10. Place of safety - Consiglio Nazionale Forense

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10. Place of safety - Consiglio Nazionale Forense
PROGETTO LAMPEDUSA
Parere del 4 luglio 2014 a cura del Gruppo di studio del Progetto Lampedusa
“PLACE OF SAFETY”
MANCATA RATIFICA DEGLI EMENDAMENTI ALLE CONVENZIONI
MARITTIME S.A.R. E S.O.L.A.S.. DA PARTE DELLO STATO DI MALTA
La Convenzione di Amburgo del 1979 impone un preciso obbligo di soccorso e assistenza
delle persone in mare ed il dovere di sbarcare i naufraghi in un “luogo sicuro”.
L’autorità responsabile per l’applicazione della Convenzione è il Ministro delle Infrastrutture
e dei Trasporti, mentre l’organizzazione centrale e periferica è affidata al Comando generale del
Corpo delle Capitanerie di porto e alle relative strutture periferiche.
Una particolare considerazione merita la problematica relativa a ciò che debba intendersi per
conduzione della persona salvata in luogo sicuro. Infatti è dal momento dell’arrivo in tale luogo che
cessano gli obblighi internazionali (e nazionali) relativamente alle operazioni di salvataggio.
Nel recente passato sono stati approvati dall’IMO alcuni emendamenti alla Convenzione per
la salvaguardia della vita umana in mare del 1974 (S.O.L.A.S.) ed alla Convenzione internazionale
di Amburgo del 1979 sulla ricerca e salvataggio in mare (S.A.R.); aadottati
dottati nel maggio del 2004 ed
entrati in vigore il 1 luglio 2006, essi sono di particolare rilievo in quanto stabiliscono che lo Stato
responsabile della zona S.A.R. in cui è avvenuto il salvataggio di persone in pericolo sia tenuto a
fornire, al più presto,
to, la disponibilità di un luogo di sicurezza ((“place
“place of safety”),
safety” inteso come un
luogo dove le operazioni di soccorso si considerano concluse e la sicurezza dei sopravissuti, ovvero
la loro vita, non è più minacciata; le necessità umane primarie come cibo
cibo,, alloggio e cure mediche
possono essere soddisfatte; e possa essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella
destinazione vicina o finale. In conformità al principio 6.14, anche la nave che ha portato assistenza
può essere considerata un luogo sic
sicuro, ma solo a titolo provvisorio.
PRESIDIO AVVOCATURA – LAMPEDUSA
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Tali emendamenti hanno lo scopo di assicurare sia l’obbligo del comandante della nave di
prestare assistenza sia l’obbligo degli Stati aderenti alla Convenzione di cooperare nelle situazioni
di soccorso in mare, sollevando in tal modo il comandante dalla responsabilità di prendersi cura dei
sopravvissuti e consentendo alle persone soccorse in mare in simili circostanze di essere
prontamente trasferite in un luogo sicuro. Inoltre, obbligano i comandanti che hanno imbarcato
persone in difficoltà in mare a trattare queste ultime con umanità, compatibilmente con le possibilità
della nave ospitante.
Anche i naufraghi possono concorrere ad indicare il luogo di sbarco sicuro e comunicarlo al
comandante della nave sulla quale si trovano, che, sulla base degli elementi a sua conoscenza, ha il
potere finale di stabilire la rotta della nave, ma non le decisioni politiche o delle autorità di polizia.
Inoltre, ogni operazione e procedura come l’identificazione e la definizione dello status delle
persone soccorse, che vada oltre la fornitura di assistenza alle persone in pericolo, non dovrebbe
essere consentita laddove ostacoli la fornitura di tale assistenza o ritardi oltremisura lo sbarco.
Tali “linee guida” sottolineano, altresì, la necessità di evitare lo sbarco di richiedenti asilo e
rifugiati, soccorsi in mare, in quei territori ove la vita e la loro libertà sarebbero minacciate. Per cui,
per determinare se sia un “luogo sicuro” per i richiedenti asilo, occorre effettuare le opportune
verifiche tenendo conto delle circostanze particolari di ogni singolo caso.
Il problema dell’individuazione del porto in cui fare sbarcare i migranti affiorò con i mancati
soccorsi dei boat people vietnamiti negli anni settanta. All’epoca, il capitano della nave che
assolveva il suo obbligo di assistenza si trovava spesso davanti al rifiuto degli Stati costieri di farlo
accedere ai porti. La questione venne risolta con la conclusione di un accordo ad hoc che determinò
il luogo dello sbarco.
Infatti, la principale lacuna delle norme internazionali summenzionate consiste nell’assenza di
regole chiare circa l’individuazione dello Stato che, dopo il primo soccorso, deve farsi carico dei
soggetti tratti in salvo.
Il problema è che molti paesi rivieraschi per ragioni di natura politica o geografica non
riconoscono l’operatività di queste Convenzioni internazionali.
