia, dopo la morte di Gheddafi
e del suo regime? - si chiede Farid
Adly. «Per la prima volta nella
storia del paese, i libici hanno il
destino nelle proprie mani. La
Nato ha fatto il suo lavoro con il
minimo di vittime civili, anche se,
secondo un mio parere politico e
non tecnico, nell'ultima fase è
stato superato certamente il
mandato
internazionale
sulla
protezione della popolazione, e
l'Alleanza Atlantica si è assunta il
compito di cambio del regime. Alla
coalizione internazionale arabooccidentale va riconosciuto il
merito di aver mantenuto la
parola data e, alla conclusione del
reale pericolo, la Nato ha
dichiarato la fine della missione».
Tutto qui. Così è andata, così
doveva andare. Neppure un
tentennamento, non un dubbio.
Anzi, Adly ribadisce la sua
posizione “interventista", «senza
infingimenti e senza giri di
parole». «Sono assolutamente
d'accordo con i bombardamenti
alle truppe di Gheddafi in marcia
su Bengasi. Se non ci fosse stato
il bombardamento, deciso dai
governi di Stati Uniti, Francia e
Gran Bretagna sabato 19 marzo
2011
alle
17.45,
dopo
l'approvazione della risoluzione
1973 del Consiglio di sicurezza
dell'Onu, adesso saremmo qui a
piangere centinaia di migliaia di
vittime della mia città». Ma
davvero all'intervento militare
della Nato non c'era alternativa?
Davvero non c'era spazio per una
trattativa politica? Per quale
motivo si è preferito respingere al
mittente tutte le offerte di
mediazione
del
regime
gheddafiano
senza
neppure
premurarsi
di
verificarne
l'attendibilità? Quella libica è stata
una rivoluzione compiuta - è il
caso di non nasconderlo - sotto
l'ombrello protettivo di mamma
Nato.
Una
mamma
molto
ingombrante che in genere non si
muove a titolo gratuito. Anche se
ammette a denti stretti che
«nell'ultima fase è stato superato
il mandato internazionale sulla
protezione della popolazione» e
che
l'Alleanza
Atlantica
ha
operato
direttamente
per
il
«cambio
di
regime»,
10 di 11
sull'argomento
Farid
Adly
è
reticente. Non si può alludere tra
le righe al fatto che la Nato abbia
forzato i limiti della propria
mission e strumentalizzato le
sofferenze della popolazione civile
al fine di cambiare il governo
politico della Libia con la forza
delle bombe e, poi, lasciare
inalterata la propria analisi della
rivoluzione libica. L'intervento
militare dell'Alleanza Atlantica
non
è
stato
un
dettaglio
marginale.
La «rivoluzione libica» ha ancora
molta strada da percorrere. Non
si tratta soltanto di gestire il
dibattito sul ruolo dell'islamismo
all'interno di quella che sarà la
nuova
Costituzione.
C'è
il
problema di costruire le premesse
di una economia alternativa agli
idrocarburi, ad esempio, o di
incoraggiare
una
rivoluzione
culturale in una società che resta
«fortemente
maschilista».
O,
ancora,
di
dare
soluzione
istituzionale a un paese dalla
incerta identità nazionale e checché se ne dica - oggetto di
interessi economici stranieri. La
via è lunga.
Musica. Esce
“Americana" di Neil
Young, un ritorno alle
origini
15/06/2012 di Ugo Buizza (Ombre
Rosse)
Neil Young per
una volta si libera
dall’impegno
di
dover
scrivere
brani originali e
per
uno
che
possiamo
tranquillamente considerare tra i
primi 10 songwriters nella storia
22 June 2012
della nostra musica, non è poco.
Lo scorso 5 giugno è stato infatti
pubblicato “Americana” , album di
Neil Young che segna, dopo sedici
anni, il ritorno al gran completo
della collaborazione con i fidi
Crazy Horse. Sono 11 tracce in cui
il Nostro rilegge , alla sua
maniera, pezzi che appartengono
alla storia della Nazione America.
Scelta conformista per suoni e
versioni anticonformiste dove le
chitarre sgangherate di Young e
Frank
“Poncho”
Sampedro,
trasformano melodie folk in
chilometriche disgressioni che
suonano come della jam sessions
suonate in vecchi granai di legno
in qualche prateria. La copertina,
in uno splendido seppiato, mostra
una vecchia foto del 1975 con Neil
e i Crazy Horse, sovrapposta a
una foto di Geronimo di 70 anni
prima su un’automobile del primo
Novecento. Il retro, invece, è
Cavallo
Pazzo
che
cavalca
selvaggio
volando
su
una
carovana di pionieri. Il contrasto è
evidente e il gioco dei contrasti è
ancora più evidente nelle musiche
di “Americana".
Young
ferma
con
musiche
adrenaliniche,
vecchi
testi.
Rilegge “Oh Susannah” (peraltro
già provata live lo scorso
novembre in uno splendido duetto
con Dave Matthews), con un
ritornello contagioso e un ritmo
quasi funky, la tragica canzone
“Clementine” (storia di una
tragedia in una miniera) è pervasa
da
un
oscuro
senso
di
disperazione, che rimanda alla
sua grande “Down By The River”
per l’epica del racconto. La
famosa “Tom Dula”, meglio
conosciuta come “Tom Dooley”
che molti ricorderanno nella
versione folk dei Kingston Trio, è
resa con brutalità e senso del
tragico come una marcia Zombie
al ritmo dei Crazy Horse. Radici
ombrerosse
Doo Wops riecheggiano, con la
sezione ritmica del basso di Billy
Talbot e il drumming di Ralph
Molina, in una festosa “Get A Job".
Crazy Horse? Forse la migliore
garage band di tutti i tempi… La
splendida “Wayfaring Stranger" ci
mostra il Neil Young più intimista.
La sua è una splendida versione
anche se io adoro quella di
Emmylou Harris (ma anche quelle
di Johnny Cash e di Peter Paul And
Mary non erano male). Non
poteva mancare Woody Guthrie
con il classico “This land is Your
land” , ove troviamo, alle voci, la
moglie Pegi e l’amico/nemico
Stephen Stills. Il canadese sembra
davvero divertirsi a pescare nel
passato, ricordando forse i suoi
esordi nel 1963 con gli Squires , si
diverte a santificare e nello stesso
tempo a dissacrare un’epoca. A
dipingere di nuovi colori, vecchi
quadri. Gli stessi Led Zeppelin non
avevano osato tanto quando, nel
1970 fecero una cover di “Gallows
Pole”. Ascoltate la versione di
Young e vi renderete conto di
come la sua personalità abbia
permesso di dare nuove vesti a
vecchi brani. Quasi un approccio
punk, iconoclasta. Non è un caso
quindi
che
l’ultimo
brano
dell’album sia “God Save The
Queen”, nulla a che vedere con
la furbata dei Sex Pistols, non è
infatti una scelta irriverente, ma
un ripescaggio culturale. Il brano
appartiene anche alla storia
americana. Un giudizio, quindi,
complessivamente positivo. Per
quanto mi riguarda adoro il fatto
che Neil Young se ne freghi delle
leggi di mercato (è vero se lo può
anche permettere). Che pubblichi
ciò che vuole senza seguire la
ferrea legge dei discografici. Ben
vengano, quindi, altri Archives,
altre covers, altri dischi elettrici
alternati
a
morbide
ballate
acustiche. Buon ascolto!
11 di 11