Tutti i VIP che mi hanno conosciuto

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Tutti i VIP che mi hanno conosciuto
Tutti i VIP che mi hanno conosciuto
Una serie di racconti di Antonio Paolacci (2)
Gabriele Salvatores
È il giorno del mio compleanno. Aspetto che
inizi uno spettacolo dei Mothus in un centro sociale occupato di Bologna. Al bancone del bar,
un certo Enzo onora la mia nascita scodellando
bicchierini di sambuca con la mosca. Al terzo chicco di caffè sbriciolato tra i denti, entra Gabriele
Salvatores.
Una devastazione sciropposa è in atto nella
mia bocca. Quando la sambuca è troppa, si sa che
l’interno della cavità orale si raggrinzisce, i denti
s’impastano e le papille implodono.
Il pavimento puzza di birra rancida. Onde
di fumo odoroso galleggiano a mezz’altezza fino
al palcoscenico, dove troneggia una struttura di
plexiglas enorme, il cubo trasparente che ospiterà
lo spettacolo. Pelato quanto l’Oscar che ha vinto,
lui è a due metri da me e si guarda intorno per capire dove andarsi a parcheggiare.
Il mio coinquilino Fritz scatta e gli arriva davanti. La sua schiena sobbalza, sobbalza e sobbalza per la stretta di mano che gli infligge. Poi me lo
consegna tipo regalo di compleanno:
Questo è Antonio, gli dice. Il tuo futuro sceneggiatore, ehm.
Siamo a metà degli anni novanta. Io ne ho una
ventina. Il regista è ancora caldo di Oscar mentre
io sono uno studente del DAMS. Fuorisede.
La squadra di coinquilini di cui sono membro è
composta da sei elementi: io che studio monografie su Antonioni e saggi di teatro post-artaudiano
urlando agli altri di fare silenzio; un aspirante
pittore che prepara la sua arte futura analizzando
semiologicamente ore e ore di tivù ogni giorno; un
tossico iscritto a medicina; un’operaia femminista
separatista; una matricola che distrugge il pavimento con i suoi rollerblade; e Fritz, che studia
giurisprudenza e cova in segreto aspirazioni politiche sul genere Deputato Pasciuto.
La mia porzione di camera doppia è un dipinto
di Van Gogh in bianco e nero. È talmente suggestiva che quando prendo posto alla scrivania sento
l’impulso di muovermi a fatica e ansimare tipo
Jekyll in trasformazione. La tinta dei muri di tutta
la casa è di un giallo nicotina abbastanza uniforme.
Il bagno ha la porta scardinata. Per convenzione
si è adottato il seguente metodo: quando è accostata non si entra, quando si esce bisogna lasciarla
spalancata a segnalare che l’accesso è libero. Altra
regola implicita è che nessuno può ficcare mai la
testa nell’apertura che l’idraulico ha scavato nel
muro otto mesi fa, quando la doccia ha dato forfait.
Sulle prime, la sambuca mi allontana chilometri
dalla scena che sto vivendo.
L’incontro con la celebrità, di per sé non mi
fa effetto. Più che altro comincio a studiarla, la
celebrità, a mettere in discussione la sua realtà
corporea.
Mi pare anche di riconoscergli intorno alla testa
una specie di aureola: il collo avvolto in una sciarpa arancione si unisce alla pelata come per citare
«Ogni puntata di questa rubrica è dedicata a un mio incontro con un personaggio famoso. A volte il vip è un
elemento centrale della vicenda, altre solo marginale.
Anche se costretto a camuffare alcuni personaggi secondari in rispetto ai protagonisti reali, e anche se il tono di
fondo potrebbe farmi colorare un po’ i dettagli, tutti gli episodi narrati sono accaduti realmente.
Il titolo della serie è un tributo personale ad Andrea Pazienza, che con delle intestazioni più o meno simili disegnò alcune tavole arcinote».
Per conoscere meglio Antonio Paolacci basta cliccare su antoniopaolacci.blogspot.com.
Antonio Paolacci
un Monaco Fragrante d’Incenso. E poi sorride.
Beato e sereno.
