Isis, la pornografia della morte e la strage in Israele
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Isis, la pornografia della morte e la strage in Israele
su www.europaquotidiano.it RAFFAELLA CASCIOLI GABRIELLA MONTELEONE FRANCESCO LO SARDO FRANCESCO MAESANO VALENTINA LONGO FABRIZIA BAGOZZI Legge di stabilità, in arrivo il pacchetto comuni Oggi ok del senato su “toghe responsabili” Centrodestra: Gal, il gruppo “elezioni 2018” M5S, regionali emiliane: chi è Giulia Gibertoni Riforme, anche la Francia ha il suo articolo 18 Rifugiati, mission impossible per Alfano i commenti di www.europaquotidiano.it Giovedì 20 Novembre 2014 n n CGIL-LEGA n n MEDIO ORIENTE n n MASSACRO NELLA SINAGOGA Camusso e Salvini, paure complementari Il Libano in equilibrio ai confini della guerra n n FABRIZIO n n RONDOLINO n n ENZO AMENDOLA n n BEIRUT Isis, la pornografia della morte e la strage in Israele S on è retorico emozionarsi alla vista di soldati italiani che ti salutano affettuosamente sul confine tra Libano e Israele. Li incontriamo in rappresentanza dei 1200 italiani inquadrati nella missione Unifil, guidati dal generale Stefano Del Col e dal capo della unità Onu, il generale agrigentino Luciano Portolano, scelto direttamente da Ban Kimoon per dirigere militari e civili provenienti da ogni continente. La linea blu che separa i due paesi in guerra da decenni è a pochi chilometri e dal 2006 questa missione è riuscita a pacificare uno dei confini più bollenti del pianeta, mentre le angosciose notizie provenienti da Gerusalemme o dal confine nord-orientale del Libano descrivono un Medio Oriente sempre sull’orlo di nuove tragedie. «Sono orgoglioso di guidare, da italiano, questa operazione internazionale. Non abbiamo solo compiti militari in base alla risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza Onu, ma riuniamo le autorità locali, facilitiamo il confronto religioso e con il mio team lanciamo progetti di cooperazione». Così il generale Portolano descrive con calma e professionalità il suo operato. Ispira una grande fiducia quando racconta la routine dei suoi militari che hanno portato pace nel sud del Libano solo con la presenza e la determinazione nel dialogare con le comunità. Un miracolo in un paese tristemente famoso per una guerra civile durata dal 1975 al 1990 che ha dilaniato su linee settarie intere fasce della popolazione. Nella regione, il Libano è stato precursore di una guerra per procura combattuta con il sostegno contrapposto di forze regionali ed extraregionali che oggi ha preso piede con analoghe atrocità in altri paesi del Mediterraneo. Innanzitutto nella limitrofa Siria, da sempre protagonista nel bene e nel male della vita politica del paese dei cedri. segue usanna Camusso e Matteo Salvini condividono il nemico principale: la globalizzazione. La temono, la demonizzano, la combattono. E su questa lotta costruiscono identità e consenso, cultura politica e partecipazione popolare. La globalizzazione – delle merci, delle persone, delle culture – fa istintivamente paura a molti, perché ogni volta che s’affaccia un cambiamento più o meno radicale una parte di noi si spaventa di fronte all’ignoto. È su questa paura – la paura del Novecento al cospetto del nuovo secolo – che la Lega e la Cgil fanno leva sistematicamente (seppur, com’è ovvio, da versanti assai diversi) per dare rappresentanza all’unica vera opposizione sociale e culturale in campo oggi in Italia: quella che si muove sotto il segno della reazione spaventata e impaurita alla modernità, e che non per caso è il rovescio speculare della narrazione renziana, che celebra invece l’ignoto – ribattezzato ottimisticamente il “nuovo” – come occasione e opportunità anziché come rischio e tramonto. La globalizzazione c’è sempre stata, almeno dai tempi di Alessandro il Grande. L’interazione, lo scontro e l’integrazione con i nostri simili sono una caratteristica