La Rassegna d`Ischia 1/2003

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La Rassegna d`Ischia 1/2003
Anno XXIV
N. 1
Aprile/Maggio 2003
Euro 2,00
La preziosa eredità
dei toponimi
Pellegrini
sulle orme di San Paolo
Il naufragio e il mistero
del veliero Warrior nel 1910
«Quattro chiacchiere tra pescatori»
(opuscolo del 1954) sull’invenzione della rete lampara
Pagine di Storia
Le antiche Terme dell’isola d’Ischia /1
I Volontari
Ungheresi
tra i
Garibaldini
Le Terme Belliazzi di Casamicciola
Periodico di ricerche e di temi turistici, culturali, politici e sportivi
Dir. responsabile Raffaele Castagna
La Rassegna d’Ischia
Anno XXIV- N. 1 - Aprile/Maggio 2003 - Euro 2,00
3 Motivi
5
La preziosa eredità dei toponimi
6
Pasqua a Ischia (da Lettera da Ischia del 1965)
8
Quattro chiacchiere tra pescatori
(opuscolo di Domenico Di Meglio del 1954)
12
Gli “Accattatori” nella vendita del pesce
13
Premio di Poesia “Città di Panza 2003”
16
Le antiche Terme dell’isola d’Ischia / 1
Le Terme Belliazzi di Casamicciola
21
24
28
34
Il naufragio e il mistero del Warrior
con marinai naufraghi di Ischia e Procida
37
Storia: I Volontari Ungheresi tra i Garibaldini
40
Ricordo di B. Croce al Centro di Ricerche st. d’Ambra
42
Il Decreto sulle Virtù del parroco G. Morgera
45
Rassegna Stampa
- Fiamme Gialle a Casamicciola (da Il Finanziere)
- Un sito rupestre a Ischia? (da Il Giornale di Vicenza)
Novita editoriali e Rassegna Libri
Pellegrini sulle orme di San Paolo
Taccuino di viaggio / Marocco /2: Place Jemaa el-Fna
Periodico di ricerche e di temi turistici,
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La Rassegna d’Ischia
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Stampa Tipolito Epomeo - Forio
2 La Rassegna d’Ischia 1/2003
In copertina (I) La
Chiesa del Soccorso
in Forio di A. Louis
Charles Ledoux (in
Gast auf Ischia di P.
Buchner) (IV) Lacco Ameno,
la bella spiaggia
1940 (Coll. G. Silvestri)
www.larassegnadischia.it
E-mail: [email protected]
Le opinioni espresse dagli autori non impegnano la rivista - La collaborazione ospitata
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senza alterarne la sostanza, gli scritti a disposizione. Per eventuali recensioni inviare
i volumi.
MOTIV I
In questi ultimi anni molti studenti universitari (anche non isolani) hanno scelto per le loro testi
di laurea argomenti concernenti
vari aspetti dell’isola d’Ischia, da
quelli termali e ambientali a quelli
artistici, politici, religiosi... oppure
legati a personaggi della sua storia.
Non sembri inopportuno dire che in
taluni casi abbiamo potuto con La
Rassegna d’Ischia, con i documenti
e le ricerche riportati nei vari anni
di pubblicazione (e ultimamente
ampiamente citati anche sul sito Internet), offrire anche il nostro contributo, come d’altra parte hanno fatto
tanti altri appassionati studiosi che
nel corso degli anni hanno raccolto
materiale sull’isola d’Ischia e si sono
dimostrati ben disposti ad aiutare i
giovani per i loro lavori.
Ma in proposito vogliamo mettere
in evidenza come scarsa collaborazione si sia trovata negli enti pubblici
e nelle istituzioni comunali, dalle cui
sedi è spesso stato rivolto l’invito ad
indirizzarsi proprio a privati studiosi
e collezionisti. Essere facilitati nella
ricerca negli stessi archivi comunali
appare in qualche occasione cosa
impossibile. D’altra parte sappiamo
in quali condizioni essi versino e
come nulla si faccia per riordinare
il materiale ancora esistente, anche
con la giustificazione che non ci
sono fondi o i locali per riordinare il
tutto. Poi magari si trovano sempre i
soldi per le estive “saucicciate” e le
quattro canzoni in piazza, che fanno
più appariscenza e messa in scena.
D’altra parte sappiamo anche
come siano state chiuse le biblioteche allestite dalle stesse Amministrazioni comunali, ad esempio a
Lacco Ameno e a Forio, lasciando
che scomparissero i volumi acquisiti
negli anni e pur mentre sembrava
che continuamente crescesse l’attenzione, soprattutto degli studenti,
intorno a tali centri di cultura. Uni-
Raffaele Castagna
co dato positivo è da individuarsi
nell’aver visto ritornare a novello
vigore la Biblioteca Antoniana di
Ischia, vanto già di Mons. Onofrio
Buonocore.
Eppure oggi c’è un rifiorire di
attività editoriali locali che stanno
portando alla conoscenza di tutti o
di chi ne ha voglia tante preziose
opere del passato dimenticate e rare,
acquistabili quindi sui cataloghi
di antiquariato e soltanto da pochi
amanti del libro, i cosiddetti bibliofili. Ma si tratta di un settore verso cui
l’interesse e l’attenzione non sono
affatto percettibili. Il che ci appare
nettamente in contrasto con quella
calda accoglienza, messa in mostra
anni addietro di fronte ad interventi
esterni nel riproporre testi sull’isola
d’Ischia.
***
C’erano una volta le poste! Pagamenti di conti correnti postali e
vaglia, corrispondenza, pensioni,
libretti di risparmio... tutto era facile
per chiunque e senza tanto dispendio
di tempo. C’era anche il famoso
avvertimento: «Fa fede il timbro
postale» per giustificare di aver proceduto a determinati atti nei tempi
dovuti. Oggi non si usa più apporre
il timbro di arrivo. Per le operazioni
agli uffici postali, ridotti sempre più
di numero, bisogna mettere in conto
ore ed ore di attesa, con la prospettiva a volte di dover sostare anche
all’aria aperta (al sole o alla pioggia),
in quanto i locali di operazione sono
piccoli. Una raccomandata non ve la
consegnano, ma vi lasciano sempre
l’avviso di giacenza. E, poiché i
centri di smistamento sono stati accorpati, si ha il caso ad esempio di
dover attendere tre giorni per il ritiro,
quanti ne occorrono per passare da
un comune all’altro.
Sono state modificate alcune mo-
dalità di invio, come quelle per le
stampe e per i libri abolite del tutto, a
meno che non si tratti di grossi quantitativi. E qui il problema ci riguarda
molto da vicino, se si considera che
per l’invio di una copia de La Rassegna d’Ischia bisogna considerarla
posta ordinaria ed usare la tariffa di
euro 1,55 (tremila delle vecchie lire
e, se si superano i 349 grammi, si
passa a settemila). Inoltre i relativi
tagli non si trovano ed allora occorre
combinarne vari, superando il già
elevato prezzo.
Da molte parti si è parlato del
pericolo che corre l’editoria minore
con la unica prospettiva di dover
scomparire. E va anche aggiunto che
il concetto di editoria minore non è
sempre ben interpretato, in quanto
vi si innestano anche prodotti che
vanno fino alle diecimila copie, senza calcolare quelli che si attestano
al di sotto (a volte anche di molto)
delle mille copie! Si legge infatti
in un articolo del periodico Giornalisti (n.2/2003): «Oggi spedire
per abbonamento postale costa un
minimo di 0,13 euro, che vuol dire
250 delle vecchie lire a cui vanno
aggiunte le spese di cellofanatura o
imbustamento dei periodici». Qui
il riferimento è al tariffario delle
spedizioni in abbonamento postale,
per il quale occorre un minimo di
mille copie. Del tutto indifferenti
sono le varie specifiche associazioni
alla effettiva editoria minore, che
si rivolge ad un pubblico ristretto e
prettamente locale, con riviste specializzate ed ovviamente non legate
alla attualità, e quindi di minore
attrazione per i lettori. Già peraltro
le incombenze burocratiche e fiscali
non fanno affatto differenza tra un
grosso apparato editoriale ed un
modestissimo periodico di paese!
«Spero - si legge ancora nel citato
numero di Giornalisti - che non sia
una manovra, un accordo tra “amici”
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per eliminare dal mercato le migliaia
di voci sparse in Italia. Non vorrei
che qualcuno si adoperi a spegnere
la luce di notte per lasciarla accesa
di giorno. Quando muore un giornale
si perde un pezzo di democrazia».
***
Si parla spesso di “memoria del
passato” (ricordare per non dimenticare), ma al di là di una occasionale
dialettica poco o nulla si registra sul
piano concreto. Non di rado inoltre
ci troviamo di fronte a situazioni
che sembrano paradossali, in quanto
siamo pronti a fissare in un modo o
nell’altro un segno che tramandi nel
tempo qualche attuale avvenimento,
come pure indifferenti e decisi a
modificare o lasciare in rovina quelli
posti da precedenti generazioni.
Volendo dare al momento corpo
a questa situazione, potremmo richiamarci alla contraddittorietà tra
la giusta aspirazione a porre qua e
là nuove lapidi commemorative e la
circostanza che quelle antiche cadono a pezzi, diventano sempre più
illeggibili o per l’usura del tempo o
perché coperte da erbe, tabelle pubblicitarie, pali vari... E la medesima
Leggete e diffondete
cosa si verifica, come si può leggere
in altra parte del giornale, per la
toponomastica, sostituendo spesso
le tradizionali denominazioni con
nuovi richiami non sempre da tutti
condivisi, proposti da commissioni
appositamente costituite, cui invece
si potrebbe affidare il compito di
fare una storia di tutti i toponimi,
considerato che avrebbero in virtù
della loro costituzione libero e facile
accesso alle fonti di archivio.
***
In ogni Comune ci sono zone verso
cui si concentrano le maggiori attenzioni degli amministratori di fronte
ad altre che, a mano a mano che ci
si allontana dal centro, mostrano
sempre più chiaramente i segni di
una scarsa considerazione e versano
spesso nel completo abbandono:
servizi carenti, controlli sporadici,
strade impervie e raramente oggetto
di manutenzione.... La realtà è che
si riversano le maggiori spese dove
pure lo sviluppo ha già impresso i
suoi segni piuttosto che in quelle
contrade cosiddette periferiche; un
fenomeno, questo, che non dovrebbe
sussistere in un contesto territoriale
di piccola estensione qual è quello
dei vari comuni isolani, in cui ogni
angolo, ogni quartiere potrebbero e
dovrebbero avere una prospettiva
di continua cura e valorizzazione.
E questo dovrebbe peraltro essere
proprio il vantaggio di avere tante
piccole entità, e cioè una facilità
di interventi su tutto il territorio!
Viceversa si assiste ad una costante
negativa evidente nel piccolo come
nel grande in senso generale, e forse
proporzionalmente rapportata al
territorio: il centro che costituisce
il fulcro di ogni paese e quindi
richiama incremento e sviluppo, e
la periferia, se così può dirsi, che
soltanto raramente vede affrontati
con la medesima sollecitudine i suoi
problemi.
Sotto questo aspetto ci chiediamo
se l’eventuale comune unico isolano
non sia destinato poi a determinare
un’accentuazione del fenomeno.
***
Arriva la stagione turistica e si
lavora per incrementare le casse comunali a spese degli automobilisti
con multe, parcheggi a pagamento,
bollini o grattini che dir si voglia.
In tal modo si crede di risolvere un
problema che si accentua di anno in
anno, perché aumentano i possessori
di veicoli e di parcheggi invece si
parla molto ma se ne attrezzano pochi o niente. In fondo - si potrebbe
dire - va bene così!
La Rassegna d’Ischia
Periodico di ricerche e di temi turistici, culturali, politici e sportivi
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Occorre conservarne le testimonianze presenti sul territorio come un patrimonio di grande valore
La preziosa eredità dei toponimi
di Nicola Luongo
L’insieme dei toponimi di una località, di una regione, di
un popolo, costituisce un patrimonio di grande importanza
che permette di conoscere aspetti antropologici, religiosi e
geografici che altrimenti rischierebbero di essere ricoperti
dalle tenebre dell’oblio e dell’abbandono con evidente
pregiudizio per la memoria storica a cui ogni comunità
deve necessariamente fare riferimento affinché non vada
perduto un indispensabile punto di orientamento per la
sua evoluzione e la consapevolezza della sua specifica
identità.
I toponimi quindi sono un’eredità preziosa e giovevole
che abbiamo il dovere di preservare e custodire come
una rarità eccezionale in uno scrigno di ebano, sia che
essi indichino personaggi insigni che hanno dato lustro
alla società di appartenenza o siano agionimi designanti
un luogo dedicato a un’entità trascendente o a un santo
o rivelino semplici caratteristiche naturali così frequenti
sulla nostra isola dal territorio tanto multiforme e accidentato.
Non bisogna dimenticare che essi sono parte integrante
della nostra vita e di quella dei nostri antenati per cui
meritano non solo il nostro rispetto e la nostra considerazione, ma soprattutto devono costituire uno sprone non
futile e superficiale per amare e conoscere sempre più a
fondo le contrade, le zone e i posti anche più reconditi
della nostra isola, come facevano fra mille difficoltà oggi
impensabili i viaggiatori del passato. Il che balza subito
in evidenza dalla lettura dei loro diari, delle loro relazioni
sulle escursioni e sulla scoperta di luoghi paradisiaci,
come si può constatare nel pregevole volume del prof.
P. Buchner «Ospite a Ischia» di recente pubblicato nella
versione italiana.
Perciò ritengo un grave errore e un’offesa al buon senso
e alla memoria dei nostri laboriosi e integri progenitori
eliminare un toponimo di qualsiasi genere e sostituirlo
con un altro, magari in nome di un interesse politico o di
un malinteso senso di modernismo ruffiano e calcolatore,
come purtroppo è spesso avvenuto in un nostro recente
passato. Anche il nome indicante una pietra, una rupe, un
albero, una qualsiasi sorgente, ecc, che hanno reso Ischia
famosa nel mondo, deve restare al suo posto, se possibile,
«finché il sole risplenderà su le sciagure umane».
La conservazione di ciascun toponimo significa anche
rinsaldare l’amore per la propria terra e consentire alle
nuove generazioni di avere un elemento in più per scoprire le vestigia di un passato certo non sempre idilliaco,
ma comunque assai utile e opportuno, visto il legame
indissolubile esistente tra presente e passato nella vita di
ogni uomo. D’altronde tutti gli scrittori che hanno trattato di Ischia, definita per le sue ineguagliabili bellezze
paesaggistiche da Berkeley «epitome del mondo», e celebrata anche per le preziose virtù terapeutiche delle sue
acque termali, hanno evidenziato il loro attaccamento alla
nostra isola anche andando alla scoperta degli angoli più
riposti e riportandone con grande precisione le indicazioni
toponomastiche.
Perciò anche per rispetto di questi illustri scrittori, di cui
tutti noi dovremmo essere fieri, e di tutti gli uomini che
amano il nostro meraviglioso «scoglio natio», i toponimi
che ci sono stati tramandati non devono assolutamente
scomparire, ma anzi essere valorizzati con una cura più
attenta delle epigrafi che li designano e con un numero
più consistente di cartelli indicatori. Ciò soprattutto per
quei tanti turisti, in gran parte tedeschi, che sono soliti
percorrere l’isola a piedi in lungo e in largo, inoltrarsi per
sentieri interni ed impervi, alla scoperta di sempre nuove
emozioni che la natura sa offrire.
D’altronde per gli amanti del modernismo ad ogni costo non dovrebbe risultare eccessivamente problematico
rinvenire sulla nostra isola angoli desolatamente anonimi
e nuove vie realizzate negli ultimi tempi su cui sbizzarrire
la fantasia per ricordare altri personaggi, altre circostanze,
altri eventi.
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Ernesto Fiore (in Lettera da Ischia a. III n. 6 1965)
Pasqua ad Ischia
Quest’anno ho trascorso la Pasqua
ad Ischia. Mancavo da anni, all’isola,
in aprile, ed ho desiderato tornarvi
proprio in questo mese, quando la
Convalle è tutta un rifiorire e dovunque è un festoso risveglio dopo il breve
letargo invernale.
In ogni casa vi è un cestello di erbe
e fiori dall’aspra fragranza: sono le
erbe ed i fiori che cederanno le loro
tinte alle uova colorate tradizionali. Li
hanno recati dalla campagna le donne
e i ragazzi, ma il lavoro di coloritura è
ora prerogativa della padrona di casa,
secondo una tecnica antica e precisa.
L’effetto è suggestivo. E l’uovo colorato diventa quasi un oggetto di valore. Un «pezzo» appetibile alla vista,
prima che al gusto, e degno, dunque,
d’essere a lungo contemplato prima
che consumato. In mezzo ai campi,
più tardi. nel pomeriggio di festa, se
lo disputeranno a bocce tra familiari
e vicini.
Pasqua, festa di primavera, è l’occasione dell’anno in cui - dopo il letargo
e la scontrosità invernali - l’uomo
torna ad avvertire più viva la presenza
del suo simile che gli è accanto, di chi
respira la stessa aria e gode lo stesso
sole. Pasqua perciò è anche la festa del
vicinato.
Pure le isole hanno le loro vicine di
casa. E la vicina di Ischia è Procida,
con la quale non mancano le cortesie
e gli scambi di visite. Come il Venerdì
Santo, appunto.
Con qualunque tempo, con qualunque mare si va: da Ponte, da Forio, da
Lacco e da Casamicciola. Ma se la
giornata è invitante, allora si assiste
a un vero e proprio pellegrinaggio.
Andare a vedere gli «incappucciati» di Procida e assistere alla loro
processione è un’abitudine antica,
certamente quanto gli incappucciati
stessi. Procida fa onore agli ospiti
come può; senza contravvenire né alle
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leggi dell’austerità isolana, né a quelle
del tempo di penitenza, ma torrone e
frutta secca ce n’è a dovizia, per tutti.
Le stesse bancarelle, la stessa animazione, ma una più intensa folla di
vecchi e di bimbi vedremo il giorno
dopo il Sabato Santo, alla processione
di Casamicciola. È qui che tutta l’Isola
viene a salutare la Resurrezione, è
qui che Ischia, dimenticando per un
giorno i sei Comuni, i sei Sindaci e le
inevitabili schermaglie, si sente tutta
unita in qualcosa di più alto: la Fede.
Lunedì in Albis, poi, v’è il saluto
corale e gioioso alla nuova stagione.
Vengono tutti qui, alla Pagoda,
all’ingresso del Porto affluiscono in
frotte da tutte le parti dell’Isola, ma
sono in prevalenza gli abitanti delle
strette viuzze dei pescatori: là dove la
malinconia dell’inverno è stata la sola
a parlare per tanti mesi.
Sono desiderose di svago e di canto
queste alacri fanciulle che da novembre a marzo hanno posato il dolce
sguardo dei loro occhi a mandorla sul
lavoro d’intreccio o di ricamo. Vogliono adesso dare il loro benvenuto alle
lunghe giornate di sole. Vogliono sentirsi vive e liete nella natura esultante.
E non diverso è l’animo dei giovani
che le accompagnano.
***
Ferdinando Il ebbe cara Ischia in
maniera particolare e con Ischia il suo
popolo: dopo cento anni piacerebbe di
certo, alla sua natura festaiola, il veder
scelti, appunto, questi giardini della
Pagoda, che lui volle così attraenti
quale meta alla Pasquetta ischitana.
Anche se la Pagoda, da oltre trent’anni, non c’è più. Onofrio Buonocore ce
la descrive con gli accenti affettuosi
che solo sanno suscitare in ogni uomo
i ricordi delle cose viste ed amate
nell’infanzia.
«Un elegantissimo tempio cinese,
di struttura esagonale. La sala centrale
era quadrata: le quattro pareti erano
rivestite di quattro grandiosi specchi
adorni di cornici auree. Quando noi
ragazzi ci recavamo nel bel mezzo,
vedevamo allungare una fila di noi,
prodotta dal gioco di luce. Le pareti
esteriori erano adorne di affreschi riproducenti scene cinesi. La sera che la
Pagoda venne inaugurata, intervenne
Ferdinando II con lo Stato Maggiore,
per una spaghettata: ognuno reggeva
il piatto suo tenendosi in piedi ...».
«... Era stato posto a guardia della
bella serra - racconta ancora il Buonocore - un custode arcigno: Giosafatte
Tallarico. Non à d’uopo di presentare
don Giosafatte, anche chi non ha tenuto per le mani i volumi del Misasi
ne sa quanto basti, attraverso le gesta
romanzate: condottiero di una brigata
di amici, era il terrore delle Calabrie.
E seppe a tempo rispondere all’invito
di Ferdinando II a tornare galantuomo;
ed egli e i dodici vennero relegati in
Ischia, pensionati e in tutta libertà; e
misero famiglia, furono galantuomini
tutti. Il Tallarico era addirittura un
signore; noi fanciulli ci raccoglievamo attorno, ed egli provava gusto a
raccontare le sue gesta e a mettere in
mostra le cicatrici; ma guai quando ci
rinveniva a caprioleggiare per i riquadri della Pagoda; bastava che il primo
avvisatore desse la voce: Tallarico!
e ci disperdevamo come passerotti
all’apparire dello sparviere. E, quando
mancò ai vivi lui, tanta festa di natura
perdette d’incanto».
Potenza mirabile del clima d’Ischia,
capace di tramutare perfino un truce
brigante calabrese in un burbero e
benefico guardiano di cineserie.
Oggi, dunque, la Pagoda non c’è
più. Ma il nome è rimasto al luogo
ed è appunto alla «Picò» (così nella
parlata isolana) che il popolo compie
la sua prima gita di primavera.
Le ragazze vi vengono coi loro
vestiti più belli e mille fantasie per il
capo. I giovani sfoggiano gli sguardi
più ardenti. Nascono conoscenze e
simpatie. Occhi che non si sono incontrati per tutto il lungo inverno si
fissano a vicenda con calore. Nell’aria
che i pini fanno resinosa volano parole
d’amore che sono inno alla giovinezza, alla vita. La gita di Pasquetta alla
Pagoda è un rito ed è una gioia il cui
ricordo rimane a lungo nella memoria
delle fanciulle isolane: il destino di
molte di loro passa per quella esigua
striscia di terra alberata, fra mare e
mare.
È un destino di lealtà e di lunghe
attese. Un destino di lavoro e di
pazienza. Perché - non s’illuda il
villeggiante superficiale - Ischia non
è un frivolo paese, che si esaurisce
nella festosa girandola d’una stagione
balneare. L’elogio della sua forza si
indovina nella radice del suo nome
stesso: ischis - forza. Ed è elogio di
naviganti e di spose fedeli. È elogio
di agricoltori tenaci. È elogio di mercanti intelligenti ed accorti. Di gente,
in definitiva, che lavora sempre con
amore ed intelligenza.
***
Torniamo alla Pasqua che è festa
di primavera anche alla Pineta, già
animata di bimbi. Da balza a balza i
richiami gioiosi. Fresche voci levano
al cielo messaggi di serenità, di esultanza. Ogni angolo è una scoperta.
Ogni lucente ago caduto dalle verdi
chiome dei giganti, una occasione di
giochi.
Ci si rifiuta al pensiero che, sotto
le radici di questi colossi, un’altra
Pompei dorma il suo sonno di secoli.
Il suo nome era Geronda. E l’avevano soprannominata «la piccola Napoli» per il numero e la ricchezza degli
edifici che la mettevano in gara con la
più splendida città della Campania.
Era Geronda la capitale dell’Isola,
quando cinque secoli mancavano
ancora all’apertura del Porto, ed a Geronda si trovavano la sede vescovile, i
palazzi dei più ragguardevoli cittadini,
i più importanti mercati.
La vita della città era in pieno fulgore, nel 1301, quando il Monte Epomeo, che già sembrava assopito, volle
dare la prova più terrificante della sua
forza distruggitrice.
Durò due mesi, la tremenda eruzione, annunciatasi con tremendi boati e
alti bagliori di fiamme. La montagna,
dalla parte di Fiaiano, prese a tremare,
contorcendosi, fino a squarciarsi. E
dallo squarcio immenso, vera bocca
d’inferno, una lava di fuoco cominciò
a discendere verso il mare.