La serenità è roba su cui io perlopiù filosofeggio. Ogni volta che sto di fronte a un tizio
con l’aria di chi è a posto così, il sentimento che
rischia di travolgermi, che incalza nel mio stomaco, il sentimento che è lì, già caricato e pronto
a essere sparato fuori, è una specie di angoscia
sbigottita.
Le premesse sono quindi pessime. Però il regista mi sta di fronte e a guardarlo un po’ di più mi
sembra normalissimo, a forma di persona normalissima.
Cominciamo a chiacchierare.
Salvatores deve solo ammazzare il tempo prima
che inizi lo spettacolo. Io e Fritz siamo nel pieno
di un’esperienza.
La parte sinistra della faccia del mio coinquilino è tutta stirata dai nervi, mentre il regista mi
racconta come lavorano certi produttori italiani.
Mi spiega per esempio che una nota casa di
produzione, ora che va di moda la commedia buffa, seleziona le sceneggiature contando il numero
di gag contenute in ogni copione.
Ah, faccio io. Il numero.
Eh, fa lui. All’università dovrebbero insegnarvi
queste cose, mi dice. Dovrebbero prepararvi al
fatto che in certe case di produzione è la sceneggiatura con più gag quella che diventa un film. È
una faccenda quantitativa, dice. Trentadue gag,
trentasette gag, quarantacinque gag.
E io che leggevo le monografie su Antonioni,
faccio io.
Il vero problema italiano, fa lui, è l’assenza di
professionismo.
Mica solo al cinema, faccio io.
Già, fa lui.
A questo punto, Fritz si mette in moto.
Fritz.
La letteratura giovane è ormai piena di personaggi con nomi improbabili tipo Zeppola, il Lurido, Rattoman: gente spesso piena di birra e di solito intenta a compiere bravate simpaticissime. Fritz
potrebbe essere uno di questi. Io però non amo
descrivere personaggi semplicemente eccentrici:
ne ricaverei una specie di rigurgito intellettuale. Le
persone vere, anche quando sono divertenti, sono
sempre personaggi più drammatici di quanto loro
stessi credano.
Prima della laurea, per dire, io e Fritz litigheremo per una faccenda di soldi, dopodiché lui
sparirà e vincerà le elezioni da qualche parte, con
qualche partito, in qualche modo.
Intanto ora si muove: con una stretta da laccio
emostatico afferra un bicipite di Salvatores e comincia a parlargli di me. Gli dice che sono bravo
e intelligente, gli dice che prendo un sacco di bei
voti e che lui è mio amico, parecchio amico.
Continua a lavorarlo ai fianchi per diversi minuti, fino a quando affonda il colpo e gli ordina
di farci lavorare come assistenti nel suo prossimo
film.
Per amicizia, dice.
Salvatores tenta una fuga laterale. Mugola a
viso basso. Apre e chiude il pugno per ripristinare
la circolazione sanguigna.
Fritz incalza. Gli tocchiccia la sciarpa, ridacchia, gli propone una sambuca a proprie spese.
Salvatores lancia un’occhiata a me. Allungo
una mano nella speranza di fermare il questuante.
Lui però mi fulmina con uno sguardo in cui c’è
scritto: So io come si fa, imbecille.
L’assedio continua fino a quando, di colpo, si
spengono le luci in sala.
Nella penombra sento la voce di Fritz che ripete Gabriele, Gabriele, dove sei Gabriele.
Salvatores procede basso, acquattato tra la gente, diretto alla parte opposta della sala.
Lo spettacolo era l’Orlando furioso. Con Ariosto c’entrava a malapena. Era un caleidoscopio di
corpi in azione, di richiami e ammiccamenti.
Quando Astolfo arrivava sulla Luna per recuperare il senno di Orlando, l’attore fluttuava in
scena appesantito da una grossa tuta spaziale.
La voce gracchiante di Tito Stagno descriveva
in sottofondo l’allunaggio del ’69. L’astronauta
avanzava verso il proscenio, le luci crescevano, il
volume del sottofondo aumentava.
Nel finale, Astolfo raccoglieva da terra un grosso fallo di gomma fluorescente. Lo sollevava come
un trofeo e lo sorreggeva così, alto sulle teste di
tutti, in attesa del buio.
© Copyright 2008 Antonio Paolacci
Antonio Paolacci