La storia del bambino che aveva scelto il suo avvocato

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La storia del bambino che aveva scelto il suo avvocato
LA STORIA DEL BAMBINO CHE AVEVA SCELTO IL SUO AVVOCATO.
di Luisa Solero
Nell’ingresso dello studio se ne stava appollaiato in una poltroncina, assorbito dal gioco
elettronico che stringeva fra le mani, la testa bassa con la frangia di capelli neri sugli occhi. Non
mi aveva nemmeno guardata quando mi ero affacciata sulla porta dello studio.
Sua madre mi aveva telefonato all’ora di pranzo con voce agitata, si trattava di una cosa
urgentissima e le avevano dato il mio nome, solo io la potevo aiutare... Avevo replicato che non
era certo così, comunque avevo la possibilità di riceverla nel pomeriggio dopo le 17.
E alle 17 in punto la signora era nel mio studio, con il bambino e con la suora. La signora
faceva un gran vociare in ingresso, tutta presa dall’ansia e dall’incertezza degli eventi che la
sovrastavano, riversando sulla suora le sue aspettative affinché dicesse, sostenesse,
testimoniasse. Quando mi ero affacciata alla porta dello studio, si era precipitata verso di me
chiamando figlio e suora a raccolta, io l’avevo fermata. “Avevo dato l’appuntamento a Lei”
avevo detto decisa “non al bambino, e nemmeno alla suora. Li riaccompagni a casa,
l’appuntamento per Lei è fissato per domani, alla stessa ora…” La signora aveva cercato di
giustificarsi dicendo che la testimonianza del bambino era importante, e anche quella della
maestra. Aveva detto precipitosamente che fra due giorni sarebbe venuto l’ufficiale giudiziario
a prendere il bambino per ordine del Tribunale per i Minorenni di Milano. Il bambino si era
alzato dalla poltroncina e senza guardarmi aveva infilato svelto la porta d’ingresso, la suora gli
era andata appresso. Io ero stata irremovibile, avevo detto alla signora che non volevo bambini
in studio, la maestra l’avrei convocata se lo ritenevo necessario, ora la sua priorità era quella di
riprendersi il bambino e la suora e riportarli a casa.
***
Devo a questo punto fare un passo indietro per spiegare la drasticità del mio
comportamento.
Era successo tanti anni prima, erano gli anni settanta. Un giorno era venuto da me un
padre, portando con sé i due bambini, il più grande avrà avuto più o meno l’età di Mario, dieci
o undici anni, la sorellina un paio di meno. Davanti a me i due bambini sedevano l’uno sul
ginocchio destro del padre e l’altra sul sinistro, lui avvolgeva loro le spalle con le braccia.
Diceva che i bambini volevano andare a vivere con lui e, fosse ben chiaro, lui non voleva
portare via la casa alla madre attraverso l’affido dei bambini, voleva solo il loro bene, si
sarebbe fatto carico lui di tutto. Raccontava dunque che i bambini erano spesso lasciati da soli
perché la madre andava a fare qualche lavoretto in nero, precisava che i bambini stessi gli
avevano raccontato che delle volte la mamma non preparava loro nemmeno da mangiare e
spesso la mattina li imbarcava per la scuola andando in cerca dei vestiti nella cesta delle cose da
stirare. E poi aveva anche lasciato capire, pur senza calcare la mano e cercando di difendere in
qualche modo la figura della moglie davanti ai figli, che qualche nota di instabilità purtroppo
era già emersa in passato e la preoccupazione per il bene dei bambini era grande. I bambini
annuivano e a modo loro rincaravano la dose, dicendo che la mamma li sgridava, spesso per
nulla, e non li aiutava a fare i compiti perchè diceva che lei aveva altro da fare e che si facessero
pure aiutare da papà. Gli insegnanti si erano lamentati, aveva detto il padre, per il calo del
rendimento scolastico, e lui era preoccupato per il bambino che faceva la quinta elementare,
l’anno prossimo avrebbe dovuto affrontare le medie.
