TAO . PDF - Ordine Architetti Torino

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TAO . PDF - Ordine Architetti Torino
monografia
Meno per più
Trasmettere la Città Sostenibile
06 2010
Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in Abbonamento Postale - 70% CB-NO/TORINO n° 2 Anno 2010
TAO n.6/2010
www.taomag.it
ISSN 2038-0860
Direttore Responsabile
Consiglio OAT
Riccardo Bedrone
Riccardo Bedrone, presidente
Maria Rosa Cena, vicepresidente
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Felice De Luca, tesoriere
Coordinatore Redazionale
Liana Pastorin
[email protected] - T +39 0115360513
Redazione
Raffaella Bucci
Emilia Garda
Raffaella Lecchi
Via Giolitti, 1 - 10123 Torino
T +39 011546975 - F +39 011537447
www.to.archiworld.it
[email protected]
Comitato scientifico
Marcello Cini
Mario Cucinella
Philippe Potié
Cyrille Simonnet
Foto di copertina
Republic of Macedonia. Learning architecture
XII Mostra Internazionale di Architettura di Venezia
Foto di Raffaella Lecchi
Periodico di informazione della Fondazione
dell’Ordine degli Architetti, Pianificatori,
Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Torino
registrato presso il Tribunale di Torino con il n. 51
del 9 ottobre 2009
Le informazioni e gli articoli contenuti in TAO
riflettono esclusivamente le opinioni, i giudizi
e le elaborazioni degli autori e non impegnano
la redazione di TAO né l’Ordine degli Architetti PPC
della Provincia di Torino né la Fondazione OAT
Tiratura 10.000 copie
Consiglieri
Marco Giovanni Aimetti
Roberto Albano
Sergio Cavallo
Pier Massimo Cinquetti
Franco Francone
Gabriella Gedda
Maria Adriana Giusti
Elisabetta Mazzola
Gennaro Napoli
Carlo Novarino
Marta Santolin
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Laura Rizzi
Art Director
Consiglio Fondazione OAT
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Carlo Novarino, presidente
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impaginazione
Davide Musmeci - Lorem
FOTOGRAFIE
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dagli autori, salvo dove diversamente specificato.
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Simona Castagnotti
Consiglieri
Riccardo Bedrone
Mario Carducci
Giancarlo Faletti
Emilia Garda
Ivano Pomero
Direttore Fondazione OAT
Eleonora Gerbotto
Si ringraziano
Cosimo Santoro per la selezione
dei film per il Roundabout
La Scuola Holden per la selezione
del graphic novelist Guido Bertorelli
Indice
Contributors
Redazionale
5 Oggi più che mai, il meno è più editoriale di riccardo Bedrone
2
4
Addizione
14
16
18
8
12
Etica e scienza: due sfere separate? Marcello Cini
Crescere senza consumare Mauro Giudice, Fabio Minucci
Parkour Guido Bertorelli
Decolonizing architecture Sandi Hilal, Alessandro Petti, Eyal Weizman
Un parco con qualcosa in più intervista a gianluca cosmacini
Moltiplicazione
2 6
27
8
2
9
2
30
2 2
25
Il Laboratorio Città Sostenibile Giuseppe Borgogno
Il Piano territoriale Torino, Città in Gioco
Il Piano strategico delle aree gioco urbane
Gli spazi per il gioco e la socializzazione
Le Colline del Valentino
Il progetto unitario cortili scolastici
“Se voi architetti potete far realizzare queste cose...” Pier Giorgio Turi
Sottrazione
4
3
4
3
8
3
o
4
2
4
Quel che resta della città Gayle Chong Kwan
Non sprecare: almeno nel tuo frigorifero Andrea segrÈ
Less is more gianluca Gobbi
Waiting for Water: fluire di acqua, fluire di genti Walid Mawed
Una slow fotografa tra essenzialità e misura intervista a bruna biamino
Roundabout
Fotobook 2010
4 6
48
Contributors
Giovane creativo torinese di nascita. Formatosi al
corso di fumetto della scuola internazionale Comics, si è guadagnato il secondo posto al concorso I
Love my City e ha da poco concluso con successo un workshop presso la Scuola Holden di Torino
dal titolo Urban Storytelling. Attualmente insegna
Esprimersi coi disegni ai ragazzi del Cecchi Point.
Usa il racconto per immagini come forma a lui più
congeniale per esprimere pensieri fluttuanti e situazioni insolite, indagando sui nuovi modi di vivere
la strada e la coscienza.
GAYLE CHONG KWAN
Artista di origini cinesi e scozzesi, vive e lavora
a Londra. Laureata in Fine Arts presso il Central
Saint Martins College of Art, si è specializzata in
Communications e in Politics and modern history. Utilizza la fotografia, il video e il suono per installazioni e performance context specific spesso
risultato di un lavoro a contatto con le comunità. I
sui progetti sono stati esposti in numerosi musei
e città al mondo tra cui Londra, New York, Lisbona, Parigi, L’Avana a Cuba e Medellin in Colombia.
www.gaylechongkwan.com
GIANLUCA GOBBI
BRUNA BIAMINO
GUIDO BERTORELLI
40 anni, torinese, giornalista professionista. Caporedattore di Radio Flash e corrispondente di Radio
Popolare Network. Per il Treno della Memoria ha
condotto a Cracovia dibattiti sul tema del razzismo
e ha fatto parte del Gruppo Comunicazione Tavola della Pace nel progetto Time for Responsibilities
in Israele e Palestina. Docente di Giornalismo in
numerose scuole piemontesi, è responsabile comunicazione di Terra del Fuoco e consulente per i
media della Cooperativa Valdocco.
È fotografa professionista dell’architettura e della fotografia industriale. Da anni svolge un’attività di ricerca sul paesaggio urbano. Vive e lavora a Torino.
Ha studiato con Nathan Lyons a New York dove ha
frequentato il corso di Tecnica fotografica di stampa in bianco e nero e il corso di Psicanalisi e fotografia. Sue fotografie sono conservate al Musée de
l’Elysée di Losanna, all’Archivio dello Spazio di Milano, alla Polaroid Foundation a Cambridge, Massachussets, al MAXXI di Roma e alla GAM di Torino.
MARCELLO CINI
Professore emerito di Istituzioni di Fisica teorica e
di Teorie quantistiche all'Università La Sapienza di
Roma, è stato vicedirettore della rivista internazionale Il Nuovo Cimento e tra i fondatori del quotidiano Il
Manifesto. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo L'Ape e l'Architetto (1976), scritto insieme a
Giovanni Ciccotti, Michelangelo De Maria e Giovanni
Jona-Lasinio, Il paradiso perduto (1994), Dialoghi di
un cattivo maestro (2001). Ha ricevuto il premio Nonino 2004 A un maestro italiano del nostro tempo. È
membro del comitato scientifico di TAO.
MAURO GIUDICE
GIUSEPPE BORGOGNO
GIANLUCA COSMACINI
SANDI HILAL
Nato a Torino nel 1958. Giornalista pubblicista,
funzionario della Regione Piemonte presso l’Ufficio Comunicazione Istituzionale del Consiglio regionale. Consigliere della Circoscrizione 5 di Torino
dal 1985 al 1993. Consigliere comunale nel 1997.
Nominato Capogruppo DS nel 1999; componente delle Commissioni consiliari permanenti II e V.
Consigliere comunale nel 2001. Capogruppo sino
al 2005. Nel giugno 2006 è nominato assessore al
Personale organizzazione polizia municipale, carica che ricopre sino a giugno 2009 quando assume
la carica di assessore alle Risorse educative.
Architetto paesaggista, ha insegnato alla Facoltà
di Agraria e alla Facoltà di Architettura di Torino.
È co-fondatore dell’acPav, l’associazione culturale che promuove e realizza il PAV di cui è stato
coordinatore del progetto esecutivo e progettista
del parco e degli spazi pubblici. Oltre alla realizzazione di Trèfle, opera ambientale di Dominique
Gonzalez-Foerster, è autore – con Dudi D’Agostini – del video Trèfle Backstage - La dimensione
collettiva di un’opera d’arte. È membro del comitato direttivo del PAV e curatore delle installazioni
outdoor del PAV.
Architetto, presidente della sezione Piemonte e Valle
d'Aosta dell’Istituto Nazionale di Urbanistica (INU); è
stato dirigente del Settore pianificazione territoriale
regionale della Regione Piemonte e presidente del
Comitato scientifico dell’Osservatorio delle Trasformazioni Territoriali in Piemonte; è stato membro del
comitato tecnico del progetto Trasmettere la Città
Sostenibile presentato al XXIII Congresso mondiale
degli architetti UIA 2008.
Laureata in architettura. Lavora come consulente
dell'UNRWA nel programma Camp improvement. È
visiting professor all'International Academy of Art Palestine. È cocuratrice del progetto Decolonizing Architecture. Nel 2006 ha completato il suo dottorato
di ricerca in Transborder policies for daily life presso
l'Università di Trieste. Dal 2001 al 2005 ha insegnato
come assistente al corso Visual Arts and Urban Studies presso lo IUAV (Università di Venezia).
WALID MAWED
ANDREA SEGRÈ
FABIO MINUCCI
PIER GIORGIO TURI
ALESSANDRO PETTI
EYAL WEIZMAN
Nato a Nazareth nel 1975, si è laureato nel 1998
presso l’Institute of Fashion and Textile a Beit Sahour in Palestina. Artista e costumista, ha lavorato
tra gli altri per i film Paradise now e Miral. Si occupa inoltre di arte pubblica e di questioni ecologiche. Fin dall'inizio della sua attività si è dedicato
all'idea del riutilizzo di tessuti e altri materiali per i
suoi lavori artistici e di design. Si muove e lavora
tra Palestina, Italia e Londra.
Docente di Pianificazione territoriale presso la II Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino. Partecipa all’Osservatorio Valle di Susa della Presidenza
del Consiglio dei Ministri per la linea ferroviaria ad
alta capacità Torino-Lione in rappresentanza dei
Comuni della ‘Adduzione Ovest’ di Torino. Tra le
sue pubblicazioni più recenti: L’evoluzione del governo del territorio e dell’ambiente (2005), Le nuove leggi urbanistiche regionali (2008).
