ombrerosse - 22 June 2012 (www.miogiornale.com)
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controlacrisi.org di Ombre Rosse - 22 June 2012 miogiornale.com Mafia & Co, lo sporco groviglio tra politica e affari 15/06/2012 (Ombre Rosse) Il parlamento è impegnato proprio in questi giorni nella (faticosa) approvazione della nuova legge contro la corruzione. Una nascita sofferta e accompagnata da aspre polemiche e compromessi al ribasso, come sempre quando si vanno a toccare i rapporti tra economia, affari e politica. Una lentezza che sparisce quando, invece, si deve mettere mano alla riforma delle pensioni o a quella del lavoro. Ma intanto, il malaffare - che spesso va a braccetto con la criminalità organizzata - ingrassa e prospera. Come raccontiamo in questo nuovo numero di Ombrerosse : dalla gestione, privata, dei beni pubblici all’Expo 2015, dalle mani sulla Tav alla ‘ndrangheta che avanza al Nord. www.controlacrisi.org/ombrerosse L'inchiesta. La 'ndrangheta nelle nebbie: così i boss tengono in pugno l'economia del Nord 15/06/2012 di Alessia Candito (Ombre Rosse) Il 3 aprile 2012 le Procure di Reggio Calabria e Milano spiccano otto avvisi di garanzia destinati a provocare un terremoto nelle settimane successive. Tra i destinatari c’è infatti l’ormai ex tesoriere della Lega e sottosegretario del Ministro Calderoli, Francesco Belsito. Leghista d'affezione e vibonese d'origine, il cassiere del partito di Bossi è accusato dai magistrati di ben due Procure di truffa ai danni dello Stato, finanziamento illecito ai partiti e riciclaggio. Tutte operazioni nelle quali Belsito sarebbe stato coadiuvato da uomini del gotha della 'ndrangheta reggina. Sembra quasi un paradosso o una vendetta karmica, eppure proprio la Lega - il partito che ha costruito il proprio capitale politico sulla retorica anti-terroni e che fino a qualche mese fa rispondeva inviperito a chi denunciasse la presenza delle 'ndrine al Nord Italia - sembra aver legato le proprie fortune e le proprie finanze alla potentissima cosca De Stefano di Reggio Calabria. Coloro che per anni hanno tuonato contro furti e malversazioni, si scoprono coinvolti in un affare di bustarelle, fondi neri e riciclaggio 22 June 2012 che non solo ha toccato da vicino la famiglia del grande capo, Umberto Bossi, costretto alle dimissioni insieme al figlio, ma anche il fedelissimo Belsito e tutto il “Cerchio Magico”, dissolto al calor bianco dell’inchiesta. Un’indagine complicata e delicatissima, nella quale – insieme a Belsito – sono coinvolti l’oscuro procacciatore di business Romolo Girardelli, noto alle procure come vicino a Paolo Martino e Antonio Vittorio Canale, considerati gli ambasciatori della cosca De Stefano al Nord Italia e in Francia, Bruno Mafrici, nato a Melito Porto Salvo (Reggio Calabria), ma residente a Milano e socio della Mgim dell’ex Nar – anche lui calabrese – Lino Guaglianone, l'imprenditore veneto Stefano Bonet, la sua segretaria Lisa Trevisan, il promotore finanzirio Paolo Scala, Leopoldo Caminotto e Nadia Arcolin. Ed è proprio nel triangolo Belsito-Mafrici-Girardelli che, secondo gli inquirenti, si nasconde il cuore di un’inchiesta che va molto oltre una storia di ordinaria malversazione e potrebbe portare a riscrivere intere pagine della storia italiana. Pagine oscure, che sanno di stragi e di morti ammazzati, di latitanti neri in fuga coperti da servizi più o meno deviati e di un inconfessabile patto fra la 'ndrangheta e lo Stato. Una rete a maglia fitta che personaggi della Repubblica hanno iniziato a tessere fin dagli anni Settanta con la tanto evocata ombrerosse strategia della tensione, nell’ambito della quale la 'ndrangheta, o meglio alcune famiglie di 'ndrangheta, si sono dimostrate interlocutori ricettivi e attendibili. Ed in cambio hanno guadagnato l’ingresso a pieno titolo nella stanza dei bottoni non solo delle istituzioni locali calabresi, ma dell’intera Italia. Una rete nella quale è incappata la Lega, ma che va oltre il Carroccio e i suoi guai e nella quale si potrebbe nascondere la ragione ultima dell’insediamento ormai stabile della ndrangheta al Nord. Non si tratta solo di semplice colonizzazione affaristica o criminale. Ormai le 'ndrine siedono gomito a gomito con la buona borghesia lombarda nei salotti in cui si decidono i destini economici e politici del Settentrione. E non solo. A dare il metro della portata dell’indagine in corso tra Milano e Reggio Calabria è lo stesso calibro dei personaggi coinvolti o lambiti dalle indagini che i pm di Reggio Calabria e Milano stanno nel più stretto riserbo portando avanti. Sotto la lente degli investigatori passano in queste ore centinaia di milioni di terabyte di documenti custoditi nei server dello studio Mgim di Milano, di cui Mafrici è socio e nei quali potrebbero essere custodite le chiavi dell’intera indagine. Una società con uffici in via Durini 14 – a un passo da piazza San Babila, cuore della Milano da bere e della destra meneghina – e portafoglio clienti 1 di 11 di quelli che contano. Insieme a Mafrici, a gestire la Mgim ci sono Pasquale Guaglianone, ex leader della destra eversiva, attualmente nel cda delle Ferrovie Nord e presidente del collegio sindacale della Fiera Congressi di Milano, il reggino Giorgio Laurendi, che dello studio Mgim detiene il 20 per cento. Un altro reggino d'origine, Antonio Italica, fondatore dello studio, ha ceduto le sue quote nel marzo 2009. Ma non sono solo i proprietari di quell'ufficio ad avere ascendenze tutto fuorchè "lumbard". Dai locali di via Durini 14 sono passati anche i titolari delle più importanti imprese calabresi, che casualmente al Nord hanno fatto fortuna. Insieme a nomi altisonanti del mondo bancario e industriale italiano, fra i clienti della Mgim – che, stando al Registro imprese, si occuperebbe di "servizi di elaborazione dati contabili riferiti alla tenuta delle scritture contabili ed alle paghe e contributi" – vi sarebbero i Montesano, i Matacena, i Mucciola. Proprio il titolare di quest'ultima, Fabio Mucciola, romano di nascita ma con residenza e uffici a Reggio Calabria, il 15 settembre del 2009 è stato fotografato – si legge nelle carte di un'altra inchiesta della Dda milanese – davanti agli uffici di via Durini 14. Non è strano che Mucciola sia a Milano, la sua ditta da anni colleziona appalti nel capoluogo meneghino, come quello messo sul piatto nel 2008 dal Pio Albergo Trivulzio. Quello che è strano è l'uomo con cui si incontra e che lo accompagna all'interno dell'edificio: Paolo Martino, considerato la mente finanziaria del clan De Stefano a Milano e vicinissimo a Guaglianone. dei fondi neri. Ma Bonet, a sua volta è anche socio di Belsito e di Romolo Girardelli. Ed anche quest'ultimo è una vecchia conoscenza di Paolo Martino. Nel 2002 i loro nomi compaiono nell’inchiesta sulla latitanza di Salvatore Fazzalari, esponente di spicco della 'ndrangheta calabrese, che Girardelli avrebbe coperto attraverso la messa a disposizione di somme di denaro a ciò destinate – alla negoziazione, allo sconto ovvero alla monetizzazione di "strumenti finanziari atipici" di illecita provenienza". Arrestato nel marzo del 2011, nell'ambito di un'inchiesta che coinvolge il clan Flachi – reggenza tra Comasina e Bruzzano, ma radici al sud – Martino sembra essere il grande tessitore seguendo le cui tracce gli inquirenti sono arrivati a tutti gli indagati dell'inchiesta che ha messo a soqquadro la Lega. È lui che porta i pm sulle tracce di Mafrici, all'epoca consulente e uomo ombra di Belsito, ma anche "avvocato di fiducia" dell'imprenditore veneto Stefano Bonet, attraverso le cui società sarebbero stati riciclati – sospettano gli inquirenti – molti Da giovane killer, Martino cambia modi e pelle, diventa l'anima imprenditoriale degli "arcoti", il tentacolo della cosca che ha il compito di curare gli interessi dei De Stefano in Lombardia. Si trasferisce in corso Como, si muove in Jaguar, veste abiti di sartoria e frequenta politici e imprenditori. È l'uomo ombra che viene sfiorato da tutte le inchieste degli ultimi decenni, senza che nessuna riesca a toccarlo davvero. Era socio di Francesco Lampada – elemento di spicco dell'omonimo clan della 'ndrangheta milanese, ritenuto