Nel 2007, l’ACNUR, ha chiesto in particolare al governo maltese di ratificare i recenti
emendamenti alle convenzioni marittime – la S.A.R. e la S.O.L.A.S. – che mirano ad affiancare
l’obbligo per gli Stati di cooperare nelle operazioni di ricerca a quello dei capitani delle
imbarcazioni di fornire assistenza in mare. Malta rimane però ancora oggi uno dei pochi Paesi a non
aver sottoscritto questi emendamenti, adducendo che la sua ridotta consistenza territoriale non le
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consente di mantenere gli obblighi di protezione e di accoglienza che ne conseguono; e malgrado (o
forse anche per effetto del)l’approvazione delle nuove linee guida sugli interventi di salvataggio da
parte del Parlamento Europeo, sono prevedibili altre crisi diplomatiche con l’Italia, come quella
occorsa nel caso del mercantile “Pinar” dopo un intervento di salvataggio nel canale di Sicilia, o
come quella occorsa nel caso del peschereccio maltese “Budafel”: il peschereccio che nel 2007,
avendo avvistato un’imbarcazione in evidente difficoltà, dopo un primo tentativo di trainarla con
delle funi, non ha accolto a bordo i 27 naufraghi (accampando problemi di sicurezza a bordo e il
rischio di perdere il carico diretto in Spagna) ma ha lasciato che si aggrappassero a una grande
gabbia di allevamento per tonni trainata dal peschereccio medesimo. Il soccorso è avvenuto a 110
miglia a sud-ovest di Malta e a 80 miglia a nord della Libia, ma nessuno di questi Stati ha
autorizzato lo sbarco dei naufraghi, tanto da creare una situazione di pericoloso stallo, risolta solo
grazie all’intervento dell’unità “Orione” della Marina Militare italiana, che ha condotto i migranti a
Lampedusa.
L’Italia è stato il primo Paese del Mediterraneo a delimitare la propria zona di competenza
S.A.R. con i Paesi frontisti attraverso specifici “Memorandum of understanding”, sulla
cooperazione nelle operazioni di ricerca e soccorso. Tali zone S.A.R. sono state comunicate nel
corso dell’apposita Conferenza IMO di Valencia del 1995 ed accettate senza opposizioni dagli altri
Stati frontisti, con l’eccezione di Malta che, al di fuori della procedura IMO, reclama
unilateralmente una vastissima zona S.A.R., coincidente con la propria “Flight information
Region” (F.I.R.), sovrapponendosi nella parte a nord e ad ovest con la corrispondente zona S.A.R.
italiana, il tutto in assenza di norme internazionali che stabiliscano la coincidenza tra zone S.A.R. e
zone F.I.R.
Il paradosso di tale situazione è rappresentato dal fatto che Malta non dispone di un naviglio
adeguato al fine di gestire la vasta e pretesa zona S.A.R., imponendo spesso l’intervento di soccorso
ai pattugliatori italiani, con successivo trasporto dei migranti salvati in Italia.
La prassi applicativa evidenzia come ad un’attività di soccorso posta in essere in alto mare
dalle navi private di uno Stato segua, non di rado, il rifiuto dello Stato più prossimo
geograficamente o dello Stato responsabile per il soccorso e salvataggio (ai sensi delle Convenzioni
S.O.L.A.S. e S.A.R.) di accogliere sul proprio territorio i migranti, oppure l’insorgere di
complicazioni per il comandante della nave a causa della necessità di dimostrare alle autorità dello
Stato costiero che non si è implicati in attività di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
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E’ vero infatti che, oltre a negare l’ingresso nel mare territoriale, lo Stato costiero può rifiutare
l’ingresso nei propri porti conformemente all’art. 25 CNUDM, in quanto la nave con a bordo
irregolari viola la normativa nazionale in materia d’immigrazione.
Non esiste nel diritto internazionale un diritto soggettivo di ingresso al porto in quanto il porto
si trova nelle acque interne. Conseguentemente lo Stato costiero gode in tale zona di una sovranità
piena il cui esercizio non può subire limitazioni, se non espressamente autorizzate dallo Stato
stesso.
Se, tra i migranti irregolari, vi sono anche dei possibili richiedenti asilo, bisogna allora
valutare se il rifiuto di accesso al porto possa implicare una violazione del principio di non
respingimento e, più in generale, una violazione degli obblighi derivanti dal diritto di chiedere asilo.
Altrimenti, l’unico limite alla discrezionalità dello Stato costiero consiste nell’obbligo
consuetudinario di portare assistenza, sancito dall’art. 98 CNUDM.