Architetto, urbanista e ricercatore, con base a Betlemme. Insegna all'Honors College Al-Quds/Bard
University ad Abu Dis-Gerusalemme ed è direttore
dell'ufficio ricerca di Decolonizing Architecture. Ha
curato progetti di ricerca e mostre sulla trasformazione della città tra cui Stateless Nation e Arab Cities
con Sandi Hilal e The Road Map con Multiplicity; ha
scritto sull'emergente ordine spaziale dettato dal paradigma della sicurezza e del controllo in Arcipelaghi
e enclave (Bruno Mondadori, Milano, 2007).
Professore, economista e agronomo, dalla fine degli
anni Novanta ha concentrato la sua attività di ricerca al campo dello spreco di risorse nei Paesi sviluppati e in via di sviluppo. È presidente di Last Minute
Market, spin off accademico dell’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, per il recupero a fini
benefici dei prodotti alimentari e non alimentari invenduti. È professore ordinario di Politica agraria internazionale e comparata e Preside della Facoltà di
Agraria presso l’Università di Bologna.
Architetto e urbanista. Per la Città di Torino ha curato la costituzione dell’Urban Center ed è coordinatore scientifico del Laboratorio Città Sostenibile. Dal
2000 collabora con l’Ordine degli Architetti di Torino
sui temi della sostenibilità urbana e coordina il focus
group OAT Architettura e città sostenibile. È relatore generale del progetto Trasmettere la Città Sostenibile presentato al XXIII Congresso Mondiale degli
Architetti Torino 2008 ed è membro del comitato di
coordinamento scientifico di Biennale Democrazia.
Architetto con base a Londra. È direttore del Centre for Research Architecture al Goldsmiths College, University of London. Ha precedentemente
lavorato come professore di Architettura alla Academy of Fine Arts a Vienna. Come architetto in
Israele lavora su progetti collegati all'arte e al teatro. Tra I suoi libri Hollow Land (Verso Books, 2007)
e A Civilian Occupation (Verso Books, 2003). Ha
vinto il premio James Stirling Memorial Lecture Prize per gli anni 2006-2007.
Redazionale
Mentre questo numero di TAO andava in stampa, dopo 10 mesi
di moratoria riprendevano le attività di costruzione negli insediamenti israeliani in Cisgiordania: l’architettura può essere anche espressione di supremazia su un territorio da colonizzare.
Gli autori scelti per questo numero di TAO hanno esplorato il
concetto di limite e di misura: dal nostro frigorifero, ai cortili
scolastici, fino alle questioni di etica e scienza, TAO si muove
dal livello micro a quello macro applicando le categorie elementari di sottrazione, moltiplicazione e addizione per scoprire
quanto il confine tra i due livelli sia fluido e mutevole. Lo stesso
percorso che ha seguito il progetto di fotografia democratica
Fotobook e dal quale abbiamo selezionato tre immagini per le
aperture delle tre sezioni di cui si compone TAO.
[-] L’artista palestinese Walid Mawed nasconde l’acqua, la
‘sottrae’ alla vista e impone una riflessione sul valore di questa risorsa come bene di tutti, la fotografa Bruna Biamino
spoglia le immagini dei deserti per scoprirne l’anima, il giornalista Gianluca Gobbi dà corpo alla radio, media ‘minore’
che in assenza di immagini ha saputo rinnovarsi anche meglio
della televisione. E ancora: all’ideatore di Last Minute Market
Andrea Segrè e all’artista Gayle Chong Kwan è dedicato
lo spazio di due racconti in parallelo su un tema che li accomuna: lo spreco e la raccolta di ciò che viene frettolosamente
buttato via e che può essere ancora utile.
[+] Ma di spreco si può parlare anche attraverso la prospettiva opposta: quella dell’addizione e della crescita. Gli urbanisti Fabio Minucci e Mauro Giudice intravedono una
possibilità di ribaltamento del continuo sviluppo delle città:
si può crescere senza ulteriormente consumare il poco territorio ancora libero dalla cementificazione. Nello stesso filone
si inseriscono le riflessioni del gruppo di architettura di Alessandro Petti che lavora sul concetto di decolonizzazione, inteso come attribuzione di utilizzi diversi a edifici e strutture
precostituite. È in questa attribuzione di nuovi significati che
consiste il valore aggiunto di alcune pratiche, come il parkour
– illustrato dal graphic novelist Guido Bertorelli – che costituisce un modo di muoversi nella città godendo di inaspettate
prospettive, o di alcuni luoghi della città, come il PAV Parco
d’Arte Vivente descritto dal paesaggista Gianluca Cosmacini che, nella somma di professionalità e campi disciplinari,
sfida costantemente il concetto di confine. Aggiungere etica
al pensiero e all’agire, infine, aiuterebbe a migliorare la vita di
tutti, così come ricorda Marcello Cini, insigne fisico teorico,
per il quale la scienza non dovrebbe prescindere dall’etica.
[x] Sempre a proposito di etica nel pensiero e nell’azione,
come sempre, al centro del numero, TAO accoglie un’esperienza concreta, sviluppata localmente. A piccoli passi si possono raggiungere grandi obiettivi, moltiplicando l’effetto del
lavoro e del confronto di generazioni diverse su temi di interesse generale, come gli spazi della scuola. Gli architetti tutor e gli alunni di alcune scuole elementari di Torino con i loro
insegnanti, aprono i cortili alla riqualificazione e alla condivisione di progetti. Un buon progetto oggi moltiplica le possibilità di futuro domani.
Oggi più che mai, il meno è più
Editoriale di Riccardo Bedrone
Tanti anni orsono venne pubblicato nei Romanzi di Urania – la
più nota collana di fantascienza italiana, allora splendidamente
diretta da Fruttero e Lucentini – un racconto inquietante ma
premonitore, come tanti altri espressi da questo immeritatamente trascurato genere letterario.
Non ne ricordo il titolo né l’autore, ma mi è rimasta ben impressa
la descrizione di una società futura in cui la classe dominante –
e solo quella – poteva permettersi di ‘non consumare’. Mentre
le classi subordinate, indipendentemente dall’età, dal sesso,
dall’occupazione e dallo stesso ruolo sociale erano costrette,
per legge, a sostenere con continui consumi di beni, quelli necessari ma ancor più quelli superflui, una economia basata
sulla superproduzione e quindi sullo smaltimento incessante
di tutto ciò che veniva prodotto. Chi non seguiva queste regole
veniva perseguito come individuo asociale, mentre i potenti
potevano permettersi la frugalità e l’astinenza, senza l’assillo di
apparire continuamente intenti a comprare e poi a disfarsene
immediatamente, senza magari neppure utilizzarla, qualsiasi
cosa venisse posta sul mercato, dai cibi agli elettrodomestici,
dagli autoveicoli agli abiti, dai gioielli agli hobby.
Quanta verità mi pare di ritrovare nei comportamenti odierni,
condizionati da modelli di vita che impongono quasi di alimentare la crescita socio-economica non con il risparmio ma con
i consumi, individuali e collettivi, in gran parte rivolti a beni e
servizi non necessari. Con una differenza, rispetto al romanzo:
nella società ipotizzata dall’autore i mezzi di produzione erano
illimitati grazie forse, mi pare di ricordare, ad una disponibilità
sconfinata di energia, per produrre e riciclare. Mentre la nostra società ‘reale’ corre all’impazzata verso un disastro annunciato, ma inascoltato.
Quante volte ci sentiamo dire, non da profeti di sventura ma da
autorevoli ricercatori, che le nostre risorse materiali sono limitate
e che sopratutto quelle energetiche, fino a quando (e se) impareremo a sfruttare con la massima efficienza il sole, sono dannose
per ogni forma di vita e fonte di guerre, ingiustizie e diseguaglianze
che investono la gran parte dei Paesi e delle popolazioni?
È di ieri la notizia, fornita dall’autorevole Global footprint network, che l’impronta ecologica dell’uomo è così devastante che
già dal 1986 la sua domanda di risorse naturali ha superato la
capacità della natura di rigenerarle. Anno dopo anno, da allora,
noi intacchiamo sempre più anticipatamente le riserve disponibili per soddisfare i nostri smodati – anche se inegualmente
espressi, visto che il cittadino statunitense consuma 5 volte
quello cinese e due volte circa quello italiano – bisogni: nel 2010
abbiano esaurito il nostro ‘capitale ecologico annuale’, cominciando a eroderne gli interessi, che avremmo dovuto lasciare a
figli e nipoti, il 21 agosto. Nel 1987 l’allarme era suonato il 19 dicembre, nel 1995 il 21 novembre, nel 2008 il 23 settembre!
Per gli architetti, vale lo stesso ammonimento. Come non preoccuparsi nel vedere dimenticata la lezione di Mies van Der
Rohe, quando affermava che “il meno è più”? Oggi impera
il modello ‘emirato’, simboleggiato da costruzioni faraoniche
frutto di una fantasia progettuale votata all’esibizionismo, al
monumentalismo, al chiassoso, al ridondante: tutte manifestazioni di disprezzo per le risorse da impiegare e che vengono
durante i lavori e verranno nell’uso consumate in misura assai
maggiore in simili insediamenti che negli edifici essenziali, coscienziosi, puliti e austeri.
E non è forse frutto della stessa mentalità sciupona e colpevolmente disattenta il crollo dell’economia globale, cui abbiamo assistito nell’ultimo biennio, basata sul miraggio dello
sviluppo continuo e alimentata dalle bolle immobiliari che
hanno nefastamente fatto inondare il paesaggio di città semideserte, di quartieri invivibili, di fabbricati inutili per una popolazione che in Occidente è in regresso demografico oltreché
in deficit di coscienza civile?
Di questo tratta la rivista, in un numero dedicato proprio al
tema Meno per più. E vi si troveranno, in molte versioni, i timori
degli autori che, ciascuno per la propria esperienza, ci parlano
di consumo e di spreco.
Aggiungere valore
Addizione
Si può crescere mettendo in relazione campi
diversi di conoscenza. E si può far crescere
le città senza occupare ulteriore spazio.
Si possono attribuire nuovi significati a un
parco e adottare utilizzi diversi per gli edifici.
Si può ricercare il valore aggiunto che rende
un’azione ordinaria come l’attraversamento
della città un po’ straordinaria
Marcello Cini
Etica e scienza:
due sfere separate?
Cadono gli steccati tra scienza,
tecnologia e etica. Non si possono
separare gli interessi dalla
conoscenza, i valori dai fatti
Mauro Giudice, Fabio Minucci
Crescere
senza consumare
L’occupazione del suolo aumenta più
velocemente della popolazione
e il risultato sono nuovi vuoti urbani.