costitutiva della nostra specie. Ma ciò che è naturale e necessario non per forza appare a tutti giusto o utile. Così, la progressiva e incessante integrazione dell’umanità in reti sempre più ampie, più fitte e più pervasive incontra ogni volta una diffusa ostilità – mai maggioritaria né vincente, però, come dimostra la storia della nostra civiltà. Oggi la globalizzazione si esprime prima di tutto nelle migrazioni: migrano le donne e gli uomini in cerca di un lavoro migliore, migrano i lavori in cerca di più produttività e meno costi. È normale che qualcuno si spaventi. segue N n n GUIDO MOLTEDO n n DETROIT M artedì, qualche ora dopo la strage nella sinagoga ultra-ortodossa di Gerusalemme ovest, i media israeliani si sono visti recapitare, via email, sei fotografie scattate sulla scena del massacro, due delle quali particolarmente raccapriccianti. Il mittente era l’ufficio stampa del governo che aveva inviato sul posto il suo fotografo, Kobi Gideon, unico a poter riprendere la carneficina. Nel riferire la notizia, Haaretz enfatizza la portata dell’iniziativa del governo Netanyhau. Pur non essendo una novità – una decina d’anni fa, in seguito a un’ondata di attentati suicidi, furono diffuse le immagini di cadaveri negli autobus carbonizzati – il giornale progressista la considera un’operazione di «pornographic public diplomacy». A che servirà? «C’è molto da dubitare – scrive Haaretz – che farà conquistare a Israele più sostenitori all’estero. Più probabile che semplicemente infiammerà l’opinione pubblica d’Israele contro i palestinesi, aumenterà l’ostilità degli arabi e servirà da arma nelle mani di coloro che incitano alla vendetta». La guerra delle immagini cruente, l’escalation del macabro, coinvolge tutti nel conflitto mediorientale, che ormai è un insieme di tanti conflitti fuori controllo. Il sangue esibito, i cadaveri straziati, l’obbrobrio di una strage, non sono più solo oggetto dell’interesse morboso dei media in competizione tra loro. La “pornografia della morte” è messa in scena dagli stessi protagonisti, i buoni e i cattivi, le vittime e i carnefici, chi è nel giusto e chi è nel torto, ognuno ovviamente ritagliando per sé la parte positiva. Quando, nel corso dell’ultima guerra di Gaza, le foto dei bambini colpiti dai bombardamenti fecero il giro del mondo, il governo israeliano condannò l’uso di quelle immagini da parte di Hamas e s’indignò per la loro risonanza nei media occidentali. Fu coniato, dal professor Richard Landes, il termine Pallywood (palestinese più Hollywood) per indicare «la manipolazione dei media, la loro distorsione e la completa truffa da parte dei palestinesi (…) col fine di vincere la guerra mediatica e della propaganda contro Israele». Fu Landes a definire quel tipo di operazione «pornografia della morte». È una spirale che si sviluppa in parallelo a quella del conflitto, alimen- tandosi reciprocamente. Così, alle immagini cruente della sinagoga insanguinata si accompagnano quelle di palestinesi di Gaza che festeggiano la carneficina, un paio di guerriglieri che innalzano l’ascia da macellaio – l’arma della strage – e il fucile, si scambiano dolci e inneggiano all’azione dei “martiri”, come li definisce la radio della Striscia. Nei telegiornali statunitensi, e non solo, l’orrore di Gerusalemme e le scene del tripudio di Gaza seguono di qualche giorno l’ultimo filmato fatto circolare dall’Isis, la decapitazione del cooperante americano Peter Kassig. La somma degli eventi e la loro risonanza producono il risultato evidente di rafforzare la percezione di un mondo arabo e islamico, non importano le distinzioni al suo interno, sanguinario, cruento, di cui l’Occidente e il suo principale alleato in Medio Oriente devono avere paura. Non si sa se deliberatamente, gli strateghi della comunicazione di Bibi hanno immesso altro materiale nell’information cycle internazionale egemonizzato dai tagliagole