Fu una distruzione lenta, ma senza
scampo. Non uno degli abitanti di Geronda ebbe salva la sua casa. Non uno
potette sottrarsi all’ordine imperioso
della Natura che lo scacciava dal luogo
della sua nascita e dei suoi affetti.
Fu questo lo spettacolo infernale
che diede Ischia nel 1300. Si chiudeva
un ciclo nella vita dell’Isola e se ne
iniziava un altro, fatto di terrori e di
raccoglimento. Si iniziava con enorme
ritardo il Medio Evo, in questa terra
dove la mitezza del cielo e del mare
avevano prolungato il dominio della
grecità fino alle soglie dell’età moderna.
Geronda fu distrutta. In essa la sede
vescovile e le case di tutta la sua gente.
Gli ischitani dovettero trovare rifugio
altrove. E lo trovarono quasi tutti nel
Castello, là sullo scoglio che Gerone
siracusano fortificò per primo, e dove
essi si sentivano al sicuro da entrambi
i pericoli più temuti in quell’epoca: le
possibili, nuove eruzioni del vulcano
e le frequenti incursioni dei pirati,
apportatrici di lutti, di schiavitù, di
miseria.
Nel Castello, fino al 1700, con la
dimora dei signori dell’Isola, con la
nuova cattedrale e dieci altre chiese,
si svolse tutta la vita di Ischia. Solo
durante il giorno, la gente ne usciva
per il lavoro dei campi.
La brulla e nera distesa di lava che
aveva cancellato il ricordo della maggiore città isolana rimase per tutto quel
tempo immutata. Non un albero si levò
a contrastarne lo squallore.
E così doveva essere ancora fino
alla metà dell’Ottocento. Così sarebbe, forse, ancora oggi se un uomo,
trasmettendo la sua nobile passione
ad altri uomini, non fosse riuscito a
mutare, ed in maniera così mirabile,
il volto di questa parte dell’Isola.
Giovanni Gussone, nativo di Villamarina, in provincia di Avellino, era
uno studioso di grande fama, direttore
dell’Orto botanico di Napoli e tenuto
in grande familiarità dai Borboni.
Alle gite che Ferdinando II compiva
frequentemente all’Isola, il Gussone
era tra i più assidui. Gli piaceva qui
studiare e lavorare. Scrisse un libro
sulla flora ischitana e, quel che più
conta, fu il padre - può ben dirsi - d’una delle meraviglie di Ischia: di questa
Pineta, appunto.
A quel tempo, la terra ricoperta di
lava veniva distribuita, a coloro che
la volevano, in enfliteusi, per nove lire
il moggio. Il Gussone sovrintendeva
a questa specie di minuscola riforma
agraria ed imponeva che si piantasse il
pino, uno tra i pochi alberi, del resto,
che potesse allignare sulle lave, spingendo le radici tra le fenditure di quegli aridi massi. A migliaia e migliaia, i
teneri fusti vennero messi a dimora in
quegli anni lontani. E non solo sulle
lave di Geronda. L’amore per i pini,
che il Gussone andava predicando,
conquistò un po’ tutti ad Ischia. E non
ci fu campo coltivato che non ne ebbe
uno ai suoi margini. Presso molte case
contadine, si usava piantare il pino
in segno di augurio per la nascita del
figlio primogenito. E cento pini, alcuni
dei quali oggi in pieno vigore, furono
messi ad allietare anche le pendici del
Montagnone.
Questa, in breve, è la storia della
Pineta d’Ischia. Una storia che certamente non conoscono i bimbi i quali
vanno ogni giorno a respirare, sotto
le chiome secolari, quell’aria limpida
e pura che sveglia un formidabile appetito nei loro stomaci. La ignorano,
questa storia, anche le loro mamme.
Se la conoscessero, manderebbero di
tanto in tanto - ne siamo sicuri - un
pensiero di riconoscenza alla memoria
di Giovanni Gussone, il valente botanico al quale Ischia è debitrice d’una
fra le sue più singolari ricchezze.
La Rassegna d’Ischia 1/2003
7
Quattro
chiacchiere
tra
pescatori
Un opuscolo di Domenico Di Meglio del 1954 sulla
pesca con la lampara, con presentazione di Vincenzo Telese
Presentazione
Nelle mie puntate settimanali a
Ischia non posso esimermi dal dovere civico di incontrarmi con i Colleghi dell’Amministrazione Comunale
e con una schiera sempre crescente
di Amministrati.
Un Collega assiduo nelle riunioni
al Comune e nelle passeggiate in
paese è Domenico Di Meglio, un
pescatore che da anni ha assunto
il ruolo di rappresentante della
sfortunata categoria di pescatori.
Dico sfortunata, in quanto nonostante i privilegi e le concessioni di
Ferdinando d’Aragona nel 1448,
e di Carlo V nel 1533, nonostante
le promesse fatte da tutti i successivi Governi, i pescatori ischitani
vivono nella più onesta miseria, si
dibattono, senza speranza, nel più
sconfortante disagio!
E Domenico Di Meglio si agita
continuamente per migliorare le
condizioni di lavoro dei suoi compagni di sventura.
Naturalmente, cerca sempre nuovi
motivi per agitare vecchi problemi.
Così, cercando e agitando, son
venute fuori queste «Quattro chiacchiere tra pescatori» che vale la pena
di pubblicare, non per far piacere
a Domenico Di Meglio, autore di
queste ed altre «chiacchiere», ma
unicamente per far conoscere la
semplicità e la umanità del pescatore ischitano.
Vincenzo Telese
8 La Rassegna d’Ischia 1/2003
Durante alcune ore della giornata i pescatori se ne stanno sulla spiaggia intenti
alla manutenzione dei loro attrezzi: c’è chi rattoppa, chi costruisce ex novo e
chi si diverte a guardare e a chiacchierare. Generalmente questi ultimi sono i
più vecchi; sono coloro che hanno dato le consegne già da qualche tempo.
Uno di questi veterani, Tortora Aniello, un vecchio di 84 anni compiuti, mi
chiama e mi invita ad appoggiarmi accanto a lui sulla murata di una barca.
«Ho visto la rete lampara - dice il vecchio con lo sguardo assente come per
scrutare nel passato - nascere, crescere e morire. Mi ricordo un mattino di 70
anni fa: io, mio padre e altri due pescatori, dopo aver lavorato tutta la notte
con lo “sciabichiello”, tornavamo a casa di buon mattino e grande fu la nostra
meraviglia quando vedemmo che tutti gli abitanti della marina d’Ischia erano
già svegli e raccolti sulla spiaggia a commentare un grande avvenimento.
«Il pescatore Lauro Francesco con altri otto compagni aveva fatto una pesca
favolosa; aveva catturato una grande quantità di pesci (sauri); ma la meraviglia
di tutti non consisteva in quest’abbondanza di pesci pescati, bensì nel come
erano stati catturati, quale mezzo aveva operato il miracolo, quale rete era stata
capace di una pesca così eccezionale.
«Il Lauro manteneva il segreto, nessuno era capace di farlo confessare e così
passarono parecchi mesi durante i quali ognuno si scervellava cercando di
risolvere da sé l’enigma, ma per quanto ci si sforzasse nessuno ci riusciva.
«Finalmente un giorno si seppe che una notte precedente la pesca favolosa,
un pescatore, con uno piccolo battello, armato di una lanterna ad olio, faceva la
pesca dei totari con la lenza. Senonché ad un certo momento si accorse che in
quel piccolo spazio di mare illuminato dalla lampada si riuniva una gran massa
di pesci perché attratti dalla luce. Al ritorno dalla pesca raccontò questa cosa al
suo parente Lauro, il quale, di nascosto e senza far cenno ad altri, ideò una forma
di rete mai esistita fino allora. Usò una buona parte della sua sciabica alla quale
aggiunse altre reti e così cuci e scuci ne uscì fuori una rete differente dalle altre.
La differenza consisteva nel fatto che alla estremità della rete, al posto del sacco
(unico sistema esistente a quell’epoca), sostituì un intruglio tale che ne risultò una
specie di vasca; cioè il sacco lo fece molto più grande abolendo la parte superiore.
Con questa rete, quella notte all’insaputa di tutti, Lauro prese quella gran quantità
di pesci».
Caro mio vecchio Tortora, allora si sa chi per la prima volta fece la lampara!
«Fece la lampara per modo di dire, dice Tortora, guardandomi, prima che si
perfezionasse ci vollero degli anni».
Ora mi devi dire, caro Tortora, giacché ti ricordi come è nata, chi fu che a quella
rete ci mise il nome di lampara e per quale ragione.
«Altri pescatori della stessa spiaggia - continua il vecchio - ne fecero altre tre e
queste quattro reti rimasero per parecchio tempo senza nome. La pesca si faceva
di notte e senza luce. Quando era buio, i pescatori vedevano a causa dell’acqua
fosforescente masse di pesci in movimento che provocavano bagliori simili al lampo
di una qualsiasi scarica elettrica e siccome quella nuova rete risultava adattissima
per questi pesci a lampo venne chiamata lampara.
«Questo sistema di rete fu sempre combattuto sin dalla sua nascita. Nei primi
anni ci furono oppositori tra gli stessi pescatori d’Ischia perché la maggior parte di
questi pescavano con le solite lanterne ad olio e nei mesi estivi facevano la pesca
dei lacerti (sgombri) con le lenze e in questo modo: i pescatori ancoravano i loro
battelli in zone di mare frequentate da questi pesci, accendevano il fanale e remigiavano: quando i lacerti attirati dalla luce e dal remigio venivano alla portata della
lenza cominciava la pesca vera e propria. Con questo sistema se ne catturavano
quintali in poco tempo.
«Ma quei pochi pescatori in possesso della rete lampara pensarono di usare
questa rete per la pesca dei lacerti sostituendo le lenze. Il colpo riuscì e ognuno
può immaginare con quale effetto. Da qui l’odio tra i pescatori con lampara e tutti
gli altri con mezzi antiquati.
«Questi ultimi vedevano nel nuovo sistema di pesca un nemico di tutti i pescatori
isolani.
«Il resto lo sai anche tu - prosegue il vecchio Tortora - da allora siamo arrivati
all’epoca della lampara a fonti luminose, cioè intorno al ‘900 / ‘915».
Se ben ricordo, tu e tuo padre avevate due lampare e quante volte siete stati
presi dalle autorità vigilanti e portati a Napoli in capitaneria con barche, luci, reti,
ed equipaggio. Mi ricordo quando tu scappavi per non farti prendere inseguito da
mezzi della finanza, a volte della capitaneria e persino la regia marina mandava le
sue navi di piccolo tonnellaggio per prenderci in contravvenzione.
«Caro Domenico, tu sei smemorato; tutto ciò mi sembra che sia accaduto ieri
eppure sono passati tanti anni. Proibirono la lampara, ci costrinsero a rimanere a
terra, non si poteva neanche andare di nascosto tanto era rigorosa la sorveglianza.
Caro vecchio mio, questo che dici ora me lo ricordo anch’io. Sai come si dice?
Quattro occhi fanno maggior vista; dopo tutto io ho solo 18 anni in meno di te. Ed
ora voglio raccontarti qualcosa anch’io che forse tu hai dimenticato: siccome non
si poteva pescare con la lampara, Antonio, con il pescatore del castello, ideò la rete
volante, cioè una specie di menaide, tutta lunga che, volendo, diventava lampara.
Infatti per raggiungere lo scopo bastava aggruppare il piombo al centro della rete
e legarla con una piccola corda.
«Al momento del pericolo, ossia quando si avvicinavano le autorità vigilanti,
con uno strappo si mollava il mazzone (così chiamato) e la rete diventava lunga
perdendo ogni caratteristica della lampara.
«La capitaneria di Napoli aveva emanato una ordinanza con la quale si vietava
l’uso della rete lampara ma non si proibiva la fonte luminosa.
«I pescatori andavano alla pesca con le fonti luminose e al posto della lampara
La Rassegna d’Ischia 1/2003
9
«Quattro chiacchiere tra pescatori» di Domenico Di Meglio
Rete detta lampara
10 La Rassegna d’Ischia 1/2003
usavano la volante che come ho accennato bastava aggruppare quaranta
metri di corda, armata sotto la rete, e
legarla. Il risultato era identico allla
lampara originale. Con questa trovata
geniale si poté tirare avanti nella pesca
per parecchi anni».
Il vecchio Tortora ride al ricordo di
quelle lontane scene rincresciose eppur
belle. Ad un tratto dice: «mi ricordo
come rimanevano male gli agenti della
sorveglianza quando, sicuri di averci
accoppati, noi dicevamo: non è la
lampara, è la rete volante; in meno di
un secondo la lampara diventava tutto uguale come la rete menaide; era una bella
beffa all’ordinanza della capitaneria di Napoli».
Dopo la prima guerra mondiale tutte le marine del Tirreno si schierarono contro
la pesca a fonti luminose con la lampara.
Ogni settimana usciva una legge o un’ordinanza; oggi si proibiva alla pesca una
zona di mare, domani se ne vietava un’altra e così via.
I pescatori si divisero in due gruppi: coloro che appoggiavano la lampara e coloro
che la condannavano. Da queste specie di partiti nacquero rincresciose conseguenze:
ci furono ferimenti, qualche morto, abbordaggi in mare, ecc.
Una volta il piroscafo della linea d’Ischia e Procida fu caricato di pesci per portarli
ai mercati di Napoli. Senonché i pescatori di Mergellina, Santa Lucia, Napoli e
quelli di altre marine limitrofe, seppero del fatto e si riunirono tutti all’imboccatura
del porto di Napoli bloccandolo per tentare così l’abbordaggio del postale e buttare
in mare tutto il prodotto ittico. Il governo di quell’epoca aveva visto nella lampara
l’unico sistema di pesca che aveva risolto il problema economico nel fabbisogno
della popolazione e per calmare i pescatori che andavano contro ai lamparisti
adoperò il sistema di dare un colpo alla botte e un altro al cerchio.
Quasi tutti i pescatori delle isole d’Ischia e Procida si erano attrezzati con le
lampare; in poco tempo ci furono centinaia di fonti luminose. Parecchi pescatori
si attrezzavano in modo particolare e uscivano alla pesca per diversi mesi dell’anno, chi verso ponente, chi verso levante. Ma ovunque si andasse, si trovavano i
pescatori contrari e si doveva pescare sempre di nascosto.
Gaeta, tutte le marine della spiaggia romana, i centri pescherecci toscani e tutte
le marine del genovesato, senza escludere Salerno e la Calabria, erano avverse e
si schierarono contro il nuovo sistema di pesca che quelli d’Ischia avevano ideato.
Le autorità con la scusa dell’ordine pubblico mandavano i pescatori di lampare
a pescare ora a un posto ora ad un altro, così questi pionieri della lampara non
stavano mai più di due giorni in un sol posto.
«Quei pescatori di tante marine, continua Tortora, mentre ci mandavano via dalle
loro zone di pesca, venivano a Ischia a comperare le reti lampare e così in pochi
anni tutti i pescatori dei centri pescherecci del Tirreno, dello Ionio e dell’Adriatico si attrezzarono e diventarono pratici della pesca con le lampare, quegli stessi
pescatori che poco prima erano stati avversi al nuovo mezzo di cattura.
«Oggi la lampara a fonti luminose non esiste più, in qualche marina viene usata di
giorno oppure come era usata nei primi anni della sua comparsa. Eppure non doveva
morire così presto, dice guardandomi il vecchio, è nata quando io ero bambino ed
è morta mentre io sono ancora in vita. Quel pescatore, senza volerlo, inventò una
forma di rete che in pochi anni doveva rivoluzionare la pesca non solo in Italia ma
in diverse parti del mondo. Dalla lampara sono nate tutte le altre reti, di qualsiasi
forma, con le quali si esercitano oggi la pesca pelagica e la pesca vagandiva, di
notte o di giorno, con o senza la fonte luminosa e persino la rete per la pesca dei
tonni dalla lampara.
«Ottanta anni fa, caro Domenico, alcuni pescatori d’Ischia, essendo imbarcati sul
Barco Bestia “Armonia” della marina di Procida, si disertarono in California. Anche in quei mari furono costretti a fare i pescatori: pescavano i tonni con le lenze
e con reti di posta. Uno di quei disertori, un certo Luigi Mascolo, nativo d’Ischia,
scrisse a tuo padre affinché gli mandasse una “lamparella”. Tuo padre gliela spedì
in una botte e impiegò la bellezza di sei mesi per arrivare a San Pietro di California.
Appena giunta a destinazione, fu messa subito in pesca con esito sbalorditivo. I
pescatori giapponesi residenti in California la presero come modello e ne fecero
altre più grandi, così da quella lamparella come veniva chiamata ad Ischia, nacque
in California la gran rete lampara a cui poco tempo dopo applicarono gli anelli tutti
in giro chiamandola “Pursen”; da questa Pursen fecero in seguito la “Segaleva”,
quella che oggi in Italia viene chiamata “Cianciolo”.
«Appena finita la guerra 1915-18, continua il vecchio Tortora, io con i miei figli
avevamo la lampara con fonti luminose, se ti ricordi; un bel giorno l’agente delle
imposte voleva essere pagato da me parecchi anni di arretrati di ricchezza mobile;
era d’inverno, i figli erano piccoli e i soldi per pagare non li avevo. Per saldare
quel conto dovetti vendere tutti gli attrezzi da pesca.
A quell’epoca esistevano a Ischia circa 60 lampare: quasi tutti i pescatori si
dedicavano alla pesca con lampare e fonti luminose. Caro Domenico, è stato il
cianciolo a distruggere la lampara».
Poi Tortora mi guarda e si fa la solita risata furbesca.
«Noi ad Ischia, riprende il vecchio, facciamo come quel contadino che chiedeva al Signore la grazia di mandargli quel tanto necessario per farsi una zappa di
ferro in sostituzione di quella di legno. Il Signore gli concede la grazia, ma ecco
il contadino implorare nuovamente e poi ancora. Il contadino vuole diventare re e
il Signore lo accontenta. Non soddisfatto di questo, chiede la grazia di diventare
padrone dell’universo. Allora il Signore, per punire la ingordigia del contadino, lo
fa ritornare alla sua zappa di legno.
«Basta, dice il vecchio dandomi la mano, abbiamo detto troppe cose ed ora non
ho più voglia di parlare; se vogliamo continuare sull’argomento, sarà per un’altra
volta».
Volta le spalle e con passo lento e poco sicuro se ne va. Io rimango solo e penso
alle parole della favola del vecchio pescatore.
Porto d’Ischia - Una delle
ultime lampare (da La
tonnara di Lacco Ameno
e altri mestieri di pesca
di G. Silvestri - Imagaenaria Ed., 2003)
La Rassegna d’Ischia 1/2003
11
Acquistavano e rivendevano i pesci girando per il paese
Gli «accattatori»
di Giuseppe Silvestri
Una tradizione legata all’attività
peschereccia è quella dei cosiddetti
“accattatori”, i quali erano soliti
comprare i pesci dai pescatori e poi
andare a rivenderlo per le strade,
annunciando con voce sonora la specie e la bontà del prodotto: “Pesce!
Pesce! Chi vo’ pesce! E calamare
e triglie! O palammmete! Tene ‘o
lattere!”.
Alcuni avevano il gozzo e si
avvicinavano direttamente a quello dei pescatori, ancor prima che
toccassero terra, dopo una notte di
lavoro, allo scopo di prevenire altri e
contrattare il prezzo e il quantitativo;
a volte aspettavano sulla spiaggia; un
rituale generale che si ripeteva anche
quando i pescatori, non lontano dalla
riva, si dedicavano al “volo” della
lampara o della sciabica.
Con riferimento agli anni 1930/40
e oltre, a Lacco Ameno si ricordano
i seguenti nomi: Michele De Siano,
Liborio De Siano, Vincenzo De Siano detto “‘u piangente”, tutti della
famiglia soprannominata “Pesce
‘e tàte”; Giacomo Romano, della
famiglia “Cape ‘e purpe”; Antonio
Castaldi detto “Ntuniuccio” e Guarracino (il figlio Filippo continua la
tradizione familiare); ed ancora, Ciro
D’Orio, Aniello Mennella, Salvatore
Pascale, detto Salvatore “‘e Materanella”, l’unico che vendeva di mattina e di pomeriggio. Essi vendevano
a Lacco, ma soprattutto a Forio e a
Casamicciola.
I pesci venivano trasportati nei
cosiddetti “chianelli”, in genere due
sulla testa e due tenuti bloccati sui
fianchi con le mani, con l’immancabile bilancia (‘u valanzone”).
Michele De Siano con il figlio “Ntuniuccio” andava a comprare tutti i
12 La Rassegna d’Ischia 1/2003
giorni alla Mandra di Ischia e per
primo riuscì a fornirsi di un gozzo
a motore Diesel. La sua attività fu
poi continuata da Salvatore, Antonio, Restituta e tuttora mantiene la
tradizione familiare Domenico, detto
“Peperipé”.
A Casamicciola gli accattatori
vendevano soprattutto a Piazza
Bagni, perché c’era un notevole
movimento costituito dalle persone
che si recavano nei vari stabilimenti
per i bagni e i fanghi termali. In gran
numero erano contadini provenienti
dalle Province di Napoli o di Caserta
che ogni anno venivano a Casamic-
ciola per le cure: erano chiamati dai
venditori “ficaiuoli” e compravano
il pesce perché la maggior parte
alloggiava in case private.
Altro punto importante di vendita
era a Lacco la zona prospiciente
la Villa Svizzera, dove vi si trovavano coloro che vendevano quello
che chiamavano “‘a pustarella”,
cioè triglie, scorfani e altri pesci di
qualità; a Casamicciola un punto di
riferimento era la Pensione Morgera.
Tra gli accattatori che venivano da
Ischia si ricordano un certo Lunarde,
Pasquale Maressa; da Forio Andrea
‘u furiane e Vincenzo ‘u vaculese.
In determinati periodi, soprattutto per “crastaurielle” e “aluzze”,
venivano qui a comprare anche da
Napoli, Procida, Torre del Greco.
Vendita del pesce (da Ischia, Bilder aus vergangener Zeit, Photos Bettina)
Premio di Poesia
«Città di Panza» 2003
Comitato organizzatore: Mario Miragliuolo, Giuseppe Magaldi, Vincenzo Fiorentino, Luigi Castaldi.
Giuria di premiazione: proff. Biagio Di Meglio (presidente), Aniello D’Abundo, Marilena Della Pietra, Anna
Fiorentino, Imma Trani
A Panza, frazione del Comune di Forio nell’isola d’Ischia, si è svolta la prima
edizione (2003) di un Premio di Poesia, che ha già riscosso in questo avvio un
notevole successo di partecipazione e di attenzione, sul tema: «L’amicizia, il bello, la vita» e dedicato «all’indimenticabile Pino Castiglione in ricordo della sua
affettuosa amicizia».
Una iniziativa, definita dal prof. Luigi Cacciapuoti oltremodo «... coraggiosa;
un’idea del genere avrebbe scoraggiato molti, vista la disaffezione così diffusa oggi
per gli ideali e i valori in un contesto di strisciante edonismo materialistico. Questi
amici invece hanno pensato che proprio in una situazione del genere occorreva
iniettare nella gente quel “supplemento di anima” che contribuisce a trasformare
la nostra povera gabbia di egoisti in un ambiente di entusiastica solidarietà».
Nell’ambito del premio c’è stata anche una serie di manifestazioni sportive.
Ilaria Ferrandino
La mia melodia
Ecco: le note,
quelle di un pianoforte
che suona una melodia
senza nome né autore,
continua ma mai uguale.
Note che mutano
in sorrisi, calde,
un fuoco ardente
per riscaldare
questo lungo cammino cupo e gelido,
per sciogliere
il ghiaccio dei cuori
che non riconoscono calori,
per riaccendere un sentimento
spento dall’odio.
Note che
si trasformano in
mani che
ti salvano dall’inferno.
Mani che
trovi in qualunque cosa
mani che
conservano un fiore
mani che
ti indicano la strada
per non perdere l’amore.
Le note diventano abbracci,
immensi come il mare.
Grandi abbracci
si uniscono per cancellare,
forti braccia si tengono
per trasformare il simbolo del dolore,
braccia grandi o piccole
suturano le ferite
per non essere UN punto
in mezzo al mare
ma IL punto
in mezzo al mare.