Ma è possibile una crescita intelligente
Guido Bertorelli
Parkour
Camminare per strada,
senza guardare la città dall’alto…
che occasione mancata!
Sandi Hilal, Alessandro Petti, Eyal Weizman
Decolonizing
architecture
Profanare gli edifici esistenti,
promuoverne nuovi utilizzi,
riportarli a un uso collettivo:
anche l’architettura è pratica politica
Gianluca Cosmacini
Un parco
con qualcosa in più
Ph © Arianna Tagliaferri, Lubecca
Naturale + artificiale,
dentro + fuori,
artista + pubblico:
il valore aggiunto del PAV
8 — Addizione
Etica e scienza:
due sfere separate?
Il principio di precauzione deve guidare lo sviluppo
e la diffusione dell’innovazione tecnologica nella società del rischio
Marcello Cini
Nel secolo appena finito l’uomo ha instaurato il suo pieno dominio sulla materia inerte. Un esempio clamoroso del
problema della responsabilità sociale
degli scienziati, sorto nel corso di questa
impresa, è stato indubbiamente la scoperta dell’energia immagazzinata nel nucleo dell’atomo e la sua utilizzazione per
la costruzione della prima bomba atomica. Avevo compiuto da pochi giorni
ventidue anni quando la notizia del suo
lancio su Hiroshima apparve in un laconico trafiletto sul giornale, l’Unità, che
avevo diffuso da clandestino, tornato libero in edicola dopo più di due decenni.
Ero soltanto uno studente di ingegneria
e non sapevo nulla di fisica atomica ma i
diciotto mesi passati sotto l’occupazione
tedesca mi avevano insegnato che se
Hitler avesse avuto la bomba prima degli americani sarebbe stato un disastro
per tutta l’umanità. Non mi fece dunque
particolarmente orrore, ma la considerai, al contrario, come la fine delle tragiche dittature che avevano minacciato il
mondo e l’ultimo degli orrendi massacri
e delle immense carneficine della guerra.
Il nuovo secolo sarà invece il secolo del
dominio dell’uomo sulla materia vivente
e del controllo sui fenomeni mentali e
sulla coscienza. È essenziale riconoscere che questa svolta cambia profondamente la natura stessa della scienza
e dei problemi etici che essa solleva.
Essa infatti comporta lo sgretolamento
di due steccati che tradizionalmente separavano la scienza dalle altre attività
sociali umane. Uno separava la scienza
(in quanto conoscenza disinteressata
della natura ottenuta attraverso la scoperta) dalla tecnologia (in quanto utilizzazione pratica dei risultati della prima
realizzata attraverso l’invenzione). L’altro steccato separava le attività che si
occupano di fatti da quelle che si occupano dei valori che stanno alla base
delle norme (etiche e giuridiche) intese
a regolare le finalità e i comportamenti
degli individui nei loro rapporti privati e
nelle loro azioni sociali.
Una cosa è infatti manipolare, controllare,
forgiare un oggetto fatto di materia inerte
e altra cosa è compiere le stesse operazioni su un organismo vivente o addirittura
sull’uomo. Nel primo caso il lecito può
coincidere con l’utile, nel secondo il lecito
dovrebbe per lo meno dipendere anche
da una valutazione di natura etica. Dunque anche la seconda separazione tende
a svanire: diventa sempre più difficile decontaminare i fatti dai valori ed estirpare
gli interessi dalla conoscenza.
È tuttavia evidente che la svolta non viene
percepita, nell’immaginario collettivo, in
tutta la sua radicalità. “Il fatto che una
cosa abbia natura biologica e si autoriproduca – afferma ad esempio un oscuro
ma aggiornato biotecnologo di Oakland –
non basta a renderla diversa da un pezzo
di macchina costruita con dadi, bulloni e
viti”. Il problema della responsabilità sociale degli scienziati si pone dunque in
una luce completamente nuova.
Secondo il fondatore della sociologia
della scienza, Robert Merton, “quattro
sono gli imperativi istituzionali a fondamento dell’ethos della scienza moderna:
l’universalismo, il comunitarismo, il disinteresse e il dubbio sistematico”. Perché
questi principi entrano in crisi?
In primo luogo, vacilla la norma della
Addizione — 9
adozione di criteri universali e impersonali come premessa per l’identificazione
dei ‘fatti’ e per la formulazione delle categorie appropriate a ordinarli. L’esistenza di
criteri di questa generalità poteva essere
giustificabile quando si trattava di scoprire
le grandi leggi della natura, ma diventa impossibile da sostenere quando l’obiettivo
è la spiegazione delle proprietà di sistemi
complessi, per definizione dipendenti dal
contesto e dalla loro storia; ne derivano
spiegazioni diverse che non sono per
forza mutuamente esclusive, ma dipendono a loro volta dalle ipotesi assunte per
darne rappresentazioni attendibili.
Quanto alle norme sul comunitarismo e
sul disinteresse, ne è ormai sotto gli occhi
di tutti l’anacronismo. Lo sgretolamento
della barriera fra ricerca scientifica ‘pura’
e ricerca tecnologica ‘applicata’ e la conseguente corsa alla brevettazione di ogni
componente della straordinaria varietà
di forme viventi e di ogni manifestazione
delle infinite possibili espressioni del pensiero umano, ne decreta infatti l’obsolescenza teorica e l’inapplicabilità pratica.
Anche l’ultimo imperativo istituzionale,
il dubbio sistematico, che avrebbe dovuto portare, attraverso ripetuti confronti
tra giudizi dissenzienti, alla convergenza
della comunità su un unico giudizio condiviso relativo all’interpretazione dei fenomeni oggetto d’indagine, si dimostra
infine, anche se sempre necessario, inadeguato a raggiungere uno scopo diventato irraggiungibile.
Come ricostruire dunque norme deontologiche valide, capaci di ridare all’attività
di ricerca strumenti per ottenere risultati
affidabili e offrire agli attori sociali (individui singoli, comunità, gruppi di interessi,
istituzioni pubbliche e private) gli elementi
per compiere scelte razionalmente giustificabili e moralmente soddisfacenti?
Per quanto riguarda il rapporto fra
etica e ricerca scientifica il riferimento
all’opera di Hans Jonas è d’obbligo. Il
primo nuovo valore che dobbiamo introiettare, secondo questo filosofo, è
fondato sull’obbligo morale di prefigurarci e di approfondire le possibilità ipotetiche che il nostro oggi, così gravido
di conseguenze e sotto molti aspetti
calcolabile, porta in grembo. “Il valore
di tali prefigurazioni è legato al fatto che
non sono fatalistiche: anzi, è proprio in
quanto noi possiamo agire in modo da
evitarne le possibili conseguenze catastrofiche che dobbiamo impegnarci
a svilupparle”. È per questo dunque,
che la coscienza impone “a coloro che
fanno previsioni ipotetiche di rendere
noto il loro punto di vista come stimolo
o ammonimento per favorire o impedire l’avverarsi di ciò che hanno previsto”. La proposta di Jonas ci permette,
ad esempio, di rispondere alle argomentazioni – puntualmente avanzate
dai sostenitori ad oltranza della libertà
della scienza e della tecnologia di realizzare tutto ciò che può essere realizzato (e di immetterlo sul mercato) – a
proposito di due questioni sulla quali
si è molto discusso e si continua a discutere: quella della diffusione su scala
planetaria degli OGM e quella dell’intervento sul genoma umano al fine di
‘migliorare’ la specie.
Strettamente legata alle idee di Jonas
è l’introduzione, ormai accolta da una
serie di documenti ufficiali e da norme
10 — Addizione
dell’Unione Europea del principio di precauzione nello sviluppo e nella diffusione
dell’innovazione tecnologica. La sua
base fattuale è data dalla constatazione
che viviamo ormai nella “società del rischio” (un termine coniato da Ulrich Beck
in un testo ormai classico con questo titolo che risale alla metà degli anni Ottanta), definita come la nuova fase della
società industriale, in cui “il rapporto tra
produzione di ricchezza e produzione
di rischi s’inverte dando priorità alla seconda rispetto alla prima”. Siamo passati
infatti da una fase nella quale era diffusa
l’aspettativa che la crescita della conoscenza della realtà sociale e naturale
avrebbe permesso d’intervenire su di
essa sempre più efficacemente e razionalmente in modo mirato e controllato, a
una in cui la proliferazione di questi interventi è a sua volta origine d’imprevedibilità e insicurezza.
Secondo la formulazione che ne danno i
due autori – Kourilsky e Viney – che per
primi hanno affrontato la questione, “il
principio di precauzione implica l’adozione di un insieme di regole finalizzate a
impedire un possibile danno futuro, prendendo in considerazione rischi tuttora non
del tutto accertati”. La precauzione occupa un ambito intermedio fra quello in
che sta diventando sempre più attuale, a
causa dell’influenza che questo intreccio
esercita su ogni aspetto della vita quotidiana dei cittadini e sulle prospettive del
loro futuro. Tradizionalmente, questo rapporto è stato gestito attraverso consulenze fornite ai rappresentanti eletti del
popolo (parlamento e organismi di governo locali o centrale) da agenzie governative o comitati di esperti nominati
ad hoc, o ancora informalmente da singoli scienziati di fiducia dei decisori politici, senza interventi rilevanti dell’opinione
Si sgretola lo steccato
pubblica. Da qualche anno, tuttavia, la
che tradizionalmente separava
tecnologia e la scienza generano controla scienza dalla tecnologia
versie che coinvolgono larga parte della
popolazione, su temi come lo smalticupano della valutazione del rischio, sia mento dei rifiuti o la collocazione e la naai decisori che devono far fronte alla sua tura delle centrali, la difesa dell’ambiente
gestione. Spetta dunque alle associazioni o gli OGM, la prevenzione delle malattie o
che hanno per obiettivo la tutela della sa- la libertà delle telecomunicazioni.
lute e la salvaguardia dell’ambiente aller- Un approccio originale a questo protare i cittadini, senza catastrofismi ma con blema è stato sviluppato negli ultimi
documentata attenzione, sui possibili ri- decenni dagli studiosi dei rapporti fra
schi che superino la soglia della conget- scienza, tecnologia e società (STS). Setura per entrare nel campo delle previsioni condo Wiebe E. Bijker, che insegna
questa disciplina all’Università di Maafondate su evidenze significative.