espressione diretta della cosca 22 June 2012 E Martino non è uno sconosciuto nella storia della ndrangheta. Cugino prediletto del potentissimo boss Paolo De Stefano, storicamente la massima espressione della famiglia che scrive di proprio pugno la storia della nuova 'ndrangheta, Martino inizia la propria carriera criminale da minorenne quando, a 15 anni, nel corso della prima guerra di 'ndrangheta, ha commesso un omicidio per il quale è stato condannato dal Tribunale dei minori. Terminata la condanna, si trasferisce al Nord. Dove la 'ndrangheta, fin dagli anni 70, ha iniziato a mettere radici grazie all’istituto del confino, che ha spedito boss e picciotti tra le nebbie. E dove famiglie di 'ndrangheta di ogni parte della Calabria hanno rapidamente messo radici, impiantato affari e creato nuovi centri di potere. La parabola di Paolo Martino non è che un esempio di quello che dieci, cento famiglie di 'ndrangheta hanno fatto nel corso degli ultimi trent’anni. A Milano come a Genova. A Torino come nella rossa Emilia. ombrerosse reggina dei Condello – nella società Lucky world, un'impresa che si occupa della compravendita di videopoker, poi passata nelle mani del messinese Antonino Currò, legato alle cooperative di pulizie delle figlie di Vittorio Mangano. È stato in società con la cosca Valle, ascendenza reggina e presente lombardo, ma può vantare importanti e ultradecennali conoscenze anche tra gli uomini della cosca Papalia di Bucinasco, a Milano Sud, tanto da potersi dire "ospite graditissimo" del boss Antonio Papalia nella sua villa bunker. Ma Paolo Martino ha anche tante amicizie in politica. E non solo calabresi. L'ambasciatore dei De Stefano al Nord conosce Giuseppe Scopelliti, presidente della Regione Calabria ed ex primo cittadino di Reggio Calabria, con cui Martino si incontrerà nel 2006 alla Bit di Milano e a cui presenterà Lele Mora, in seguito coinvolto dall'allora sindaco nell'organizzazione di alcuni eventi in città. Nella rete dell'ambasciatore dei De Stefano al Nord, c'è Luca Giuliante, avvocato di Mora, del presidente della regione Lombardia, Roberto Formigoni, e anche di Karima El Mahroug, meglio conosciuta come Ruby Rubacuori, ma soprattutto tesoriere del Pdl. Grazie a lui, il 18 maggio 2009, Martino non solo verrà invitato addirittura a una delle "cene eleganti" dell'allora presidente del consiglio Silvio Berlusconi, ma – dimostreranno le intercettazioni raccolte nel corso dell’inchiesta Redux – riferiva regolarmente a Martino una serie di notizie "in merito a una gara d'appalto, non meglio specificata, in cui risultano interessati i fratelli Mucciola". Se gliene avessero lasciato il tempo – stava lavorando ad un incontro – probabilmente Martino fra i suoi contatti avrebbe potuto annoverare anche il presidente di Bpm Massimo Ponzellini, recentemente finito nei guai per un finanziamento da 148 milioni di euro alla società di Atlantis di Francesco Corallo, figlio di quel Gaetano Corallo ritenuto vicino al boss di Catania Nitto Santapaola. Era un uomo importante Paolo Martino e dai contatti importanti, che direttamente o indirettamente, utilizzava per giocare partire decisive su tutti i tavoli che contano, attraverso 2 di 11 tutte le 'ndrine che a Milano hanno voce in capitolo. Come quella dei Flachi, la cosca che ha costruito il suo impero tra Bruzzano e la Comasina, smantellata dall'operazione Redux-Caposaldo. In mano al clan che ha fatto fortuna fra le nebbie, scoprono gli investigatori, non c'è solo il controllo del movimento terra e degli scavi, dei locali notturni, di cui uno – il notissimo De Sade – addirittura acquistato attraverso intermediari, della distribuzione della Tnt (ex Traco) e dei chioschi dei paninari. Secondo gli indizi raccolti dagli inquirenti, i Flachi avevano messo le mani – o almeno tentato – su molte campagne elettorali. Come quella della consigliere regionale Pdl Antonella Majolo, sorella della più celebre Tiziana, già assessore comunale a Milano, cui si era "interessato" lo stesso boss Pepè Flachi. Il figlio del boss, Davide partecipava invece a cocktail elettorali organizzati da Massimiliano Bonocore (Pdl), figlio di quel Luciano Bonocore, storico esponente della destra milanese, cofondatore del Pdl. Ma i contatti con la politica al Nord non sono una prerogativa esclusiva né di Paolo Martino né del clan Flachi. Solo per rimanere alla cronaca degli ultimi mesi, a Milano aveva il suo regno anche Giulio Lampada, il capo della famiglia inviata a Milano in nome e per conto della potentissima cosca Condello di Reggio Calabria, che attorno a sé avrebbe tessuto una fitta rete di politici, professionisti e personaggi noti sull’asse Calabria-Lombardia. Insieme a lui, travolgerà nella sua caduta nomi che fanno rumore come quello del Presidente della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Reggio Calabria, Enzo Giglio, del consigliere regionale Franco Morelli, dell’avvocato calabrese d’origine e milanese d’adozione Vincenzo Minasi e del magistrato Giancarlo Giusti. Lambiti, ma non indagati nella medesima inchiesta personaggi come Gianni Alemanno, principale sponsor politico di Morelli, o come l’attuale assessore ai Trasporti della Regione Calabria, Luigi Fedele o ancora come il consigliere comunale del Pdl Armando Vagliati e l’ex assessore della giunta Penati, Antonio Oliverio. Al di là dell’appoggio 22 June 2012 elettorale, per Vagliati – riportano le carte – il clan si spende perché conquisti una non precisata “vicepresidenza”, nel tentativo di creare un tandem politicamente trasversale ma egualmente criminale con Oliverio. In cambio, il politico “costituiva l’elemento di riferimento dei Lampada con il Comune di Milano”. Oliverio invece, già indagato e assolto nella maxi-inchiesta “Infinito”, era per il gip “individuo a disposizione della famiglia Lampada, nonché come pedina fondamentale nella rete dei rapporti politici lombardi e calabresi”. Ma le propaggini della rete dei boss della Lomellina vanno ben oltre la Calabria e la Lombardia, per arrivare fino in Emilia Romagna. E a Tarcisio Zobbi, aiutato dai Valle-Lampada nella corsa alla Camera dei deputati del 2008. E non per mera benevolenza. Quello che Giulio Lampada concede non è un appoggio casuale, ma risponde a un’unica strategia. “L’etichetta o il partito di volta in volta scelto è una casuale totalmente variabile”, annota Gennari, “l’unica cosa importante è che si tratti della parte vincente”. Il network di contatti, conoscenze e cointeressenze messo in piedi da Giulio Lampada non è che un esempio – solo nella cronaca più recente – del radicamento ormai ultratrentennale delle 'ndrine calabresi in Lombardia. La 'ndrangheta che ha messo radici a Milano – scrive non più di una settimana fa il giudice del Tribunale di Milano Roberto Arnaldi nelle motivazioni della sentenza di condanna per i 110 imputati arrestati nel corso della maxi operazione “Infinito” del luglio 2010 – “non è un’articolazione periferica. I membri delle ‘ndrine sono da lungo tempo radicati al Nord, dove risiedono stabilmente e ciò ha consentito una perfetta conoscenza del territorio”. Una conoscenza che ha permesso alle 'ndrine prima di infiltrarsi, quindi dettare legge in tutti i settori commerciali, leciti o illeciti che fossero. Sono i ras del movimento terra nei cantieri, del traffico e dello spaccio di cocaina, della gestione dell’ortofrutta, dei night club, hanno interessi nelle pompe funebri come nell’immobiliare, nella grande come nella piccola ombrerosse distribuzione. Giocano un ruolo fondamentale nei piccoli cantieri come nelle maxi infrastrutture, come la Pedemontana o la nuova Expo. Ci sono arrivati in silenzio, mettendo sul piatto un’infinita liquidità e anni di strategia economica e criminale ed oggi siedono a buon diritto nei salotti buoni milanesi, senza più bisogno neanche di bussare per essere invitati. Perché stringono in mano il cuore economico, politico e finanziario del gotha della borghesia lombarda. E sono passati all’incasso. L'inchiesta. La Calabria in cattive acque 15/06/2012 di Tiziana Barillà (Ombre Rosse) Ancora una volta la Calabria è teatro di esasperazioni e conflitti. Perché profitto e bene comune sono due concetti che fanno