Il cielo piangeva disperato su di noi
e le sue lacrime
accompagnavano il silenzio misterioso.
Ma ora no!
Ogni rumore
è un suono che segue
quel pianoforte in alto.
Ispira qualcosa
che non so definire
forse non ho
mai conosciuto, provato.
Ho paura di soffrire ancora.
Ma questo motivo
mi apre la mente,
riesco a vedere
oltre l’oscurità.
È troppo piacevole
coinvolgente,
non posso trattenermi.
Ecco!
Ho posato il mio primo fiore
sulla tomba del mio dolore.
Adesso capisco le note
le conosco,
protagoniste dei miei sogni
nella sofferenza.
Non ho piu parole.
Non ce ne sono
per descrivere
l’inferno e il paradiso.
Ora vedo
il mio sogno.
Lo vedo,
li al pianoforte
con grazia e leggerezza
scivola sui tasti
una celeste melodia.
Ora so, so qual è
so cos’è , so chi è...
è una melodia
che mi appartiene
è mia
È LA MIA MELODIA
È LA MIA VITA
La Rassegna d’Ischia 1/2003
13
La Giuria ha indicato i seguenti vincitori:
1) Ilaria Ferrandino
per la poesia La mia melodia;
2) Francesca Taglialatela
per la poesia Apri il tuo cuore;
3) Gessica Scotti
per la poesia Amica di tutta una vita.
Inoltre:
Sezione Ragazzi: Cristina Pecorella per
la poesia Il cielo non crollerà;
Sezioni Giovani: Marianna Esposito per
la poesia La vita è bella;
Sezione Giovanissimi: Martina Iacono
per la poesia La vita e l’amicizia;
Poesia dialettale: Antonio D’Abundo
detto Floro per la poesia L’amico.
Gare sportive:
Enigmistica a squadre: Fabio Trani,
La vita è bella
È un dono,
è un dono della natura,
tienila con cura.
Se diventa una sciagura,
nessuno potrà perdonarti.
È bello cantare, ballare,
passeggiare
in riva al mare.
Suonare, cantare, cantare.
È bella la vita,
se la tieni con cura,
ti sorride
anche senza solletico.
Sentimi amico
sorridi alla vita
e ti sorriderà.
Nella vita ci sono
due cose fondamentali
per cui sbatterai
sempre le ali:
l’amore e l’amicizia.
Dell’amore
ancora non so,
ti parlerò di amicizia.
Smetterò di esserti amica
quando un pittore cieco
dipingerà il rumore
di un petalo caduto
su un pavimento di cristallo
magari di colore giallo,
oppure quando
un domatore di leoni
verrà domato
dallo stesso leone.
O forse quando
un compositore
scriverà il rumore
dei tuoi passi
che vanno
verso l’infinito,
toccando il cielo
con un dito.
E a quel punto penserò:
Non finirà mai
Marianna Esposito
Salvatore Iacono, Pasquale Di Manso,
Rosario Messina;
Dardi: Giuseppe Mattera detto l’Ar-
La vita e l’amicizia
Scacchi under 16: Eugenio D’Orio;
La vita è un dono, un segno...
L’amicizia è un grosso impegno...
La vita è tutta da vivere...
L’amicizia fa sorridere...
La vita te la senti intorno,
ma a volte è spiacevole.
L’amicizia a volte chiede perdono,
e ti fa pensare alle favole.
La vita è molto importante,
matore;
Scacchi adulti: Pietro Messina;
Scacchi semilampo: Giuseppe Ricci;
Tennis under 12: Vito Barnaba;
Tennis under 14: Giovanni Calise;
Tennis singolare: Sahsa Impagliazzo;
Tennis doppio: Sahsa Impagliazzo, Giacinto Cersosimo.
Il cielo non crollerà mai
Di solito il sorriso
è il trucco che usa
la tristezza per non essere
guardata; il nostro viso
indossa una maschera
gioiosa, per non far preoccupare
chi ci vuole bene.
Ma, in alcuni giorni,
resti rinchiuso dentro
il tuo universo,
fermo ad ascoltare
il silenzio, e se sei solo
14 La Rassegna d’Ischia 1/2003
neanche quella maschera
riuscirà a nascondere
che il nostro cuore è
pieno di lacrime... e
nemmeno una luce che
cade dal cielo illuminerà
la tua strada.
Solo quando sarà calata la notte
e non ci saranno nuvole
guardando tutte le parole
che sono già morte e
le nobili poesie spente
dalle lacrime mi
accorgerò di riuscire
a sorridere senza fingere.
la vivi sempre, vicino o distante.
L’amicizia è come un gigante,
è grande e ha potere all’istante.
Sono due inseparabili,
se fossero separate, sarebbero
come gli uccelli senza ali,
come l’acqua che non disseta.
Vivile e fai amicizia con loro!
Martina Iacono
Ora che le lacrime
si sono asciugate
vengo a cercarti
perché sento che la terra
mi trema sotto i piedi;
ma non mi ero accorta
che sei sempre stato qui
a sussurrarmi che il
cielo non crollerà mai.
Cristina Pecorella
Premio di Poesia «Città di Panza»
Apri il tuo cuore
Ritaglia
questi attimi di felicità
in questo mondo
fatto di dolore.
Raccogli
ogni briciola di bene
da questa vita
che è tanto avara.
Dona
amicizia, amore, felicità
a chi
ti guarda negli occhi.
E cerca
un sorriso,
una carezza,
a volte un bacio,
a volte amore...
Premio Letterario Nazionale
Ama
perché non c’è nulla di male
nell’amore
che puoi donare.
Ama
perché Lui è amore
gioia, estasi, felicità,
e non puoi impedire
che si manifesti.
Scava,
nel profondo del tuo cuore
e lascia libera la mente...
Abbatti
il muro che hai innalzato,
abbattilo!!
Amami, io sono qui.
Francesca Taglialatela
L’A.N.G.aE (Ass. Nazionale Giovani
Artisti Emergenti) indice ed organizza la
seconda edizione del Premio Letterario
Nazionale “Città di Fondi” aperto a tutti
i poeti di nazionalità italiana e straniera di
ogni età.
Il premio è suddiviso in 4 sezioni:
A: Raccolta di 3 poesie a tema libero;
B: Libro di poesie (in lingua o in dialetto)
edito dopo il 1° gennaio 2000;
C: Racconto a tema libero (da 3 a 6 cartelle),
D: Libro di narrativa, Racconti, Fantascienza (edito dopo il 1° gennaio 2000).
Gli elaborati dovranno essere inviati entro
il 30 giugno 2003.
Per informazioni: Segreteria del Premio
Letterario Nazionale “Città di Fondi”, Casella postale 15 - 04022 Fondi (LT) oppure
indirizzo di posta elettronica:
[email protected]
Ricordo di Sir
Amica di tutta una vita
Amiche, sorelle, gemelle,
io e te , due belle farfalle,
su un unico fiore: la vita!
Amica mia cara,
lo scrigno di tanti segreti.
La gioia, il dolore, l’amore
Ogni cosa io a te vengo a dire!
Bambine ormai donne,
unite da sempre da mille risate,
che ci hanno riempito altrettante giornate!
Un dolce sorriso, uno schiaffo, un abbraccio,
ad ogni emozione la giusta reazione,
ma mai un litigio fra noi,
che senza parlare,
riusciamo a capire,
cosa nasconde nel cuore un’amica speciale!
Non servon parole per farti capire,
che in ogni momento da me puoi venire,
per ridere, piangere, o solo parlare.
In ogni momento, per tutta la vita, su me puoi contare!
Città di Fondi
Gessica Scotti
William Walton
nel centenario della nascita
La Società Italiana per l’Educazione
musicale / Sezione territoriale dell’isola
d’Ischia ha curato nel mese di dicembre
2002 una serie di manifestazioni celebrative in onore di Sir William Walton,
compositore inglese che per tanti anni
ha soggiornato a Forio d’Ischia, e che
ha visto una notevole partecipazione
anche degli studenti isolani.
W. Walton, nato a Oldham il 23 marzo
1902 e morto a Ischia l’8 marzo 1983,
fece appunto di Ischia la sua terra adottiva, «ammaliato dagli scorci suggestivi,
dai tramonti, dai poggi rocciosi, dal
verde dalle mille sfumature, presente
nel suo giardino “La Mortella”, dove
aleggiano Musica e Natura».
Un valido contributo alle celelbrazioni
ha offerto Teleischia, trasmettendo varie
opere di Walton.
Andrea Di Massa ha poi curato un fascicolo offerto in omaggio di contributi
di memorie.
La Rassegna d’Ischia 1/2003
15
Le antiche terme dell’isola d’Ischia /1
Casamicciola: le Terme
Le Terme di Casamicciola, conosciute fin dai tempi di Plinio (Hist.
nat. XXXI, 1), acquistarono attraverso
i secoli un merito imperituro per le
continue e portentose guarigioni alla
fonte di Gurgitello, che è la sorgente
più celebre dell’Isola, come si legge
negli antichi e moderni trattati di
balneoterapia e come scrive il gran
geologo G. W. Fuchs (1873).
Il Presidente della Società Idrologica
di Parigi, nel Congresso degli scienziati (1904) porge il saluto della Francia
alla Diva Casamicciola, ricorda, con
trasporto poetico, l’Isola meravigliosa
cantata da Omero e Virgilio, ne esalta
l’aria vivificante che risveglia lo spirito
e la materia, e innalza un inno alla sorgente di Gurgitello, a cui appena (egli
dice) possono reggere al paragone la
nostra Vichy e Karlsbad.
Macé, il chiarissimo direttore di
Aix-les-Bains, mette anch’egli Casamicciola a Regina delle cure termali
ed esclama fra quegli scienziati: se la
catastrofe del 1883 fu per noi un lutto
domestico, la risurrezione di Casamicciola fu un trionfo della scienza, una
vittoria della umanità sofferente.
Descritte
dal dott. Vincenzo Salvi
A. Labat, il balneoterapista luminare della Francia, nella relazione agli
scienziati di quel Congresso riferisce:
«me fondant sur une esperience de 35
ans dans les eaux d’Europe, je place en
première ligne Casamicciola, connue
dans tout le Monde savant, par ses
Casamicciola: Piazza Bagni prima del terremoto 1883
16 La Rassegna d’Ischia 1/2003
Belliazzi
vertues médicinales et sa Clinique de
longue date: oublier Casamicciola,
ce serait oublier Vichy en France,
Karlsbad en Allemagne! Nous avons
tous vu la nouvelle construction de
l’Hôpithal de la Misericordia; nous
avons admiré l’Etablissement Belliazzi, les étuves, les bains Manzi.
L’impression de toutes les richesses de
cette belle station a été excellente dans
toutes les medecines congressistes».
A chi volesse consultare gli atti
della Reale Accademia di scienze in
Napoli, indico tra gli altri il vol. IX,
serie II, tornata 9 aprile 1898, Relatore A. Ogliarolo-Todero (Direttore
dell’Istituto Chimico e Rettore della
R. Università) ove si legge:
A) Uno studio sorprendente di analisi chimiche sulle acque di Gurgitello
in Casamicciola, che riassume così:
«Questi risultati analitici danno una
idea così chiara della qualità dell’acqua esaminata, che non avrebbero
bisogno di altri chiarimenti. Tuttavia
non credo inutili queste considerazioni: la Gurgitello delle Terme Belliazzi
è un’acqua carbonata, eminentemente alcalina e clorurata. Infatti i suoi
principali costituenti, le sostanze che
formano quasi la totalità di quelle che
vi si trovano disciolte sono il bicarbonato ed il cloruro di sodio; ma vi si
trovano abbondanti pure il cloruro di
potassio, il solfato di sodio, il bicarbonato di calcio, l’anidride silicica,
ed in quantità rilevante il bromo e il
jodo. Inoltre l’acqua contiene, in minori proporzioni, molte altre sostanze
(fluoro, arsenico, titanio, mancanese,
litio ecc.), alcune delle quali raramente
si rinvengono nelle acque minerali,
anche le più rinomate.
Questa stupenda composizione
dell’acqua termale di Gurgitello dà la
più evidente spiegazione dei mirabili
effetti che si ottengono con l’uso di
essa».
B) Vi si leggono i confronti delle
analisi eseguite alla identica sorgente
del Gurgitello da Aloisio 1757; da
Andria 1783; da Lancellotti 1818; da
Palmeri e Coppola 1875, 1881, 1889;
da Ogliarolo, Forte e Gabella 1898,
con le deduzioni seguenti:
«Tutte queste analisi fatte coll’intervallo di molti anni ed alcune dopo
movimenti sismici importantissimi,
danno risultati concordanti veramente
sorprendenti e si accordano con quelli
dell’analisi nostra in maniera tale, che
quasi migliori non si potrebbero sperare da un’analisi ripetuta sulla stessa
acqua e nello stesso tempo. L’importanza grandissima della indiscutibile
costanza delle acque di Gurgitello, non
potrà sfuggire a nessuno».
C) Vi si leggono confronti chimici
tra l’acqua di Gurgitello e le consimili
più rinomate in Europa; esempio: Ems
(Nassau) Source Nouvelle analizzata
da Fresenius. Ha una temperatura che
si avvicina a quella del Gurgitello;
contiene per litro grammi 2,0528 di
bicarbonato di sodio, cioè quasi quanto
se ne contiene nell’acqua di Gurgitello,
ma il cloruro di sodio vi si trova in
quantità molto minore (soli grammi
0,9271 per litro) e più piccola è la
quantità di molti altri corpi.
Fra le acque indicate come bicarbonate e clorurate, quella di Bourboule
(Source Perriere) analizzata da Villm,
ha la temperatura 53° 4 e lascia un
residuo fisso di grammi 5,0005, quasi
quanto quello del Gurgitello; ma il
cloruro di sodio (gram. 3,1501) vi è
in quantità molto maggiore del bicarbonato (gram. 1,8642).
La Saint Nectarie (Source de mont
Cornadore) analizzata pure da Villm,
e come tipo di tali acque riportata
nel suo trattato, ha la temperatura di
37° 5 e con un residuo fisso di gram.
4,9595. Contiene gram. 2,3131 di bicarbonato e gram. 2,1235 di cloruro di
sodio. Potremmo riportare altre analisi
(soggiunge l’autore), ma quelle riferite
sono più che sufficienti per mostrare
che l’acqua delle Terme Belliazzi è
superiore alle più note acque dello
stesso tipo, perché più si avvicina alle
acque designate come esclusivamente
alcaline ed è incomparabilmente più
ricca di elementi rari.
Se a tutto ciò si aggiunge che le
Terme Belliazzi sono proprio uno
Stabilimento modello, fornito degli
apparecchi più recenti e diretto con
metodo scientifico inappuntabile; che
esse si trovano nella più bella Isola del
Golfo incantevole di Napoli tra giardini di aranci e folti boschi di castagni,
si comprenderà facilmente perché Casamicciola sia una delle più rinomate
stazioni balneari e termo-minerali del
mondo».
D) Vi si leggono finalmente confronti chimici tra le acque di Gurgitello e le
altre sorgenti termominerali dell’Isola,
con le deduzioni seguenti:
«Abbiamo preso in esame la composizione relativa delle varie sorgenti
che alimentano i più importanti Stabilimenti termali dell’Isola d’Ischia (Terme di Porto d’Ischia, del Monte della
Misericordia, di Belliazzi e di Manzi)
e da tale esame risulta che le acque
appartengono a tre gruppi diversi; cioè
che le acque dette Fontana e Fornello
di Porto d’Ischia hanno composizione
diversa da quelle di Gurgitello appartenenti agli Stabilimenti Belliazzi e Pio
Monte della Misericordia nella Valle
di Ombrasco; e che le acque dello
Stabilimento Manzi, nella Valle del
Tamburo, differiscono per composizione da quelle di Gurgitello.
«Dallo studio delle rispettive relazioni risulta evidente che, a parte i
metodi analitici eseguiti (per i quali
lasciamo che ne giudichino i competenti), troppo spesso i documenti delle
analisi sono in completo disaccordo
coi dati finali; mentre le acque di
Gurgitello sono le sole delle quali si
sappia la vera composizione chimica
e sono le più alcaline, perché fra tutte
contengono sciolta la maggiore quantità di bicarbonati alcalini».
Non occorre rilevare la importanza
di queste conclusioni, le quali a vicenda confermano e sono confermate dalle
cure eseguite nelle Terme Belliazzi.
II
Sul nome, sul sito di scaturigine e
analisi delle acque di Gurgitello, trovo
nei libri antichi le seguenti notizie:
Giulio Iasolino (1) al Cap. XIII, pag.
147 e segg. tesse le lodi del Gurgitello,
che qualifica pretiosissimo bagno e
lo indica tra la sorgente dei denti ad
oriente e l’altra dello stomaco o cappone ad occidente
Aloisio (2) Cap. V, pag. 105 e seguenti dice: «Fra le acque minerali
più celebri e famose, il primo vanto
ottengono quelle di Gurgitello. Ma
per quanto un così salutifero bagno si
ritrovi rinomato e famoso presso gli
1) Dei Rimedi naturali che sono nell’isola
d’Ischia (1588).
2) L’infermo istruito nell’uso dei rimedii
minerali d’Ischia (1757).
Casamicciola: Le Terme Belliazzi sullo storico Gurgitello (1890)
La Rassegna d’Ischia 1/2003
17
autori e le di lui acque come celesti liquori venissero dai
Medici agl’infermi consigliate; pure giornaliere vedo e
compiango le intollerabili frodi che con esse si commettono nelle cure: mentre stimandosi un povero ammalato
di essere fedelmente servito coll’amministrazione delle
pure acque di Gurgitello, d’altrove piuttosto che dalle sue
scaturigini verranno a lui compartite le proprie bagnature.
Quindi standomi sommamente a cuore d’istruire l’infermo
nel retto uso di così prezioso fonte; perciò penso di porre
in chiaro e con manifesti contrassegni fissare il vero luogo
del suo naturale sorgimento».
Li scrittori antichi che trattarono delle acque di Gurgitello descrissero, con molta attenzione il luogo del loro
nascimento; imperocché scrissero: entrandosi dalla parte
di oriente prima si trova la scaturigine dei denti (oggi stufe
del Pio Monte della Misericordia); indi a pochi passi si
arriva a quella di Gurgitello (oggi terme Belliazzi), ed
oltrepassando il piede verso la parte di occidente, subito
si rimira il bagno dello stomaco (oggi anche di Belliazzi).
Di manieraché con chiari contrassegni, le acque di
Gurgitello restano situate tra le sorgive del bagno dello
stomaco e quello dei’ denti.
Di rimpetto al bagno dei denti si vede l’Ospedale del
Monte della Misericordia (oggi diruto) e le cui acque, per
mezzo di un canale lungo 600 metri, vanno ad alimentare
il nuovo Ospedale in riva al mare.
Descrive i bagni del diruto Ospedale per le diverse classi
sociali e arrivato a quello degli uomini soggiunge: «In
questa vasca da mio zio Orlando d’Aloisio venne curato
dal male d’idropisia il Cardinale Conti che poi fu assunto
al Sommo Pontificato sotto il nome d’Innocenzio XIII e
perciò in memoria di una così gran cura volle far riporre
su la porta del bagno l’effigie della B. V. M. col Bambino
Gesù nel seno in bianco marmo scolpita colla iscrizione
seguente:
Deip. Virg. ad Laniculum
M. C. S. R. E. Card de comitib. Sanitat. elargitae
Votum P. An. D. 1717 Aetatis suae 63. (1)
Contiguo a questo bagno il Principe di Montesarchio
fece edificare altro bagno, facendo alzare sopra la volta
della porta lo stemma del suo illustre casato con una
iscrizione che dice:
D. Andreas d’Aulos Mon. Herg. Prin.
Propr. impensis et vigilan. solerti
Sui Suffrag. totiusque nobilitati
Commodo
Necnon utilitat. praebendae
Haec balnea costruxit A. S. MDCXCVIII. (2)
Ora chi cerca questi due monumenti, quali testimoni
attraverso i secoli della storica fonte di Gurgitello, li
troverà nello Stabilimento Belliazzi e sulle stesse vasche
su cui furono innalzati.
D’Aloisio nel suo libro riporta le analisi chimiche di
tutte le termali dell’Isola, eseguite con lo stesso metodo
d’indagini, coi medesimi istrumenti di peso e di misura,
colle identiche quantità di acqua attinta alle diverse sorgenti, nella medesima stagione, nelle identiche condizioni
e con risultati così precisi, da lasciarci compenetrati da un
sentimento di profonda ammirazione.
Rimando il lettore ai dettagli minuti nel libro descritti,
dove d’Aloisio dà storia, iscrizioni, località e analisi.
Trovo pure nei libri moderni analisi chimiche delle
diverse termali di Casamicciola, le quali confermano la
differenza con le acque di Gurgitello.
1) Alla Vergine del Lanicolo Madre di Dio pose come voto dell’elargita salute Michlangelo Conti della Santa Romna Chiesa nell’anno
1717, 63° di sua età.
2) Andrea d’Aloisio principe di Montesarchio a proprie spese e
con solerte cura a proprio favore, a vantaggio di tutta la nobiltà e
per portare soccorso questi bagni costruì nell’anno 1698.
Casamicciola: Le Terme Belliazzi (1910/1920)
18 La Rassegna d’Ischia 1/2003
In quanto al sito di scaturigine del
Gurgitello, nel libro di Palmeri e Coppola, si legge:
«Raccogliendo in poche parole le
conclusioni che questo studio mi autorizza a fare, deduco che:
Storicamente sono acque di Gurgitello, simili alle acque dell’antico
Gurgitello, quelle che sono comprese
tra la sorgente dei Denti e quella del
Cappone o dello Stomaco. Storicamente le acque delle vicinanze non
appartengono al gruppo Gurgitello.
Chimicamente dalla sorgente dei Denti
la più orientale, fino all’ultima del Pio
Monte che confina collo Stabilimento
Belliazzi, e che Belliazzi per metà utilizza, sono della stessa qualità, quindi
diverse vene del Gurgitello.
Chimicamente le acque fuori il
gruppo Denti-Cappone non sono Gurgitello».
Eppure a Casamicciola ogni singolo bagno, fuori del gruppo DentiCappone, ostenta a caratteri cubitali,
la denominazione di Gurgitello!
III
La esperienza di parecchi lustri
alla direzione di queste terme, mi
dispensa di ricordare ai maestri e ai
colleghi miei l’abitudine di richiedere
le diagnosi e le indicazioni curative
del medico curante o di un professore
consulente.
La competenza che mi viene dalla
esperienza è garentia per gl’infermi
nella esecuzione scrupolosa delle
cure, finanche, nei casi speciali, sotto
la personale assistenza mia nel bagno,
alle docce, alle applicazioni elettriche
e balneoterapiche, con apparecchi i più
recenti e precisi e con metodi propri,
frutto di lunghe e pazienti indagini
coronate da splendidi risultati.
Le statistiche e le monografie date
alle stampe sono la prova apodittica
con cui si redigono le storie e il diario
clinico per ciascuno infermo, quasi
fussero le Terme Belliazzi un reparto
speciale di grandioso Ospedale.
Il giudizio lusinghiero degli scienziati e congressisti attesta pure che
la Igiene regna sovrana sulle sorgive,
sulle vasche da bagni, nelle sale, nei
corridoi e nei reparti speciali delle
Terme Belliazzi sulla storica fonte del
Gurgitello.
IV
Uno dei problemi più importanti della moderna dottrina balneare è lo studio degli effetti fisiologici e terapeutici
che il bagno termominerale esercita sui
processi vitali dell’organismo.
Malgrado però la scienza mettesse a
profitto, nelle sue investigazioni tutti
i metodi della fisica, della chimica e
della fisiologia, pure lo stato odierno
della balneo-terapia poggia ancora, per
buona parte, sull’empirismo.
Se infatti da una parte la terapia
moderna non si commuove degli entusiasmi da quarta pagina per ogni nuova
sorgente che viene alla luce; dall’altra
s’inchina riverente dinnanzi a quei
rimedi, che, malgrado empirici, sono
notoriamente efficaci e riposano sulla
base granitica di una lunga esperienza
clinica.