Un ultimo tema riguarda il rapporto fra stricht, dove dirige anche un centro di riil crescente intreccio tra le tecnoscienze cerca dedicato allo studio dei problemi
e l’ordinamento democratico delle so- che nascono da questo intreccio, il comcietà occidentali industrializzate. Un tema pito di questi studi è di “politicizzare la
cui si applicano le procedure della prevenzione (cioè dell’attivazione di misure volte
a evitare o a limitare le conseguenze di un
agente di rischio accertato) e quello delle
semplici congetture (che non giustificano
la sospensione di uno sviluppo tecnologico utile del quale i futuri possibili effetti
avversi, in assenza di evidenze anche parziali, possano soltanto essere ipotizzati).
È chiaro, tuttavia, che l’applicazione di
questo principio lascia larghi margini di discrezionalità sia agli scienziati che si oc-
Addizione — 11
società tecnologica, mostrando a un
largo spettro di soggetti sociali – politici, ingegneri, scienziati, oltre al pubblico
in generale – che la scienza e la tecnologia sono cariche di valori, che tutti gli
aspetti della cultura moderna sono permeati di scienza e di tecnologia, che
queste ultime giocano un ruolo chiave
sia nel tenere insieme la società, sia nelle
questioni che ne minacciano la stabilità,
e dunque che entrambe debbano essere
soggette al dibattito politico”.
Gli studiosi di STS devono diventare –
secondo Bijker – i nuovi intellettuali del
XXI secolo, per affrontare nei loro molteplici aspetti problemi concreti: questioni
ecologiche, il fossato tra nord e sud del
mondo, il terrorismo, la democrazia e
così via. In particolare, Bijker fonda la sua
attività di ricercatore e di organizzatore
sul concetto di “costruzione sociale della
tecnologia” (CST), in contrapposizione
alla concezione standard della tecnologia come forza autonoma, rappresentata
da macchine e processi che incorporano proprietà oggettive della materia, in
grado perciò di immettere nella società i
suoi prodotti senza essere condizionata
da questa. Nella CST, il punto di partenza
sono i ‘gruppi sociali rilevanti’. Gli artefatti tecnici sono descritti attraverso gli
superamento della tradizionale concezione di una scienza dei fatti indiscutibili e
di una tecnologia degli oggetti manipolabili a piacere, e, dall’altro, sull’adozione di
una politica dei soggetti e delle loro priorità, attraverso la trasformazione dei soggetti umani e degli oggetti naturali in attori
sociali (umani e non umani) integrati in un
collettivo ibrido società/ambiente. Di conseguenza, considerare le nostre relazioni
con l’ambiente come bene primario significa riconoscere il diritto a tutti gli stakeholders (soggetti coinvolti) di intervenire
Si assiste al superamento
per affermare i loro bisogni fondamentali.
della concezione di una scienza
Per concludere: lo scienziato oggi non
dei fatti indiscutibili
può limitarsi a rifiutare – come fece il fisico Franco Rasetti quando declinò l’indefinizione di questo concetto capace vito di Fermi a unirsi a lui nel Progetto
di tener conto sia della crisi dell’ogget- Manhattan – di partecipare a un’impresa
tività scientifica che nasce dalle enormi considerata oggettivamente inconpotenzialità delle tecnologie legate al trollabile ma soggettivamente ritenuta
progredire della conoscenza della na- dannosa o immorale. Oggi si tratta di
tura (che rendono tendenzialmente in- contribuire attivamente, dall’interno, alla
controllabile la catena dei loro effetti), liberazione del processo di crescita della
sia dell’esistenza di nuove forme di as- conoscenza della natura e della società
sociazione fra umano e non umano – i dalle catene che lo vincolano sempre di
cosiddetti ‘collettivi ibridi’ – che caratte- più al cieco meccanismo del mercato,
rizzano l’intreccio fra le relazioni sociali, per ricostituire quell’unità tra “virtute e
le condizioni materiali di esistenza degli canoscenza” che Dante indicava come
individui e le trasformazioni ambientali. fine agli uomini che non volessero rasIl concetto si basa, da un lato, sul segnarsi a “viver come bruti”.
occhi dei membri di questi gruppi. Deve
essere chiaro che i costruttivisti non sostengono che la scienza e la tecnologia
non abbiano meriti intrinseci propri: al
contrario, essi sono convinti che queste
attività debbano essere salvaguardate
e altamente apprezzate. Ma i loro meriti
devono essere conquistati nella pratica
sociale e non calati dall’alto.
Sullo stesso terreno dell’analisi di Bijker,
si pone Daniele Ungaro nel libro La democrazia Ecologica – per proporre una
12 — Addizione
Crescere
senza consumare
Che governo del territorio e quale utilizzo del suolo dobbiamo auspicare
per la città contemporanea?
Mauro Giudice, Fabio Minucci
Secondo le rilevazioni realizzate nel 2006
da Legambiente, nel nostro Paese le superfici ‘artificiali’ impegnano il 7% del
territorio nazionale mentre, quando si
considerino i soli territori pianeggianti,
si raggiunge il 20%. Con riferimento alla
provincia di Torino, come la stessa Provincia dimostra in uno studio del 2008,
il consumo di suolo, dal 2000 aI 2006,
è aumentato del 12% mentre la popolazione è cresciuta solo del 3,4%.
L’occupazione di suolo per usi urbani
e infrastrutturali, oggi, è uno dei principali problemi da affrontare quando si
voglia concretamente perseguire uno
sviluppo sostenibile; senza considerare che, a parità di abitanti, la realizzazione/gestione dei servizi pubblici (reti
infrastrutturali, servizi collettivi) nelle
aree a bassa densità ha, per la collettività, costi molto più elevati di quelli della
città compatta. Per contrastare il fenomeno con successo è indispensabile
ricorrere, massimizzandone le sinergie, a un insieme di strumenti di natura diversa e complementare: giuridica
(leggi, piani ecc.), economica, fiscale.
Un ruolo non indifferente nell’espansione dello sprawl urbano è svolto dalla
fiscalità immobiliare e dalla politica urbanistica dei Comuni: dal 2001 è stato
cancellato I’art. 12 della legge n. 10/77
(che vincolava l’uso degli oneri di urbanizzazione per opere di urbanizzazione)
per consentirne l’uso per spese correnti
fino al 75% (ciò spiega anche il forte incremento edificatorio a partire dagli inizi
di questo secolo).
Il fenomeno è esaltato dall’attuale fase
di restringimento delle risorse degli enti
locali (riduzione dei trasferimenti statali, blocco delle manovre tributarie) che
vede le scelte urbanistiche sempre più
indotte dall’esigenza di ‘far cassa’ con la
fiscalità urbanistica. Quanto sommariamente prefigurato, impone una profonda
revisione delle logiche che presiedono al
governo del territorio che, direttamente
o indirettamente, vanno ad incidere sulle
problematiche del consumo di suolo
coinvolgendo tutti i soggetti interessati.
La continua evoluzione dei processi economici che caratterizza questa fase del
nostro sviluppo genera sistematicamente
nuovi vuoti urbani: un’occasione per un
continuo adeguamento, nel tempo, della
città alle esigenze localizzative e funzionali delle diverse attività riducendo le esigenze di edificare nuove aree. Una realtà
in continua evoluzione che presuppone
un processo di piano più attento alla valorizzazione di tali ambiti urbani anche
incentivando un loro riuso funzionale
all’evoluzione delle esigenze delle attività
urbane. È in questo contesto che i vuoti
urbani hanno assunto, anche in funzione
della dimensione dell’insediato, un ruolo
di sempre maggiore rilievo.
L’utilizzo attento dell’insieme dei vuoti urbani e degli ambiti sottoutilizzati può costituire un elemento qualificante per una
progettazione urbanistica innovativa, che
sappia coniugare gli assunti disciplinari e
culturali dell’urbanistica più avanzata con
le esigenze delle diverse attività e la crescente domanda di qualità della vita da
parte della collettività urbana.
In tale prospettiva, la disciplina urbanistica, ad oggi interessata allo studio dei
fenomeni di espansione delle città, deve
ampliare il suo campo di indagine a nuovi
Addizione — 13
1
2
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4
5
6
modelli di sviluppo, spesso a geografia
variabile, tra attività umane e nuove funzioni urbane, tra dinamiche socio-economiche legate alle nuove modalità di
produrre e alle più recenti forme di recupero e riutilizzo degli spazi urbani.
La minimizzazione del consumo di suolo
dovrà essere intesa non come dato da
valutare in termini meramente quantitativi, ma come esito di una corretta risposta quantitativa/qualitativa alle esigenze
insediative dello sviluppo, ai caratteri e
alle necessità specifiche della fruizione,
alle esigenze di differenziare le modalità
e i tipi di intervento in funzione dei caratteri peculiari dei luoghi, della qualità e
della caratterizzazione dei territori.
Le azioni per limitare il consumo di suolo
sono molteplici e riguardano, contemporaneamente, sia il contenimento delle
possibilità edificatorie sia il riutilizzo di aree
degradate, dismesse o sottoutilizzate; in
questa logica, le azioni volte al contenimento delle nuove edificazioni si traducono in una maggiore attenzione verso il
patrimonio edilizio esistente consolidato,
creando una reale opportunità di riorganizzazione urbanistica del territorio.
Le principali linee d’azione oggi emergenti, anche a livello europeo, per contrastare fenomeni di sprawl possono
essere schematicamente raccolte in
due macro gruppi di azioni. Il primo, riferito prevalentemente alla scala urbana,
ricomprende sistemi di azioni finalizzate
a migliorare qualità e vivibilità delle aree
centrali. Il secondo, riferito alla scala
territoriale, è costituito da azioni volte a
disincentivare l’ulteriore diffusione degli insediamenti indirizzandoli verso modelli urbani sostenibili. Per una ‘crescita
intelligente’ sembra oggi indispensabile
la messa in campo di sistemi integrati
di azioni, alle diverse scale, mirate contemporaneamente alla riqualificazione
della città esistente ed alla promozione
dell’addensamento delle spinte insediative nelle aree già urbanizzate e sottoutilizzate. Una ‘crescita intelligente’
perseguibile ricorrendo a modelli insediativi compatti e a basso consumo di
suolo, fondati su elevati mix funzionali e
su intensità di uso del suolo adeguate
ai caratteri dell’edificato esistente ed al
contesto ambientale e paesaggistico in
cui si inseriscono.