a pugni. Ecco un esempio lampante di cosa succede se il privato gestisce i servizi pubblici. La gestione privata dei servizi idrici. Quattro imprenditori calabresi accedono a una cassaforte, prendono le buste contenenti le offerte per le gare d’appalto, le controllano e le sostituiscono con una migliore, la loro. Poi richiudono la busta e la rimettono in cassaforte. Il tutto con l’“aiutino” di qualche funzionario pubblico. Dove è successo? In Calabria. Come? Semplicemente rimuovendo dalle buste la ceralacca. “Ceralacca”, appunto, è il nome dell’inchiesta condotta dalla Guardia di finanza di Reggio Calabria che, il 9 marzo scorso, ha eseguito nove ordinanze di custodia cautelare in carcere e sequestrato beni per 8 milioni di euro. Gli arrestati sono: quattro imprenditori, un funzionario della Provincia di Reggio, un usciere e tre funzionari della Sorical, la società a capitale misto - 53,50 per cento delle azioni alla Regione Calabria e 46,50 a Acque di Calabria spa (del Gruppo Siba-Veolia environment) - che con mandato trentennale gestisce le risorse idriche calabresi. Ecco uno spaccato di “mala gestione” dei servizi pubblici. E non sono solo le gare ad essere sporche, ma anche le acque. Un’altra operazione giunge 3 di 11 in quel di Calabria: “Acqua sporca”. L’indagine della procura di Vibo Valentia inizia tre anni fa dopo numerose segnalazioni dei cittadini su colore, sapore e odore dell’acqua potabile che dall’invaso artificiale dell’Alaco (territorio comunale di Brognaturo), finisce nella rete idrica pubblica. E il 15 maggio scorso la procura di Vibo dispone il sequestro preventivo dell’impianto dell’Alaco e di 57 apparati idrici. Sequestro convalidato dal Gip (giudice per le indagini preliminari) il 29 maggio. La diga in questione serviva decine di paesi dal vibonese al catanzarese, entrando nelle case e nei rubinetti di circa 400mila persone. Pesanti le ipotesi di reato: avvelenamento colposo di acqua e frode in pubbliche forniture in concorso con alcuni dirigenti della Sorical, per un totale di 26 avvisi di garanzia. I conti non tornano. Da tempo il Coordinamento calabrese Acqua pubblica “Bruno Arcuri” solleva la questione delle partecipate. Già da quando, lo scorso dicembre, la Corte dei Conti aveva rilevato alcune anomalie sulle tariffe applicate dal gestore ai Comuni calabresi: un unicum nazionale, con conseguente menomazione dei diritti e degli interessi dei cittadini. La normativa nazionale, per situazioni come quella calabrese dove non è ancora entrato in vigore il cosiddetto metodo “normalizzato” (la formula che gli enti locali usano per determinare la tariffa tenendo conto anche degli investimenti effettuati), prevede che la tariffa idrica sia fissata «dal legislatore statale». Il compito spetta in particolare al Cipe (il comitato interministeriale per la Programmazione economica della presidenza del Consiglio dei ministri). Concetto ribadito anche dalla Corte Costituzionale: le Regioni non possono decidere sugli adeguamenti tariffari del settore idrico. In Calabria invece gli adeguamenti sono stati decisi proprio con delibere regionali, perciò in maniera illegittima. La partecipata vende acqua a 385 comuni, di cui ben 300 morosi. Secondo i conti del Coordinamento le amministrazioni comunali calabresi hanno sborsato in più, al 31 dicembre 2008, circa 30 milioni di euro. A Sorical spettava anche 22 June 2012 l’attuazione di un piano di investimenti: progettazione e realizzazione di opere necessarie sul territorio. Cento milioni di euro da investire, nei primi cinque anni. Ma le opere sono rimaste tutte sulla carta. Da parte sua, Veolia dichiara la chiusura in rosso del bilancio 2011: chiude qualche rubinetto e fa sapere che intende lasciare la regione per rifocalizzarsi sui “mercati forti”, tra cui di certo non viene contemplata la Calabria. Veolia lascia, dunque, ma prima chiede i danni. La reazione. La parte calabrese del Forum nazionale dei movimenti per l’acqua pubblica, intanto, prosegue. Presentando una diffida alla Regione in cui chiede di «adottare in tempi brevi un testo unico regionale sull’acqua che recepisca l’esito referendario». Non solo, come da principio costituzionale, si chiede che vengano riattribuite le competenze indebitamente sottratte ai Comuni. In Calabria lo scorso anno oltre 800mila calabresi hanno votato il referendum chiedendo la gestione pubblica, partecipata e democratica dell’acqua bene comune. E 800mila calabresi sono la maggioranza assoluta della regione, consensi che superano anche quelli del super presidente Scopelliti. E gli enti pubblici? In un mare di guai, è proprio il caso di dire. Tra gli avvisi di garanzia relativi alla vicenda dell’Alaco, spicca quello a Sergio Abramo: neosindaco di Catanzaro (nonostante il marasma elettorale del capoluogo calabrese), nonché presidente di Sorical. Abramo ha dichiarato la sua assoluta e totale estraneità ai fatti oggetto dell’indagine: «Il presidente della Sorical non ha alcuna responsabilità gestionale e tale circostanza sarà presto chiarita al magistrato, al quale ho già chiesto, tramite il mio legale, di essere al più presto sentito», si difende il sindaco. Contemporaneamente il governatore Giuseppe Scopelliti, nel corso di una conferenza stampa, conferma il prossimo abbandono di Veolia e difende la scelta della Sorical di tagliare l’acqua ai Comuni morosi. E, soprattutto, riconferma la ferma volontà di mantenere una gestione privata, annunciando un ombrerosse bando per la scelta di un nuovo socio privato, a cui addirittura adesso si potrà anche affidare la maggioranza assoluta delle quote societarie. La gestione privata, del resto, funziona talmente bene. Il libro. Pio La Torre deve morire 15/06/2012 di Maria R. Calderoni (Ombre Rosse) Quando muore un comunista. Palermo, piazza Generale Turba. «Verso le 9,30 del 30.4.1982 la Fiat 131 guidata da Rosario Di Salvo e con a bordo l'on. Pio La Torre veniva bloccata da una Ritmo verde, da cui discendevano due individui armati, che iniziavano a sparare contro il parlamentare e il suo autista, subito coadiuvati da altre due persone, sopraggiunte a bordo di una moto Honda 650». Così il rapporto di polizia. Rosario riesce a sparare qualche colpo con la sua pistola ma non ha scampo, insieme a Pio da quell'auto uscirà solo da morto. I killer riescono a fuggire, sul luogo sono ritrovati 22 bossoli e 16 proiettili - due interi caricatori - sparati da una mitraglietta. «Tutti segni di una terribile accuratezza, determinazione, professionalità criminale e militare». "Pio La Torre", ha questo titolo il libro che Vito Lo Monaco e Vincenzo Vasile hanno scritto (Flaccovio editore) sull'omicidio di La Torre e del suo autista, trent'anni fa. E' il primo parlamentare ucciso dalla mafia, impressione e sgomento sono enormi. «Trenta aprile 1982, nove e trenta del mattino. Non c'erano ancora i telefonini. Ma bastò un passaparola commosso e frenetico, sintetizzato nella pagina strappata di un quaderno a quadretti e affissa con lo scotch a una delle statue dei Quattro Canti, nel cuore di Palermo, con l'annuncio in lettere maiuscole: HANNO AMMAZZATO IL COMPAGNO PIO LA TORRE TUTTI AL POLITEAMA». In poche ore accorsero in centinaia; migliaia e migliaia il 2 maggio parteciparono ai funerali, e anche in tante città la sinistra scese in piazza nel 4 di 11 nome di Pio. Morto ammazzato dalla mafia, aveva 55 anni; per il duplice omicidio in cui perse la vita anche il suo autista - il compagno Rosario Di Salvo, «un uomo gentile, guidava senza scosse, anche il volante lo teneva con la punta delle dita e parlava piano con la sua voce profonda. Altro che autista, le riunioni se le sorbiva tutte, perché gli piaceva la politica, quella dei militanti comunisti come lui, e gli piaceva la politica di Pio» - sono stati condannati ormai definitivamente all'ergastolo in diversi procedimenti i componenti della commissione di Cosa Nostra Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Giovanni Brusca e Antonio Geraci, i killer Giuseppe Lucchese e Antonio Madonia (Pino Greco "scarpa" nel frattempo era stato ucciso nella guerra di mafia, come pure Mario Prestifilippo, mentre il collaboratore di giustizia Salvatore Cucuzza, giudicato con