dell’Isis, di fatto rafforzandone l’impatto. Certo, la strage, fosse pure opera di due cani sciolti, è stata concepita – a partire dall’uso stesso della mannaia – come un’azione in sintonia con il codice sanguinario in voga ed era comunque destinata a entrare, insieme con le scene di festa a Gaza, nel ciclo delle notizie dominato dai macabri uomini in nero dell’Isis. Proprio per questo colpisce la decisione del governo israeliano di dare rilievo, questa volta, agli effetti sanguinari della vicenda. Già, non è questo che vogliono gli uomini in nero dell’Isis? Alimentare il terrore psicologico nelle case degli occidentali, fare adepti anche nell’Occidente stesso proprio diffondendo l’esaltazione della crudeltà più agghiacciante? Non è questo che vogliono gli elementi più estremisti a Gaza e nella stessa comunità araba d’Israele, dove cercano di penetrare e fare proseliti Isis e al Qaeda? Negli Stati Uniti si sta finalmente ragionando sulla trappola mediatica organizzata dall’Isis nei confronti dell’opinione pubblica americana e occidentale. Se quella dell’11 settembre fu una serie coordinata di atti di terrorismo che sconvolse l’America anche perché mise improvvisamente a nudo la vulnerabilità nei suoi confini stessi e nei suoi stessi centri nevralgici, oggi la strategia “pornografica” dell’Isis accompagna le sue azioni sul terreno con una continua e crescente narrativa destabilizzante a base di scene che suscitano raccapriccio, colpendo le zone più sensibili della psiche dello spettatore. segue Il governo Netanyahu diffonde le foto shock. Il rischio di alimentare ciò che si combatte EDITORIALE Torna il partito Rai, chissà se Renzi reagisce n n STEFANO n n MENICHINI L e persone sono quasi sempre sostituibili, e ieri i consiglieri d’amministrazione della Rai hanno confermato che il loro tempo è abbondantemente scaduto anche se il loro mandato dovrebbe trascinarsi fino al giugno prossimo. Micidiale a loro carico la coincidenza degli eventi: il voto a maggioranza (opposizione di Todini, astensione di Tarantola, dissenso di Gubitosi) col quale è stato deciso il ricorso avverso il prelievo di 150 milioni poi confluito nell’operazione governativa degli 80 euro è arrivato nelle stesse ore nelle quali si tiravano le somme della privatizzazione di RaiWay, anch’essa fortemente voluta dal governo Renzi più o meno nello stesso periodo e contro lo stesso fronte che si batte per non cedere un euro del tesoretto aziendale allo sforzo di risanamento generale. Il raffronto tra i due eventi è imbarazzante. La quota di minoranza della società delle torri Rai ha attirato sottoscrittori da tutto il mondo, con una presenza massiccia di grandi fondi d’investimento. Un aumento in Borsa di oltre il 4 per cento. Un afflusso di denaro di gran lunga superiore alla dimensione del prelievo dei 150 milioni. Risorse messe a disposizione dell’innovazione. Un esempio raro, ma importantissimo in un momento di crisi, di ciò che significa valorizzare gli asset del paese. Una figuraccia per il partito trasversale della conservazione integrale, dai sindacati interni a Maurizio Gasparri, eroe eponimo dell’attuale governance di viale Mazzini. Appunto, la governance. Perché mentre i nomi sono appunto sostituibili, ciò a cui ancora non s’è messo mano è il sistema, fermo al metodo Gasparri di dieci anni fa, che è come dire la preistoria non solo per la politica ma anche per le telecomunicazioni, per la finanza, per le logiche aziendali. Un po’ per volontà, un po’ per una questione di priorità, qui la mano dell’inversione di rotta renziana non s’è ancora vista. L’ultima volta che la sinistra s’è affacciata al tema fu quando Bersani, nel 2012, stretto tra la morsa anticasta e gli obblighi che la legge assegna al parlamento sostanzialmente svicolò, rimettendo alla mitica “società civile” la scelta dei due consiglieri spettanti al centrosinistra. segue Chiuso in redazione alle 20,30