È chiaro che il perseguimento delle linee d’azione e degli obiettivi sopra sinteticamente prefigurati presuppone il
supporto di un quadro normativo, a cominciare da quello nazionale, in grado di
fornire i necessari input e garantire un
efficace rapporto sussidiario tra le diverse scale di piano. Ciò presuppone
anche la revisione del processo e dei
contenuti del piano prefigurato dalle recenti leggi urbanistiche regionali anche
per introdurvi, in modo esplicito, le analisi necessarie per definire, in modo condiviso e con parametri oggettivi, una
sorta di ‘zonizzazione’ dei costi economici ed ambientali delle diverse tipologie di intervento previste nei diversi
ambiti urbani: recupero, riqualificazione
e valorizzazione dell’esistente, aree di
nuovo insediamento sui quali fondare, in
tempi di federalismo fiscale, una fiscalità
urbanistica oggettiva, che non scarichi
sulla collettività i costi aggiuntivi di una
città che va sempre più qualificandosi
come un insieme di flussi senza luoghi.
CRESCERE SENZA CONSUMARE
Governo del territorio e uso del suolo
A cura di Mauro Giudice e Fabio Minucci
Editore Esselibri, Napoli
Uscita Novembre 2010
Foto tratte da Google Earth
1 Frammentazione residenziale nell’area collinare torinese.
2 Infrastrutture e aree industriali nell’area metropolitana torinese. 3 Insediamenti commerciali nella bassa alessandrina.
4 Frammentazione residenziale nell’area novarese. 5 Infrastrutture e aree industriali nell’area metropolitana torinese.
6 Frammentazione residenziale nell’area collinare torinese.
14 — Addizione
Addizione — 15
16 — Addizione
Decolonizing
architecture
‘Decolonizzare’ significa aggiungere nuovi significati
e usi a edifici esistenti, per un utilizzo comune
di ciò che l’ordine coloniale ha separato e diviso
Sandi Hilal, Alessandro Petti, Eyal Weizman
Future Archeology. Nel 2007, dopo alcuni anni di ricerche teoriche sullo spazio
focalizzate sulla Palestina, abbiamo deciso di cambiare la modalità del nostro
impegno e creare un istituto di architettura fondato su un programma di studio/residenza a Beit Sahour, Betlemme.
Il Decolonizing Architecture Institute (DAi)
cerca di usare la pratica spaziale come
una forma di intervento politico e di narrazione. Il lavoro di residenza è basato su
una rete di affiliazioni locali e archivi storici che abbiamo raccolto nei nostri lavori
precedenti. Il nostro lavoro ha a che fare
con una serie complessa di problemi architettonici che si concentrano attorno a
uno dei più difficili dilemmi della pratica
politica: come agire sia in maniera propositiva, sia criticamente in un ambiente
in cui il campo delle forze politiche, per
quanto complesso, è così drammaticamente distorto. È possibile intervenire
in qualche modo? Come può la pratica
spaziale, nel ‘qui e ora’ del conflitto, negoziare l’esistenza di istituzioni e di realtà
legali e spaziali senza divenire connivente con la realtà diseguale che queste
producono? Come trovare una ‘autonomia della pratica’ che sia al tempo stesso
critica e trasformativa?
Abbiamo iniziato sperimentando una serie di interventi che tentano di dare nuovi
contenuti, significato e capacità d’azione
al termine ‘decolonizzazione’. Suggeriamo una rivisitazione di questo termine
ampiamente screditato al fine di mantenere le distanze dall’attuale linguaggio politico utilizzato per una ‘soluzione’
del conflitto palestinese e dei suoi confini. Le soluzioni a uno, due e ora a tre
Stati sembrano ugualmente intrappolate in una prospettiva da esperti topdown, ognuna con una propria logica
autoreferenziale. La decolonizzazione,
al contrario, presuppone un processo di
trasformazione e di riutilizzo delle strutture dominanti esistenti – finanziarie, militari e legali – concepite per il beneficio
di un gruppo etnico-nazionale, e implica
la lotta per l’eguaglianza. È fondata sul
confronto, secondo un approccio completamente opposto alla realtà dell’occupazione e dello spossessamento.
Il riutilizzo di edifici e infrastrutture nel
processo storico di decolonizzazione riproduceva spesso gli stessi usi per i quali
erano stati progettati, con delle modalità
che lasciavano intatte le gerarchie territoriali. In questo senso i processi passati
di decolonizzazione non si sono mai veramente sbarazzati del potere della dominazione coloniale. Profanazione – un
concetto proposto da Giorgio Agamben
in relazione al dominio del ‘sacro’ – è una
“neutralizzazione di ciò che esso profana”. “Profanare non significa semplicemente abolire o cancellare separazioni,
bensì imparare a farne un nuovo uso”.
La decolonizzazione è il contro-apparato
che cerca di riportare a un uso comune
ciò che l’ordine coloniale ha separato e
diviso. L’obiettivo della decolonizzazione
è la costruzione di contro-apparati che
trovino nuovi usi per le strutture di dominazione abbandonate. Usi che sono
a volte pragmatici e a volte sfide ironiche. A questo livello la ‘decolonizzazione’
non è mai stata raggiunta, è una pratica
in evoluzione che consiste nella disattivazione e nel riorientamento intesi sia
come fenomeni presenti, sia perpetui.
Ph © Situ Studio NYC, 2008
Addizione — 17
La natura dei problemi che stiamo trattando ci ha convinto che un approccio
fattibile vada trovato non solo nel linguaggio professionale dell’architettura e della
pianificazione, quanto piuttosto nell’inaugurazione di una ‘arena di congetture’ che
incorpori prospettive politiche e culturali
variegate attraverso la partecipazione di
una moltitudine di individui e organizzazioni. Un programma di residenza architettonica aperto e collaborativo ha quindi
dovuto sostituire le consolidate modalità
della produzione architettonica.
I progetti che seguiamo esaminano e sondano i campi delle forze politiche, legali e
sociali attraverso una serie di interventi
architettonici. Combinando discorso, intervento spaziale, istruzione, apprendimento collettivo, incontri pubblici e sfide
legali, il tentativo è quello di avviare la disciplina e la prassi dell’architettura – intesa come la produzione di edifici e
strutture urbane elevate – in reti di ‘pratiche spaziali’ mobili che includano varie
altre forme di intervento. Il programma di
residenza ha finora riunito gruppi di affermati professionisti internazionali – architetti, artisti, attivisti, urbanisti, registi
e curatori – per lavorare collettivamente
all’interno della cornice che avevamo costituito. Un esempio di queste collaborazioni è il lavoro di Salottobuono, che ha
passato l’estate 2008 in Palestina componendo e schematizzando le strategie
sviluppate in studio dall’inizio del programma. Inoltre ha avuto luogo per tutta
la durata dell'estate 2010 il Battir International Summer Program, una summer
school dal titolo Urban Studies and Human Right in context supportata da Unesco, Al-Quds University/Bard Honors
College e Battir Village Council. Nell’ambito di questa sono state ospitate numerose lectures che hanno toccato diversi
temi legati all’impatto e ai mezzi con cui
l’attività normativa agisce e regola lo spazio fisico del quotidiano e la sua fruizione,
oltre a tavole rotonde e fieldworks dedicati
in particolare ai gruppi di studenti dell'AlQuds University/Bard Honors College e
ad un gruppo internazionale di architetti
e artisti. Questi ultimi sono stati chiamati
a rielaborare parallelamente il tema di ricerca sotto forma di produzione artistica
ed architettonica, attualmente confluite
nella mostra The Red Castle and the
lawless line ospitata presso la Galleria
0047 di Oslo fino al 24 Ottobre 2010, che
esplora l’elemento delle linee di confine e
le dinamiche legate alla loro instabilità nel
momento del loro impatto sulla scala architettonica e sullo spazio domestico.
Info e approgondimenti
www.decolonizing.ps
Dettaglio del plastico dell’area di Psagot
per il progetto Proximity, Decolonizing Architecture
18 — Addizione
Un parco
con qualcosa in più
Intervista al paesaggista Gianluca Cosmacini di Raffaella Bucci
Domanda Nella definizione del progetto
del PAV da un punto di vista artistico e
architettonico, quanto è stato vincolante
il luogo in cui il PAV si è inserito?
Risposta Il PAV è stato realizzato sul territorio di un’area industriale dismessa,
spazio in tensione verso un’inedita trasformazione che è diventata oggetto,
per una pluralità di attori, di trattative
finalizzate alla sua realizzazione in sostituzione di un più tradizionale parco
urbano attrezzato. Anche il lavoro con
gli artisti, nella fase preliminare, è stato
utile per svelare le qualità dello spazio:
uno spazio ibrido in cui si assiste a una
vita pionieristica animata dall’insediamento di molte specie vegetali dotate di
una vitalità propria. L’idea progettuale si
è precisata in questa fase del processo
e a partire da alcune osservazioni: un
parco, non totalmente progettato con
un linguaggio formale, che si struttura
e si definisce attraverso la ‘processualità’ del vivente, cioè attraverso le relazioni che si formano tra piante, animali,
persone e che generano trasformazioni
inaspettate e non determinate a priori di
questo frammento di paesaggio urbano.
I vincoli sono derivati prevalentemente
dal sottosuolo e dalle caratteristiche del
suolo, dalla sua stratigrafia, dai relitti di
manufatti e sottoservizi antichi e recenti
contenuti al suo interno, che però hanno
rappresentato anche una opportunità
per entrare in relazione con il luogo e la
sua storia, anche utilizzando il metodo e
il punto di vista originale degli artisti che
partecipano al progetto culturale e artistico del PAV.
D Quali limiti, quali sfide e al tempo stesso
quali opportunità ne sono derivate?
R Una delle sfide è portare all’esterno
l’esperienza del PAV. Il territorio del
PAV, i suoi tre ettari non si devono configurare come un hortus conclusus ma
sviluppare un’osmosi dei confini, che
implica una relazione tra il dentro e
il fuori. Tra PAV e città. È vitale ridefinire i parametri tradizionali del concepire e fare esperienza del paesaggio,
aprendosi alla creatività delle persone
(il pubblico), risorsa e strumento imprescindibile dell’idea di abitare, collettivamente e individualmente, questo luogo.
Questo vuol dire assumere una prospettiva di ‘colonizzazione’ del territorio
urbano per portare questa esperienza
in altre realtà sociali e luoghi della città.
Il limite non è nello spirito, ma nelle risorse economiche disponibili nella gestione del progetto.
D Qual è il confine tra la componente naturale e spontanea e la componente artificiale e progettata nel disegno del PAV?
r Non esiste questo confine e se c’è è
mentale. Non esiste una opposizione tra
naturale e artificiale. I luoghi della naturalità
sono spazi oggetto di azioni di salvaguardia e in questo senso spazi ‘progettati’.