E così avevo chiesto la modifica delle condizioni della separazione affinché i bambini
passassero a vivere stabilmente con il padre che si sarebbe preso interamente cura e carico di
loro. Era stata disposta una Consulenza Tecnica e, con mia grande meraviglia, ne era emerso
che i bambini con la madre stavano benissimo ed erano accuditi convenientemente. Gli è che,
sicuri dell’amore della mamma, e volendo riportare a casa il padre, avevano progettato di
andare a stare con lui per scongiurare intromissioni di altre figure femminili e tentare di
riconquistarlo alla madre.
Io avevo giurato a me stessa che non avrei mai più ricevuto bambini in studio.
***
Così era stato infatti in tutti gli anni passati e quando, dieci anni dopo, avevo visto un
bambino in studio, avevo duramente spedito la cliente di ritorno, dicendole che i bambini
andavano rispettati e non erano complici né alleati di nessuno, lei era la madre e doveva per
prima rispettare il diritto del bambino di non essere messo in mezzo alle diatribe dei genitori.
La signora era dunque venuta il giorno appresso e mi aveva raccontato che il bambino,
che appunto si chiamava Mario, e che faceva la quinta elementare alla scuola privata delle suore
(in quanto erano arrivati a Padova dopo la metà dell’anno scolastico e lei aveva ritenuto più
tutelante l’istituto privato), era stato affidato a lei un paio di anni prima con la sentenza di
separazione. Il fatto era che essendoci una pesante conflittualità con il marito, il quale nel
frattempo dopo la separazione si era rifatto una nuova famiglia, lei si era presa su e, insalutata
ospite, era venuta col bambino a vivere a Padova. Per tutta risposta il marito aveva chiesto la
decadenza della madre dalla potestà sul figlio al Tribunale per i Minorenni di Milano e,
approfittando del fatto che lei risultava ancora residente a Milano sicchè le notifiche non le
erano pervenute ma erano state considerate valide, aveva ottenuto un provvedimento che adesso
le era stato notificato (e allora era evidente che il marito avrebbe potuto anche prima sapere
dove trovarla) con cui il Tribunale per i Minorenni di Milano limitava la potestà della madre,
affidava il bambino al padre e ne imponeva seduta stante la restituzione, ove necessario anche
con ausilio della forza pubblica.
Avevo preso contatto con il collega avversario proponendo di trovarci tutti insieme per
parlarne, avevo chiesto una dilazione, almeno il tempo di far finire a Mario l’anno scolastico a
Padova, avevo proposto di chiedere insieme un approfondimento psicologico che valutasse il
miglior interesse del bambino, e dichiarato la disponibilità della mia cliente a facilitare gli
incontri col padre, a compensare la minore possibilità di incontro con maggiori periodi di
vacanza presso il padre, avevo predisposto un ricorso d’urgenza per la sospensione del
provvedimento, che avrei inviato il giorno dopo a una collega di Milano. Ma il padre non aveva
voluto saperne e aveva insistito perché si desse esecuzione al decreto cosicché l’ufficiale
giudiziario si era presentato a casa della signora.
La scena può facilmente immaginarsi e, nel mentre gli adulti discutevano, Mario aveva
cominciato a saltare sui divani, a fare gesti inconsulti, a buttare per terra le cose, poi gli erano
venute le convulsioni, aveva vomitato sulle scarpe dell’ufficiale giudiziario, ed infine era
caduto per terra bianco come un cero. Allora avevano chiamato l’ambulanza e Mario era stato
portato al pronto soccorso della clinica pediatrica.
E così mi ero sentita convocare dal Primario, prof. Condini, per le 17 di quel pomeriggio,
perché aveva detto che mi voleva vedere assieme ai due genitori.