La nave straniera, già entrata nelle acque territoriali di uno Stato in conformità al normale
esercizio dell’istituto del passaggio inoffensivo, che presta soccorso ad una nave trasportante dei
migranti irregolari e, per compiere tale azione, interrompe il normale svolgimento della
navigazione, non compie una violazione delle regole disciplinanti l’istituto stesso. In questo caso
trova applicazione l’art. 18, par. 2, e lo Stato costiero non può invocare una violazione del diritto di
passaggio inoffensivo né obbligare la nave straniera a riprendere il largo. Conseguentemente, lo
Stato costiero, nel cui mare territoriale, o nelle vicinanze del quale, si trovi una nave in distress, è
infatti il titolare primario dell’obbligo di portare soccorso ed è responsabile della conclusione del
salvataggio. La nave che si trova quindi in una situazione di pericolo implicante una minaccia per la
vita delle persone a bordo, qualsiasi sia lo status di questi passeggeri, gode di un presunto “diritto”
di accesso al porto.
La predisposizione di un obbligo di ugual contenuto applicabile qualora l’operazione di
salvataggio sia avvenuta nella zona S.A.R. di competenza dello Stato costiero è attualmente
discussa in seno all’IMO.
Lo stabilire la responsabilità dello Stato costiero nel portare a termine l’operazione di
soccorso non crea comunque un vero e proprio “diritto di ingresso al porto” o di “diritto di sbarco”.
Lo Stato costiero ha un obbligo residuale di autorizzazione all’ingresso e allo sbarco che trova
applicazione unicamente quando non è stato possibile individuare nessun altro luogo sicuro.
Nel cercare un place of safety, che non sia il proprio territorio, lo Stato costiero responsabile
della S.A.R. in cui il salvataggio ha avuto luogo, deve inoltre sincerarsi della “sicurezza” nel
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rispetto degli obblighi di diritto internazionale, in particolare del principio di non respingimento;
principio che non si applica solamente in considerazione del diniego di accesso nel mare territoriale
o nel porto, ma anche nella scelta del luogo in cui le operazioni di soccorso possono essere
considerate terminate.
Affermato dall’art. 33, par. 1 della Convenzione di Ginevra, il principio di non respingimento
è il necessario complemento del diritto di cercare asilo garantito dall’art. 14 della DUDU
(Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo). Esso è altresì affermato negli strumenti
internazionali di protezione dei diritti dell’uomo tra cui: art. 3 CEDU; art. 3 della Convenzione
contro la tortura del 1984, art. 7 del patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966,
art. 22, par. 8, della Convenzione americana dei diritti dell’uomo del 1969; art. 5 della Carta
africana dei diritti dell’uomo e dei popoli del 1981.
Riguardo all’applicazione ratione personae, l’art. 33 della convenzione di Ginevra indica
come beneficiari del principio di non respingimento i rifugiati in senso lato. In tale categoria
rientrano sia i richiedenti asilo, sia coloro ai quali lo status di rifugiati sia già stato riconosciuto
dallo Stato che eventualmente intende compiere il respingimento. Deve in ogni caso sussistere un
fondato timore di essere perseguitati nello Stato d’origine per motivi politici, religiosi, razziali, di
origine o di appartenenza ad un gruppo, come richiesto dalla definizione convenzionale di rifugiato
ex art. 1, par. A, e confermato dall’ExCom nel 1977.
Pertanto, se uno Stato respinge una nave di migranti irregolari che ha fatto ingresso nelle
proprie acque territoriali senza controllare se a bordo vi siano dei richiedenti asilo e senza
esaminare se essi possiedano i requisiti minimi per il riconoscimento dello status di rifugiato,
commette una violazione del principio di non respingimento sancito dall’art. 33 par. 1 della
Convenzione del 1951 se i territori (Stati terzi o alto mare) verso cui la nave è respinta non offrono
garanzie sufficienti per l’incolumità dei migranti.
Allora, così stando le cose, appare del tutto evidente che il quadro normativo di riferimento
lega, non poco, le mani agli Stati interessati al fenomeno de quo e soprattutto, per quanto consenta,
seppur in astratto, l’adozione di azioni di respingimento dei flussi migratori via mare, richiede che
le stesse non siano generalizzate, bensì ponderate caso per caso, attraverso un non sempre facile
bilanciamento ex ante tra le esigenze umanitarie, da una parte, e quelle di contrasto del fenomeno
migratorio via mare, dall’altra.
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BIBLIOGRAFIA
-
GAMBINO SILVIO e D’IGNAZIO GUERINO, Immigrazione e diritti fondamentali. Fra
costituzioni nazionali, Unione Europea e diritto internazionale, Giuffrè;
-
Manuale sul diritto europeo in materia di asilo, frontiere e immigrazione, 2013;
-
SALAMONE LUCA, La disciplina giuridica dell’immigrazione clandestina via mare, nel
diritto interno, europeo ed internazionale, Giapichelli Editore, Torino, 2011;
-
TREVISANUT SELINE, Immigrazione irregolare via mare. Diritto internazionale e Diritto
dell’Unione Europea, Jovene Editore, Napoli, 2012.
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