rito abbreviato, ha avuto una forte riduzione della pena). «Il processo ai mandanti occulti dopo trent'anni è probabile che non si faccia mai», concludono gli autori. Pio La Torre, una morte annunciata. Quando i killer lo trucidano insieme a Rosario in piazzale Turba, lui è segretario regionale del Pci in Sicilia, ha alle spalle dieci anni di vita parlamentare e sull'isola è all'epoca impegnato soprattutto sul fronte della battaglia contro i missili a Comiso. Vita e morte di Pio; è scritta tutta lì dentro, nella sua lunga lotta di comunista per gli ideali in cui crede, libertà e giustizia sociale. Povero, figlio di contadini poveri e analfabeti, riesce miracolosamente a studiare (si laureerà in Scienze politiche), e a sedici anni è già da "quella" parte, lì dove resterà, da combattente, fino al tragico appuntamento di piazzale Turba. Ucciso sul campo, perché i killer lo fermano per sempre mentre sta andando ad organizzare una manifestazione per Comiso. "Dentro", nel vivo delle grandi lotte contadine per la terra (sono i tempi cruenti dei baroni latifondisti, dei gabellotti, di Portella della Ginestra, di Salvatore Giuliano e di Placido Rizzotto): Pio a vent'anni è in forza alla Camera del Lavoro di Altarello, il suo paese; ed è un 22 June 2012 "costruttore di partito" (fonda tre sezioni del Pci nella zona dove comanda la famiglia mafiosa più forte, che decreterà: «Stu partito non lo possiamo digerire»); poi si impegna nella Federterra (sono gli anni altrettanto cruenti dell'occupazione della terra e dell'eccidio di Melissa (subirà lui stesso 17 mesi di carcere); diventa segretario della Camera del Lavoro provinciale di Palermo; nel '62 è segretario regionale del Pci succedendo a Macaluso. Il ragazzo povero di Altarello ha scelto la strada del "rivoluzionario di professione", la via non proprio lastricata del funzionario comunista. «Andavo a dormire in via Gaspare Palermo, dove il segretario della Federazione, Pasquale De Pancrazio, aveva una stanza in famiglia insieme al segretario della Fgci, Emilio Arata». E poiché Arata «era piccolino di statura, si decise che io potevo dormire nel letto insieme a lui. Era una situazione un po' scomoda. Eravamo senza stipendio», racconta nel suo libro autobiografico. Nel 1972 viene eletto deputato, sesta legislatura: sostituirà Girolamo Li Causi nella Commissione parlamentare d'inchiesta sulla mafia. In seno all'Antimafia, La Torre lavora con Cesare Terranova, il magistrato che sarà ucciso dalla mafia nel 1979. E' infatti in corso quella che viene chiamata "la seconda guerra di mafia", iniziata nel 1978 con l'omicidio di Peppino Impastato e conclusa nell'83 con l'autobomba che uccide Rocco Chinnici, la sua scorta e il portiere dello stabile (passando tra centinaia di delitti politico-mafiosi, alcuni anche "eccellenti", come il segretario della Dc Reina, il presidente dc della Regione Piersanti Mattarella). E il gen. Alberto Dalla Chiesa è ucciso nel settembre dello stesso 1982. Ha il nome di Pio La Torre la legge che Cosa Nostra non può perdonare (e non gli perdonerà). La legge che oggi porta il n. 646: composta di 34 articoli suddivisi in sei capitoli, «con l'introduzione del 416 bis nel Codice penale segna una svolta storica nell'impegno dello Stato contro la mafia. Essa è una legge sistema, che introduce modifiche nella legislazione penale, in quella processuale e sostanziale». L'art.1 stabilisce: «Chiunque fa parte di una associazione di stampo mafioso è ombrerosse punito». E stabilisce: «Nei confronti del condannato è sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono o furono destinate a compiere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o costituiscono l'impiego». Pio La Torre deve morire. Tav, alta voracità 15/06/2012 di Maurizio Pagliassotti (Ombre Rosse) E’ passato un anno da quando con un blitz degno dei più truculenti film d’azione lo Stato è riuscito a mettere le mani su un pezzettino di territorio difeso permicamente dal suo popolo. Un anno in cui lo Stato non è riuscito a rispondere, se non con la repressione del dissenso, alla domanda che aleggia in sempre più vaste schiere della popolazione italiana: cosa fare di un minoranza che ha ragione? Una minoranza che, tra l’altro, in questo tumultuoso anno appena passato ha ampliato le sue dimensioni infiltrandosi trasversalmente all’interno di ogni appartenenza sociale ed ideologica. La risposta, come si accennava, è stata esemplare: avanti il controllo del territorio strappato in battaglia con l’uso delle forze di polizia ed anche dell’esercito. E basta. Perché oltre a questo di più non v’è. A meno che per “inizio di lavori nel cantiere” si intenda la costruzione di un recinto degno di una base militare ed il taglio di una decina di castagni secolari. Una inutile dimostrazione di forza dai costi non precisati che impegna ogni giorno decine di militari nella difesa di un deserto dei tartari italiano. Uno spreco di forze e risorse che ha fatto esclamare ad un alto ufficiale dell’Arma dei Carabinieri: «A Chiomonte sono impegnati troppi uomini che servirebbero maggiormente in città». Gli uomini di cui parla il generale hanno difeso il nulla nei mesi torridi dell’estate, poi hanno visto l’autunno e le sue foglie, poi è 5 di 11 arrivata la neve a congelarli fino ad aprile, poi è stato il tempo della nuova primavera e adesso è nuovamente tempo di estate torrida. Sempre lì. A girare per il cantiere, a tener d’occhio i val susini che con ostinazione hanno continuato, col sole o con la pioggia, a disturbare i “lavori”. Uno spreco di risorse che ha reso ancor più dura la volontà di resistenza da parte della popolazione perché mentre il paese fallisce ogni tipo di governo non riesce a svincolarsi dalla logica del buco nella montagna che crea ricchezza. Questo nella migliore delle ipotesi che prevede la buona fede dei decisori. E, tra pochi giorni, sarà nuovamente tempo di contestazioni pesanti perché il campeggio Notav sta per ripartire e come un anno fa, si svolgerà a pochi metri dalle prime reti che proteggono il “cantiere”. Al di là di ciò, quest’anno è stato invece surreale. Oltre alle continue manifestazioni di protesta, i ricercatori e gli uomini di cultura che hanno sottoscritto l’appello contro la realizzazione dell’alta velocità sono passati da 360 e oltre 1700. Il Portogallo ha cassato la sua parte di tratta sul famoso Corridoio n 5. La Cmc di Ravenna, la cooperativa che realizzerà il tunnel geognostico ha subito un’apertura d’inchiesta a Milano nell’ambito degli appalti relativi all’altra mega opera Expo 2015. La gara al massimo ribasso, le sette offerte più vantaggiose tutte sotto la «soglia di anomalia», sospetti su fughe di notizie segrete, funzionari compiacenti e l'ipotesi di un cartello d'imprese che avrebbe inquinato le procedure e aggiustato l'assegnazione dei lavori. Fin qui, lo scenario. L'accusa, ora: turbativa d'asta. La Procura ha messo sotto inchiesta il primo appalto di Expo, la maxi commessa da 90,4 milioni (più altri 6,8 milioni di oneri sicurezza) per «la rimozione delle interferenze presenti nel sito espositivo», e cioè la pulizia e lo sgombero dell'area che ospiterà i padiglioni internazionali nel 2015. Gli investigatori della Guardia di Finanza hanno messo sotto la lente d’osservazione le buste sono state aperte il 20 ottobre 2011. La vincitrice ha offerto un ribasso d’asta pari al 42,83% rispetto alla base d'asta (58,5 milioni anziché 22 June 2012 90,4), al di là quindi del limite imposto dalla società Expo 2015, il 38,396%. Il criterio del massimo ribasso, voluto dalla precedente giunta milanese, era stato cambiato dall’attuale sindaco Pisapia. La vicenda appare interessante perché i soggetti coinvolti forse saranno gli stessi che eseguiranno i lavori del tunnel di base. Se mai inizieranno. Poi ci sono le note di colore: il libro Tavsì , finalmente un libro a favore della Tav. Scritto da due esponenti del Partito Democratico torinese è scaricabile da internet. Nonostante la battente campagna pubblicitaria cittadina pare non abbia avuto un travolgente successo di pubblico. Anzi, il Pd ha dovuto ingurgitare palate di veleno perché due comuni storicamente fedeli (Avigliana e Rivalta), sono stati