Ecco la ragione perché l’acqua di
Gurgitello, passata da secoli nel dominio della scienza, senza i pomposi e
sperticati elogi, trova sempre un posto
eminente nella coscienza illuminata
dei clinici di tutti i tempi e di tutto il
mondo.
La chimica moderna, coi suoi rapidi
e colossali progressi, è riuscita a sorprendere le qualità fisiche e le probabili
costituzioni qualitative delle acque che
sgorgano dalle profonde regioni della
terra; ma se noi si volesse fabbricare
nel laboratorio del chimico quella
stess’acqua che fu con tanta accuratezza analizzata alla sorgente, il risultato
non sarebbe sempre confortante, perché il prodotto artificiale, oltre a non
essere con certezza matematica sempre
simile a quello che si cerca imitare,
ma, quello che più monta, è spesso
destituito di ogni valore curativo.
Anzi v’ha di più: la esperienza clinica ha già da parecchi secoli dimostrato
un fatto divenuto assiomatico nella
pratica; che cioè le acque termominerali, malgrado attinte accuratamente
alle sorgenti, perdono costantemente
gran parte del loro valore, quando si
trasportano e si usano in sito lontano.
Figurarsi poi quante virtù curative
avranno quei famosi bagni termomine-
rali artificiali, che gli speculatori spacciano in boccette; quale sarà l’azione
farmaco-dinamica di quest’acqua,
riscaldata e condita. di sali diversi;
quanto amara la disillusione di quei
disgraziati che furono vittime di un
eccessivo zelo a base di chimica farmaceutica commerciale!
E che mi diranno: neghereste voi i
progressi della chimica?
Nego solo le esagerate conseguenze
che si vorrebbero, a forza di sofismi,
trarre dalla chimica moderna, a base di
réclame e a detrimento degl’infermi;
infatti: Il chimico, nello analizzare
le acque che sgorgano dalle sorgenti,
cerca strappare il segreto alla natura,
istituendo una serie di ricerche e di
calcoli per arrivare infine alla determinazione qualitativa e quantitativa
delle sostanze in esse disciolte; ma,
nel ricostruire gli aggruppamenti salini
deve ricorrere alle costituzioni probabili che, malgrado la scienza autorizzi
a ritenere, non sappiamo se rispondano
sempre con certezza allo stato chimico
delle sorgenti, soprattutto termali, che
vengono dalle profonde regioni degli
abissi.
Che se per le acque minerali artificiali meno complesse può ottenersi
molta simiglianza con le acque naturali
consimili; per quelle che sono termali
e di una costituzione chimica molto
complessa non è possibile raggiungere
lo scopo e nessuno può, nello stato
attuale della scienza, assumere la veste
di scienziato per fabbricarle.
Chi poi volesse la ragione perché
i bagni termominerali artificiali sono
destituiti di ogni valore curativo, né
interroghi la esperienza clinica, e la
cerchi nello studio della dinamica terrestre interna; la quale, poggiando sui
dati dell’osservazione e della esperienza, spiega il sistema della circolazione
sotterranea delle acque, malgrado si
svolga nel buio delle profonde regioni.
Quell’acqua infatti che esce calda,
in vapori e fortemente mineralizzata
dagli abissi, è quella stessa che vi entrò
dalla superficie, fredda e potabile: le
nuove proprietà, acquistate nel giro
dell’interna superficie del globo, rivelano necessariamente un’attività interna che l’acqua subisce e promuove.
Ora quest’attività chimica dell’interno
La Rassegna d’Ischia 1/2003
19
del globo, in rapporto colla circolazione interna delle acque, costituisce un
largo campo della chimica geologica,
in massima parte inesplorata.
Noi sappiamo che l’alta temperatura
accresce l’attività solvente e l’attività
chimica delle acque; né noi s’ignora
che lo incontro di forti correnti di
gaz e il grado di pressione, con cui
circola l’acqua sotterra, concorrono
potentemente alla mineralizzazione
delle termali; ma chi può mai seguire
il processo attivo delle mutue reazioni
che si succedono rapidamente in quelle
inaccessibili regioni; chi può valutare
il grado di calorico che si svolge da
questo incessante lavorio chimico;
chi può mai misurare la forza elettrica
delle acque circolanti nello interno
del globo; chi può valutarne il grado
di tensione e la potenza elettromotrice
che si sviluppa nell’immenso laboratorio degli abissi?
Come mai si può pretendere sostituire quest’acqua vivente, in pieno
rigoglio, in piena attività di trasformazioni chimiche con un cadavere
che si chiama bagno termominerale
artificiale?
Come lo ammontichiar pietre le une
su l’altre non significa costruire un
edificio, cosi addizionare sali e calore
all’acqua potabile non significa creare
un’acqua minerale, dotata di forze, di
vita e di azioni terapeutiche.
E come la chimica biologica e la
fisiologia sperimentale si arrestano
innanzi al quid vitale del protoplasma
vivente, che prescinde dalla materia,
così bisogna arrestarsi dinnanzi alle
azioni farmaco-dinamiche, che si
svolgono soltanto dalle acque termominerali viventi, in piena attività di trasformazioni chimiche, nelle profonde
regioni della terra.
***
Da che la balneoterapia ha preso a
guida la fisiologia e la chimica, essa è
diventata un ramo importante dell’albero scientifico: le cure balneari non
sono più rutinarie ed uguali per tutti;
né tutti possono aspirare oggi alla Direzione delle Terme, perché le Terme dei
tempi moderni sono altrettante cliniche
e non più i ritrovi di eleganti convegni.
La fisiologia e la clinica sperimentale hanno sanzionato che i bagni del
Gurgitello eccitano la funzionalità della cute, facilitano gli scambi nutritivi,
favoriscono il riassorbimento degli
essudati, risolvono le flogosi croniche
dei tessuti.
Riescono portentosi nelle artritidi
reumatiche e gottose, ridonano ai
muscoli la funzionalità perfetta nelle paralisi periferiche, dissipano le
La Rassegna
d’Ischia
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20 La Rassegna d’Ischia 1/2003
contratture, guariscono le nevralgie,
arrestano i lenti processi flogistici del
midollo spinale.
Giovano alla scrofolosi torpida,
agl’ingorghi glandulari, alle malattie
articolari, ai tumori bianchi, alle anchilosi.
Eccitano nella carie la cicatrice
dell’osso, ne facilitano il distacco nella
necrosi.
Rinnovellano i tessuti nelle croniche
ed inveterate infezioni con rallentato
ricambio materiale; eccitano le granulazioni nelle piaghe atoniche, arrestano
i processi ulcerosi, guariscono mirabilmente gli annosi seni fistulosi.
Tutte queste indicazioni curative
sono frutto di casistiche cliniche raccolte nello spazio dei secoli, rimandate
con la stampa ai posteri, seguite dai
medici di ogni nazione e illustrate dalla
scuola medico-chirurgica napoletana.
Naufraghi marinai di Procida, di Forio, di Serrara Fontana
Il naufragio e il mistero del Warrior
(Argentiera 18 novembre 1910)
Sandro Sechi, appassionato di ricerche subacquee (velieri, relitti, videoriprese... ), avendo letto ed appreso di
un veliero denominato Warrior naufragato nel 1910 lungo le coste sarde
dell’Argentiera, dopo numerose immersioni con le bombole, ha ritenuto
di aver individuato il relitto o almeno
quello che n’è rimasto. Ha quindi
cercato di approfondirne innanzitutto
le vicende, sia ascoltando qualche anziano della zona che leggendo alcuni
giornali dell’epoca ed ancora qualche
passaggio nel vasto mondo di Internet
(1).
Da
ciò superstiti
ne è scaturito
un complesso di notizie senz’altro rilevanti con nomi e cognomi
di tutto
marinai
e dispersi,
ma
lo svolgersi dei fatti purtroppo appare a volte contrastante nel racconto. Ne riassumiamo i
tratti essenziali.
La notizia
1) Archivio storico
dell’Università di
Sassari: microfilm sul
quotidiano “Nuova Sardegna” - Sito Internet:
http://collections.ic.gc.
ca/vessels/jameskitchin.
htm,
dove si può trovare la
storia del Warrior dalla
sua costruzione sino
alla vendita agli armatori L. e P. Brignetti.
Il 18 novembre del 1910, verso le ore undici
vicino all’Argentiera un grande veliero con tutte
le vele a brandelli, ma in perfetto assetto di navigazione, viene trascinato verso gli scogli dalla
corrente, dal vento e dal mare in burrasca. Il bastimento, urtando con violenza inaudita contro la
scogliera, si squarcia in parecchi punti ed affonda.
Si tratta del veliero denominato Warrior, del
compartimento marittimo di Genova, appartenente agli armatori Brignetti Lorenzo e Brignetti
Pietro: 1687 tonnellate di registro, lunghezza
67,36, larghezza 12,32.
Due scialuppe
Una scialuppa con alcuni marinai riesce a raggiungere la costa, di un’altra non si avranno più notizie,
nonostante le varie ricerche in mare con pattuglie di
carabinieri e di guardie di finanza partite da Alghero e
da Bosa, ed estese lungo il litorale fino a Carlo Forte.
E qui ci si ritrova di fronte a due narrazioni diverse:
quella dei superstiti e quella esposta dagli abitanti
del posto che assistettero al naufragio e che dissero
di aver visto, mentre il veliero stava per giungere
sugli scogli, una scialuppa con sette uomini a bordo
abbandonare la nave e dirigersi a riva, ma poi per il
mare grosso sparita alla vista. Peraltro i semaforisti
di Capo Caccia parlano di una scialuppa con cinque
uomini.
I marinai scampati al pericolo sono:
La Rassegna d’Ischia 1/2003
21
Il naufragio e il mistero del Warrior
Spinelli Nicola fu Andrea
(capitano secondo di bordo) di anni 50 di Procida;
Lubrano Leonardo fu Marco Antonio
(marinaio) di anni 53 di Napoli;
Di Lorenzo Vito Giusto
(marinaio) di anni 20 di Forio d’Ischia;
Iacono Antonio di Angelo
(mozzo) di anni 15 di Forio d’Ischia;
Di Maio Gennaro di Raffaele
(mozzo) di anni 19 di Forio d’Ischia;
Mattera Giovanni di Pasquale
(mozzo) di anni 14 di Forio d’Ischia;
Calise Vito Maria di Giuseppe
(mozzo) di anni 20 di Forio d’Ischia;
Barbatelli Antonio di Francesco
(mozzo) di anni 17 di Forio d’Ischia;
Di Maio Salvatore di Francesco
(mozzo) di anni 16 di Forio d’Ischia.
Nella scialuppa scomparsa si trovavano:
Ambrosano Giuseppe
(il capitano) di anni 60 nato il 28.04.1849 a Procida;
Mazzella Vincenzo
(nostromo) di anni 59 nato il 17.07.1850 a Procida;
Di Gennaro Giuseppe
(marinaio) di anni 53 nato il 27.02.1958 a Procida;
Ambrosano Nicola
(mozzo) di anni 17 nato l’11.02.1892 a Procida;
Mazzella Di Bosco Michele
(mozzo) di anni 15 nato il 23.12.1895 a Procida;
D’Ambra Nicola
(marinaio) di anni 24 nato il 12.12.1887 a Forio d’Ischia;
Balsofiore Carlo
(marinaio) di anni 24 nato il 9.02.1886 a Forio d’Ischia;
Iacono Gennaro
(mozzo) di anni 16 nato il 19.03.1894 a Serrara Fontana.
Il capitano superstite Spinelli Nicola disse che le due
imbarcazioni, appena abbandonarono la nave, navigarono
di conserva, assicurate l’una con l’altra per mezzo di una
fune; però il mare grosso e la corrente forte impedirono
di navigare in tal modo e fu necessario separarsi, anche
se le due scialuppe rimasero vicine sino a notte.
Sopraggiunte le tenebre, prive di fanali, si perdettero e
ciascuna navigò per conto proprio: il vento spirava sempre da mezzogiorno ed il mare era di libeccio. Peraltro si
precisò che la scialuppa montata dal capitano Ambrosano
era in ottime condizioni: era provvista di viveri per una
settimana, era munita di cinque remi, di due bussole,
d’una cartina e d’un cannocchiale.
Ma essa non riuscì a prendere terra, trascinata al largo
dai venti; all’alba fu vista dal semaforo di Capo Caccia
22 La Rassegna d’Ischia 1/2003
ad un miglio dalla costa in direzione di sud ovest. I
semaforisti la seguirono per l’intera giornata, mentre si
abbandonava nella direzione del sud, ed in tale direzione
aver navigato favorita dal vento di maestro: sulla stessa
scorsero cinque marinai.
Il mistero
Dall’Argentiera viene confermata la notizia che il
veliero naufragato è il Warrior e gli abitanti del posto testimoniano che, mentre il veliero stava per giungere sugli
scogli, fu vista una scialuppa con sette uomini a bordo
abbandonare la nave e dirigersi alla riva. Ma a causa del
mare grosso essa non poté prendere terra e poi scomparve.
Tutto ciò alle dieci antimeridiane del 18.11.1910.
Se ciò è vero ne deriva che è falso il racconto fatto
dai naufraghi e che la barca vista dal semaforo di Capo
Caccia non era la seconda scialuppa del Warrior.
È falso il racconto dei naufraghi, poiché essi dissero che
abbandonarono il veliero quando minacciava di affondare
ed era già riverso su di un fianco; inoltre è assolutamente impossibile che un veliero senza vele, senza guida,
percorra in un tempo relativamente molto breve oltre
quaranta miglia. Infatti essi narrano di esser partiti con le
scialuppe a 30 miglia ad ovest di Capo Caccia; in tal caso
il Warrior avrebbe compiuto il tragitto nello stesso tempo
impiegato dalla scialuppa montata con quattro remi.
Questo fatto è troppo strano perché vi si possa prestar
fede, soprattutto se si considera che la scialuppa navigò
sempre in una direzione, anche contro il vento, mentre
il veliero senza guida dovette rimanere al capriccio dei
venti e del mare, e venti che in quella notte burrascosa
si trovavano in contrasto, poiché il mare era di libeccio,
il vento spirava da maestro; e ciò doveva influire molto
sulla marcia del veliero.
Senza considerare poi che, se il veliero effettivamente
fosse stato abbandonato a 30 miglia ad ovest di Capo
Caccia, anziché andare all’Argentiera, sarebbe stato portato dai marosi di libeccio nel golfo di Alghero, o quanto
meno dietro Porto Conte.
Il particolare della scialuppa segnalato dagli abitanti
dell’Argentiera sta a provare che, se il veliero giunse fin
all’Argentiera è precisamente perché una parte dell’equipaggio era a bordo. E che una parte dell’equipaggio
doveva essere a bordo è anche logico, perché un capitano
d’una nave non abbandona mai il proprio vascello quando ancora galleggia, ed infatti la prova è che il veliero è
andato a sbattere sulle rupi dell’Argentiera.
I più esperti tra la gente di mare manifestano il loro
stupore, e non si sanno spiegare perché il capitano avesse
abbandonato la nave, quando ancora si trovava in buone
condizioni di galleggiamento tanto da poter far fronte
alla tempesta per un’altra notte e poter percorrere circa
quaranta miglia, quante appunto intercedono fra il luogo
del naufragio e l’Argentiera.
È anche impossibile che la scialuppa
che abbandonò il Warrior prima di
naufragare fosse quella dei marinai
giunti ad Alghero, poiché essi in primo
luogo dichiarano di aver preso terra
alle sei del mattino (la scialuppa lasciò
il veliero alle 10 circa); inoltre alle 11
i naufraghi furono incontrati sulla via
di Porto Conte, né potrebbe trattarsi
della stessa imbarcazione segnalata
dal semaforo di Capo Caccia, poiché
i semaforisti scorsero i naufraghi nelle
prime ore del mattino ed alle nove li
avvistarono ad un miglio a sud ovest
dalla costa.
E questo fatto confermerebbe che le
segnalazioni fatte dal semaforo erano
precise. Infatti era in vista una barca
con cinque uomini di equipaggio, ed
è assurdo supporre che, dati i potenti
mezzo di cui dispone il semaforo, ad
un solo miglio dalla costa si potessero
confondere cinque uomini con sette:
errore in cui pare non siano caduti
coloro che videro la scialuppa nell’atto
di abbandonare la nave poiché essi
dicono che sette uomini formavano
l’equipaggio di essa.
Se siffatte notizie corrispondono a
verità, il naufragio del Warrior sarebbe
avvolto da un grande mistero, perché
se questi particolari fossero confermati
non si potrebbe escludere un altro
sinistro (ammutinamento).
I tentati soccorsi
Da Alghero non fu possibile portare
soccorso, in quanto l’uscita dal porto
col mare in tempesta era oltremodo
pericolosa. Né nel porto vi erano ancorate delle navi capaci di affrontare
un simile uragano.
Alle nove circa un telegramma dal
semaforo di Capo Caccia riferiva che
in quella rada era ancorato un piroscafo francese, il Saint Pierre, ma a bordo, nonostante le chiamate, nessuno
rispondeva ai segnali di allarme.
Immediatamente il comandante del
porto reclutò quattro giovani marinai
ed assieme al capitano Fanciulli partì
alla volta di Porto Conte: li seguì
un’altra vettura col ricevitore di
dogana Sig. Azara, lo spedizioniere
Marengo ed altri.
A dieci chilometri da Alghero, a
poca distanza dalla cantoniera di
Pera Pons, laceri, scalzi, tremanti
dal freddo trovarono nove marinai,
la maggior parte dei quali giovanotti
dai 15 ai 20 anni. «Ci guardano - si
legge - quasi con timore, rivolgono
gli occhi al cielo e non rispondono
che con breve parole, distrattamente,
forse senza intenderci. Sono italiani,
il loro accento è napoletano; sappiamo
che facevano parte dell’equipaggio di
una nave a tre alberi, il veliero Warrior. Erano partiti il 5 novembre 1910
diretti verso le Americhe, in Florida
nel golfo del Messico: furono sorpresi
dalla tempesta nel golfo del Leone e
da una settimana lottavano contro la
furia delle onde. La nave, resistendo
all’impeto dei marosi, aveva riportato dei danni e una gran quantità
di acqua aveva invaso la stiva». Le
navi dell’epoca usavano la sabbia
per zavorra oltre ai blocchi di granito
per stabilizzare e bilanciare lo scafo,
quindi quando furono messe in azione
le pompe per estrarre l’acqua, queste
in breve tempo si danneggiarono e non
poterono più agire a causa del fango
e quindi la nave lentamente affondò.
Questo è quanto dichiararono gli uomini dell’equipaggio. Erano le quattro
del pomeriggio, a trenta miglia dalla
costa. Allora l’equipaggio, composto
da 16 persone, mise le scialuppe in
mare, una al comando del capitano
e l’altra del secondo di bordo: le due
imbarcazioni navigarono di conserva
per gran parte della notte, poi sorprese
da una nuova tempesta, furono portate
alla deriva dalle onde e non poterono
più ritrovarsi.
La prima imbarcazione si diresse
a sud verso il faro di Capo Caccia,
la seconda comandata dal nostromo,
avendo osservato che il mare veniva
da libeccio, stimò bene di seguire il
corso delle onde e pur vedendo il fanale di Capo Caccia prese la direzione
opposta: codesta imbarcazione dopo
una lotta disperata con le onde che tentavano di trascinarla sugli scogli che in
quei pressi calano a picco, finalmente
alle sei del mattino poté avvicinarsi
alla terra: i naufraghi cacciatisi in
acqua raggiunsero la riva più a sud di
Porto Ferro vicino a Monte Girat in
una insenatura detta la Ghiscera.
Vagarono per le tanche di quella
regione afflitti dalla fame, dalla fatica
e dal freddo fino alle dieci del mattino,
si diressero poi verso Alghero.
Nella cantoniera dove furono ricoverati fu loro dato del pane e dei
liquori, fu acceso un bel fuoco per
asciugare i vestiti. Adagiatisi sopra
alcune stuoie presto si addormentarono. Muto in un cantuccio un vecchio
singhiozzava; accanto a lui un ragazzo
sui diciotto anni sospirando ripeteva:
povera gente, povero cognato.
A Porto Conte il capitano del Saint
Pierre salpa le ancore: il semaforo di
Capo Caccia segnala che i naufraghi si
vedono a grandi intervalli, da lontano
sempre verso sud in balia delle onde;
il piroscafo intanto fila verso il largo,
il semaforo segnala ancora a sud.
Il Saint Pierre fila a grande velocità,
si puntano i binocoli verso il luogo
indicato ma non si scorge il battello; le
onde investono di fianco il piroscafo,
lo scavalcano e lo sommergono. Pare
che precipiti nell’abisso: l’ira del vento e del mare sembra voglia fermarsi
contro la nave che corre al soccorso,
gli uomini di coperta aggrappati alle
funi, con gli occhi fissi sul mare,
incuranti dell’acqua che li colpisce
tengono pronte le funi e gli anelli di
salvataggio, ma pare che la spedizione
sia destinata a fallire; dal semaforo
non sanno precisare il punto in cui si
trovano i naufraghi, il piroscafo segue
la rotta segnalata, ma la barca non è
visibile; il mare è molto mosso, mette
in pericolo anche il piroscafo, ed è
quindi consigliabile rientrare in porto.
La campana suona per richiamare l’attenzione dell’equipaggio; il piroscafo
vira a bordo: il momento è terribile: i
marosi scuotono con estrema violenza
la murata e la nave sbanda e mentre
l’acqua sale sopra la coperta, un colpo
di mare irrompe a poppa ed asporta
uno sportello di un boccaporto. Il
comandante ordina macchine indietro
ed in quella posizione si attende un
istante di bonaccia per poter girare.
Alle sedici il piroscafo dava fondo
nuovamente alle ancore.
(continua a pagina 41
La Rassegna d’Ischia 1/2003
23
Novità editoriali
Ospite a Ischia
Lettere e Memorie dei secoli passati
di Paul Buchner
Titolo originale:
Gast auf Ischia. Aus Briefen und Memoiren
vergangener Jahrhunderte
München, 1968
Esaminando una sterminata
Traduzione dal tedesco
di Nicola Luongo
Imagaenaria Edizioni Ischia
Novembre 2002
e-mail: [email protected]
La tonnara di Lacco Ameno
e altri mestieri di pesca nell’isola d’Ischia
di Giuseppe Silvestri
Imagaenaria Edizioni Ischia
Gennaio 2003
e-mail: [email protected]
Dalla prima tonnara impiantata a Lacco Ameno nel 1743 agli
eventi che due secoli più tardi ne determinarono la fine, dai
“mestieri” tradizionali ai segreti dei vecchi pescatori, senza
dimenticare le curiosità, gli aneddoti, i riti, le superstizioni, le
devozioni degli uomini del mare, indiscussi protagonisti della
storia civile ischitana.
Risultato di una ricerca condotta “sul campo”, questo libro non è solo una appasionata e appassionante descrizione
dell’arte piscatoria nell’isola d’Ischia, ma anche un’attenta
e dettagliatissima ricostruzione di una realtà che, insieme
all’agricoltura, ha costituito la base dell’economia isolana fino
all’avvento del turismo.
24 La Rassegna d’Ischia 1/2003
bibliografia e analizzando documenti sparsi negli archivi di tutta
l’Europa, Paul Buchner ha portato
alla luce le lettere e i diari dei
visitatori che nel corso dei secoli
hanno scritto d’Ischia. Così è nato
un lavoro straordinario che con
sapienza amalgama il materiale
ritrovato a riflessioni di carattere
storico e naturalistico, con vari riferimenti alla situazione dell’isola
nei primi decenni della seconda
metà del Novecento. Un’opera
totale, una summa di tutte le conoscenze su Ischia nell’epoca in
cui è stata scritta, che offre a tutti
i lettori uno svago e un erudito
insegnamento.
Novità editoriali
Inarime o i Bagni di Pitecusa
Libri VI dedicati a Giovanni V re di Lusitania
di Camillo Eucherio de Quintiis
Traduzione dal latino
di Raffaele Castagna
«Non senza un sicuro compiacimento ho più
volte letto l’opera che si intitola Inarime o i bagni di Pithecusa lib. VI di Camillo Eucherio de
Quintiis della Compagnia di Gesù. Penso che il
nostro Eucherio abbia raggiunto felicemente un
duplice fine: di insegnare e di dilettare: molto
utile lo scopo didattico, notevoli e di diverso
genere l’erudizione, la varietà e l’abbondanza
di argomenti; purezza della lingua latina, uno
stile ricercato, tutta la bellezza dell’arte poetica» (P. Giovanni Battista Botti).