***
Ricordo tutto di quell’incontro, ancora vivido nella mente. In una saletta disadorna del
pronto soccorso i due genitori apparivano entrambi provati, si guardavano con un misto di
rabbia e di colpa. Io non sapevo cosa dire, li guardavo e non sapevo cosa fare. Il prof. Condini,
Primario di Neuropsichiatria Infantile, aveva un fare accogliente ma allo stesso tempo molto,
molto serio.
“Stanotte il bambino resterà ricoverato qui, in astanteria – aveva detto rivolto ai genitori –
penso che vi rendiate conto del perché. E’ perché il mio reparto è al secondo piano e non ci
sono sbarre alle finestre. Vostro figlio è a rischio, e potrebbe commettere gesti inconsulti. Penso
che possiate capire...”
Li aveva guardati con estrema serietà. Poi aveva aggiunto: “Ho parlato a lungo con vostro
figlio, ho ascoltato le sue ragioni. Ciò che lo fa stare male è la vostra conflittualità e vi assicuro
che la conflittualità fra i genitori può far ammalare un bambino. Adesso Mario sta parlando con
una psicologa e più tardi penso che accetterà di vedere la mamma. Penso che la mamma potrà
fermarsi qui stanotte, a patto che non sia intrusiva, che non dica nulla e gli stia soltanto vicina,
se lui lo accetta, soltanto lo controlli con discrezione. Mario è in camera con un altro bambino
in osservazione per un incidente, e c’è anche la sua mamma. Così non saranno soli, e anche la
mamma non sarà sola. Penso che questa sia la soluzione migliore. Per stasera il papà potrà dare
un saluto a Mario dalla porta, si vedranno domani. Conto di poter dimettere Mario domani in
tarda mattinata o nel pomeriggio, prima vedrò di concordare con i colleghi di base il progetto
che vi dirò. Vi aspetto entrambi nel mio studio per mezzogiorno.”
Poi si era rivolto a me. “Ho convocato Lei, avvocato, perché me lo ha chiesto Mario. Mi
ha detto che i suoi genitori litigano sempre e che hanno già tanti avvocati, l’uno e anche l’altro.
Mario ha chiesto se può avere anche lui un suo avvocato, e ha detto che vuole scegliere Lei.”
Aveva sorriso amabilmente e si era rivolto ai due genitori come per rassicurarli: “Conosco bene
l’avvocato Solero...”
Poi aveva aggiunto rivolto ai genitori: “Siete voi che dovete decidere perché siete voi i
genitori. Ma siate chiari e assumetevi le vostre responsabilità. Io non sono qui per giudicare e
non voglio entrare nel merito delle questioni che vi dividono. Vi dico solo che Mario ha
espresso una richiesta precisa che non è quella di avere uno psicologo con cui parlare di sé, di
quello che lo ferisce, o che lo fa soffrire. Ben venga il sostegno psicologico che certamente
vedremo di attivare per aiutarlo, Mario ha già sofferto anche troppo e va aiutato. Il fatto è che
Mario ha chiesto di avere un avvocato, vuole le risposte di un avvocato, e vuole un suo
avvocato. Ha fatto lui la scelta, dandomi un nome preciso e chiedendomi di intercedere presso
di voi”. Li aveva guardati mantenendo un attimo di sospensione, poi aveva spiegato: “Devo dire
francamente che io stesso sono rimasto molto colpito dalla sua determinatezza, ma ho
considerato che la richiesta di Mario è una richiesta che si fonda su un preciso diritto, quello di
essere ascoltato.” Poi aveva precisato: “Dovete essere consapevoli che, se l’avv. Solero accetta,
sarà solo l’avvocato di Mario, e voi dovrete fare riferimento a lei esclusivamente come
all’avvocato di vostro figlio.”
I due genitori si erano guardati per la prima volta con lo stesso sguardo smarrito, poi
avevano annuito ed è così che sono diventata l’avvocato di Mario e lo sono stata per un paio di
anni.