conquistati da liste dichiaratamente Notav. Il caso di Avigliana è esemplare: qui il partito di Bersani nel tentativo di spostare il paese sul fronte dei favorevoli all’alta velocità ha fatto un accordo con Pdl e centro, dando vita a quella che sarà la futura marmellata nazionale. Un accordo tra Notav di ogni schieramento politico (compreso il M5S) ha bloccato questa deriva. Un anno in cui la lobby pro tav è salita direttamente al governo: il sottosegretario Ciaccia era l’amministratore delegato e direttore generale di Banca Infrastrutture Innovazione e Sviluppo (braccio operativo di Intesa Sanpaolo nel finanziamento delle grandi opere). Corrado Passera non è nemmeno il caso di ricordare il suo curriculum, idem per la Fornero. Tutti pezzi di Intesa Sanpaolo, banca di sistema nella grandi opere per eccellenza. Basti ricordare gli 800 milioni di euro garantiti dallo Stato prestati per le Olimpiadi Invernali di Torino 2006. Giochi costati sei volte più di quanto preventivato secondo gli studi dell’Istituto Bruno Leoni. L’avvocato difensore, poi decaduto ovviamente, di Paolo Comastri, amministratore delegato di Lyon Turin ferroviaiere, Paola Severino, è stata nominato ministro della giustizia. L’inchiesta risale al 2005: mentre infuriava la solita battaglia tra la popolazione e le forze dell’ordine per ombrerosse l’occupazione del territorio, la Procura di Torino si trovò a indagare l’allora viceministro delle Infrastrutture, Ugo Martinat, oggi defunto, numero due di Pietro Lunardi. I pm si concentrarono sulle opere stradali legate alle Olimpiadi e, appunto, al Tav. Il processo di primo grado si è concluso nel maggio scorso con otto condanne tra cui quella di Comastri a otto mesi di reclusione. Oggi è in attesa della sentenza di appello. Expo 2015, protocollo di illegalità 15/06/2012 di Daniele Nalbone (Ombre Rosse) Che Expo 2015 non fosse quel carrozzone dorato celebrato a Parigi nel gennaio 2011 in pompa magna dall'allora sindaco di Milano Letizia Moratti era cosa nota. Che fosse più un baraccone politico che non una reale occasione di sviluppo, idem. E, ovviamente, è normale che oggi le dimissioni dell'attuale sindaco, Giuliano Pisapia, dal ruolo di commissario straordinario per il Grande evento occupino le (poche) pagine di cronaca che si dedicano alla manifestazione giunta ormai a poco più di mille giorni dal suo inizio. Quello che stiamo però per portare alla vostra attenzione non è un problema secondario, tutt'altro. Perché mentre tutti i giornalisti erano impegnati a capire perché Pisapia avesse deciso, proprio ora, di rassegnare le dimissioni dal sempre più scomodo ruolo di commissario, in provincia il 12 giugno il capogruppo della lista civica Un'altra provincia-Prc-PdCi, Massimo Gatti, presentava un'interrogazione urgente al presidente Guido Podestà, all'assessore al Territorio Fabio Altitonante e all'assessore all'Expo, Silvia Granero, avente ad oggetto "Controlli sulla legalità degli appalti per Expo 2015". Come detto, non una cosa da poco. L'interrogazione di Gatti parte da una premessa e da un protocollo. La premessa è che la Provincia di 6 di 11 Milano è azionista della società Expo 2015 Spa con un totale di azioni (del valore di un euro l'una) di oltre un milione, pari al 10% del capitale sociale. Il protocollo è quello "di legalità" che la Prefettura di Milano e la società Expo 2015 Spa hanno sottoscritto lo scorso 13 febbraio in base al quale la società Expo, «in qualità di stazione appaltante», è «responsabile della sicurezza delle opere che appalta, anche sotto il profilo dell'antimafia, ed ha il compito di garantire verso gli organi deputati ai controlli il flusso informativo dei dati relativi alla filiera delle imprese che, a qualunque titolo, partecipano all'esecuzione delle opere». Peccato, però, che questo protocollo sia stato firmato con circa quattro mesi di ritardo rispetto all'affidamento del primo appalto di Expo 2015 alla Cooperativa muratori e cementisti - Cmc di Ravenna, sottoscritto il 20 ottobre 2011, per quanto concerne gli interventi relativi alla rimozione delle interferenze presenti nel sito Espositivo Expo Milano 2015, in quel di Rho. Ebbene, quella gara di appalto è stata aggiudicata con il sempre meno chiaro sistema del massimo ribasso, che nel caso è stato addirittura del 42,83 per cento rispetto alla base d'asta di circa 97 milioni di euro. In quella gara d'appalto si classificò al terzo posto la Locatelli Spa, società balzata agli onori della cronaca nell'inchiesta dello scorso dicembre relativa a una maxi tangente di 50mila euro versata all'allora vicepresidente della Regione Lombardia (si veda Liberazione) Franco Nicoli Cristiani (Pdl) al fine di "ammorbidire" i controlli sulla realizzazione di una discarica di amianto a Cappella Cantone, in provincia di Cremona. Ed è proprio a partire da questa inchiesta che la Procura di Milano ha aperto un fascicolo con l'ipotesi di reato di turbativa d'appalto in relazione alla gara vinta dalla Cmc di Ravenna. Il motivo? Semplicemente il classico schema del subappalto. Non si sa come, non si sa perché, alla fine nel giro di soldi mossi dalla "rimozione delle interferenze" nel sito di Rho che ospiterà i padiglioni della Fiera è entrata - come società 22 June 2012 subappaltatrice - la Testa Battista & C. di Ghisalba (Bergamo), praticamente da sempre socia d'affari del gruppo Locatelli e, come denuncia il consigliere provinciale Massimo Gatti nella sua interrogazione urgente, «coinvolta nell'inchiesta sulla discarica di Cappella Cantone». Primo risultato del primo appalto: vedere tra le ditte subappaltatrici chi è indagato per aver dato mazzette a consiglieri regionali. Nel medesimo cantiere figura impegnato il Consorzio Stabile Litta, il cui vicepresidente è indagato per una tangente di 30mila euro che risulterebbe pagata all'ex consigliere regionale Angelo Giammario per l'affidamento di appalti per la manutenzione e sistemazione del verde pubblico in Brianza. Non male per il primo appalto di Expo. Ma non finisce qui. Sempre in quel di Rho opera la Elios Srl, società piacentina che, spiega Gatti nella sua interrogazione, «è implicata in un'inchiesta nel novarese per traffico illecito di rifiuti con tentativo di infiltrazione mafiosa». A partire dai nomi di queste società coinvolte nell'appalto "numero uno" di Expo, lo scorso 23 maggio la Direzione investigativa antimafia di Milano ha effettuato un sopralluogo nel cantiere pochi giorni dopo che l'Asl di Rho ha bloccato ben tre camion che stavano portando nel cantiere dei carichi di terra di riporto già inquinati. Guarda caso proprio lo stesso sistema applicato nei cantieri della BreBeMi dalla ditta Locatelli (si veda Contropiano). Per questo il consigliere provinciale Gatti ha posto quattro interrogativi al presidente Podestà e agli assessori competenti: se la Provincia sta verificando l'attuazione del Protocollo di legalità; quali esiti hanno portato i controlli effettuati; quali iniziative verranno prese in futuro; se la Provincia ha intenzione di farsi parte attiva per interrompere i lavori del cantiere e fare una nuova gara d'appalto. Domande alle quali segue quella di una parte di cittadinanza, riunita nel Comitato No Expo, che si chiede «se esiste un cartello tra i politici che amministrano la Regione Lombardia e le società ombrerosse che lavorano nel cantiere di Rho». Una domanda alla quale sono loro stessi a rispondere: «A guardare gli intrecci tra le società che hanno partecipato alla gara d'appalto, le società subappaltatrici e alcuni politici lombardi già indagati per aver preso mazzette da queste società, sembrerebbe di sì». Ed è anche per questo che Antonello Patta, segretario del Prc e portavoce della Federazione della Sinistra di Milano, si dice convinto, «anche alla luce delle polemiche dimissioni da commissario straordinario di Giuliano Pisapia», che «sarebbe opportuno che si facesse un passo indietro, rinunciando ad ospitare Expo 2015». Una scelta dovuta a vari fattori, in primis a quello politico: «Pisapia - spiega Patta - è sceso dal carrozzone Expo in primis per la decisione del Governo di non derogare al patto di stabilità. I costi di Expo, evento di portata nazionale, ricadrebbero