«Da quando Camillo Eucherio Quinzi ha dato
alla letteratura latina Inarime, importante per
l’argomento, classico per la forma, ricco per
la lingua, armonioso per la struttura del verso
eroico latino, vasto per le proporzioni, Ischia,
la gemma del Golfo di Napoli, preziosa e
deliziosa, vanta un poema scritto nella lingua di
Cicerone e di Virgilio quale solo Roma Imperiale con l’Eneide può vantare» (P. Gennaro
Gamboni).
Camilli Eucherii de Quintiis
e Soc. Jesu
Inarime seu de Balneis Pithecusarum
Libri VI Sereniss. Lusitaniae Regi
Joanni V dicati
1726
La Rassegna d’Ischia 1/2003
25
Novità editoriali
Vittoria Colonna e il suo mistero
di Nunzio Albanelli
Valentino Editore, aprile 2003.
Con prefazione di Giovanni Castagna
Nel secolo scorso, soprattutto dagli
anni cinquanta, la vita e l’opera di Vittoria Colonna sono state oggetto di ampi
studi che, sulla base anche di nuovi documenti, offrono una visione più chiara
della sua personalità nonché della sua
collocazione «nel quadro complesso e
sfuggente della vita religiosa del Cinquecento».
Quasi tutti dividono il periodo della
vita della nobildonna in tre fasi, sulla
scorta sia della sua produzione poetica
sia su quella epistolare.
La prima, fino al 1525, data della
morte di Ferrante d’Avalos, mettendo,
soprattutto, in risalto il suo matrimonio,
deciso da altri per ragioni politiche, la
sua vita mondana, la solitudine del cuore
e i continui tradimenti del marito, senza
mai dimenticare la celebre collana di
perle e pietre preziose, sottratta al forziere di Vittoria e fatta scivolare dal marito nel «décolleté» della viceregina di
Napoli, Isabel de Requesens j Enriquez,
donna di stupenda bellezza e grazia,
nonostante «i denti neri come carbone e
l’alito fetido», secondo Filonico Alicarnasseo. Per la squisitezza del suo sentire,
si sostiene, Vittoria non ha mai alzato il
velo sulle sue relazioni con il marito. Nel
sonetto Questo nodo gentil che l’alma
stringe (Rime, edizione Bullock, 31),
tuttavia, alza, sia pure leggermente, quel
velo e, sul piano psicologico, affranca
l’amore da quella schiavitù passionale
o alienazione che faceva sì che l’essere
amato potesse ad ogni istante metterlo in
discussione. Ora, l’amore non dipende
più dall’altro e, «poi che l’alta cagion
fatt’è immortale», è invulnerabile, inalienabile anche in rapporto all’essere
amato «quest’amor d’ora è ‘l fermo, il
buono e ‘l vero».
La seconda fase, dal 1525 al 1540,
in cui, in un primo momento, «nuova
Andromaca prigioniera di se stessa»,
26 La Rassegna d’Ischia 1/2003
va mostrando a tutti il suo lutto e la sua
sventura, non per farsi schiava della
sua vedovanza, ma perché la sua fama,
la sua sventura, «l’immense majesté de
ses douleurs de veuve» proteggono l’immagine di Ferrante che l’affare Morone
aveva marchiato d’infamia. È il periodo
in cui la sua produzione poetica ha una
tematica amorosa, espressa secondo
il modello petrarchesco instaurato da
Bembo, unico modello di comunicazione valido in quel tempo. Aveva un nome
già troppo grande per avere un successo
mediocre e «tutto quello che essa dice è
subito esemplare per il fatto stesso che
essa lo dica» (1).
Segue un periodo in cui la tematica
amorosa viene affiancata da quella religiosa (1538-1540).
L’ultima fase, infine, in cui si impone
la tematica religiosa, variamente interpretata, a seconda dell’appartenenza
religiosa dello studioso: ortodossia/eterodossia, cattolica/protestante oppure,
sulla base «del Cattolicesimo odierno,
che nell’Evangelismo riconosce alcuni
elementi vivi», un’autentica cattolica.
Altri, invece, come Emidio Campi,
con un’analisi approfondita delle liriche composte nel periodo 1538-1541,
non solo vi scorge «inflessioni della
spiritualità valdesiana», ma l’influenza
diretta di Ochino, per quanto concerne
la dottrina della giustificazione per la
fede e, soprattutto, per la cristologia e la
mariologia (2). Altri ancora vedono in
lei una certa passività di fronte alle idee
eterodosse, accolte da lei senza rendersi
1) Poesia italiana del Cinquecento, introduzione, note e commenti di Giulio Ferroni, I
Garzanti-I Grandi Libri, Milano 1978.
2) Emidio Campi, Michelangelo e Vittoria
Colonna, un dialogo artistico-teologico
ispirato da Bernardino Ochino, Claudiana
Editrice, Torino 1994.
neanche conto che così si separava dalla
Chiesa.
In questa fioritura di studi, l’opera di
Nunzio Albanelli è, invece, incentrata
sul mistero che avvolge la sepoltura
definitiva di Vittoria Colonna, questione,
in verità, molto discussa nel 1847 quando fu demolita in Roma la chiesa di S.
Anna dei Funari (come lui stesso ricorda) ed è il risultato di lunghe ricerche,
condotte per oltre 20 anni «tra speranze
e delusioni». Ricerche intraprese «per
l’amore» che porta a Vittoria Colonna,
sia «perché è stata un punto di riferimento nella letteratura del ‘500, sia perché
ha avuto continui rapporti con Ischia»,
sia per appagare un suo sogno: ritrovare
«le venerate spoglie della poetessa» ed
accoglierle, insieme con quelle di Ferrante d’Avalos, nel castello Aragonese
«con il dovuto tributo di lode».
Dopo aver lamentato la noncuranza
di quasi tutti gli studiosi per quanto
concerne questo mistero, l’autore, dal
capitolo II alla fine, descrive tutto l’iter
delle sue ricerche: analisi e più puntuale interpretazione di documenti già
noti, situazioni storiche che influirono
senz’altro sulla sparizione della tomba,
ricreando il clima in cui quegli avvenimenti si susseguirono e, soprattutto, il
clima inquisitoriale dell’epoca nonché il
disagio spirituale in cui vivevano alcune
coscienze di credenti.
La sua ricerca approda, infine, nella
chiesa di San Domenico Maggiore in
Napoli, proprio quando, alla fine degli
anni ottanta del secolo scorso, una équipe dell’Istituto di anatomia e istologia
patologica dell’Università di Pisa, diretta dal professor Gino Fornaciari e voluta
dalla dottoressa Lucia Portoghesi, alla
quale il soprintendente Raffaele Causa
aveva affidato il compito di verificare
lo stato delle arche che contenevano
i cadaveri di uomini e donne illustri,
inizia l’autopsia di quegli scheletri. Il
professor Fornaciari e i suoi collaboratori pubblicarono poi nel settembre del
1989 su una delle più prestigiose riviste
mediche inglesi, Lancet, il risultato delle
analisi del corpo di Maria d’Aragona,
ritrovato affetto di sifilide.
Leggendo l’ultimo capitolo, il lettore
si accorgerà dell’immensa delusione
dell’autore, che aveva tanto sperato nella
pubblicazione dei risultati delle indagini
effettuate, soprattutto perché egli ha
l’impressione di aver finalmente ritrovato la sepoltura della Colonna, anche
se con rammarico sembra rinunciare alla
sua ipotesi, «perché sollecitato da più
parti» l’ipotesi, cioè, che il corpo riposto nell’arca n. 28 sia quello di Vittoria
Colonna.
Forse è soltanto una nostra impressione, ma ci sembra che il ritrovamento di
quel corpo nell’arca n. 28, «una donna o
almeno un individuo dall’ambigua sessualità» abbia condizionato il ritratto che
della Colonna l’autore delinea nel primo
capitolo, facendo propri gli apprezzamenti vigenti non solo in quell’epoca
(si veda Papini): «tota mulier in utero»
e se una donna si distingueva per qualità
e ingegno, doveva essere soltanto una
«virago».
A mano a mano che abbiamo proseguito nello studio del dattiloscritto, ci è
sembrato che, senza volerlo o forse senza saperlo, Albanelli rispondesse a tutte
le obiezioni mosse da Fabio Colonna
nel recensire l’opera di Bruto Amante,
anche questi convinto di aver ritrovato
la tomba di Vittoria in San Domenico in
Napoli, giacché, scrive Fabio Colonna,
«l’esame degli scheletri corrisponde alla
sua supposizione e in quello della Colonnese giunge perfino a riconoscere le
anomalie che dovevano essere naturali
all’ossame di una donna superiore» (3).
Fabio Colonna, nella sua recensione,
rigettava una probabile tenebrosa congiura, «non mai interrotta dalla morte di
Vittoria in poi», ipotizzata da Fiorentino
e, soprattutto, riteneva che il documento
pubblicato da Tordi non si potesse facilmente smentire.
Il documento di Tordi viene studiato
e ben analizzato da Albanelli e siamo
d’accordo nel ritenerlo falso, un’opera
delle monache i cui fini non sfuggono
ad alcuno.
Siamo, tuttavia, meno convinti della
«damnatio memoriæ» di Vittoria ad
opera dell’Inquisizione, soprattutto,
3) Archivio Storico per le Province Napoletane, XXII, fascicolo I, Napoli 1897,
pagg.139-140.
4) Nuovi documenti su Vittoria Colonna e
Reginald Pole di Sergio M. Pagano e Concetta Ranieri, Collectanea Archivi Vaticani,
24, Città del Vaticano, Arch. Vaticano, 1989.
dopo lo studio dei «Nuovi documenti
su Vittoria Colonna e Reginald Pole»
di Sergio M. Pagano e Concetta Ranieri,
da cui appare che non fu intentato un
vero processo contro la Colonnese (4).
Anche se si possono ritenere probabili
i timori, generati da accuse sempre più
numerose, quando colpiscono una persona defunta.
Tra certezze, ipotesi e supposizioni,
come altrimenti non poteva essere sulla
scorta dei documenti esistenti, l’autore
ci trascina nel suo percorso; ne condividiamo l’ardore, anche se, a volte, forse
perché meno infiammati, avvertiamo
che qualche argomento non è poi così
persuasivo. A pagina 59 si riporta, per
esempio, una terzina nelle due versioni
(Visconti/Bullock) per dimostrare ch’era
desiderio di Vittoria giacere da morta
accanto al marito. Ma il riferimento
concerne «l’alma» e l’unione, sperata
e attesa, è quella che avverrà in cielo.
Lei cessò di cantare il marito sette o
otto anni dopo la morte di Ferrante e,
del resto, nel suo testamento sembra
che non vi sia alcun accenno di essere
sepolta accanto al suo, un tempo, «bel
sole».
L’opera è molto interessante sia per
l’esposizione, sia per l’argomento trattato, abbastanza nuovo, e sia per quel
fremito d’amore che la percorre, lo
stesso fremito che si avverte in tutti coloro che da innamorati hanno parlato di
Vittoria Colonna nella sua inquietudine,
nel suo sconforto, nella sua religiosità
sentimentale, mai assiomatica, nel suo
avvicendare «un’immensa vita contemplativa con un fervido apostolato a
favore di opere religiose e beneficenza».
Condividiamo, quindi, la sua fierezza
per il contributo offerto «agli studiosi
che vorranno continuare l’indagine [...],
considerato che il mistero permane».
Giovanni Castagna
(Prefazione all’opera)
L’Arcobaleno attende
Parole e pensieri in un salotto virtuale
di Pompilia Pagano
Edizioni LER, maggio 2002. Con prefazione di Carmine Manzi
Pompilia Pagano si presenta da sé, con il suo linguaggio fresco d’invenzioni e
di immagini, in una confessione ampia, aperta, in cui mette a nudo la sua anima
e manifesta le sensazioni più intime e più segrete del suo cuore. È il primo colpo
d’occhio che si riceve da “L’arcobaleno attende”.
È un raccontarsi continuo, quasi da favola, emblematico dei suoi sogni e delle
sue speranze, così che avverti le impressioni che si dipanano quasi in una corsa, a
comporre una personalità ben definita, perfetta, la sua personalità. Pompilia Pagano
non indugia, ma sfoglia con mano attenta ed assorta questa grande corolla della
sua esistenza, fermandosi ad ogni petalo con un momento di pausa, che è anche
di riflessione sul suo stato d’animo e sui molti perché che danno consistenza alla
vita umana.
La poetessa antepone ad ogni gruppo di versi che compongono la sua raccolta,
questa silloge che ho il piacere di tenere a battesimo, con una riflessione che è illustrativa del suo modo di essere donna: pagine che messe insieme, nel loro linguaggio
anche esso di una forte intensità lirica, costituiscono una piccola autobiografia,
utile e necessaria per chi voglia fare una più diretta conoscenza con l’Autrice, che
(continua a pagina 44)
La Rassegna d’Ischia 1/2003
27
a cura di
don Vincenzo Avallone
Pellegrini sulle
Atene
Delfi
Epidauro
Micene
Corinto
Hydra
Poros
Egina
Veduta di Atene dall’acropoli: “un immenso mare di case”
28 La Rassegna d’Ischia 1/2003
Siamo ottanta pellegrini, di
cui sette sacerdoti, compreso
il vescovo padre Filippo Strofaldi, guidati da padre Antonio
Fanuli, ordinario di Teologia
Biblica alla Facoltà Teologica
di Posillipo, a vivere un’altra
stupenda esperienza cristiana,
ancora breve ma intensa, percorrendo per lo più luoghi che
già furono tappe significative
dei viaggi di San Paolo e sede
delle prime comunità cristiane.
La nostra guida ci legge appunto i brani più caratteristici
della prima e seconda Lettera
ai Corinzi, nonché il passo
degli Atti degli Apostoli relativo al discorso di San Paolo
nell’areopago di Atene.
Le Lettere di San Paolo non
si possono comprendere senza la conoscenza dei quattro
viaggi missionari di Paolo da
Gerusalemme a Roma.
Eccoci a Delfi, ai piedi del Parnaso,
orme di San Paolo
il monte degli dei. Attraversando le meravigliose piantagioni di ulivo, si gode un’ampia veduta sul golfo di
Corinto con lo sfondo delle montagne del Peloponneso.
Nella Grecia antica, Delfi era ritenuta “l’ombelico”
della terra. Vi si ammira il tempio di Apollo; nel Museo
il pezzo più importante è il famoso “Auriga”. C’è poi
il monastero ortodosso “Ossio Lukas” con la chiesa a
croce greca, nota anche per i suoi magnifici mosaici.
Ad Epidauro l’attenzione si ferma sul più importante
teatro dell’antica Grecia, costruito nel II sec. a. C. e
conservato intatto fino ad oggi. La sua acustica è straordinaria e gente di tutto il mondo accorre ad assistere
alle manifestazioni artistiche che vi si tengono.
A Micene, città portata alla luce alla fine del secolo
XIX da Heinrich Schliemann, i monumenti più notevoli
sono le mura ciclopiche, il sepolcro di Agamennone,
Il vescovo d’Ischia Mons. Filippo Strofaldi
la porta dei leoni, alta più di tre metri, il cui nome si
deve al rilievo triangolare su cui sono scolpiti due
leoni appoggiati al piedistallo di una colonna. I due
leoni sono privi delle teste, probabilmente di metallo
dorato e perciò fatte oggetto di preda.
Micene: la porta dei leoni
Città antichissima è Corinto, famosa per il suo istmo
scavato fra il 1882 e il 1893, lungo sei chilometri e
largo ventuno/ventidue metri, profondo otto, che mette
La Rassegna d’Ischia 1/2003
29
Il secondo viaggio di San Paolo
in contatto il mare Egeo con il mare
Ionio. Oggi essa è la terza città della
Grecia dopo Atene e Tessalonica.
Ai tempi di San Paolo era altrettanto nota per la sua florida ricchezza, la
grandiosità delle costruzioni, fra cui
il tempio di Apollo, del quale restano
in piedi sette colonne doriche, l’agorà e il brulicante commercio. Ma la
corruzione dilagava. Ebbene proprio
qui a Corinto, Paolo con un anno e
mezzo di lavoro, fonda una delle
sue comunità cristiane più belle, la
«chiesa di Dio che è in Corinto» (1
Cor. 1, 2). Con tutti i suoi problemi
teologici e morali, Corinto è oggetto
della sua Lettera di raccomandazione (2 Cor. 3, 3).
Siamo poi ad Atene con la sua
Acropoli e il suo Partenone. “Un
mare immenso di case”, vista
dall’alto.
Qui, Paolo predicò la Buona
Novella ai pensatori e filosofi greci
(continua a pagina 33)
Atene: il Partenone
30 La Rassegna d’Ischia 1/2003
Intraprendendo il suo secondo viaggio missionario Paolo ripassa innanzitutto
per le comunità che aveva fondato nel corso del primo viaggio: Derbe, Listra,
Iconio e Antiochia. Prosegue quindi verso il centro dell’Asia Minore, l’Anatolia, la Galizia. Ma trova difficoltà per arrivare in queste regioni: gli Atti degli
Apostoli dicono chiaramente che fu lo stesso Spirito Santo che gli impedì di
giungere in queste zone. Paolo cerca di scendere verso il Sud-Ovest, verso
Efeso, ma qui si imbatte in ulteriori ostacoli; anche a tal riguardo si legge che
fu lo Spirito Santo a impedirgli il cammino. Allora egli punta verso la Troade.
Qui nella notte ha una visione: un macedone lo invita a passare il mare e recarsi in Grecia: «Venite ad evangelizzare anche noi». In questa visione Paolo
vede la mano della Provvidenza e con i suoi collaboratori parte per l’Europa:
sbarca a Neapoli, una città oggi chiamata Cavala, quindi prosegue per Filippi,
ove ha l’opportunità di creare una piccola comunità cristiana. Da notare che,
quando Paolo si recava in una città, si metteva innanzitutto in contatto con i
suoi antichi correligionari, gli Ebrei, e predicava nella loro sinagoga.
Ma a Filippi, una colonia formata di militari romani con le loro famiglie, gli
Ebrei erano molto pochi e non avevano una sinagoga per conto loro. Quando
Paolo si accorge che i pochi Ebrei del
luogo sono soliti riunirsi il sabato lungo
il corso del fiume, vi si reca e vi predica
il Vangelo di Gesù Cristo ai presenti,
in gran parte donne e bambini. E lo
Spirito Santo volle che la sua parola
toccasse in profondità l’anima di una
donna facoltosa, una certa Lidia, commerciante di porpora (prodotto allora
di grande valore). Essa invita Paolo e
i suoi collaboratori nella sua casa: «se
io sono stata degna di aprirmi alla fede
cristiana, ecco che io vi accolgo in casa
mia».
In questo episodio vediamo come la
chiesa primitiva nasceva nelle famiglie
che accoglievano i missionari cristiani.
Così nella casa di Lidia nasce la piccola comunità cristiana del villaggio di
Filippi, che poi sarà una chiesa molto
cara a Paolo. A questa comunità è indirizzata la Lettera ai Filippesi.
Dopo due settimane di permanenza a
Tessalonica (Lettera ai Tessalonicesi),
Paolo e i suoi collaboratori s’imbarcano per il Pireo, il porto di Atene. Qui
c’era forse anche una piccola comunità
ebraica, ma non era molto incisiva.
Atene, come sappiamo, era il cuore
della cultura di tutto l’Oriente, ma anche dell’Occidente. Roma stessa, che
pure aveva conquistato con le armi la
Grecia, era stata a sua volta conquistata dalla cultura greca, così ricca di
pensiero e di arte. Intanto, girando per
Atene, la prima cosa che colpisce Paolo
è il vedere tante divinità venerate dai
Greci. Si mette perciò a discutere con
la gente che rimane colpita dai suoi
ragionamenti e gli chiede di esporre il
suo pensiero, il suo sistema filosofico
come facevano tutti i pensatori che
arrivavano ad Atene. Allora Paolo sale
sull’apposito palco dell’areopago e fa
un discorso mirato (vedi riquadro in
questa pagina), un discorso cioè che,
partendo dall’esperienza religiosa
degli Ateniesi, annunzia loro la Buona Notizia di Gesù Cristo, morto e
risorto. Ma, quando sentirono parlare
di resurrezione, gli Ateniesi pensarono:
«Questo è un ciarlatano come tanti altri», e lo licenziarono. Ma, nonostante
il fallimento totale del discorso di
Paolo, gli Atti degli Apostoli annotano:
«Alcuni aderirono a lui e divennero
credenti….» (Atti 17, 34).
E così Paolo, deluso, si dirige a Co-
Atene, città di filosofi e di curiosi
Atti 17, 16-21
Mentre Paolo li attendeva ad Atene, fremeva nel suo spirito al vedere la
città piena di idoli. 17 Discuteva frattanto nella sinagoga con i Giudei e i pagani
credenti in Dio e ogni giorno sulla piazza principale con quelli che incontrava.
18
Anche certi filosofi epicurei e stoici discutevano con lui e alcuni dicevano:
«Che cosa vorrà mai insegnare questo ciarlatano?».
E altri: «Sembra essere un annunziatore di divinità straniere»; poiché annunziava Gesù e la risurrezione. 19 Presolo con sé, lo condussero sull’Areopago e
dissero: «Possiamo dunque sapere qual è questa nuova dottrina predicata da te?
20
Cose strane per vero ci metti negli orecchi; desideriamo dunque conoscere
di che cosa si tratta». 21 Infatti tutti gli Ateniesi e gli stranieri colà residenti non
avevano passatempo più gradito che parlare e sentir parlare.
16
Discorso di Paolo all’Areopago
Atti 17, 22-34
Allora Paolo, alzatosi in mezzo all’Areopago, disse:
«Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete molto timorati degli dei. 23 Passando
infatti e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un’ara con
l’iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo
annunzio. 24 Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è signore
del cielo e della terra, non dimora in templi costruiti dalle mani dell’uomo 25 né
dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa,
essendo lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa. 26 Egli creò da uno solo
tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per
essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio, 27 perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia
lontano da ciascuno di noi. 28 In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo,
come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto: Poiché di lui stirpe noi siamo.
29
Essendo noi dunque stirpe di Dio, non dobbiamo pensare che la divinità sia
simile all’oro, all’argento e alla pietra, che porti l’impronta dell’arte e dell’immaginazione umana. 30 Dopo esser passato sopra ai tempi dell’ignoranza, ora Dio
ordina a tutti gli uomini di tutti i luoghi di ravvedersi, 31 poiché egli ha stabilito
un giorno nel quale dovrà giudicare la terra con giustizia per mezzo di un uomo
che egli ha designato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti».
32
Quando sentirono parlare di risurrezione di morti, alcuni lo deridevano, altri
dissero: «Ti sentiremo su questo un’altra volta». 33 Così Paolo uscì da quella
riunione. 34 Ma alcuni aderirono a lui e divennero credenti, fra questi anche
Dionigi membro dell’Areopago, una donna di nome Damaris e altri con loro.
22
Il discorso è un bell’esempio di dialogo con una cultura diversa. Paolo inizia
valorizzando l’attesa del mondo pagano per annunciare il Dio provvidente e
spirituale, che è creatore dell’universo e signore della storia. La ricerca di Dio è
difficile, ma è possibile, perché egli è più vicino di quello che pensiamo. I riferimenti di Paolo alla cultura pagana indicano che buona parte della sapienza greca
è considerata assimilabile dalla rivelazione cristiana. Alla fine, dopo una lunga
preevangelizzazione, ecco l’annuncio centrale: la bella e grande notizia di Gesù
risorto, annuncio che è rifiutato come una pazzia.
rinto, dove in un anno e mezzo, tra gioie, e dolori, fonda una delle comunità
cristiane più care al suo cuore. Questa
cittadina fu nell’antichità una delle più
fiorenti per i suoi commerci marittimi,
fondatrice di numerose colonie della
Magna Grecia, fra cui la sicula Siracusa, rivale perfino della grande Atene.