Pochi nel pianeta sono i luoghi naturali
che presentano un’autonomia evolutiva
incontaminata: gli habitat marini e artici,
alcune foreste pluviali. Al PAV la naturalità presente è frutto di un progetto, tutto il
territorio è un intreccio di componenti naturali e artificiali. Per esempio, scegliere la
miscela di sementi locale è questione non
secondaria. L’uso di semi di origine locale
con germoplasma di provenienza nota
evita fenomeni di inquinamento genetico
nel rispetto della biodiversità floristica.
E allora il termine ‘naturale vs artificiale’
assume un’altra prospettiva. La naturalità (natura) dobbiamo proteggerla, incrementarla, salvaguardarne l’evoluzione
anche spontanea, nel senso che l’esito
non è definibile a priori e questo comunque è un atto progettuale, consapevole.
Tutto questo è nelle intenzioni del PAV:
un progetto evolutivo, un ‘cantiere ininterrotto’ appunto, un intreccio dialogico
di esperienze aperto alle alterità innovative, in omologia con i sistemi viventi
della biosfera, un luogo di negoziazione
tra uomini e cose, un territorio artistico in
evoluzione, un modello di sviluppo sostenibile tra le pratiche artistiche e lo spazio
d’esposizione dove le ‘opere’ si producono e si mostrano.
D L’arte al centro del progetto del PAV
è definita ‘relazionale’. Che cosa la
caratterizza?
r Il PAV si struttura e si definisce attraverso la ‘processualità’ del vivente, cioè
attraverso le interconnessioni che si formano tra piante, animali, persone e che
generano trasformazioni inaspettate e
non determinate a priori del paesaggio
urbano. Il progetto del parco fa proprie
le sollecitazioni degli artisti, le relazioni di
questi con l’ambiente, con i suoi vincoli e
le sue potenzialità, con il gruppo di lavoro
del PAV, con il pubblico e le committenze
sociali, in un sistema di interazioni in cui
il territorio è il luogo di produzione e di
esposizione delle opere, dove le opere,
entrando in rapporto fra loro, concorrono al processo di costruzione di questo frammento di paesaggio urbano.
Ecco il valore aggiunto. Il progetto si
pone come obiettivo la crescita culturale
della persone, e architettura e paesaggio
sono un mezzo e non un fine.
Ph © Mattia Boero © PAV 2010
Addizione — 19
Il risultato è superiore alla somma
Moltiplicazione
‘Partecipare’ significa guardare lo spazio che ci
circonda con attenzione e provare a ridisegnarlo
per le necessità proprie e della collettività.
Gli spazi che ci sono stati consegnati come
standardizzati, dai cortili delle scuole alle aree
gioco, possono assumere nuova vitalità
Giuseppe Borgogno
Il Laboratorio
Città Sostenibile
Le schede
Il Piano territoriale Torino, Città in Gioco
La città è un luogo di tutti. E tutti
partecipano alla sua progettazione
Il Piano strategico delle aree gioco urbane
Gli spazi per il gioco e la socializzazione
Le Colline del Valentino
Il Progetto unitario cortili scolastici
Pier Giorgio Turi
“Se voi architetti potete far
realizzare queste cose…”
Ph © Gloria Pasetto, NY my way
Esplorare, confrontare, progettare:
i bambini costruiscono un futuro
sostenibile
22 — Moltiplicazione
Il Laboratorio
Città Sostenibile
Sostenibilità vuol dire partecipare alle scelte di trasformazione urbana
Giuseppe Borgogno
La Città di Torino, ormai da molti anni,
investe sui suoi cittadini più piccoli una
parte rilevante delle risorse economiche
dell’Amministrazione, nella convinzione
che per bambini e ragazzi sia importante
vivere in una città piena di stimoli, di culture, di occasioni.
Una scelta che si collega con le grandi
esperienze educative del passato, dagli oratori alle sperimentazioni didattiche
stimolate dal Movimento di cooperazione educativa che hanno fatto di Torino un modello nel panorama italiano
per quanto riguarda l’offerta formativa
collegata al tempo scuola.
Il sistema educativo comunale è costituito, infatti, non solo da nidi e scuole
dell’infanzia ma anche da laboratori didattici, organizzati in centri di cultura per
l’infanzia e l’adolescenza, mirati al territorio e all’esplorazione della realtà fisica e
sociale che ci circonda.
Con deliberazione del Consiglio comunale del 15 novembre 2004, è stata approvata la costituzione di una Istituzione
comunale, denominata ITER (Istituzione
Torinese per una Educazione Responsabile), a cui affidare la gestione delle
attività educative e culturali condotte dai
centri di cultura.
L’Istituzione si inserisce all’interno del sistema educativo comunale fornendo un
ulteriore contributo al dibattito sul ruolo
dell’Ente locale nel campo della formazione. Confronto che vede la Città di Torino affiancare le istituzioni scolastiche
nella costruzione di una scuola di qualità che può contare su un vero e proprio
piano formativo del territorio, visto come
luogo di eccellenza per la costruzione e
consumo di conoscenza. Nella città, infatti, è possibile sviluppare processi di
coinvolgimento diretto di tutta la comunità, affinché la crescita di tecnologie, le
trasformazioni economiche, sociali e culturali siano fattori in grado di migliorare la
vita di tutti i cittadini.
Lo sfondo pedagogico che caratterizza
l’intervento di ITER è sintetizzabile nella
costruzione di un “progetto condiviso in
grado di garantire la promozione dell’autonomia del bambino cittadino attraverso
un percorso di crescita responsabile che
spazi tra il tempo scuola e il tempo libero”.
Nell’ambito della valorizzazione del protagonismo giovanile si inseriscono le
attività del Laboratorio Città Sostenibile,
che dall’aprile del 2010 è entrato a far
parte di ITER.
Il Laboratorio Città Sostenibile, istituito
nel 1999 dalla Città di Torino, si pone
come obiettivo di sviluppare azioni volte
al riconoscimento del diritto dei cittadini
a vivere in un clima di relazioni significative e in una dimensione urbana sostenibile. Oggi è una struttura che traduce
scelte politiche facenti capo a sei assessorati: Risorse educative, Ambiente,
Arredo e rigenerazione urbana, Verde
pubblico, Viabilità e trasporti, Decentramento e area metropolitana.
In questa cornice le coordinate entro le
quali si collocano le azioni del Laboratorio Città Sostenibile fanno riferimento
ad alcuni ‘concetti chiave’: la diffusione
dell’idea di città come ‘luogo di tutti’; i
‘soggetti deboli’ di una città sono la misura della sua sostenibilità sociale e pertanto possono essere assunti come
parametro di riferimento per scelte di trasformazione urbana; i processi di trasformazione urbana in chiave sostenibile
richiedono la promozione di politiche partecipative dalle quali bambini e ragazzi
Moltiplicazione — 23
non possono essere esclusi; la promozione di una cultura urbana della sostenibilità favorisce una migliore qualità della
vita; accrescere la formazione dei cittadini, a partire dai più giovani, quali soggetti
attivi di cambiamento e di sviluppo locale.
Nel corso della sua attività il Laboratorio Città Sostenibile ha, finora, coinvolto
più di 5000 tra bambine, bambini, ragazze, ragazzi e adulti in progetti dedicati alla cura e trasformazione degli spazi
urbani attraverso percorsi di partecipazione. Progetti che attraverso la lettura e
l’interpretazione della città contemporanea cercano di comprendere come viene
vissuta, quali criticità presenta e quali interventi sono ritenuti prioritari per migliorarne la qualità sociale e ambientale.
In tutti i progetti i percorsi partecipativi sono condotti da architetti tutor, una
nuova figura professionale nata dalla collaborazione con l’Ordine degli Architetti
PPC della provincia di Torino, che operano in qualità di ‘facilitatori’ per accompagnare i soggetti di volta in volta
coinvolti in analisi territoriali, in discussioni su criticità ed opportunità e nello sviluppo di proposte progettuali ‘sostenibili’.
Il percorso metodologico adottato dal
Laboratorio Città Sostenibile in genere si
articola in 4 fasi principali: un percorso
di esplorazione e di conoscenza di ambienti architettonici e di spazi urbani
per indagarne caratteristiche e qualità.
Le osservazioni emerse convergono in
mappe condivise che illustrano i luoghi
ritenuti particolarmente significativi e le
opportunità o le criticità riscontrate per
ogni luogo; una fase di confronto per
passare da una visione individuale ad
uno ‘sguardo comune’, finalizzato ad
elaborare delle proposte di intervento da
segnalare alla Città; un percorso di progettazione partecipata per trasformare
le idee in un vero e proprio progetto di
trasformazione o di personalizzazione
dei luoghi segnalati nelle proposte di intervento; la traduzione tecnica dei progetti partecipati, direttamente curata dal
Laboratorio, per facilitare il passaggio
dal piano della creatività a quello della
fattibilità. Un’attività indispensabile per
consentire alla Città di programmare,
sulla base di effettive dimensioni d’intervento e di disponibilità economiche,
alcune delle opere proposte e che ha
portato alla realizzazione di numerosi interventi in complessi scolastici e distribuiti sul territorio.
Come si evince dal processo educativo illustrato, l’intervento del Laboratorio Città Sostenibile favorisce la reale
partecipazione di bambini e ragazzi nelle
scelte che riguardano il contesto in cui
vivono. Si tratta di una modalità che si
colloca nel filone dell’apprendimento sociale necessario per costruire un futuro
responsabile. Futuro responsabile che
potrà realizzarsi solo se la partecipazione alla vita cittadina non si limiterà al
conferimento di deleghe a qualcuno che
deve pensare a tutto, ma ad un continuo
confronto con gli altri e i loro interessi e
visioni dei problemi.
L’esperienza sviluppata dal Laboratorio
ha contribuito nel 2001 all’attribuzione
alla Città di Torino del premio per il Migliore progetto per una Città Sostenibile
delle Bambine e dei Bambini e nel 2007
e 2008 a collocare Torino al primo posto
nella classifica del Rapporto Ecosistema
Bambino di Legambiente sulle città italiane che promuovono politiche a favore
della partecipazione degli under 14.
