La Turandot di Puccini: l`opera senza fine, la fine dell`opera

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La Turandot di Puccini: l`opera senza fine, la fine dell`opera
La Turandot di Puccini:
l’opera senza fine, la fine dell’opera
All’inizio dell’anno 1919 Giacomo Puccini cominciò a pensare ad una nuova opera da portare in
scena; immaginava che quella sarebbe stata la sua ultima opera. Dapprima pensò di fare un
adattamento di Oliver Twist, ma poi lasciò perdere questa idea. Nel 1920 lui e i due librettisti
veronesi Renato Simoni e Giuseppe Adami si incontrarono a Milano e, mentre stavano
pranzando, Simoni gli nominò la Turandot come un possibile soggetto d’opera. Poiché Puccini
doveva prendere il treno per Roma, Simoni corse a procurargli subito il testo, in modo che
potesse leggerlo durante il viaggio: si trattava della traduzione di Andrea Maffei del testo di
Schiller; Simoni glielo lanciò attraverso il finestrino, appena in tempo prima che il treno si
mettesse in moto. Puccini trovò il soggetto di suo gradimento, e scrisse Simoni di cominciare a
lavorare al libretto semplificando l’azione e accentuando il tema della passione amorosa di
Turandot.
«… Ho letto Turandotte. Mi pare che non convenga staccarsi da questo soggetto.
Lavorerei per semplificare il numero degli atti e per renderlo snello, efficace e soprattutto
per esaltare la passione amorosa di Turandot… Insomma io ritengo che Turandot sia il
pezzo di teatro più normale e umano di tutte le altre produzioni del Gozzi… Un’opera
che possiamo rendere moderna, con il lavoro tuo, d’Adami e mio.»
La stesura del libretto andò avanti per quattro anni, tra alti e bassi: Puccini chiedeva ai librettisti
sempre nuove modifiche; a volte era abbastanza soddisfatto, altre volte, invece, gli veniva la
tentazione di mollare tutto. Sicuramente aveva molte ambizioni riguardo a quella che doveva
essere la sua ultima opera; desiderava creare qualcosa di innovativo sotto tutti i punti di vista,
qualcosa di mai tentato prima.
Puccini per la Turandot sperimentò notevoli innovazioni musicali: dissonanze, bitonalismi,
sonorità aspre; ci sono motivi tratti da canzoni tradizionali cinesi, che servono a dare il colore
locale; l’orchestra prevede l’utilizzo di piatti, gong, campane, celesta, xilofoni, timpani, corni,
ecc. Nuova è anche l’importanza data alle scene corali. L’impegno richiesto agli interpreti è
davvero notevole a livello tecnico e interpretativo: alcune arie sono tra le più difficili da cantare;
Puccini si spinse quasi fino al limite del possibile; l’orchestrazione così ricca e imponente
richiede molta potenza canora perché le voci non rischino, in certi punti, di rimanere sovrastate
dagli strumenti.
Puccini non aveva mai fatto un’opera dall’impianto così grandioso; il soggetto fiabesco non era
molto usuale per lui (ad eccezione di Le Villi, la sua prima opera, non l’aveva mai trattato); la sua
bravura, più che nell’evocare grandi scenari storici o mitici, consisteva nel ritrarre le piccole
cose, i sentimenti di singoli personaggi umili e realistici. Inoltre Puccini, che aveva sempre
rappresentato amori tormentati e infelici (ad eccezione della Fanciulla del West, che finisce
bene), doveva per la prima volta sviluppare il tema dell’amore come redenzione e felicità.
Oltre a queste novità, c’erano delle difficoltà strutturali non facili da risolvere: l’ostacolo più
grande era rappresentato dalla metamorfosi del personaggio di Turandot; come rendere plausibile
la trasformazione da principessa di ghiaccio a donna innamorata? Puccini voleva che lo
‘sgelamento‘ fosse il punto più importante dell’opera, e voleva renderlo musicalmente in modo
intenso e bellissimo:
«Il duetto per me dev’essere il clou – ma deve avere dentro a sé qualcosa di grande, di
audace, di imprevisto e non lasciar le cose al punto del principio… Potrei scrivere un
libro su questo argomento».
«Il duetto! Il duetto! tutto il decisivo, il bello, il vivamente teatrale è lì! [...] Il travaso
d’amore deve giungere come un bolide luminoso in mezzo al clangore del popolo che
estatico lo assorbe attraverso i nervi tesi come corde di violoncelli frementi».
Tuttavia non riuscì a concretizzare questo suo obiettivo.
L’opera era ormai quasi terminata, Puccini l’aveva completata e orchestrata fino all’episodio
della morte di Liù incluso; gli mancava ormai solo il finale, la scena della trasformazione della
principessa e della sua apertura all’amore. Ma a quel punto le sue condizioni di salute
peggiorarono e non gli lasciarono il tempo di scrivere un finale convincente. Soffriva di un
tumore alla gola; in seguito ad un intervento chirurgico, ebbe un infarto e morì, lasciando solo 23
fogli con appunti un po’ confusi sulle idee che aveva avuto per sviluppare la conclusione.
Per non lasciare l’opera incompiuta, la Ricordi cercò un compositore che completasse il finale; la
scelta cadde su Franco Alfano, perché era l’autore della Leggenda di Sakuntala, un’opera di
ambientazione esotica e con caratteristiche simili a Turandot. Alfano accettò e, non senza
difficoltà, cercò di fare del suo meglio per dare all’opera un degno finale (Alfano I) rispettando il
più possibile le intenzioni di Puccini. Toscanini decise però di tagliare alcune parti di questo
finale, perché troppo lungo, e Alfano dovette per forza farne una versione abbreviata (Alfano II).
La Turandot andò in scena per la prima volta alla Scala di Milano, il 25 aprile 1926, un anno e
cinque mesi dopo la morte di Puccini. Quella sera Toscanini preferì non eseguire il finale,
interrompendosi proprio subito dopo il funerale di Liù; posò la bacchetta, si rivolse al pubblico e
disse:
«Qui finisce l’opera, perché a questo punto il maestro è morto».
Questa frase è particolarmente significativa, perché Turandot, l’opera senza fine, segna anche la
fine del melodramma romantico e della stessa opera italiana. Il rinnovamento messo in atto da
Puccini non avrà seguito. Negli anni successivi ci saranno ancora opere, e compositori d’opera
lirica, ma… sarà tutta un’altra storia. La grande stagione dell’opera italiana, l’età dell’oro
dell’opera, finisce con la Turandot.