*
La Rassegna d’Ischia 1/2003
31
Il dono più grande e la via migliore: la carità
1 Corinzi 12,31 - 13,13
Aspirate ai carismi più grandi! E io vi mostrerò una
via migliore di tutte.
13> 1 Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli
angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo
che risuona o un cembalo che tintinna.
2
E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i
misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della
fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la
carità, non sono nulla.
3
E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il
mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità,
niente mi giova.
4
La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa
la carità, non si vanta, non si gonfia, 5 non manca di
31
Doni diversi nell’unità della Chiesa
1 Corinzi 12,1. 4-13
Riguardo ai doni dello Spirito, fratelli, non voglio che
restiate nell’ignoranza...
4
Vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito;
5
vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore;
6
vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che
opera tutto in tutti. 7 E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune: 8 a
uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza; a un altro invece, per mezzo dello stesso Spirito,
il linguaggio di scienza; 9 a uno la fede per mezzo dello
stesso Spirito; a un altro il dono di far guarigioni per
mezzo dell’unico Spirito; 10 a uno il potere dei miracoli;
a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di
distinguere gli spiriti; a un altro le varietà delle lingue; a
un altro infine l’interpretazione delle lingue. 11 Ma tutte
queste cose è l’unico e il medesimo Spirito che le opera,
distribuendole a ciascuno come vuole.
12
Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte
membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono
un corpo solo, così anche Cristo. 13 E in realtà noi tutti
siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un
solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci
siamo abbeverati a un solo Spirito.
1
Nella prima chiesa, come in certi gruppi dei nostri giorni,
c’erano miracoli, profezie, discorsi in lingue. I Corinzi si
lasciavano impressionare troppo da questo aspetto spettacolare e c’era tra loro una specie di competizione. Anche
i doni di Dio diventavano pretesto di rivalsa personale e di
divisione della comunità. Ora tutti questi carismi, benché
diversi, vengono dall’unico Spirito di Dio; tutti coloro che li
ricevono servono a un solo Signore, il Cristo, e infine tutto
risale all’unico Dio Creatore e Padre dell’universo. Non c’è
quindi motivo per sentirsi rivali gli uni con gli altri. Tutti i
carismi devono essere nella linea della fede e devono servire
alla costruzione della comunità. Sono doni gratuiti, che hanno
la stessa origine, Dio, e lo stesso scopo, l’utilità comune.
32 La Rassegna d’Ischia 1/2003
rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene
conto del male ricevuto, 6 non gode dell’ingiustizia, ma
si compiace della verità. 7 Tutto copre, tutto crede, tutto
spera, tutto sopporta.
8
La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il
dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. 9 La nostra
conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. 10
Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto
scomparirà. 11 Quand’ero bambino, parlavo da bambino,
pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto
uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato. 12 Ora
vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma
allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo
imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come
anch’io sono conosciuto.
13
Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la
speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!
La «cena del Signore»,
incontro e verifica della comunità cristiana
1 Corinzi 11, 17-30
E mentre vi dò queste istruzioni, non posso lodarvi
per il fatto che le vostre riunioni non si svolgono per il
meglio, ma per il peggio. 18 Innanzi tutto sento dire che,
quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni tra voi,
e in parte lo credo. 19 È necessario infatti che avvengano
divisioni tra voi, perché si manifestino quelli che sono i
veri credenti in mezzo a voi. 20 Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del
Signore. 21 Ciascuno infatti, quando partecipa alla cena,
prende prima il proprio pasto e così uno ha fame, l’altro
è ubriaco. 22 Non avete forse le vostre case per mangiare
e per bere? 0 volete gettare il disprezzo sulla Chiesa di
Dio e far vergognare chi non ha niente? Che devo dirvi?
Lodarvi? In questo non vi lodo!
23
Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia
volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui
veniva tradito, prese del pane 24 e, dopo aver reso grazie,
lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi;
fate questo in memoria di me». 25 Allo stesso modo, dopo
aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice
è la Nuova Alleanza nel mio sangue, fate questo, ogni
volta che ne bevete, in memoria di me». 26 Ogni volta
che mangiate di questo pane e bevete di questo calice,
voi annunziate la morte del Signore finché egli venga. 27
Perciò, chiunque in modo indegno mangia il pane o beve
il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del
Signore. 28 Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi
mangi di questo pane e beva di questo calice; 29 perché
chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore,
mangia e beve la propria condanna. 30 È per questo che tra
voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero
sono morti. 31 Se però ci esaminassimo attentamente da
noi stessi, non saremmo giudicati; 32 quando poi siamo
giudicati dal Signore, veniamo ammoniti per non esser
condannati insieme con questo mondo.
17
Poros,
isola
dei pescatori
(segue da pagina 30)
«con il desiderio di innestare la forza del Vangelo sul generoso sforzo
umano dei Greci alla ricerca della
verità. Egli era convinto che la fede
nel mistero cristiano potesse aprire
nuovi orizzonti alla cultura greca»
(Settimio Cipriani).
Una giornata indimenticabile quella della visita alle isole di Hydra,
Poros ed Egina. Sulla nave crociera
incontriamo un gruppo altrettanto
numeroso di Sudcoreani, i quali subito familiarizzano con noi al ritmo
di musiche greche, italiane, orientali;
anche il vescovo partecipa con la sua
chitarra.
Poros, piccola, tutta natura, è chiamata l’isola dei pescatori: piccole
pinete, belle spiagge, strade strette.
Hydra, poco più grande di Ischia,
detta l’isola degli artisti, è come una
specie di anfiteatro costruito attorno
al porticciolo. Non vi sono automobili e l’unico mezzo di locomozione
è costituito dalle gambe e dagli asini.
Ad Egina, isola con meravigliose
spiagge, c’è una grande coltivazione
di pistacchi. Vi si ammirano il tem-
All’isola di Hydra l’unico mezzo di locomozione è costituito dallegambe e dagli asini
pio di Aphaia (Atena) costruito nel
V sec. a. C. e l’immenso complesso
della chiesa ortodossa dedicata a
San Nectarios, che succedette a S.
Gregorio Nazianzeno sulla cattedra
di Costantinopoli e morì nel 397 d.
C.
Alla fine, sulla via del ritorno, il
vescovo padre Strofaldi ci saluta
dandoci appuntamento per il prossimo anno, sempre sulle orme di San
Paolo, a Malta.
Immagini della Cattedrale di S. Nectarios, un santo dell’ortodossia greca: esempio perfetto di architettura biznatina
La Rassegna d’Ischia 1/2003
33
LA RASSEGNA
TACCUINO DI VIAGGIO - Marocco / 2
Place Jemaa el-Fna
di Carmine Negro
Marrakech, porta del deserto, racconta il fascino del Sahara e dei
suoi abitanti. I Berberi sono gli uomini del deserto che sanno incantare
con le loro storie.
«Lane, pelli e cera sono spedite
in gran quantità in Europa; il
cuoio migliore... lavorato da
abili artigiani, viene utilizzato
per i belra, i cuscini, le cinture,
gli oggetti di lusso che richiamano acquirenti da tutto il
Marocco settentrionale»
Charles de Foucauld, Reconnaissance au Maroc
«Tutto l’universo in una teiera.
Con maggior precisione, la sinia
(il piatto circolare ) è la terra, la
teiera è il cielo e i bicchieri sono
la pioggia. Grazie alla pioggia, il
cielo si unisce alla terra» Abdallah
Zrika
34 La Rassegna d’Ischia 1/2003
La porta Bab ed-Debbagh ovvero la porta dei Conciatori si presenta con ben
cinque corridoi a gomito che obbligano, per oltrepassarla, a cinque successive
svolte. Superata la porta c’è una curva, subito dopo la strada si fa stretta e per
poter continuare siamo costretti a sfiorare il bordo della via. Sulla piccola salita
un asino fa fatica a tirare il carretto che, col suo carico di erba e pelli di animali,
appena scuoiati, traccia il selciato con un rivolo di sangue attirando nugoli di
mosche. Il ragazzo tira le redini e urla; l’animale che arranca alla fine riesce
a superare le difficoltà e continuare il percorso sulla piccola salita. Un uomo,
reso vecchio dalla trascuratezza e dai denti mancanti, calza un paio di ciabatte
rotte, offre rami di menta per qualche dirham (moneta del Marocco). Altri uomini,
seduti a chiacchierare, fuori i negozi, ci osservano mentre la nostra guida cerca
di allontanare quanti si avvicinano per chiedere soldi o un qualche scambio. Una
bambina porta della pasta di pane al forno per farlo cuocere. Il fetore avvolge tutto, ma nessuno dei residenti sembra farci caso. Dopo un breve percorso entriamo
a destra in uno slargo: lì una serie di vasche scavate nel terreno sono utilizzate
per la preparazione delle pelli. La guida ci ricorda che per la concia che rende
la pelle imputrescibile e morbida è necessario preparare il derma ottenendo la
“pelle in trippa”. Ci dice che per la depilazione e scarnatura si usano bagni di
calce, per la macerazione bagni d’acqua addizionati di acido solforico e sale
marino... La mia attenzione è tutta per gli uomini che, come zombi, rivestiti di
cenci macchiati dai colori della tintura, saltano sui bordi delle vasche, inconsci
del pericolo e delle esalazioni. Anche i ragazzi intervengono nelle fasi del lavoro.
Alcuni ci guardano con i loro occhi neri e ci sorridono: trasportano le pelli già
conciate nei piccoli laboratori che circondano l’estensione. Subito fuori la porta,
dall’altra parte della strada e del fiumiciattolo Uadi Issid che costeggia la strada,
sull’altura di fronte alla porta c’è una baraccopoli. Dalle povere casupole fatte
con mezzi di fortuna spuntano una quantità enorme di antenne della televisione.
Non hanno ancora l’acqua corrente e l’energia elettrica ma hanno la televisione
che fanno funzionare con generatori.
Quando si ritorna all’interno delle mura è la città vecchia che ci accoglie con
il pullulare della vita dei suoi abitanti. Le strade strette sono coperte di canne
per ripararsi dal sole; le numerose botteghe e i laboratori artigianali hanno dimensioni molto piccole. I negozi della carne possiedono vetrine basse e aperte
con dentro i pezzi più pregiati mentre le frattaglie sono situate sul bancone
tra il ronzio delle mosche. La guida ci dice che non tutti possono permettersi
l’acquisto della carne; il prezzo è troppo elevato per lo stipendio medio. Tutti,
invece, possono acquistare ortaggi frutta e pane. I piccoli negozi che vendono
polli hanno quasi tutto lo spazio occupato dalla macchina che aiuta a levare le
penne. Ci sono, poi, tanti negozi di generi alimentari con accanto al pane e ai
dolci locali in bella mostra la pubblicità della Coca Cola.
Capita spesso di essere invitati quando si fa un acquisto a bere un tè con il
bottegaio. Il tè è un rito, ricorda una cultura che faceva del contatto e della
parola motivo di vita. I tempi sono quelli dell’Africa. Intorno al tè
oltre alla contrattazione, si può parlare di tutto, del clima come del
raccolto di un anno, delle mogli come del cibo. Durante il rituale
del tè gli uomini del deserto offrono le proprie merci al prezzo
migliore per realizzare, ma anche per costruire un rapporto per
futuri commerci, per conoscere con l’altro un distinto mondo. Il
tè viene offerto sempre da una teiera nella quale è stato messo tè
verde, zucchero, foglie di menta fresca e acqua bollente. Quando
si versa, la teiera si allontana e si avvicina al bicchiere in una sorta
di suggestivo cerimoniale.
«C’è aroma nei suq, e freschezza, e varietà
di colori» Elias Canetti
«In pochi minuti, la piazza si
riempì di gente. Come in una
moschea all’ora della preghiera [... ] Si raccontavano storie
berbere di amore e gelosia,
di favolosi tesori nascosti nei
riad abbandonati e scoperti
da vecchi vagabondi o da
bambini ciechi, si rubavano
portafogli, si vendeva acqua
fresca, si faceva alzare con
l’aiuto di un flauto un grosso
serpente davanti agli occhi [...].
Le molteplici combinazioni,
gli innumerevoli trucchi di cui
l’uomo è capace per guadagnarsi la vita si concentravano
in questa piazza: la magia si
impadroniva dei gesti più semplici». Augustin Gomez Arcos,
L’accecato
Crocevia di commercio e principale luogo di scambi sociali, il suq
(mercato) mischia inestricabilmente suggestioni e funzioni. I suq
di Marrakesh, autentici quartieri-labirinto organizzati per categorie
di prodotti o per attività, rappresentano il vero cuore della vita urbana. Il suq è un viaggio nell’uomo e per viverlo pienamente non
bisogna sottrarsi al rito, all’inizio curioso e un po’ faticoso, della
contrattazione. Quanto può valere questa valigia o quel tappeto?
Il negoziante ne conosce il valore, ma lui vuole sapere chi siamo,
quanto convinto è il nostro interesse. E poi ha tempo. È disposto a
cedere e a rilanciare, ad aggiungere qualcosa in più per fare sembrare più conveniente la sua offerta, ad ascoltare la nostra fantasia, gli argomenti che sappiamo
scovare per strappare un buon prezzo. Che può essere vicino o lontano rispetto a
quello iniziale, ma che, se abbiamo ben condotto la trattativa, accontenta tutti: chi
vende ha ricavato il suo guadagno, che gli consente di vivere, e chi compra pensa
sempre di aver scoperto il piccolo segreto dell’uomo che ha cominciato a conoscere.
Nel suq dei Tintori le matasse colorate, sospese ad asciugare fuori delle piccole
botteghe, offrono uno spettacolo variopinto. Sulla porta le grandi e caratteristiche
marmitte nere utilizzate per la tinteggiatura. Nel suq dove si lavora il ferro si costruiscono lampade, sgabelli, finestre e oggetti per la casa. Molti i ragazzi impegnati a
preparare i pezzi da assemblare; lavorano sulla soglia dei piccoli negozi, quasi nella
strada. Mustafà, ragazzo minuto ma sveglio, lavora il cedro; me ne offre due pezzi
per sentirne l’odore, mi vede esitante, pensa sia un problema economico, cerca
di rassicurarmi: non vuole dirham. Conosce la lingua e in buon italiano spiega il
suo lavoro sul piccolo tornio; costruisce manici per spiedini. Più avanti c’è il suq
delle spezie: i colori sono vivaci e accesi e le fragranze forniscono con l’aroma il
sapore di una terra e di un continente.
Piazza Jemaa el-Fna, coinvolgente cuore della città, è uno dei grandi spettacoli
del mondo. Dopo l’arrivo, la guida ci ha prelevato dall’albergo per un primo contatto
con la città e per una cena in un ristorante tipico. Ci siamo diretti verso uno spiazzo
molto esteso che nei giorni successivi verificai essere, sia di mattina che di pomeriggio, un immenso e pittoresco mercato dei generi più differenti dagli alimentari
ai medicinali, dai lavori di vimini alle cianfrusaglie da vendere come souvenir per
i turisti. È l’ora del tramonto, gli ultimi raggi del sole offrono tonalità di rossi che
solo l’Africa sa regalare. Da lontano l’ampia distesa è animata da una miriade di
persone che si aggira tra le lampade bianche delle bancarelle che ravviva il vapore
del fumo bianco che spunta dai vari punti della piazza e si perde fino a scomparire
appena sopra il paralume. Il palcoscenico è ammaliante; un cantastorie racconta di
pozioni berbere magiche, a fianco un mercante offre per pochi dirham un amuleto
capace di rivitalizzare la vita sessuale. L’incantatore di serpenti suona con forza
il proprio flauto e nello sforzo fa ruotare gli occhi mentre un aiutante chiede di
fotografare per pochi dirham. Frattanto i cobra, del tutto insensibili al suono dello
La Rassegna d’Ischia 1/2003
35
strumento, sono ipnotizzati dal movimento della
testa che seguono come un testo non scritto. Una
donna seduta su uno sgabello, avvolta nel suo velo,
invita con le dita le donne alla lettura delle mani.
Un’altra donna con una siringa riempita di pasta di
henné realizza tatuaggi, una volta simboli magici
ed ora solo ornamento, che compone in pochi momenti con maestria e professionalità. Un ragazzino
si avvicina con la mano mi chiede delle monete.
Ha occhi profondi e mi colpisce ma ho timore a
prendere il portafogli. Non gli do nulla. Vorrei
conoscere il suo nome ma non parla. Solo pochi
attimi ed è inghiottito dalla folla. Di lui mi rimane
lo sguardo che chiede e la mano aperta; decido di
chiamarlo SENOM (SEnza NOMe). Qualcuno mi
chiama Italiano, è vestito con un abito rosso, mi
dice che non vuole soldi per una foto, ma poi cerca
un poco di oro, come è chiamato l’euro, richiesto
in tutti i posti più del dollaro. Mi dice che un suo amico è ad Afragola mettendo
l’accento sulla seconda “a”. Un altro mi invita a visitare la farmacia berbera e
poi altri indovini acrobati e giocolieri, danzatori, altri incantatori di serpenti, i
venditori d’acqua con i vestiti rossi sgargianti, ormai solo comparse sul proscenio
che è la piazza. C’è anche il dentista con pinze e denti di tutti i tipi sul banchetto.
Gli spettatori fanno cerchio e per ogni spettacolo, grande o piccolo, lasciano in
genere qualche dirham (anche i marocchini). Intanto i chioschi montati e smontati
ogni giorno iniziano a cucinare alla luce delle lanterne. I marocchini si mescolano
con i turisti e si siedono per consumare carne o pollo, frattaglie o pesce, riso o
verdure sempre cucinate nelle tagine, marmitte di terracotta con coperchio conico
che impregnano l’aria con i loro profumi allo zafferano e i sapori delle mandorle
all’agro dolce. Le botteghe hanno un numero progressivo, i negozianti invitano al
tavolo, ti rendono parte attiva della rappresentazione: pochi dirham una premuta
di arancia, ma ci si può sedere a mangiare con gli uomini e le donne del Marocco.
Così, in questo spazio irregolare tra i suq e l’antica casba si realizza una sorta di
foro, in una speciale declinazione berbera, che è insieme teatro e mercato luogo di
cultura e assemblea della città. Più tardi intruppati siamo stati in un locale tipico
dove c’era una cucina tipica e tutti erano vestiti con i costumi tipici: il cameriere, i
musici, le cantanti e una donna bella e sensuale che si cimentava in una provocante
danza del ventre. Il luogo era bello e la cura per i particolari rilevante ma nulla era
paragonabile alla suggestione che sa suscitare una piazza dove un giovane popolo
sa narrare la propria storia con le vicende della vita quotidiana, l’artigianato, la
cucina, un sorriso accattivante e una voglia: raccontare la vita di un continente che
ha il tempo del respiro e il ritmo del battito del cuore.
36 La Rassegna d’Ischia 1/2003
Pagine di storia
I VOLONTARI UNGHERESI
tra i
GARIBALDINI
di Vincenzo Cuomo
Il nostro Risorgimento nazionale resta una nobile pagina di storia perché
nella mente e nel cuore di coloro che per esso lottarono, soffrirono e si sacrificarono, non volle essere la sterile creazione di un nazionalistico potente Stato
da contrapporre agli altri già esistenti in Europa. Essi desiderarono unicamente
cercare di unire, in un’area costituzionale, un popolo diviso e oppresso da
tanti tirannelli locali sui quali vegliava guardinga l’Austria, anch’essa nostro
oppressore. Desideravano, quindi, ridare unità a una Nazione che per secoli,
proprio perché divisa, tanti avevano cercato di sfruttare e conquistare e che
ancora tentavano di fare, unicamente per la propria gloria e il proprio tornaconto. Infine, volevano anche dare a tutti gli italiani la dignità di una pari
presenza nel panorama delle etnie europee. Per tale loro sogno civile, l’onestà
intellettuale, il disinteresse personale, le fatiche, le privazioni, il carcere e in
tanti casi anche il tormento fisico, che sopportarono con fierezza, coraggio e
austera elevatezza, restano uomini attuali e degni di essere ricordati e indicati
quale esempio da seguire alle giovani generazioni.
Dopo decenni di maturazione politica da parte di tutte le classi sociali e
culturali presenti nel frastagliato panorama territoriale esistente in Italia,
punteggiato da insurrezioni, sommosse e tumulti destinati a concludersi
tragicamente, il vero processo unitario
nazionale ebbe inizio nel 1859 con la
Seconda Guerra d’Indipendenza. Felice azione militare che, grazie all’apporto di una armata francese guidata
dallo stesso imperatore Napoleone
III, riuscì a ricomporre intorno al
piccolo Regno di Sardegna gran parte
degli Stati dell’Italia settentrionale e
centrale.
Appena questi avvenimenti si furono conclusi, una gran quantità di
patrioti iniziarono dei preparativi per
una spedizione armata nel Mezzogiorno d’Italia, al fine di affrancarlo
dalla dominazione borbonica e unirlo
al restante territorio unitario e costituzionale già liberato dall’esercito
piemontese. Il comando dell’impresa
venne offerto a Garibaldi, che da
tempo era indubbiamente la figura
più rappresentativa e prestigiosa del
partito democratico: schieramento
politico che aveva progettato l’azione.
Il Generale accettò, nonostante alcuni
anni prima avesse rifiutato il comando
di analoga spedizione, sempre nel
Mezzogiorno e poi tentata dal Pisacane, in quanto in Sicilia il sentimento
patriottico e liberale gli appariva di
gran lunga più maturo e avanzato
in confronto a quello esistente nella
parte continentale del Regno delle
Due Sicilie. L’Isola, infatti, era una
delle zone più calde d’Italia, anche se
le rivolte sempre avevano avuto più
una colorazione separatista-sociale,
che non indipendentista-unitaria.
Garibaldi, però, sperava di far convergere a suo favore questo forte
sentimento di avversione al dominio
borbonico-napoletano. La conquista
della Sicilia per l’Eroe dei due Mondi, doveva, però, rappresentare solo
Stefano TURR
Ferdinando EBER
Luigi TUCKORY
MAGYARODY
la prima tappa di una ben più lunga
campagna che aveva come obiettivo
finale la liberazione di Roma e Venezia e la conseguente creazione di una
completa unità d’Italia.
La spedizione ebbe quale punto di
raccolta la cittadina di Quarto vicino
Genova. I partecipanti, tutti ferventi
patrioti e provenienti per la stragrande
maggioranza dalle città del settentrione, erano in prevalenza professionisti, studenti e intellettuali. Tra
loro mancava, però, il ceto contadino,
completamente assente. In questo raggruppamento armato vi era poi anche
una pattuglia di diciotto stranieri, tra
cui alcuni ungheresi. Costoro in una
ideale unione tra tutti i patrioti ardenti
di liberare la propria patria da ogni
forma di tirannia e oppressione, non
potendo, al momento, lottare per la
loro, intervennero a sostegno della
Causa italiana. I principali componenti di questi volontari ungheresi
che sempre si distinsero per impegno
e valore furono: Stefano TÜRR, Ferdinando EBER, Luigi TÜCKORY e
il MAGYARODY.
A questo punto, poiché lo svolgimento dei fatti, dallo sbarco a
Marsala alla battaglia del Volturno,
sono ben noti, in omaggio ai signori
ungheresi qui presenti, ci è gradito
quindi effettuare una rivisitazione di
tale entusiasmante momento storico,
attraverso l’impegno dei suddetti patrioti magiari presenti tra i “Mille”.
La Rassegna d’Ischia 1/2003
37
Stefano Türr, patriota ungherese, naturalizzato italiano, nato a
Baya (Ungheria). Intraprese la carriera delle armi; nel 1848 disertò dall’esercito austriaco e si rifugiò in Piemonte, fu capitano
dell’esercito sardo e combatté a Novara. Successivamente prese
parte alla spedizione dei Mille, distinguendosi a Talamone e a
Marsala. Partecipò alla marcia su Napoli, dove Garibaldi lo nominò
governatore della città e della provincia. Terminata la guerra, sposò
Adelina Wyse Bonaparte, cugina di Napoleone III.