***
Per quanto riguarda la vicenda processuale, è finita lì. Mario è rimasto a vivere a Padova
con la mamma, ha finito la quinta elementare e ha poi fatto le medie nella stessa scuola. Non
c’è stato più nessun ricorso, nessun provvedimento di nessun tribunale, salvo poi un divorzio
congiunto definito dagli avvocati senza eccessivi problemi. La batosta era bastata.
Nel primo periodo del mio mandato come avvocato di Mario mi ero trovata a fare da
tramite fra gli avvocati dei genitori, poi fra i genitori, infine le cose pian piano si erano
acquietate. Mario aveva imparato ad apprezzare il papà nei fine settimana in cui lui veniva a
Padova a trovarlo, e a desiderare poi di andare da lui a Milano. Aveva conosciuto la compagna
del padre, poi diventata sua moglie, e si era lasciato intenerire dall’arrivo della sorellina.
Messi da parte gli avvocati, per un certo periodo avevo fatto da tramite fra i due genitori,
evitando che discutessero fra loro e che discutessero davanti a Mario. Non era stato facile
riuscire a rassicurare entrambi, evitare sensi di sconfitta o prevaricazioni, ma la delega di
entrambi a tutelare il figlio, e solo lui, ha permesso quello che anni di contesa legale non
avevano consentito. Devo riconoscere che anche per me è stata una esperienza importante, ho
conosciuto l’anima di un bambino, ho raccolto il dolore dei grandi, ho imparato l’arte di
mediare riconoscendo il valore di ciascuno.
All’inizio del suo rapporto professionale con me, Mario mi chiedeva di avanzare le sue
richieste ai genitori, per esempio che il padre gli telefonasse in giorni e orari fissi in modo da
sapere che la telefonata era per lui così da rispondere direttamente, e per converso che la madre
rispettasse l’orario e la riservatezza della telefonata senza interporsi o cogliere l’occasione per
altro. Oppure mi chiedeva di interpellare i genitori per l’autorizzazione alla gita scolastica in
modo che non discutessero fra loro per la gita e per i soldi.
Nel primo anno Mario veniva spesso in studio da me, si sedeva sulla sedia del cliente,
come diceva lui, e mi poneva le sue domande. Mi chiedeva il consiglio legale, voleva sapere
cosa diceva la legge, chi aveva ragione e cosa era giusto fare. Parlavamo seriamente, lui era
curioso di sapere, faceva le sue considerazioni e ascoltava le mie. Apprezzava che un parere
fosse un parere e che la decisione fosse affidata al senso di responsabilità, cercava di capire
quale potesse essere la cosa davvero “giusta”. E se non c’era una norma precisa che prevedesse
proprio il fatto (mi raccontava spesso vicende di scuola o fatti riguardanti i compagni), era
curioso che si potesse trovare una analogia, un esempio simile cioè, come lui diceva, o un
principio a cui potersi riferire. Si cercava di ragionare insieme con il buon senso e individuare
cosa fosse più giusto, Mario ci teneva a restare sempre su un piano di equilibrata neutralità.
Talvolta criticava quella che definiva la scarsa obiettività delle suore che invocavano sempre i
dettami della chiesa, o i genitori che imponevano le loro regole. Allora gli avevo fatto vedere
che l’“onora il padre e la madre” del quarto comandamento è iscritto all’art. 315 del codice
civile nel dovere del figlio di rispettare i genitori. Gli avevo fatto vedere che l’articolo del
codice dice che il figlio “deve” rispettare i genitori, gli avevo fatto considerare che il diritto ha i
suoi imperativi e che ci sono dei principi fondamentali come il rispetto della vita e della libertà
che sono principi cui non si può derogare. Mi ringraziava sempre per le cose che gli dicevo e
quando lo accompagnavo alla porta mi salutava compito, io gli dicevo di salutare la mamma e il
papà. L’ho visto crescere e farsi ragazzino.