quindi solo su Milano e sulle sue disastrate casse». E sulla stessa scia si inserisce la convivenza con Formigoni alla testa dell'evento: «Formigoni va in giro come testimonial di una manifestazione le cui conseguenze negative sarebbero scaricate tutte su Pisapia e sul Comune». Due motivi per cui «tornare indietro sarebbe quantomai saggio. Che Expo la prenda in carica il Governo». Anche perché, chiude Patta, «quanto avvenuto nel primo appalto di Expo dimostra fino a che livello arrivino le infiltrazioni della criminalità a Milano: c'è un cartello, e l'asse Nicoli Cristiani–Locatelli ne è la prova, tra imprenditoria criminale e politica talmente saldo e radicato che dovrebbe far riflettere. In fondo, la Lombardia è la terza “economia criminale” d'Italia e, stando alle ultime relazione della Direzione distrettuale antimafia, sono ben tredici i politici che sono stati eletti direttamente con i voti della criminalità organizzata». Zero tituli. Alta mafia 15/06/2012 di Mrc (Ombre Rosse) 7 di 11 Mica sempre si ha la coppola storta. Mica sempre si usa la lupara. Mica sempre si scioglie un bambino nell'acido. A volte può bastare avere una banca. Fabrice Tourre, Ray Dalio, Stephen Schwarzman, Jamie Dimon, Vikram Pandit, Carl Icahn, Bob Diamond, John Paulson, Jerome Kerviel, Kweku Adoboli, questi dieci nomi vi dicono qualcosa? Certo che no. Sconosciuti a tutti noi comuni mortali, sono invece notissimi al 56mo piano di quei grattacieli che fanno capo a Wall Street. I "magnifici Dieci", i dieci "tipi" che hanno in mano il famoso Mercato, quello che se si arrabbia sono cavoli nostri. Quando ci dicono che Il Mercato non gradisce, sono loro; che Il Mercato alza i prezzi, sono loro; che fa crollare i prezzi, sono loro; che fa crollare le Borse, sono loro; che crea la speculazione, sono loro. i Magnifici Dieci del Dio Mercato, che appunto, anche lui, vede e provvede. I Dieci sopra nominati infatti rappresentano il Gotha della Finanza e dei Mercati mondiali, per dire: Goldman Sachs, Societé Genérale, Ubs, Barclays, J P Morgan, Citigroup... Per dire, nomi e cognomi delle più grandi rapine planetarie dette anche operazioni bancarie. Nomi e cognomi delle truffe, delle perdite e dei guadagni più grandi del mondo. Vere stragi. A colpi di "bolle", hedge fund, derivati, hot shots, bond, trading, mai un colpo di lupara. Alta Mafia. Finestra sul mondo. Legislative francesi, in attesa del secondo turno 15/06/2012 di Fabio Amato (Ombre Rosse) I risultati elettorali del primo turno in Francia hanno stupito per il livello di astensione raggiunto. Solo il 58 per cento dei francesi ha scelto di votare per eleggere la nuova assemblea nazionale. Una percentuale del 20 % inferiore a quella ottenuta nelle elezioni presidenziali di poche settimane prima. In realtà il problema dell’astensione è spiegabile proprio con la vicinanza delle consultazioni presidenziali con 22 June 2012 quelle legislative. Un cambiamento introdotto da Sarkozy che sgonfia le seconde a discapito delle prime, portando a quell’effetto che giustamente Pierre Laurent, segretario del PCf, ha definito di “presidentalizzazione” delle elezioni politiche. Buona parte del corpo elettorale, archiviato Sarkozy, ha pensato che ciò fosse sufficiente a determinare il cambiamento auspicato e si è astenuto. Un’altra parte, invece, ha voluto rafforzare proprio il partito del Presidente eletto, che ha goduto di un indubbio effetto di trascinamento, abilmente ottenuto anche con l’annuncio di misure che andavano incontro alle aspettative del popolo della sinistra, quali quelle sull’età pensionabile. E’ molto probabile che d’ora in poi Hollande inizi a comunicare quelle dolorose, visto che la crisi avanza e che su questioni quali il fiscal compact e la politica economica i nodi verranno al pettine adesso. Il suo asse con Monti e, allo stesso tempo, il suo ignorare la Grecia e le richieste di Syriza (sospensione del Memorandum e rinegoziazione), non lascia presagire grandi cambiamenti nell’impianto liberista temperato che caratterizza le socialdemocrazie europee. Il bipolarismo indebolito nel primo turno presidenziale, con i due maggiori candidati al ballottaggio poco al di sopra del 50 per cento, e con alla loro sinistra e alla loro destra due candidature oltre il 10%, Melenchon e Le Pen, viene invece rafforzato in quelle legislative. I blocchi legati al Ps e all’Ump si affermano entrambi con percentuali vicine al 35 %. Insieme raccolgono il 70 per cento dei suffragi. Fdg e Fn, all’11% e al 17 % alle presidenziali, arrivano al 7 e al 13 rispettivamente. Scompare il centro di Bayrou, colpito già duramente alle presidenziali, e definitivamente affondato alle legislative. Il Fronte de Gauche ottiene, per la precisione, il 6,8 dei voti. Rispetto alle elezioni legislative di 5 anni fa, aumenta del 2,1 % e di 550000 voti assoluti rispetto al 4,7 raggiunto dal Pcf. Eppure rischia di eleggere meno deputati. E’ l’effetto del sistema a doppio turno, un sistema pensato e costruito per favorire il bipolarismo, e difatti cosi accade. ombrerosse Questa differente distribuzione è dovuta al parallelo aumento nei seggi di sinistra dei socialisti e dei loro alleati, che hanno in alcuni casi superato i candidati del Front de Gauche, che pur arrivando al ballottaggio, in virtù della consolidata tradizione repubblicana di sostegno reciproco a sinistra, si ritireranno al secondo turno in favore dei migliori piazzati. E’ quanto accaduto nel collegio dove Jean Luc Melenchon ha combattuto una dura e aspra battaglia contro Marine Le Pen. Per pochi voti è stato superato dal candidato socialista, e Melenchon, anche se ha raggiunto il 21% e avrebbe potuto comunque concorrere, ha deciso di ritirare la propria candidatura per sostenere quella socialista. Il Front National può per la prima volta eleggere, e per la prima volta si aprono crepe sul patto repubblicano nella destra gollista. Un segnale inquietante e da non sottovalutare. Domenica si vedrà se il Ps avrà la maggioranza assoluta o meno dei seggi all’assemblea nazionale. E’ probabile di sì, anche se le gaffe della première dame non aiutano l’obiettivo. Il Front de Gauche ha comunque da tempo annunciato che non parteciperà al governo. Una scelta dovuta alle enormi differenze programmatiche. Soprattutto riguardo alla crisi e all’Europa. Su fiscal compact e Unione europea, liberismo e intervento pubblico in economia, Hollande è incerto. Il Fdg ha comunque vissuto mesi straordinari, per partecipazione popolare, sostegno e anche per risultati. Certo, brucia eleggere meno deputati, ma una nuova dinamica si è messa in moto in Francia. La seconda forza della sinistra è il Fdg, ha una dimensione di massa e un profilo nazionale, ed è chiaramente antiliberista. Ha le proposte per uscire dalla crisi da sinistra. Quella crisi su cui si misurerà la vera natura di Hollande. La recensione. Libia, una rivoluzione con mamma Nato 15/06/2012 di Tonino Bucci 8 di 11 Si può discutere sulla portata reale delle primavere arabe, se esse abbiano o meno portato a compimento la democrazia, invocata dai protagonisti che un anno fa sono scesi in piazza. Non c'è dubbio però che i paesi del Maghreb e del Medioriente siano stati sconvolti da sommovimenti sociali di proporzioni epocali come non se vedevano da tempo. Regimi più che decennali sono stati spazzati via nel giro di pochi giorni. Le popolazioni si sono ribellate. Le giovani generazioni sono venute in primo piano. Le società arabe proliferano oggi di movimenti, sigle, partiti, forze laiche, formazioni islamiste. Dalla Tunisia alla Siria, il magma è ancora ribollente. Il senso e l'esito definitivo delle rivolte arabe, però, non è ancora chiaro. E' di questi giorni, per esempio, la notizia dell'annullamento delle elezioni che si sono tenute in Egitto, vinte dai Fratelli Musulmani. La corte costituzionale egiziana le ha invalidate, suscitando le reazioni degli islamisti. Il parlamento è stato sciolto e il potere torna nelle mani del consiglio delle forze armate. Oggi e domani si terrà il ballottaggio tra l'ex primo ministro Ahmed Shafiq e il candidato dei Fratelli Musulmani, Mohamed Mursi. In caso di irregolarità, avvertono questi ultimi, si scatenerà una «grande