La figura indubbiamente più nota e rappresentativa,
nonché quella destinata a restare anche nella successiva storia dell’Esercito Italiano, fu Stefano Türr. Il suo
impegno nel corso di questa volontaria entusiasmante
campagna di guerra ebbe inizio ancor prima dello sbarco
a Marsala. Garibaldi, che di lui aveva cieca fiducia, allorquando con il “Piemonte” e il “Lombardo” fece scalo
a Orbetello per rifornirsi di armi e munizioni presso il
locale forte, fu proprio al Türr che diede l’incarico di
guidare la delegazione incaricata di presentare la richiesta. Richiesta che venne accettata in quanto l’Eroe
dei Due Mondi ancora conservava il grado di Generale
dell’Esercito piemontese.
In Sicilia, nel corso della prima fase della conquista, il
Türr ebbe sempre incarichi di comando. Dopo la conquista di Palermo, allorquando, prima di riprendere l’avanzata verso lo Stretto, si ravvisò la necessità di un’azione
verso l’interno tesa a ripristinare l’ordine in quei centri
ove il vuoto di potere aveva generato violenze di ogni
tipo, il Türr venne da Garibaldi posto al comando di una
delle due Brigate predisposte. Mentre la sua fu inviata
verso Catania, l’altra, al comando del Bixio, mosse invece in direzione Sud. Altro momento in cui rifulsero le
38 La Rassegna d’Ischia 1/2003
capacità di questo ufficiale ungherese, fu nel corso della
battaglia di Milazzo. Ivi, ove molto contribuì alla vittoria,
ebbe il comando di uno dei tre raggruppamenti in cui era
stata divisa l’intera forza garibaldina. Successivamente
continuò a distinguersi nel corso della risalita della penisola sino all’arrivo nella capitale del Regno borbonico.
Il 21 settembre fu poi coinvolto in uno scontro che lo
vide perdente contro le forze borboniche. Scontro che,
però, per come si svolsero i fatti, nulla toglie al suo valore e alle sue capacità. Il Türr, nel momento in cui i due
eserciti si fronteggiavano sul Volturno, contro il volere di
Garibaldi o forse avendone male interpretato un ordine,
volle creare una testa di ponte al di là del fiume verso
Caiazzo. Inizialmente, riuscì nell’intento, successivamente, attaccato da preponderanti forze nemiche, venne
costretto ad arretrare. La campagna si concludeva poi
vittoriosamente il 1° ottobre (battaglia del Volturno),
allorquando l’Eroe dei Due Mondi dimostrò di essere
anche un abile stratega, oltre che valente guerrigliero.
La battaglia che impegnò la quasi totalità dei volontari,
molto dovette ancora alle capacità del Türr. Al termine
dell’impresa, allorquando ai migliori dei Garibaldini
venne concesso di poter accedere tra le fila dell’Esercito
regio, oltre a Sirtori, Cosenz, Medici e Bixio, il grado di
Generale venne concesso anche al Türr.
Altro volontario ungherese di grande spessore, che pure
godè di grande prestigio all’interno del raggruppamento, fu il colonnello Luigi Tückory. Questi, dopo essersi
distinto, sia per valore militare, che per una affascinante
personalità, trovò una morte eroica combattendo per la
conquista di Palermo. All’alba del 27 maggio, i Garibaldini, che intanto grazie al contributo degli insorti locali
erano divenuti oltre tremila, si predisposero ad attaccare
la capitale dell’isola. Garibaldi, venuto a conoscenza che
il punto debole della difesa predisposta dal Generale
borbonico Laura era Porta Termini, ordinò di attaccare
proprio in quel posto. Scendendo da Gibilrossa, il primo
ostacolo che i Volontari dovettero affrontare fu il Ponte
dell’Ammiraglio. Ponte che riuscirono abilmente a superare grazie a un veloce attacco alla baionetta guidato
da Tückory e dal Bixio. Giunti nelle vicinanze della
Porta un reparto di fanteria, appoggiato da alcuni pezzi
di artiglieria, provocò notevoli perdite tra gli attaccanti,
tra cui, per l’appunto, il Colonnello Tückory. Nonostante
ciò, grazie all’arrivo di una colonna di rinforzo, l’azione
riuscì a concludersi favorevolmente.
Poiché la morte non aveva estinto il ricordo di questo
prode e fervente patriota, allorquando la Fregata “Veloce” della Marina da guerra borbonica venne catturata
dai Garibaldini, costoro, al fine di ricordare e onorare
adeguatamente l’Ufficiale ungherese caduto sul campo
dell’onore la ribattezzarono Tückory. In tal modo il suo
nome continuò ad essere presente e ad accompagnare
le gesta dei “Mille”, come, allorquando, nel corso della
Battaglia di Milazzo, i cannoni di questa nave furono di
grande aiuto ai Volontari impegnati
nei combattimenti.
Altro volontario ungherese, ugualmente degno di essere ricordato fu
l’Eber. Prese parte a moltissime
azioni di rilievo, tra cui quella spedizione verso l’interno della Sicilia,
tesa a pacificare alcune zone insorte
in seguito alle prime vittorie dei
“Mille”. Aggregato alla colonna del
Türr, allorquando costui, in seguito al
riacutizzarsi di una vecchia ferita, fu
costretto ad abbandonare il comando,
fu proprio l’Eber che ebbe l’incarico
di sostituirlo. In merito a questo entusiasmante personaggio degno di nota
è il fatto che non giunse in Sicilia nel
gruppo dei volontari combattenti, bensì quale giornalista estero incaricato di
seguire e relazionare sull’impresa in
corso. Durante un colloquio con Garibaldi, prima della presa di Palermo,
forte di una competenza che gli veniva
dall’essere stato Colonnello in servizio attivo, fece presente quali a suo
avviso erano i punti deboli della difesa
borbonica. L’Eroe dei due Mondi,
conquistato dalla abile pertinenza e
dalla professionalità dell’ungherese,
gli chiese di arruolarsi. Alla positiva
risposta lo confermò nel grado di
Colonnello. La campagna la terminerà
come Generale di Brigata.
La conclusione di questa campagna
di guerra risorgimentale fu quel plebiscito che, con la formula: «Il popolo
vuole l’Italia una e indivisibile con
Vittorio Emanuele re costituzionale e
i suoi legittimi discendenti» sancì la
fusione del Regno delle Due Sicilie
all’interno della nuova realtà politica
nazionale. Nasceva uno stato italiano,
libero, indipendente e costituzionale,
nel quale, lontano da ogni condizionamento straniero, i conflitti politici
era possibile finalmente esprimerli
e redimerli all’interno di un arengo
parlamentare e non più su campi di
battaglia fratricidi.
Conferenza F.I.D.A.P.A
L’arrivo dei primi Carabinieri a Napoli dopo l’unità d’Italia.
Organizzata dalla Sezione di Napoli della F.I.D.A.P.A., in collaborazione con
la Direzione Scolastica dell’antico e prestigioso Liceo Umberto I, lo storico delle
Istituzioni militari Vincenzo Cuomo ha tenuto (14 marzo c. a.) una conferenza
sul tema: L’arrivo dei primi Carabinieri a Napoli dopo l’unità d’Italia. Passato
e Presente. Il relatore, membro della Società Italiana di Storia Militare, è una
figura ben nota nel panorama editoriale nazionale. Nel corso degli anni ha infatti
realizzato una serie di pubblicazioni a carattere storico su Armi, Corpi e Unità
delle nostre Forze Armate. Lavori che sono dei veri e propri capitoli di storia
d’Italia, visti attraverso il reparto militare trattato, come La Legione Carabinieri
di Napoli, Carabinieri a Sorrento, La Scuola Allievi Carabinieri di Benevento.
Alla conferenza erano presenti, oltre al fratello dell’eroe Salvo D’Acquisto,
dottor Alessandro, e una folta cittadinanza qualificata e interessata all’argomento,
moltissime Autorità civili e militari, nonché una rappresentanza di Allievi della
Scuola Militare Nunziatella. L’Arma ora rappresentata dal Generale B. Sergio
Sorbino, Direttore del Servizio Analisi Criminale presso il Ministero dello Stato, del Comando Regione Campania; il Col. Ermanno Meluccio, Comandante
della Scuola Allievi Carabinieri di Benevento; il Ten. Col. Gianfranco Milillo,
Comandante interinale del Comando Provinciale di Napoli; e il Comandante del
Reparto Territoriale di Napoli, Ten. Col. Antonio Bacile.
La manifestazione ha avuto inizio con il saluto del Dirigente Scolastico dell’Istituto, prof. Alberto De Vico, a cui ha fatto seguito quello della Prof. Clara Guarino,
presidente della Sezione napoletana della F.I.D.A.P.A.
Il Cuomo, dopo una breve panoramica sulle motivazioni che indussero l’allora
sovrano di Sardegna Vittorio Emanuele I a creare il Corpo dei Carabinieri Reali,
ha tracciato un documentato profilo sull’arrivo dei primi reparti dei Carabinieri a
Napoli. Nel contempo non ha dimenticato di evidenziare l’importanza che ebbe
quella Legione Carabinieri Reali di Sicilia, costituita per far fronte al disfacimento
della struttura statale borbonica in relazione all’avanzata dei Garibaldini da Marsala a Messina. L’accurata esposizione ha posto in luce, in modo sistematico e
preciso, anche dove alloggiarono e quali furono i problemi che immediatamente
dovettero fronteggiare i primi Carabinieri nel Napoletano. Passando attraverso
la nascita della settima Legione territoriale, che al momento aveva giurisdizione
su gran parte di Campania e Molise, il relatore ha pure evidenziato l’impegno
dell’Arma contro il brigantaggio affermando che «I Carabinieri, nonostante la
durezza della repressione, in ogni occasione e circostanza, sempre seppero compiere il loro dovere con umiltà e dedizione, senza mai lasciarsi trascinare nella
fosca spirale della bruta violenza».
Largo spazio è stato concesso, non solo alla dura lotta contro la camorra iniziata
in contemporanea al loro arrivo e non ancora conclusa, ma anche a quell’aiuto
che, sino ai nostri giorni, i Carabinieri sempre hanno concesso e concedono alle
popolazioni civili in caso di calamità naturali.
Gli austeri edifici, ex complessi monastici, che hanno ospitato il Comando della
settima Legione e l’attuale Legione hanno pur essi trovato ampio spazio, in un
quadro di rigorosa ricostruzione storica nell’esposizione del Cuomo, il quale
non ha dimenticato di evidenziare che l’attuale sede di Comando della Regione
Campania è intitolata a Salvo D’Acquisto, sottufficiale dei Carabinieri che, senza
alcuna esibizione e lontano da qualunque fatuo spirito di protagonismo, intese
offrire la sua giovane vita affinché 22 inermi ostaggi potessero continuare a vivere.
La sua fu una decisione che tocca la vetta del sublime, ma è pure l’emblema di
quel profondo legame che da sempre unisce l’Arma dei Carabinieri ai cittadini
del nostro Paese.
La conferenza si è conclusa con una panoramica sull’attualità dell’Arma dei
Carabinieri i quali - così ha concluso il relatore - «svolgono la loro missione con
paziente instancabile devozione, senza mai risparmiarsi, senza misurare la fatica
e senza temere i tanti rischi legati alle operazioni di servizio».
La Rassegna d’Ischia 1/2003
39
Nel 50° anniversario dalla sua scomparsa
Ricordo di Benedetto Croce
al Centro di Ricerche Storiche d’Ambra
La libertà al singolare esiste soltanto nelle libertà al plurale
di Rosaria Conte
Sull’insegnamento crociano «La
libertà al singolare esiste soltanto
nelle libertà al plurale» si è ricordato,
nel 50° anniversario dalla sua scomparsa, Benedetto Croce (1866-1952),
presso la sede del Centro di Ricerche
Storiche d’Ambra a Forio d’Ischia.
Ha introdotto e coordinato l’incontro
l’avv. Nino d’Ambra, presidente del
Centro, che ha parlato dei momenti
più significativi della vita del grande
storico e filosofo, specie di quei punti
di “contatto” con l’Isola d’Ischia.
Ha ricordato, fra l’altro, il sacerdote
Mario Palladino (futuro vescovo d’Ischia) che fu insegnante di latino di
Croce giovanetto, allorché quest’ultimo scriveva poesie liberando la
fantasia con temi propri della sua
età, ma il suo precettore lo indusse a
comporre versi dedicati a Sant’Alfonso dei Liguori! Forse – ha ironizzato
il d’Ambra – deve ricercarsi qui una
delle radici del suo anticlericalismo!
L’oratore ha richiamato alla memoria
come il filosofo si formò alla scuola
napoletana di italianità e di cultura,
che fu diretta dal celebre maestro
Basilio Puoti, forse contemporaneamente al francescano garibaldino P.
Giuseppe da Forio m.o., autore, fra
l’altro, di una delle più documentate
biografie di Giuseppe Garibaldi. Ha
ricordato altresì la dolorosa vicenda
della sua vita allorché, nel luglio
1883, avendo studiato da privatista,
conseguì brillantemente la licenza
liceale presso il Liceo Genovesi di
Napoli e fu portato in vacanza-premio
a Casamicciola dai genitori che perirono, assieme alla sorella di Benedetto
di nome Maria, sotto le macerie del
40 La Rassegna d’Ischia 1/2003
tristemente famoso terremoto del 28
luglio del 1883, sottolineando, con
dovizie di particolari, la responsabilità
degli amministratori dell’epoca che
nascosero i segni premonitori del
disastro. Da allora il Croce non volle
più ritornare nell’Isola d’Ischia, come
ha confermato di recente l’avv. Vincenzo Romolo, già sindaco liberale
del Comune di Ischia.
L’avv. d’Ambra ha anche ricordato
quando Croce con la famiglia risiedeva a Villa Tritone a Sorrento nel
settembre 1943 e fu condotto di notte
a Capri da un ufficiale inglese e dai
partigiani Marco Pasanisi e Rocco
d’Ambra (fratello defunto del relatore), per sottrarlo ad un imminente
sequestro da parte dei nazifascisti.
Indi ha preso la parola il prof. Gianni Balestrieri, docente di Filosofia e
storia del Liceo Scientifico Einstein,
il quale fra l’unanime attenzione
del numeroso e qualificato pubblico
intervenuto, fra l’altro ha messo in
particolare evidenza i caratteri dello
storicismo crociano. Dopo aver sottolineato che per Croce lo storicismo
è un’integrale e coerente concezione
della realtà, fondata sull’idea che
l’intera realtà, nulla escluso, è storia,
e che non vi è alcuna dimensione che
trascenda il piano storico, il prof. Balestrieri si è soffermato in particolare
su due aspetti della riflessione del
filosofo napoletano: la svalutazione
del metodo delle scienze naturali e la
dialettica della storia.
Riguardo al primo aspetto, il
relatore ha insistito sul fatto che,
per comprendere adeguatamente la
posizione crociana, occorre sempre
tenere presente che per il Filosofo la
storicità del reale implica l’individualità dell’esistente, individualità che
non può essere mai colta dalle scienze
naturali che costruiscono concetti di
genere.
Per quanto concerne il secondo
aspetto, il relatore ha posto a confronto la dialettica della storia di
Croce con quelle di Hegel e Marx.
Dallo stimolante confronto è uscito,
ci si consenta l’espressione, vincitore
Croce che, rispetto ai due pensatori
dell’Ottocento che ritenevano che ad
un certo punto la storia sarebbe finita,
in una versione secolarizzata del paradiso cristiano, ha sostenuto che la
storia non può avere una meta ultima
e definitiva, pena la fine stessa della
vita. Certo, alla luce di quali inferni
si sono rivelati i paradisi promessi,
appare difficile dare torto a Croce,
dalla cui filosofia, ha concluso il prof.
Balestrieri, viene invece un invito ed
un monito ad un impegno, da rinnovarsi quotidianamente, in nome della
libertà e del progresso della civiltà.
Ne è seguito un articolato dibattito,
dove il prof. Balestrieri ha dato ampie
ed esaurienti risposte.
I vari momenti della serata sono
stati sapientemente alternati da brani
di musica classica e sinfonica eseguiti dal gruppo vocale e strumentale
diretto dal maestro Filippo Schioppa
(Francesco Calise, Francesco Casilli,
Ciro Iacono, Maria Serena Schioppa,
Carmela Iacono, Valentina Bramante,
Rossella Calise, Virginia Iacono e
Gianna Di Mauro).
All’iniziativa ha fatto pervenire con
un suo messaggio l’adesione anche il
sindaco di Napoli, avv. Rosa Russo
Iervolino.
*
Il naufragio
e il mistero
del Warrior
(segue da pagina 23)
Soli nell’infinito
contro la morte
I poveri naufraghi abbandonati
a se stessi lottano ancora contro la
morte: la scialuppa contrariamente
a quanto dicono i telegrammi del semaforo, deve essere montata da sette
uomini assieme al capitano: fra essi
sono compresi due ragazzi; l’errore
del semaforo è facile a spiegarsi: da
tempo erano visibili cinque uomini,
cioè quattro ai remi ed uno al timone;
è più probabile che i semaforisti non
si siano accorti di un sesto che rimane
quasi nascosto perché intento a buttare l’acqua che imbarca la scialuppa,
come d’ordinario capita in questi casi
e col mare agitato, ed è molto facile
che i ragazzi siano invisibili perché o
per la fame o per la stanchezza o per
timore di essere portati via dalle onde,
saranno in fondo alla barca.
Come risulta dai nomi citati
sia tra quelli scomparsi che tra i
superstiti, si trattava di uomini di
provenienza dalle isole di Procida e
di Ischia. Dovrebbe pertanto essere
facile che stessi
qualche
familiare
degli
possa
confermare
quanto riportato oppure
fornire maggiori indicazioni al riguardo. Nel
qual caso speriamo che
possano farci avere notizie più precise.
Foto S. Sechi - Ancore del veliero
La Rassegna d’Ischia 1/2003
41
Pubblichiamo la traduzione dal latino del
Decretum super virtutibus (Decreto sulle virtù)
relativo al parroco Giuseppe Morgera,
emanato il 23 aprile 2002 e riportato
negli Atti della
Congregazione per le Cause dei Santi
«Il principio interiore, la virtù che anima e guida la vita
spirituale del presbitero in quanto configurato a Cristo
Capo e Pastore, è la carità pastorale, partecipazione della
stessa carità pastorale di Gesù Cristo: dono gratuito dello
Spirito Santo, e nello stesso tempo compito e appello alla
risposta libera e responsabile del presbitero» (Giovanni
Paolo II, Esortazione Apostolica Pastores dabo vobis,
23: AAS LXXXIV [1992], pp. 691-692).
La virtù che rifulse nella vita e nelle opere del sacerdote
Giuseppe Morgera, senza dubbio, fu la carità pastorale,
che lo spinse a darsi giorno dopo giorno al servizio di Dio,
della Chiesa, delle anime. Pertanto infiammato di zelo e
da un desiderio vivissimo di dilatare il Regno di Cristo,
in ogni cosa seguì l’esempio del Buon Pastore, che per
noi assunse la condizione di servo (cf. Filippesi 2, 7) e
immolò la vita per il suo gregge (cf. Giovanni 10, 11).
Questo degno ministro della Chiesa nacque nella cittadina di Casamicciola, nella diocesi di Ischia il primo
gennaio 1844, primo degli otto figli di Francesco Erasmo
Domenico Morgera e di Maria Giuseppa De Luise, che
gli diedero il nome di Giuseppe. Si accostò all’Eucaristia
all’età di otto anni, e nel 1855 ricevette il sacramento della
Confermazione.
A quattro anni fu affidato al nonno materno Francesco
De Luise, che era custode del Palazzo Reale dei Borboni
al Porto d’Ischia. Questi fu il suo primo maestro, che
42 La Rassegna d’Ischia 1/2003
servendosi dell’unico libro della Bibbia gli diede la prima
istruzione ed educazione.
Pur stando in mezzo ad uomini illustri, i germi della
vita cristiana crebbero nell’animo del Servo di Dio fino
a far sorgere in lui il desiderio di farsi sacerdote. Il 21
novembre del 1852, accettato come alunno esterno del
Seminario, per quello che riguarda gli studi, fu affidato
a Domenico Polito, canonico della chiesa cattedrale. Poi
nell’anno 1853, il Re Ferdinando II dei Borboni, lo nominò chierico addetto alla cappella del Palazzo Reale di
Ischia, e con lo stipendio che pertanto gli proveniva, poté
continuare gli studi in Seminario come alunno interno.
Ma, a causa dei moti popolari scoppiati mentre l’Italia
rivendicava la sua libertà, il Seminario fu chiuso; per
cui, nell’anno 1860 fu costretto a tornare a casa, dove
continuò lo stesso modo di vita del Seminario impegnandosi personalmente nello studio e coltivando la sua vita
spirituale. L’anno dopo, 1861, ritornato in Seminario gli
fu dato l’incarico di insegnante di letteratura nella prima
classe del ginnasio. Il 22 del mese di Settembre del 1866,
fu ordinato sacerdote e il giorno dopo per la prima volta
celebrò la messa nella chiesa detta del “Purgatorio” nella
“Villa dei Bagni”. Secondo la testimonianza di suo fratello Antonio, il Morgera ebbe questo concetto della sua
missione pastorale: «Il sacerdote non è l’uomo che deve
pensare a sé stesso ma deve essere tutto a servizio dei
fratelli. Quel sacerdote che non è capace di essere utile
all’illetterato, dì essere rispettato dall’uomo sapiente, di
essere medico delle malattie dello spirito, non fa le veci
di Cristo qui in terra né risponde all’esatto ministero della
santa vocazione sacerdotale».
Perciò questa sua convinzione ispirò tutta la sua vita sacerdotale, fin dall’inizio. Colse l’occasione di frequentare
a Roma la Scuola del Collegio Romano (oggi Università
Gregoriana) dove frequentò i corsi di Teologia Morale
del celebre Padre Ballerini, gesuita. Tornato nell’isola
il primo gennaio del 1870 gli fu dato il primo incarico
pastorale diocesano cioè l’incarico di cappellano della
chiesa chiamata del “Buon Consiglio” oppure “Chiesa
dei marinai”; univa l’impegno di istruire i fanciulli e i
giovani a una fervida attività pastorale e a una vita spirituale intensa.
Di questa prima parte del ministero sacerdotale del
Servo di Dio rimangono alcuni libri, discorsi e omelie. In questo periodo, si ritiene, fu da lui scritta la “Vita di S.
Giuseppe”, iniziò la “Vita di Gesù Cristo”. Inoltre, quasi
non bastassero le occasioni di lavoro come cappellano del
“Buon Consiglio”, il giovane sacerdote trovò il tempo per
dedicarsi alla sacra predicazione, anche fuori dell’Isola
d’Ischia nel 1879, quando il suo zelo apostolico lo spinse
fino alla città di Napoli e all’Archidiocesi di Gaeta.
Nel 1882 Carlo Mennella, che allora era parroco di
Casamiccola, fu consacrato Vescovo ausiliare dell’Isola
d’Ischia, rimanendo per concessione del Papa nell’incarico di parroco. Il Mennella, sapendo che il Servo di Dio
era in grado di aiutarlo, lo nominò Vicario parrocchiale.
E così il Morgera, il 9 gennaio 1882 ricevette l’incarico
formale del nuovo ufficio con le più ampie facoltà circa
la giurisdizione, perché tanti incarichi parrocchiali il
Mennella non poteva esercitarli più perché doveva aiutare
il Vescovo titolare di Ischia il quale era paralizzato.
Mentre dunque il Servo di Dio era impegnato totalmente come Vicario parrocchiale di Casamicciola, ci fu
il doloroso terremoto del 28 luglio 1883 che possiamo
considerare come uno spartiacque nella vita del Morgera. In quell’occasione al cospetto di tutti il Servo di Dio
mostrò la sua maturità sacerdotale e la sua eroica carità.
Appena gli fu possibile, perché anche lui era rimasto sotto
le macerie per più di un’ora e poi era andato ramingo fra
diversi ospedali di Napoli, di nuovo dedicò al suo popolo
tutte le forze del suo animo e del suo ingegno.
Poiché la cittadina di Casamicciola era rimasta priva
del suo pastore per la luttuosa morte del Vescovo Carlo
Mennella, il 16 dicembre 1883 il servo di Dio prese l’incarico di parroco. Durante la messa di insediamento in
cui veniva pubblicamente messo nell’ufficio di parroco si
offrì, nel discorso che fece ai suoi fedeli, sotto l’insigne
simbolo evangelico del Buon Pastore sempre pronto a
dare la vita per le sue pecorelle. Intanto veniva richiesto
come predicatore nel tempo di Quaresima; predicazioni
degli esercizi spirituali e di altre conferenze sulla parola
di Dio si sogliono tenere nell’isola d’Ischia, a Gaeta, a
Napoli nelle quali occasioni il parroco Morgera si faceva
tutto a tutti.