Poi pian piano gli incontri si erano diradati. C’era stato un lungo periodo in cui non era
venuto, poi aveva telefonato un pomeriggio perché aveva bisogno di parlarmi e lo avevo sentito
preoccupato, quasi con una sorta di tremito nella voce.
***
L’avevo accolto con fare allegro pensando di metterlo a suo agio. “Finalmente ci si
rivede…” Mi aveva dato la mano con calore ma era rimasto serio, era entrato in studio
chiudendo la porta e si era seduto. “Questa volta è una domanda importante” aveva detto, ma
poi era rimasto in silenzio. Aveva abbassato la testa e mi era sembrato di nuovo il bambino del
primo giorno in cui l’avevo conosciuto, con la sua frangia di capelli lisci sulla fronte a
nascondere gli occhi.
“Se è troppo difficile fare la domanda – avevo detto piano – forse puoi andare per ordine
e raccontarmi i fatti…” Allora lui aveva annuito e mi aveva raccontato i fatti.
Anche la mamma da qualche tempo aveva un suo compagno, era più vecchio e a lui non
piaceva. La mamma lo sapeva e allora non lo portava a casa, o lo portava quando lui non c’era,
quando lui andava a Milano dal papà. Ma lui se ne accorgeva quando tornava, lo sentiva che
quel signore era stato a casa e allora si arrabbiava con la mamma, e lei negava.
Ma non era questo il fatto. Il fatto era che nella settimana precedente la mamma era
andata a Bologna per un corso di formazione del suo lavoro, così aveva detto, ed era stata via
tre giorni. Da lui era venuta a stare una amica della mamma. E quando la mamma era tornata lui
aveva visto che era molto stanca, era andata subito a letto e anche il giorno dopo non stava
bene, aveva detto che si era presa l’influenza. Ecco il fatto era che non aveva preso l’influenza.
Il fatto era che lui aveva sentito la mamma che telefonava dalla stanza da letto e lui aveva
ascoltato la telefonata, perché aveva sentito che la mamma piangeva.
Si era fermato perché aveva un nodo alla gola. Poi aveva ripreso il racconto. La mamma
diceva per telefono che lo aveva fatto, diceva piangendo che lo aveva fatto, che un bambino da
quell’uomo non lo voleva. Mario aveva alzato gli occhi e mi aveva guardato: “Ha fatto
l’aborto…” mi aveva detto “ha fatto un aborto. Aspettava un bambino da quell’uomo…” Mario
mi fissava con uno sguardo interrogativo.
Non è facile parlare di aborto a un bambino di dodici anni quando ad abortire è stata sua
madre, spiegargli che non sta a lui giudicare, come non sta alla società. Abbiamo parlato a
lungo, io cercavo di restare sul piano dell’astratto cercando di lasciare sullo sfondo i motivi che
appartengono al segreto dell’intimità.
“Ho capito – aveva detto Mario – non voglio giudicare. Ma non era questa la domanda
che mi premeva.” Poi aveva aggiunto: “Pensavo… se devo dirlo o no al papà, che la mamma ha
fatto l’aborto. E’ questa la domanda.” Si era fatto scuro in volto e io mi ero sentita spiazzata.
Allora avevo proposto: “Proviamo a ragionare insieme, come altre volte, cercando gli
esempi.” “Se io ho una cosa che è mia –avevo provato a ipotizzare – posso prestarla a chi
voglio. Giusto? Ma se un altro mi ha prestato una cosa sua, io non posso prestarla a un altro
senza il consenso del proprietario…” “Si – aveva detto Mario – ma qui non si tratta di un libro,
o della bicicletta, o di una cosa. E poi, se io avessi un libro in prestito e mio padre mi
domandasse di chi è il libro, o una bicicletta o un’altra cosa, io gli direi che non gliela posso
dare perchè quella cosa me l’ha prestata un compagno, non è mica un segreto…” “Hai ragione –
avevo replicato – facciamo che io ho un segreto, se è un segreto mio lo posso confidare a un
amico, se voglio, e mi aspetto che il mio amico tenga il segreto. E se un amico mi confida un
suo segreto, so che lui si aspetta che io tenga il segreto. Altrimenti devo chiedere a lui se posso
confidarlo ad altri…” Ci eravamo guardati. “Non è un segreto mio –aveva detto Mario – è un
segreto di mia mamma… e io l’ho sentito per caso, lei non me lo ha mica confidato...” Era
rimasto immobile, io avevo sentito che stava riflettendo.