rivoluzione». A oggi il quadro delle primavere arabe è ancora provvisorio, instabile. Troppo presto perché si possano pubblicare studi esaurienti sull'argomento. Chiunque ci provi, deve inevitabilmente fare i conti con una situazione ancora in divenire. Vale anche per il libro di Farid Adly - giornalista libico, analista, da decenni trapiantato in Italia e collaboratore del Corriere della Sera - appena uscito per il Saggiatore con il titolo La rivoluzione libica. Dall'insurrezione di Bengasi alla morte di Gheddafi , (pp. 232, euro 15). Se c'è una tesi centrale nel volume è che la vicenda libica debba essere interpretata e letta all'interno dei confini nazionali della Libia. Nella ricostruzione degli eventi l'autore non fa alcun riferimento al ruolo eventualmente svolto dalle 22 June 2012 potenze occidentali che hanno interessi geopolitici nell'area mediterranea, Francia e Gran Bretagna in prima fila. Contrariamente a molti altri analisti, Farid Adly non ritiene che la «maledizione del petrolio» abbia avuto negli sviluppi della rivolta un ruolo negativo, proporzionale al richiamo esercitato sugli interessi delle nazioni occidentali. La sua convinzione, paradossalmente, è che la presenza dell'oro nero renderebbe svantaggioso per i paesi stranieri puntare alla destabilizzazione della Libia. «L'interesse del mondo industrializzato per il petrolio libico, se ha mosso le diplomazie per l'intervento, non lavorerà per la destabilizzazione né lascerà la situazione in condizioni di anarchia. Il paese è sotto la lente delle diplomazie e del mondo degli affari. Nessuno degli osservatori esterni ha interesse alla somalizzazione della Libia e questo è un bene». Farid Adly punta tutto sulla tesi della rivoluzione libica come processo nazionale autonomo e indipendente, al massimo favorito dal movimento di opinione nelle società arabe in seguito alle “primavere". Il ruolo delle potenze occidentali, gli interessi geopolitici stranieri e, soprattutto, la parte sostenuta dall'intervento militare della Nato rimangono sullo sfondo - ombre appena evocate. La rivoluzione libica si spiegherebbe completamente con gli sviluppi della lotta coraggiosa portata avanti da un gruppo di avvocati e familiari delle vittime, in gran parte islamisti, della strage nel carcere di Abu Selim, commessa dal regime gheddafiano nel lontano giugno 1996. La lotta delle famiglie per ottenere giustizia è stata «la scintilla che ha infiammato la Libia nel 2011». A questa si è aggiunta l'iniziativa dell'opposizione libica all'estero di «organizzare una giornata di protesta contro i quarantadue anni di dittatura». «La scintilla dei moti, prima pacifici e che in reazione alla violenza spietata del regime si sono trasformati poi in lotta armata, è stata data proprio da quel coraggioso gruppo di familiari delle vittime di Abu Selim. Contro tutte le teorie del complotto che sarebbe stato ordito dalle superpotenze internazionali, teorie caldeggiate da molte parti interessate». ombrerosse Tuttavia, Adly rischia di cadere nell'errore speculare al complottismo, quello di fornire una lettura lineare, troppo lineare, dove non c'è spazio per nessuna nota fuori posto. Non convince neppure la tesi secondo cui la rivoluzione libica non sarebbe stata una guerra civile. Qui Adly sconta un'analisi piatta del gheddafismo. Se alle spalle del regime ci fosse stata soltanto la famiglia del rais, i suoi fedelissimi e qualche migliaia di mercenari, non ci sarebbe stato bisogno dell'intervento militare della Nato. A suo modo, il gheddafismo aveva una propria base materiale nella società libica, piaccia o no, senza che questa ammissione debba comportare una qualche forma di nostalgia per un regime tramutatosi in dittatura. L'analisi del potere ultraquarantennale di Gheddafi che Adly compie, manca di spessore storico. Non c'è traccia delle differenze tra le fasi che hanno segnato la politica gheddafiana. Niente è da prendere sul serio. La Jamahiriya dei primi tempi? Un «mostro infermo», nient'altro che un «socialismo della povertà». L'adesione al movimento dei paesi non allineati? Illusione. Idem per lo stato sociale libico. Non c'è da trovare nessuna differenza tra il primo Gheddafi e l'ultimo, tra l'orientamento socialisteggiante delle origini, ispirato al nasserismo, e la svolta liberista in politica economica nell'ultimo decennio. Persino la nazionalizzazione del petrolio compiuta contro le compagnie britanniche dopo la rivoluzione del 1969 è considerata nulla di più di un cinico disegno di arricchimento personale del rais. Molto più approfondito, invece, è il ruolo degli islamisti, una delle forze motrici della rivolta libica e delle primavere arabe negli altri paesi. L'islamismo ha dalla propria parte non solo una forza politica e un radicamento nella società, grazie a un'attività di mutualismo e assistenzialismo. Esso può fare affidamento anche su una efficace strategia comunicativa. Per esempio, Al Jazeera, l'emittente televisiva del Qatar, ha rappresentato un «fattore importante di diffusione libera di notizie e opinioni, ma ha funzionato anche, vista la sua linea editoriale, come megafono per gli islamisti dando maggiore 9 di 11 spazio alle loro istanze, ingigantendo il loro ruolo, nascondendo le loro falle e, qualora non fosse stato possibile, avanzando pretesti e scuse per coprire i loro errori». «In ogni occasione pubblica dove ci sono responsabili militari della nuova Libia, l'attenzione di Al Jazeera si concentra sull'ex capo del Gruppo islamico combattente libico (Abdelhakim Belhaj, ndr), con zoom e primi piani, regalandogli visibilità e popolarità». Non c'è cenno, però, al ruolo politico svolto da Al Jazeera nel contesto internazionale. Eppure, sono stati pubblicati studi che evidenziano un intervento non neutrale della strategia comunicativa messa in campo dall'emittente televisiva. Basta leggere il “Glossarietto delle bufale belliche" di Karim Mezran, direttore del Centro studi americani di Roma, nel Quaderno speciale della rivista Limes La guerra di Libia , una puntuale ricostruzione delle informazioni distorte fornite dai mezzi di comunicazione di massa sulle vicende libiche. Alcune notizie che poi si sono rivelate infondate - per esempio, quella relativa a una fossa comune segnalata nei pressi di Tripoli nei primissimi giorni della rivolta - hanno condizionato l'atteggiamento dell'opinione pubblica internazionale e costruito il consenso nei confronti dell'intervento militare della Nato. Farid Adly non approfondisce se e in quale misura Al Jazeera possa aver rappresentato gli interessi geopolitici del Qatar e preferisce darne una lettura più circoscritta, tutta interna ai confini nazionali della Libia. Il protagonismo di Al Jazeera, insomma, sarebbe soltanto uno dei sintomi del confronto/scontro tra le due principali forze che hanno dato vita alla rivolta libica e, in generale, a tutte le altre primavere arabe: da un lato, il fronte dei laici e della sinistra, dall'altro, quello degli islamisti. «La questione islamica è al centro delle Primavere arabe». «La salita al potere dei cosiddetti islamisti era prevedibilissima». In Tunisia, in Egitto, in Libia ci si interroga sulla legge islamica e se inserire la religione di Stato nelle nuove Costituzioni e in quale misura ciò sia possibile senza ledere i diritti individuali e civili, in particolare quelli delle donne e delle minoranze religiose. Tuttavia gli islamisti «hanno preso parte al 22 June 2012 movimento per il cambiamento» assieme alle fazioni liberali e di sinistra. I risultati delle urne vanno accettati. «Bisogna cambiare l'opinione stereotipata ed estirpare il pregiudizio. Gli islamisti di oggi non sono quelli di una volta (tranne gli estremisti, quelli che abbracciano ancora la via armata) e non fanno paura alle altre forze democratiche arabe, perché insieme hanno percorso un lungo cammino di lotte per i diritti e contro le dittature, mentre in passato le divisioni erano state utilizzate per mettere le forze d'opposizione le une contro le altre». Il dibattito, però, rimane aperto. Un conto è riconoscere l'Islam come religione della maggioranza, altro dichiararla religione di Stato. In quest'ultimo caso, verrebbe meno il principio della «uguaglianza di fronte alla legge, nei diritti e nei doveri, di tutti i cittadini, senza distinzioni di fede, origine etnica, genere o colore della pelle». Nella società libica i praticanti musulmani sono la stragrande maggioranza, però l'Islam politico è un fenomeno di importazione. «L'unico movimento politico religioso libico, anche se il suo fondatore era di origine algerina, è la confraternita della Senussia, che si basa su un'interpretazione letterale del testo coranico, ma è contraria a ogni fanatismo, e in campo civile ha una visione avanzata perché basa l'organizzazione della comunità sull'austerità e sul lavoro». Ciò non toglie però che già all'indomani della conquista di Tripoli da parte dei ribelli si sia manifestato uno scontro tra laici e islamisti, destinato a riprodursi anche all'interno del governo provvisorio. Il protagonismo delle giovani generazioni è l'altro fattore messo a fuoco nel volume. «Il male più oscuro che colpisce la gioventù libica è quello della frustrazione a causa della disoccupazione. In Libia i giovani sotto i venticinque anni rappresentano il 47 per cento della popolazione, e la percentuale dei disoccupati è più alta che in Egitto». Non a caso, le prime avvisaglie della rivolta si sono verificate a gennaio, contemporaneamente alla rivoluzione tunisina, con l'occupazione di case popolari e l'assalto ai cantieri delle ditte edilizie straniere da parte di ombrerosse giovani. Infine, il ruolo della Nato nella rivoluzione libica. Per trovarne cenno, bisogna attendere quasi duecento pagine, alla fine del libro. L'argomento è liquidato in poche battute. «Quale futuro per la Libia, dopo la morte di Gheddafi e del suo regime? - si chiede Farid Adly. «Per la prima volta nella storia del paese, i libici hanno il destino nelle proprie mani. La Nato ha fatto il suo lavoro con il minimo di vittime civili, anche se, secondo un mio parere politico e non tecnico, nell'ultima fase è stato superato certamente il mandato internazionale sulla protezione della popolazione, e l'Alleanza Atlantica si è assunta il compito di cambio del regime. Alla coalizione internazionale arabooccidentale va riconosciuto il merito di aver mantenuto la parola data e, alla conclusione del reale pericolo, la Nato ha dichiarato la fine della missione». Tutto qui. Così è andata, così doveva andare. Neppure un tentennamento, non un dubbio. Anzi, Adly ribadisce la sua posizione “interventista", «senza infingimenti e senza giri di parole». «Sono assolutamente d'accordo con i bombardamenti alle truppe di Gheddafi in marcia su Bengasi. Se non ci fosse stato il bombardamento, deciso dai governi di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna sabato 19 marzo 2011 alle 17.45, dopo l'approvazione della risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza dell'Onu, adesso saremmo qui a piangere centinaia di migliaia di vittime della mia città». Ma davvero all'intervento militare della Nato non c'era alternativa? Davvero non c'era spazio per una trattativa politica? Per quale motivo si è preferito respingere al mittente tutte le offerte di mediazione del regime gheddafiano senza neppure premurarsi di verificarne l'attendibilità? Quella libica è stata una rivoluzione compiuta - è il caso di non nasconderlo - sotto l'ombrello protettivo di mamma Nato. Una mamma molto ingombrante che in genere non si muove a titolo gratuito. Anche se ammette a denti stretti che «nell'ultima fase è stato superato il mandato internazionale sulla protezione della popolazione» e che l'Alleanza Atlantica ha operato direttamente per il «cambio di regime», 10 di 11 sull'argomento Farid Adly è reticente. Non si può alludere tra le righe al fatto che la Nato abbia forzato i limiti della propria mission e strumentalizzato le sofferenze della popolazione civile al fine di cambiare il governo politico della Libia con la forza delle bombe e, poi, lasciare inalterata la propria analisi della rivoluzione libica. L'intervento militare dell'Alleanza Atlantica non è stato un dettaglio marginale. La «rivoluzione libica» ha ancora molta strada da percorrere. Non si tratta soltanto di gestire il dibattito sul ruolo dell'islamismo all'interno di quella che sarà la nuova Costituzione. C'è il problema di costruire le premesse di una economia alternativa agli idrocarburi, ad esempio, o di incoraggiare una rivoluzione culturale in una società che resta «fortemente maschilista». O, ancora, di dare soluzione istituzionale a un paese dalla incerta identità nazionale e checché se ne dica - oggetto di interessi economici stranieri. La via è lunga. Musica. Esce “Americana" di Neil Young, un ritorno alle origini 15/06/2012 di Ugo Buizza (Ombre Rosse) Neil Young per una volta si libera dall’impegno di dover scrivere brani originali e per uno che possiamo tranquillamente considerare tra i primi 10 songwriters nella storia 22 June 2012 della nostra musica, non è poco. Lo scorso 5 giugno è stato infatti pubblicato “Americana” , album di Neil Young che segna, dopo sedici anni, il ritorno al gran completo della collaborazione con i fidi Crazy Horse. Sono 11 tracce in cui il Nostro rilegge , alla sua maniera, pezzi che appartengono alla storia della Nazione America. Scelta conformista per suoni e versioni anticonformiste dove le chitarre sgangherate di Young e Frank “Poncho” Sampedro, trasformano melodie folk in chilometriche disgressioni che suonano come della jam sessions suonate in vecchi granai di legno in qualche prateria. La copertina, in uno splendido seppiato, mostra una vecchia foto del 1975 con Neil e i Crazy Horse, sovrapposta a una foto di Geronimo di 70 anni prima su un’automobile del primo Novecento. Il retro, invece, è Cavallo Pazzo che cavalca selvaggio volando su una carovana di pionieri. Il contrasto è evidente e il gioco dei contrasti è ancora più evidente nelle musiche di “Americana". Young ferma con musiche adrenaliniche, vecchi testi. Rilegge “Oh Susannah” (peraltro già provata live lo scorso novembre in uno splendido duetto con Dave Matthews), con un ritornello contagioso e un ritmo quasi funky, la tragica canzone “Clementine” (storia di una tragedia in una miniera) è pervasa da un oscuro senso di disperazione, che rimanda alla sua grande “Down By The River” per l’epica del racconto. La famosa “Tom Dula”, meglio conosciuta come “Tom Dooley” che molti ricorderanno nella versione folk dei Kingston Trio, è resa con brutalità e senso del tragico come una marcia Zombie al ritmo dei Crazy Horse. Radici ombrerosse Doo Wops riecheggiano, con la sezione ritmica del basso di Billy Talbot e il drumming di Ralph Molina, in una festosa “Get A Job". Crazy Horse? Forse la migliore garage band di tutti i tempi… La splendida “Wayfaring Stranger" ci mostra il Neil Young più intimista. La sua è una splendida versione anche se io adoro quella di Emmylou Harris (ma anche quelle di Johnny Cash e di Peter Paul And Mary non erano male). Non poteva mancare Woody Guthrie con il classico “This land is Your land” , ove troviamo, alle voci, la moglie Pegi e l’amico/nemico Stephen Stills. Il canadese sembra davvero divertirsi a pescare nel passato, ricordando forse i suoi esordi nel 1963 con gli Squires , si diverte a santificare e nello stesso tempo a dissacrare un’epoca. A dipingere di nuovi colori, vecchi quadri. Gli stessi Led Zeppelin non avevano osato tanto quando, nel 1970 fecero una cover di “Gallows Pole”. Ascoltate la versione di Young e vi renderete conto di come la sua personalità abbia permesso di dare nuove vesti a vecchi brani. Quasi un approccio punk, iconoclasta. Non è un caso quindi che l’ultimo brano dell’album sia “God Save The Queen”, nulla a che vedere con la furbata dei Sex Pistols, non è infatti una scelta irriverente, ma un ripescaggio culturale. Il brano appartiene anche alla storia americana. Un giudizio, quindi, complessivamente positivo. Per quanto mi riguarda adoro il fatto che Neil Young se ne freghi delle leggi di mercato (è vero se lo può anche permettere). Che pubblichi ciò che vuole senza seguire la ferrea legge dei discografici. Ben vengano, quindi, altri Archives, altre covers, altri dischi elettrici alternati a morbide ballate acustiche. Buon ascolto! 11 di 11