Mentre si sforzava di alimentare Casamicciola con cibo
materiale e spirituale, carezzava l’idea e la speranza che
il tempio parrocchiale distrutto dal terremoto sarebbe di
nuovo sorto dalle fondamenta quasi a simbolo del rinato
paese.
Dopo aver superato innumerevoli difficoltà il giorno 8
luglio del 1894 fu benedetta la prima pietra della nuova
chiesa che fu quindi con solenne rito dedicata al Sacratissimo Cuore di Gesù e a S. Maria Maddalena, la quale
chiesa divenne il simbolo del nuovo paese di Casamicciola che era risorto dalle rovine per opera e per impegno del
servo di Dio. Mise la più grande cura non solo a costruire
materialmente la parrocchia ma anche spiritualmente.
Condusse il popolo nelle vie di Dio non solo per opera
del suo sacro ministero, ma anche con la santità della
sua vita, diventato così esempio del suo gregge (cf 1
Pt 5,3). Per esercitare nel miglior modo possibile la
missione a lui affidata dalla Chiesa con animo costante
seguiva l’esempio del Divino Pastore, sia con le parole
che con le opere sforzandosi di diventare un altro Cristo.
Costantemente, generosamente e con gioia spirituale
coltivò le virtù cristiane e sacerdotali. Brillò soprattutto
per la fede, la speranza e la carità. Con la mente e con
il cuore abbracciò le verità rivelate e il Magistero della
Chiesa. Alimentò la fede con la meditazione delle Sacre
Scritture, con la preghiera, con lo studio della teologia e
con un fervido amore verso l’Eucarestia, il Sacro Cuore
di Gesù, la Beatissima Vergine Maria. Fece seguire alla
sua fede la vita testimoniando la sua fede con un’adesione
ferma e meditata desiderando che Dio fosse conosciuto,
amato e servito. Fu conquistato totalmente dall’amore di
Dio, per cui senza interruzione si impegnò ad accrescere
la sua gloria e con animo generoso obbedì alla sua volontà
facendo il bene, combattendo il male ed evitando ogni
occasione di peccato; celebrò, con grande devozione
l’augusto sacrificio della messa come pure i Sacramenti
e la liturgia delle ore; fu costante nella pratica degli
esercizi di pietà specialmente nella preghiera mariana
del Santo Rosario e la visita da farsi al SS. Sacramento
dell’altare. Infiammato dall’amore di Dio e delle anime,
si diede al servizio dei fratelli al quali spezzò il pane
della Verità con la parola e con gli scritti, con le sacre
predicazioni, con l’istruzione religiosa, con le esortazioni
e con i consigli. Con umiltà e prudenza, con animo paterno, aiutò i poveri e gli ammalati, assisteva i moribondi,
consolava gli afflitti, istruì gli ignoranti, spinse al bene
i peccatori, aiutò personalmente le fanciulle povere, era
amico dei sacerdoti e degli alunni del Seminario dei quali
era insegnante delle discipline teologiche. La sua carità
rifulse specialmente dopo il terremoto quando ancora più
chiaramente si dimostrò padre dei poveri. Fu prudente
nel discernere le vie idonee alla sua santificazione come
pure nelle imprese pastorali; fu prudente e saggio con
i sacerdoti e con i laici i quali lo avevano scelto come
confessore e consigliere. Favorì la pace e la concordia
all’interno delle famiglie, nel popolo e fra le autorità. Per
aiutare i moltissimi villeggianti che numerosi per riposo
venivano già allora nell’isola d’Ischia, imparò alcune
lingue estere. Esempio agli altri, esercitò la giustizia nei
riguardi di Dio e del prossimo. Mostrò anche un animo
forte nelle difficoltà, pazienza nelle tribolazioni e temperanza nell’uso dei beni di questa terra. Fu povero, umile,
semplice, casto. Amava il Romano Pontefice con spirito
di fede. Con prontezza e con uguale sentimento ubbidì ai
suoi vescovi, impegnandosi generosamente a vantaggio
della chiesa e della diocesi. Di quanta stima i superiori lo
circondassero lo si può vedere nel fatto che lo nominarono
parroco, professore degli alunni del Seminario, vicario
foraneo e canonico onorario della chiesa cattedrale.
Il giorno 15 aprile dell’anno 1898, venerdì dell’ottava di Pasqua, benedisse un altare di marmo dedicato a
Cristo Crocifisso da collocarsi nel nuovo tempio. Erano
passati soltanto 22 mesi dalla inaugurazione di questo
tempio parrocchiale. In tale occasione, mentre celebrava
La Rassegna d’Ischia 1/2003
43
il sacrificio della messa ed arrivato nel momento in cui
vengono pronunciate le parole della Consacrazione, fu
colpito da un’improvvisa congestione di sangue al cervello; ciononostante riuscì a pronunciare le parole della
Consacrazione e a cibarsi del Corpo di Cristo, fra la
costernazione e il dolore dell’anima del popolo presente.
Quasi esanime, portato nella casa canonica, perdette la
voce e anche il dominio dei sensi e il movimento che non
riprese più. Così il 17 aprile raggiunse l’eterna beatitudine. Passati 68 anni dalla sua morte, cioè nel 1966, le sue
reliquie furono trasportate nella chiesa parrocchiale che
egli stesso aveva costruito.
Tenendo presente la fama di santità che lo ha sempre
circondato, fu iniziata la causa per la beatificazione e canonizzazione. Il processo diocesano fu iniziato nell’anno
1991, presso la curia vescovile di Ischia. Il decreto circa
il valore giuridico del processo fu emanato dalla Congregazione dei Santi il 19 febbraio 1993. Essendo stata
elaborata la Positio (una ricerca a tappeto riguardante i
luoghi, il tempo, la vita, le opere, gli scritti del Morgera),
il 1° febbraio del 1995 dalla Seduta dei Consultori storici
fu esaminata questa Positio. Finalmente il 22 marzo 2002
con esito positivo fu riunito il Peculiare Congresso dei
Consultori Teologi per esaminare le virtù del Servo di
Dio Giuseppe Morgera. Il 16 aprile dello stesso anno i
Padri cardinali e i vescovi, udita l’esposizione del Ponente
l’eccellentissimo Signor Pietro Giorgio Silvano Nesti,
Arcivescovo emerito di Camerin e S. Severina nel Piceno,
riconobbero che il Canonico Giuseppe Morgera aveva
esercitato tutte le virtù eroiche.
Fatta infine un’accurata relazione al Sommo Pontefice
Giovanni Paolo Il dal sottoscritto Cardinale Prefetto, Sua
Rassegna Libri
(segue da pagina 27)
si rivela fine e delicata in ogni suo tratto, ed anche in questi
suoi momenti che sono insieme lirici e critici.
Lo sguardo di Pompilia Pagano è aperto sulla vita, e quindi
sulla gioia e sulle speranze, sull’amore e sul dolore, sui sogni
e sulle delusioni di cui essa è pervasa. Bastano poche battute
ad illuminare il suo percorso e per comprendere per intero
il suo pathos, la suggestione dei suoi incanti. Un inizio - la
prima lirica dal titolo “Nessuno” - che mette subito dei brividi nell’animo: “ ... lune solitarie / stringono in una morsa il
cuore / e negli occhi delle stelle / cerco lettura di speranze”.
Ponpilia Pagano è dotata di una particolare forza espressiva
nel trasmettere le sue emozioni, così che riesce a passare
dall’inseguimento della felicità, impossibile nel ghermirla,
alla espressione di un amore inesauribile, capace con le
sue ali di attingere cieli e luci, colonna portante della vita
e perno del mondo.
È il suo continuo interrogarsi che ci convince e che ci
attira, quel suo viaggiare spigliato “sul carro degli ideali”
anche se spesso non sono che “gioielli di polvere” e restano
purtroppo tra le mani soltanto “duri frammenti di realtà”.
Divisa tra il sogno ed il rimpianto, nella sua semplicità
44 La Rassegna d’Ischia 1/2003
Santità accogliendo e ritenendo legittimi i desideri della
Congregazione per le Cause dei Santi, ordinò che fosse
stilato il Decreto circa le virtù eroiche del Servo di Dio.
Essendosi adempiute perfettamente queste modalità,
chiamati a sé in data odierna il sottoscritto Cardinale
Prefetto nonché il Ponente della Causa, e me Vescovo
Segretario della Congregazione ed altri da convocarsi in
questa occasione. alla loro presenza, il Beatissimo Padre
dichiarò solennemente:
Per ciò che riguarda questa Causa e per gli
effetti che ne conseguono, è chiaro e dimostrato
che il Servo di Dio Giuseppe Morgera, Parroco,
esercitò in grado eroico le Virtù teologali, la Fede
la Speranza e la Carità sia verso Dio che verso il
prossimo, nonché le Virtù Cardinali, la Prudenza,
la Temperanza, la Giustizia e la Fortezza e le altre
virtù ad esse annesse.
Il Sommo Pontefice ordinò infine che questo Decreto
fosse pubblicato e che fosse riportato negli Atti della
Congregazione per le Cause dei Santi.
Dato a Roma il 23 del mese di aprile nell’Anno del Signore 2002.
GIUSEPPE Card. SARAIVA MARTINS Prefetto L.S.
EDUARDO NOVAK
Arcivescovo titolare di Luni Segretario
genuina di espressioni feconde, le basta poi un sorriso per
credere ancora, un sorriso “per non porre confini ai sogni e
far rivivere la speranza”.
La nostra Autrice sa passare, con passo quasi di danza, dal
pessimismo all’ottimismo, dal sogno alla realtà, servendosi
molto in questo gioco dei suoi giovani anni e della esuberanza di un carattere che è forte e nello stesso tempo flessibile,
ma pur sempre aperto ai dolci richiami dell’Amore e del
Mistero. E c’è poi anche la sua consapevolezza di essere
donna, il saper vedere con uguale misura il dilatare dei
pensieri nelle voci della notte ed il racchiudere sue speranze
nelle canzoni del giorno. Così che, alla fine, per ragione della
sua complessa personalità, il poeta resta insieme un artista
ed un folle, ma soprattutto - e questi suoi canti ce lo confermano - l’artefice stesso del suo cammino, l’osservatore
pensoso ed assorto di un mondo “impossibile” che avanza
comunque e deciso verso il domani.
Pompilia Pagano partecipa a questa ansia ed a questi sogni
con maturità e con certezza, con una poesia che è intensamente sofferta, piena di richiami alla verità ed alla fratellanza
umana: una voce evocativa di emozioni profonde d’amore,
di pace ed anche di giustizia sociale.
Carmine Manzi
Rassegna Stampa
Nel numero 1/gennaio 2003 del «Il
Finanziere»
Fiamme Gialle a Casamicciola
di Gerardo Severino
I recentissimi terremoti che hanno
colpito il Molise e la Sicilia hanno dato il
via ad una imponente “macchina dei soccorsi”, nella quale un ruolo importante è
stato ricoperto dalla Guardia di Finanza.
Prendendo spunto dall’ennesima e
meritoria opera di soccorso prestata dai
nostri colleghi, abbiamo ritenuto opportuno eseguire alcune ricerche d’archivio
presso il prestigioso Museo Storico del
Corpo, ricerche dalle quali sono naturalmente emersi dati veramente interessanti. Fra di essi l’episodio di cui parleremo
a breve, verificatosi nel lontano 1883 ad
Ischia e reso ulteriormente importante
perché fra i civili salvati dalle Fiamme
Gialle vi fu un giovane destinato a diventare uno dei più grandi filosofi e storici
dell’Italia contemporanea. Lasciamo
dunque il campo alla narrazione dei fatti.
La sera del 28 luglio 1883, ad appena
due anni da un avvenimento analogo (4
marzo 1881), la bella ed operosa isola
di Ischia fu sconvolta da un terribile disastro: una violenta scossa di terremoto,
durata appena 13 secondi, rase al suolo
buona parte di essa, riducendola in un
mucchio di rovine.
Il sisma distrusse, quasi completamente, soprattutto l’importantissima
cittadina di Casamicciola, posta sulla
costa settentrionale dell’isola, in quel
momento popolatissima di bagnanti e
di frequentatori dei vari stabilimenti termali. Secondo le statistiche dell’epoca, i
morti furono circa 3.000, mentre i feriti
superarono abbondantemente i 5.000.
Fra i primi ad intervenire (come era
accaduto nel 1881) furono ovviamente
i componenti della locale Brigata delle
Guardie di Finanza, comandata dal sottobrigadiere Antonio Falvo, che assieme ai
Reali Carabinieri erano gli unici rappresentanti delle forze dell’ordine presenti
sull’isola, ed i pochi soldati addetti al
locale Stabilimento Termale Militare.
Quasi contemporaneamente ai colleghi di Casamicciola, dalla vicina isola di
Procida giunse una squadra di circa dieci
finanzieri al comando del sottotenente
L’intervento dei finanzieri nei
soccorsi dopo il terremoto
del 1883 servì ad estrarre
dalle macerie il filosofo
Benedetto Croce
Domenico Brusa, lo stesso che nel 1867,
al seguito di Garibaldi, si era distinto a
Mentana durante la cosiddetta “Campagna dell’Agro Rornano” che aveva come
meta la liberazione di Roma.
I soccorsi, organizzati dal comando
dell’8° Corpo d’Armata di Napoli,
coinvolsero anche i finanzieri di stanza
sulla “terraferma”, la maggior parte dei
quali in servizio a Napoli ed in provincia. Alle ore 5 del mattino del 30 luglio,
accorsero infatti da Napoli, a bordo del
Regio Trasporto “Città di Genova”,
alcune compagnie di Fiamme Gialle
appartenenti al Deposito Allievi Guardie
ed al locale comando di Circolo, personalmente dirette dallo stesso titolare del
reparto, l’ispettore Francesco Cobbe. Si
trattava di: 3 tenenti, 2 sottotenenti, 4
marescialli, 4 brigadieri, 7 sottobrigadieri e 16 guardie, tutti destinati ad operare
a Casamicciola, l’area urbana più vasta
fra quelle colpite dal sisma. Lavorando
senza interruzione dall’alba fino alle 7
di sera, i finanzieri riuscirono a trarre in
salvo molte vite umane, fra cui quella
di un giovane diciassettenne di nome
Benedetto Croce, che in quel medesimo
contesto aveva perso i genitori Pasquale
e Luisa e la sorellina Maria di 13 anni. Il
futuro filosofo fu estratto assai malconcio dalle macerie di “VillaVerde”, in via
Castanito (oggi Hotel Coralba), dove la
famiglia Croce stava trascorrendo le ferie, sotto le quali aveva trascorso alcune
ore drammatiche. A strapparlo alla morte
fu il brigadiere Tommaso Buonajuto,
comandante di una squadra di finanzieri
aggregata alla 10^ Compagnia del 2’°
Reggimento Genio.
Il brigadiere Buonajuto era una gloriosa Fiamma Gialla che in gioventù
aveva preso parte volontariamente alla
liberazione di Roma del settembre 1870.
Arruolatosi nel Corpo nel 1872 come
semplice guardia, vi percorse una brillante carriera che lo portò a salire i vari
scalini della gerarchia. Insignito della
Medaglia dei Benemeriti della Salute
Pubblica per l’assistenza prestata ai colerosi di Napoli durante il 1884, morì da
tenente l’11 dicembre 1901 a causa di un
male incurabile.
Ritorniamo ora ai soccorsi. Il 31
luglio sbarcò dal piroscafo “Elettrico”,
anch’esso partito da Napoli, un altro
gruppo di Fiamme Gialle appartenenti
al Circolo di Pozzuoli.
La compagnia, comandata dall’ispettore Cesare Cardelli, era composta da: 2
sottotenenti, 1 maresciallo, 3 brigadieri,
6 sottobrigadieri e 16 guardie. Appena
sbarcati ad Ischia, i finanzieri di Pozzuoli
furono suddivisi in altrettante squadriglie, comandate da ufficiali e sottufficiali, sparpagliate fra Barano d’Ischia,
Serrara Fontana, Lacco Ameno, Forio
ed altri piccoli centri dell’isola.
In queste località i militi di Finanza
incominciarono subito l’opera di rimozione delle macerie per tentare di salvare
i molti rimasti ancora sotto di esse. I
finanzieri furono altresì impiegati nel
recupero dei denari, oggetti di valore, di
mercanzie e di quant’altro potesse trovarsi alla mercé dei numerosi “sciacalli”.
Molto importante fu poi l’opera del recupero delle vittime e del seppellimento
dei morti, ma anche il lavoro di demolizione dei muri e della case pericolanti,
del puntellamento dei rimanenti edifici
e quello della costruzione di baracche
di legno per il ricovero delle famiglie
rimaste senzatetto.
In tale attività, le Fiamme Gialle dimostrarono di essere valido ausilio per
gli addetti ai lavori, i bravi genieri delle
Compagnie Zappatori del Regio Esercito. In agosto, sui luoghi del disastro
accorse anche il Re d’Italia Umberto
1, per confortare con la sua presenza i
superstiti. Al Re si deve l’ordine di sospendere l’iniziale idea di far coprire le
macerie da due strati di calce, previsti per
scongiurare le epidemie favorite anche
dalla stagione estiva.
La disposizione ministeriale fu temporaneamente procrastinata nella necessità di portare a termine l’opera di
salvataggio dei numerosi superstiti. Ciò
consentì di salvare diversi malcapitati,
rimasti intrappolati da alcuni giorni ed
ormai prossimi alla fine.
In questa opera né lieve né facile,
La Rassegna d’Ischia 1/2003
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spesso pericolosissima perché di tanto in
tanto cadevano dall’alto, staccandosi dai
deboli sostegni, travi, blocchi di muro,
mattoni e quant’altro, si segnalarono,
in modo speciale, anche i sottotenenti
Giovanni Baletti e Alessandro Laloè,
ambedue appartenenti al Circolo di Pozzuoli, i quali, non udendo che le grida di
dolore delle povere vittime dell’immane
disastro, sfidando ogni periglio, non
badando alle minaccianti frane, salirono
nei punti più pericolosi, s’internarono al
di sotto delle macerie portando così aiuto
di conforto e di braccia.
L’opera di soccorso che si susseguì
ininterrottamente giorno e notte fu resa
più faticosa dal calore torrido della
stagione estiva. I finanzieri rimasero ad
Ischia fino al 20 agosto 1883, data del
rientro definitivo ai rispettivi comandi
di Napoli e di Pozzuoli.
Tutte le Fiamme Gialle furono encomiate dal Ministero delle Finanze e
successivamente ricevettero anche un
Attestato di Pubblica Benemerenza da
parte del Ministero dell’Interno.
Per questi atti di eroismo e di abnegazione, nei quali furono efficacemente
aiutati dai loro dipendenti, i sottotenenti
Baletti e Laloè furono invece decorati
(con un R.D. del 5 marzo 1885) di Medaglia d’Argento al Valor Civile, con
la seguente motivazione: «Per essersi
adoperati con concreto rischio della vita
al soccorso dei pericolanti fra le macerie
di case rovinate dal terremoto e rendendo
meno gravi le conseguenze di quella
catastrofe».
Da allora sono trascorsi 120 anni. In
questo lungo periodo di tempo il concor-
Il Giornale di Vicenza (Venerdì 14 marzo 2003)
Un sito rupestre ad Ischia?
di Gianni Retis
Durante un breve soggiorno all’isola
di Ischia, di ritorno con amici da una
ascensione sul Monte Epomeo, deviando
dal sentiero tradizionale che conduce
alla località Fontana, ci siamo inoltrati
in un folto bosco di carpini abbarbicato
alle pendici del monte. Con non poche
difficoltà abbiamo preso la direzione
di Forio. Dopo circa quaranta minuti di
difficile discesa siamo arrivati in un’area
dalle caratteristiche di piccolo altopiano.
Ad un tratto è stato sorprendente vedere
affiorare tra piante e rovi manufatti in pietra di vecchie fortificazioni, considerando
l’enorme mole del manufatto, assieme
ad altri di contenimento delle scarpate
realizzate sulle pendici del monte a protezione dei percorsi di collegamento.
È stata grande la sorpresa di trovarsi
tra queste opere realizzate dall’uomo in
una zona tanto impervia ed abbandonata.
Avanzando ancora di qualche metro nella
boscaglia, poi, ci siamo imbattuti in un
enorme pozzo, dal diametro di 6/7 metri,
realizzato con grossi boccioni di pietra.
Incuriositi ed emozionati abbiamo allora
cominciato ad esplorare la zona individuando pure delle grotte scavate nella
roccia. Nell’area ne abbiamo contate 14
e verso valle un altro pozzo più grande
rispetto al primo: entrambi dovevano
46 La Rassegna d’Ischia 1/2003
senz’altro servire all’approvvigionamento dell’acqua per esigenze umane e per
quelle dell’agricoltura.
Senza dubbio trattasi di costruzioni che
riflettono i primi insediamenti sull’isola. Rifugi ricavati dentro enormi massi
sparsi in un’area dalle caratteristiche di
ampia conca. Proprio questa morfologia
consente di contenere l’acqua, elemento
essenziale per la vita. La zona, inoltre,
è in posizione tale da godere un’ampia
vista verso il mare ma nello stesso tempo
rimanere mimetizzata a chi proviene da
questo.
Uno studio geologico presume che
l’area comprendente questi manufatti
sia derivata dalla spaccatura, in era
geologica imprecisata, di un’enorme
fetta del Monte Epomeo, una parte del
quale invece precipitò in mare. Le grotte
attualmente sono sparse nell’altopiano,
singole, quindi isolate fra loro. Però se
costituivano un vero e proprio insediamento, probabilmente qui si trovavano
anche altre costruzioni, ora disperse
perché realizzate con materiali poveri.
Può trattarsi veramente delle strutture di
un villaggio dalle caratteristiche simili
ai molti complessi rupestri sparsi per
l’Europa.
Come non pensare che i primi insediamenti abitativi dell’isola possano essersi
formati proprio in questi luoghi? Però ab-
so del Corpo in tutte le circostanze nelle
quali la collettività ha avuto bisogno è
stato sempre altissimo e meritorio.
A dimostrarlo sono le numerose decorazioni al valor ed al merito civile di
cui si fregia la nostra gloriosa ed amata
Bandiera. Di ciò dobbiamo essere tutti
veramente fieri.
biamo avvertito che gli abitanti di Ischia
danno poca importanza a questo patrimonio d’archeologia ancora conservato.
Momentaneamente è difficile datarlo,
ma senz’altro trattasi di presenze molto
antiche. Se non fosse per la presenza delle
costruzioni che si vedono più a valle, lungo i margini della stretta strada che porta
a Forio e verso la costa, sembrerebbe di
vivere in un altro periodo; qui si respira
l’aria di un tempo assai lontano.
Ebbene, la scarsa rilevanza data a
questi ruderi (probabilmente perché
non ancora individuati) da popolazione
e studiosi produrrà l’inevitabile distruzione di quanto rimasto. Anche se
lavoro complesso, una prima ricerca ed
una contenuta campagna di scavi permetterebbero di valutare e valorizzare
diversamente il sito. Il tutto anche se
restano e resteranno, con ogni probabilità
per i decenni a venire, vuoti di secoli e
secoli nella ricostruzione della storia
dei primi abitanti insediatisi in questi
ambienti. Siamo certi che gli studiosi,
grazie ai metodi stratigrafici, potrebbero
iniziare proprio da questi luoghi ad aprire
nuovi squarci sulle vicende di questa
popolazione e quindi avviare una nuova
lettura della storia dell’isola d’Ischia.Per
arrivare nell’area di questo insediamento
non ci sono indicazioni: comunque si può
partire da Forio e percorrere una stradina
che parte dall’Eremo di Santa Maria del
Monte, passando davanti la chiesetta di
San Domenico e tenendo la sinistra per
circa quaranta minuti di percorso, in
direzione cima Monte Epomeo.
Disegni dell’arch. Gianni Retis sugli
insediamenti rupestri di Ischia