24 — Moltiplicazione
Laboratorio Città Sostenibile
Città di Torino
ITER – Istituzione Torinese
per una Educazione Responsabile
Assessorati
Risorse educative (coordinamento)
Ambiente e politiche per la casa e il verde
LABORATORIO
CITTÀ SOSTENIBILE
Politiche per l’integrazione
CITTÀ
DI TORINO
Viabilità
e trasporti
ITER
– IstituzioneeTorinese
Decentramento
area metropolitana
per una Educazione Responsabile
Direttore ITER
Assessorati
Umberto Magnoni
Risorse educative (coordinamento)
Ambiente
e politiche
per la casa e il verde
Coordinamento
pedagogico
Politiche
per l’integrazione
Marisa Cortese
Viabilità e trasporti
Decentramento
e area metropolitana
Coordinamento tecnico-scientifico
e architetti tutor
Direttore
ITERTuri
Pier Giorgio
Umberto Magnoni
Ufficio ricerca e progettazione
Coordinamento
pedagogico
Raffaella Leonforte
Bruno, Maria Bucci,
Marisa
Cortese
Cosmina
Tunno, Annamaria Ventura
Coordinamento
Architetti tutor tecnico-scientifico
eArianna
architetti
tutorMara Brunetto, Maria Antonietta
Borda,
Pier
Giorgio Elena
Turi Ferrari, Elisabetta Liore,
Cengiarolo,
Paola Masuelli, Milena Misia, Cristina Viani
Ufficio ricerca e progettazione
Raffaella
Leonforte
Bruno, Maria Bucci, Cosmina
Segreteria
organizzativa
Tunno,
Annamaria
Ventura Varvelli
Gabriella
Mazzoli, Antonella
Architetti tutor
Arianna Borda, Mara Brunetto, Maria Antonietta
Cengiarolo,
Ferrari,
Liore,
Dal 2003 è Elena
in vigore
una Elisabetta
convenzione
tra Paola
Città di
Masuelli,
Milenadegli
Misia,
Cristina estesa
Viani dal 2004 alla
Torino e Ordine
Architetti,
Fondazione dell’Ordine degli Architetti, sul tema
Segreteria
architetturaorganizzativa
e città sostenibile che include la promoGabriella
Mazzoli,
VarvelliCittà Sostenibile
zione delle
attività Antonella
del Laboratorio
Moltiplicazione — 25
Il Piano territoriale Torino, Città in Gioco
Le informazioni prodotte durante i percorsi
di esplorazione del contesto urbano, svolti
a partire dal 2003 con le scuole, sono raccolti in un Piano territoriale che restituisce
l’immagine collettiva di una città raccontata attraverso icone urbane e punti di riferimento sociale. Una città caratterizzata
da piccole centralità: spazi dedicati al
gioco e all’aggregazione, percorsi pedonali e ciclabili utilizzati ogni giorno, piccole
e grandi attività commerciali riconosciute
come proprie, ma anche edifici nei quali i
bambini e i ragazzi si identificano. In questa rappresentazione gli osservatori acquistano consapevolezza del proprio
ruolo e delle proprie capacità di ‘esperti’
che abitano e che appartengono ai luoghi rappresentati sulla mappa, mettendo
in luce temi trasversali da porre all’attenzione dell’Amministrazione: la necessità
di ritrovare in città la dimensione del gioco
e dell’aggregazione in luoghi con una migliore qualità urbana, una maggiore attenzione al verde, il bisogno di muoversi in
sicurezza e autonomia ristabilendo l’equilibrio tra mobilità veicolare e pedonale, la
necessità di rispondere alle esigenze di
accessibilità e comfort di tutti, la richiesta
di individuare nuove regole per la trasformazione, la cura e la manutenzione dello
spazio pubblico nella quale essere tutti ‘un
po’ più protagonisti’.
a cura di
Laboratorio Città Sostenibile
con la collaborazione delle scuole
che hanno partecipato al progetto
Torino, Città in Gioco
© Ferruccio Capitani
26 — Moltiplicazione
Il Piano strategico delle aree gioco urbane
In una città garantire il ‘diritto al gioco’ è
una condizione essenziale per riconoscere ai bambini e ai ragazzi una effettiva
dimensione di cittadinanza. Da questo
presupposto è nata nel 2004 l’idea di elaborare un ‘piano’ che rispondesse alla richiesta di bambini e ragazzi di ripensare
la natura e la qualità degli spazi urbani dedicati al gioco, ma anche all’esigenza di
definire nuove modalità di pianificazione e
gestione delle oltre 270 aree attrezzate allora presenti sul territorio cittadino.
Il Piano strategico delle aree gioco urbane assume, in risposta a questa diffusa domanda, un particolare indicatore
urbanistico: le esigenze del ‘cittadino
bambino’ come parametro di qualità urbana. La lunga costruzione del Piano,
conclusa nel gennaio 2010 con l’approvazione da parte della Giunta comunale
del progetto definitivo, si è strutturata
sulla base di un’articolata valutazione
qualitativa nella quale per ogni singola
area è stata analizzata posizione territoriale, morfologia, caratteristiche ambientali, contesto urbano e sociale,
collegamenti ciclo-pedonali, livelli manutentivi e vicinanza con punti sociali
‘sensibili’. I risultati sono stati incrociati
con una raccolta di osservazioni pubbliche, dando vita ad uno strumento di
pianificazione decisamente inusuale per
una Pubblica Amministrazione che oggi
pone le basi per la riqualificazione, lo sviluppo e la manutenzione di un vasto patrimonio di spazi sociali.
Coordinamento progettuale
Pier Giorgio Turi
(Laboratorio Città Sostenibile)
Responsabile Settore Gestione Verde
Gabriele Bovo
Gruppo di lavoro
Maria Bucci, Annamaria Ventura
(Laboratorio Città Sostenibile)
Collaborazione
Luca Valperga
Settore Gestione Verde
© Tiziano Cirigliano
Moltiplicazione — 27
Gli spazi per il gioco e la socializzazione
Tra i numerosi interventi oggetto di progettazione partecipata sono state di particolare interesse le esperienze realizzate
per i Parchi del Valentino e di Spina 4.
Nel 2006 l’area di viale Ceppi, una tra le più
utilizzate del Parco del Valentino, diventa
oggetto di un laboratorio di progettazione
partecipata con i bambini e i ragazzi del
quartiere San Salvario, che si è ulteriormente arricchito nel 2008 con un’esperienza animata dal designer James Irvine.
Un lavoro che ha portato ad interpretare l’asse di viale Ceppi come un nuovo
grande spazio che si snoda sinuoso e
collega i diversi episodi dedicati al gioco,
alla socializzazione, al relax e allo sport.
Tra gli elementi più caratterizzanti vi sono
un roller-ground, due labirinti-gioco, un’area
fitness e le ‘Colline del Valentino’, strutture
gioco che ‘emergono’ dalla superficie di
un vasto prato sintetico.
Da un percorso avviato nel 2007 con i
bambini della Scuola elementare Pestalozzi, nasce inoltre, in un’ampia zona di trasformazione urbana a nord di Torino, l’area
gioco del Parco di Spina 4. Uno spazio di
oltre 1.700 metri quadrati che ruota intorno a un nucleo centrale a forma di ‘cratere’ e a due ‘satelliti’ che diventano luogo
delle interazioni, degli incontri e dell’organizzazione di attività ludiche individuali o di
gruppo. Tutta l’area è occasione di sperimentazione: l’accostamento tra i diversi
materiali esalta le differenze tattili, i colori
delle superfici, le forme insolite, le visuali
sempre nuove, offrono uno scenario dove
i bambini possono muoversi in libertà e
misurarsi con le proprie capacità.
Settore tecnico Grandi opere
del verde pubblico
Riccardo Guala
Settore Gestione verde
Gabriele Bovo
Progettisti
Paolo Miglietta (Coordinatore)
Piergiorgio Amerio, Flavio Aquilano,
Ferruccio Capitani, Cristina Cavalieri,
Loredana Di Nunzio, Elena Hartog,
Giovanni Besusso
Stefania Camisassa (Coordinatore)
Mario Andriani, Marco Bet,
Piero Fassino, Piero Ferrando,
Michelangelo Merlo, Gabriella Mosca
Laboratorio Città Sostenibile
Pier Giorgio Turi
Progettisti
Mara Brunetto, Raffaella Leonforte Bruno,
Maria Bucci, Paola Masuelli, Cosmina Tunno
Progettazione partecipata
Arianna Borda, Mara Brunetto,
Paola Masuelli, Cristina Viani
28 — Moltiplicazione
Le Colline del Valentino
Nel quadro dell’evento Torino Geodesign inserito nelle manifestazioni di Torino
2008 World Design Capital è stata realizzata un’intensa esperienza di progettazione che ha visto coinvolti un gruppo
eterogeneo di giovani committenti e il designer James Irvine, progettista affermato
a livello internazionale. L’incontro è nato
dalla necessità espressa dai ragazzi, già
coinvolti in un percorso di progettazione
di un’area gioco all’interno dello storico
Parco del Valentino, di trovare una soluzione a un tema particolarmente difficile:
risolvere l’impatto prodotto da dieci ingombranti oggetti (le prese d’aria poste
sulla copertura di un parcheggio sotterraneo) distribuiti su un vasto prato sintetico
che, inaspettatamente, è diventato nel
tempo un punto di riferimento del Parco,
particolarmente vivo e molto utilizzato.
Mettendosi completamente in gioco James Irvine ha coinvolto i ragazzi in un
laboratorio creativo e dialogico, dove è
stato ripensato lo spazio e sono state progettate soluzioni per rendere accessibili
e piacevoli anche delle invadenti bocche
di areazione. Le ‘Colline del Valentino’
diventano così luogo di gioco, creano
volumi inediti e divertenti, rompono con
la monotonia dell’area, sollecitano i ragazzi ad arrampicarsi, a sperimentare, a
‘vedere dall’alto’ e, soprattutto, a incontrarsi all’ombra di un luogo riconoscibile
e riconosciuto.
Torino 2008 WDC
Torino Geodesign
Laboratorio Città Sostenibile
Progettista
James Irvine
Progettazione partecipata
Mara Brunetto, Paola Masuelli
(Laboratorio Città Sostenibile)
Collaborazione
Agenzia San Salvario
ASAI
Oratorio San Luigi
Realizzazione modelli
Cooperativa Sociale Piero & Gianni
Moltiplicazione — 29
Il Progetto unitario cortili scolastici
La riqualificazione dei cortili scolastici,
luoghi che in alcune situazioni urbane costituiscono gli unici spazi dove bambini
e ragazzi possono giocare e incontrarsi
all’aperto in un territorio ‘protetto’, si inserisce nelle riflessioni avviate con il Piano
strategico per le aree gioco urbane.