Mi aveva colpita quel suo “per caso” e allora avevo aggiunto: “Facciamo un altro
esempio, se tu “per caso” trovi una cosa che non è tua, che cosa fai? se conosci di chi è, gliela
restituisci…” Mario non mi aveva lasciato andare oltre. Si era illuminato in una sorta di sorriso,
come per dire che aveva improvvisamente intravisto quello che cercava, e aveva detto: “Giusto,
non è una cosa mia, io l’ho trovata per caso questa cosa, e non mi appartiene.” Poi aveva
aggiunto piano, lentamente: “E siccome è un segreto della mia mamma, io piano piano glielo
riporto in segreto, così lei non sa neanche che lo aveva perduto…” Io lo avevo abbracciato e
quella è stata l’ultima volta che ho visto Mario.
***
Di questo fatto ho parlato qualche volta con gli psicologi. Loro dicono che, se per certi
versi e tutto sommato, quella che io e Mario avevamo individuato non era stata una cattiva
soluzione dal momento che aveva evitato il rinnovarsi di un conflitto sopito, mettendo in crisi
la madre e magari riaccendendo le iniziative del padre, tuttavia per quanto riguardava Mario, il
bambino avrebbe dovuto essere lasciato libero di parlare sia con la madre che con il padre,
liberandosi così del peso enorme di un segreto insostenibile. Io ho sempre coltivato la speranza
che Mario sia riuscito a parlarne almeno con lo psicologo, allora o poi.
Però ho anche pensato a qualcos’altro, alla mia funzione e a quello che a me era stato
chiesto come avvocato. Ho pensato che Mario a me non aveva chiesto di essere il suo psicologo
(che peraltro aveva), non mi aveva mai chiesto, nei nostri incontri, un aiuto per chiarire aspetti
psicologici, e nemmeno mi aveva chiesto un appoggio affettivo. Lui i genitori li aveva, come
aveva gli insegnanti, e altre persone di riferimento, e anche i suoi amici. Mario aveva chiesto di
avere un avvocato perché voleva essere tutelato nei suoi diritti, anche di fronte ai suoi genitori,
voleva un avvocato che gli chiarisse il punto di vista giuridico degli eventi della vita che lo
riguardavano. E’ esattamente quanto prevede la Convenzione di Strasburgo, quando afferma
che il minore ha diritto di essere ascoltato, di essere informato rispetto alle vicende familiari
che lo coinvolgono, di poter esprimere il proprio pensiero e che di esso si tenga conto (anche
eventualmente andando di diverso avviso).
Mario mi aveva trascinato nell’esperienza difficile ma preziosa e affascinante di essere il
suo avvocato, mi aveva chiesto di accompagnarlo a capire il senso profondo delle cose, con
esempi chiari alla sua portata, ma per poter poi prendere le proprie decisioni, non quelle
imposte da altri. Voleva poter fare una scelta “giusta”.
Ho ripensato spesso alla storia del mio rapporto professionale con lui e ho considerato
che da me egli si aspettava un prudente consiglio, non la soluzione del quesito, non la delega o
lo sgravio di una responsabilità che voleva rimanesse sua. Cercava il bene “giusto”, quello
corrispondente a giustizia che pensava di poter scegliere responsabilmente nel rispetto di sé e
degli altri. A me chiedeva di essere il suo avvocato di fiducia, e lui è stato davvero il mio
cliente. Perché a dieci, dodici anni, Mario era un bambino ma, come si dice, capace di
discernimento.