Così a partire dalla forte richiesta espressa
da bambini e ragazzi di personalizzare
questi luoghi del ‘quotidiano’, per migliorarne la qualità ambientale con adeguati spazi per la socializzazione e con
nuove soluzioni per il gioco o per la didattica all’aperto, prende avvio il Progetto
unitario cortili scolastici. Un progetto nel
quale il cortile diventa il principale luogo
di connessione tra la città e la scuola e un
importante punto di riferimento sociale per
l’intera comunità scolastica. Spazi che si
trasformano in luoghi del progetto partecipato, dove sperimentare nuove soluzioni
per armonizzare interventi edili, arredi e
sistemazioni a verde e che sono concepiti per permettere la libera espressione
della fantasia, l’utilizzo non convenzionale
di superfici e attrezzature, con spunti innovativi per il gioco, la socializzazione e
la didattica, utilizzando gli elementi naturali, le movimentazioni del terreno, i differenti materiali, gli elementi decorativi e la
capacità compositiva frutto della collaborazione creativa tra architetti e bambini.
Settore Edilizia scolastica manutenzione
Pierluigi Poncini, Isabella Quinto
Progettisti
Susanna Aimone Mariota (Coordinatore)
Claudio Cornetto, Piero Rosso
Laboratorio Città Sostenibile
Pier Giorgio Turi
Progettisti
Raffaella Leonforte Bruno, Maria Bucci,
Cosmina Tunno, Annamaria Ventura
Progettazione partecipata
Arianna Borda, Mara Brunetto,
Maria Antonietta Cengiarolo, Elena Ferrari,
Elisabetta Liore, Paola Masuelli, Milena Misia,
Marina Santangeli, Cristina Viani
30 — Moltiplicazione
“Se voi architetti
potete far realizzare
queste cose...”
(Matteo, 11 anni)
Gli architetti tutor dei bambini per ridisegnare la scuola
Pier Giorgio Turi
Il Laboratorio Città Sostenibile è una
struttura con un’esperienza ormai più
che decennale che interviene in progetti
nei quali è possibile armonizzare percorsi
educativi, forme di partecipazione e attività progettuali, promuovendo il metodo
della collaborazione multidisciplinare
e della trasversalità operativa tra diversi settori dell’amministrazione locale.
Un’attività strutturata all’interno dell’organizzazione comunale che nel tempo
si è aperta a numerose collaborazioni
esterne, tra le quali la più consolidata
è certamente quella con la Fondazione
OAT e con l’Ordine degli Architetti della
Provincia di Torino che ha permesso di
istituire una nuova figura professionale –
l’architetto tutor – che si è rivelata fondamentale per le attività del Laboratorio CS.
Una professionalità, con alle spalle un
percorso formativo specifico, con cui si
sono sviluppati i percorsi di conoscenza
della città e della sua architettura, la costruzione di piani territoriali a partire dal
punto di vista dei bambini e dei ragazzi,
la conduzione di attività di progettazione
partecipata su spazi educativi, aree verdi
e spazi pubblici, la promozione di azioni
territoriali sul tema della mobilità sostenibile o di natura sociale a favore della sicurezza urbana.
Questo insieme di azioni sono raccolte
nel progetto Torino, Città in Gioco, un
percorso che ogni anno il Laboratorio CS
offre ad un numero selezionato di scuole
a cui propone di diventare ‘osservatorio urbano’, ovvero un luogo privilegiato
di coinvolgimento e di partecipazione sui
temi della trasformazione e cura del territorio. Il percorso prevede un ‘contratto’
iniziale con i ragazzi nel quale la Città si
impegna a mettere a disposizione risorse,
strumenti e competenze per un reale percorso di conoscenza e di progettazione.
Analogo patto è stipulato con le scuole
che s’impegnano ad inserire a pieno titolo l’attività nella loro programmazione
didattica. Gli insegnanti coinvolti vengono affiancati dagli architetti tutor del
Laboratorio CS che accompagnano tutto
il percorso, supportano la dimensione
tecnica della progettazione e si coordinano con i settori dell’Amministrazione
coinvolti di volta in volta per competenza.
Torino, Città in Gioco si sviluppa lungo un
intero anno scolastico secondo un processo metodologico articolato in quattro
fasi. La premessa è che la scuola ‘osservatorio urbano’ adotti come campo d’indagine il proprio complesso scolastico
e una parte di territorio circostante; la
scuola viene così intesa come ‘parte’ fisica e sociale della città con la quale intreccia relazioni urbanistiche e sociali.
Un ambito territoriale che diventa il riferimento per la prima fase del percorso
progettuale: l’esplorazione. Un’attività di
importanza fondamentale per l’architetto
tutor, che permette di acquisire una visione della realtà architettonica e urbana
vista attraverso gli occhi e le opinioni dei
bambini e dei ragazzi, a loro volta protagonisti di una lettura dei propri territori
fatta con ampi gradi di libertà espressiva
e di metodo d’indagine. Infatti l’obiettivo
a cui si tende è la costruzione di ‘mappe’
che rappresentino la reale percezione
che i bambini hanno della propria scuola
e dell’ambito di città esplorato. Carte
che ‘raccontano’ l’esplorazione, punto
per punto, attraverso testi, fotografie,
Moltiplicazione — 31
disegni, grafici, interviste, che descrivono le caratteristiche e le qualità dei
luoghi. Sono carte che esprimono una
percezione dell’architettura e della città
secondo una prospettiva certamente diversa dai tradizionali approcci di analisi
urbana, dalla quale emergono le criticità, ma soprattutto le opportunità, di
territori letti secondo indicatori di qualità ambientale condivisa con i bambini
ed i ragazzi, quali il colore, la luce, il rumore, i luoghi riconoscibili, quelli piacevoli o sgradevoli, pericolosi o sicuri, belli,
brutti, adatti al gioco, da evitare, con architetture che colpiscono, con negozi,
attività, servizi e spazi di aggregazione,
luoghi ‘amici’ o ‘nemici’, con strade pericolose o sicure, con percorsi pedonali
e ciclabili, con aree a parcheggio codificate e non oppure attraversamenti particolarmente difficili, se non impossibili.
Questo patrimonio informativo diventa
lo strato di conoscenza ‘critica’ su cui
si fonda la seconda fase del percorso:
la visione condivisa delle criticità e delle
opportunità territoriali per individuare
potenzialità progettuali e proposte d’intervento. Uno snodo importante del progetto con il quale si propone alle scuole
un’esperienza di ‘democrazia partecipativa’ per costruire una visione di sintesi
e il più possibile condivisa dell’ambito
urbano adottato. Attraverso un confronto, articolato per passaggi successivi, tra bambini e ragazzi, esteso
successivamente ad insegnanti e genitori, l’architetto tutor conduce, prima le
singole classi e poi i loro rappresentanti,
all’elaborazione di una proposta condivisa da tutta scuola, nella quale le criticità e le opportunità sono tradotte in
segnalazioni d’intervento e vengono
scelte le tre proposte progettuali con le
loro priorità – subito, presto, dopo – da
presentare alla Città.
Proposte che diventano protagoniste
del terzo passaggio metodologico, i laboratori di progettazione partecipata,
nei quali ci si misura con la dimensione
del progetto architettonico o urbano. Insieme architetti, bambini e ragazzi confrontano la loro creatività con i vincoli
legati ad aspetti normativi, di limite fisico
degli spazi, di risorse disponibili e di soluzioni tecniche praticabili, per giungere
ad una vera e propria proposta progettuale corredata da disegni, plastici e testi.
Progetti che, dopo la loro presentazione
all’intera comunità scolastica, vengono
presi in carico dal gruppo di progettazione del Laboratorio CS che si occupa
di avviare l’ultima fase del percorso metodologico: la traduzione tecnica dei progetti partecipati. Un passaggio strategico
per trasferire le idee dal piano della creatività a quello della fattibilità, un’attività
indispensabile per trasformare le proposte delle scuole in progetti tecnici
utili per programmare, sulla base di effettive disponibilità economiche, alcune
delle opere proposte. Il percorso con le
scuole si conclude con la presentazione
dei progetti preliminari, già approvati
dalla Giunta comunale, in un incontro tra
architetti e bambini nel quale si esamina
il progetto, si valutano le affinità con la
proposta originale, si raccolgono le osservazioni utili ad eventuali modifiche da
apportare nel progetto definitivo e si formalizza l’accettazione, da parte del dirigente scolastico a nome della scuola,
delle opere progettate, che in molte
occasioni sono poi state realizzate.
Gli oltre dieci anni di lavoro del Laboratorio CS e gli esiti raggiunti, visibili in molte
parti di città, hanno consolidato un metodo d’intervento e figure professionali –
oggi sempre più richieste anche in azioni
territoriali complesse – che hanno prodotto strumenti di pianificazione a scala
urbana che collocano al centro della riflessione il bambino come parametro di
qualità urbana collettiva. Un’esperienza
che attraverso la Fondazione OAT si
sta estendendo anche ad altri Comuni
della provincia di Torino come Moncalieri, Rivalta, Grugliasco, Nichelino, dove
sono stati avviati i primi incontri, o Rivoli e Collegno nei quali si è già giunti
alla definizione di un accordo per avviare
il coinvolgimento degli architetti tutor in
progetti da svilupparsi nell’anno scolastico che è appena iniziato.
Sono risultati che, anche al di là delle
opere realizzate, dimostrano come sia
realmente possibile accreditare la voce
dei cittadini più giovani nella costruzione
delle scelte di trasformazione urbana
della propria città. L’ambiente urbano
diviene così scenario che anima un percorso di educazione alla cittadinanza
nel quale, toccando con mano i problemi, si comprende l’importanza che
assumono l’architettura e l’urbanistica
per migliorare la qualità della vita di tutti
noi e nel quale la partecipazione, sviluppata all’interno di un processo educativo
– seppur con tutti i limiti e le contraddizioni – diventa non solo buona pratica,
ma anche speranza di veder crescere
nelle generazioni future la consapevolezza dell’essere cittadino responsabile
in una ‘città sostenibile’.
Ciò non toglie
Sottrazione
Ridurre il superfluo, eliminare gli sprechi,
isolare i particolari, nascondere per attirare
l’attenzione. Nell’età dell’eccesso, per far sentire
la propria voce, bisogna diventare più silenziosi
Gayle Chong Kwan
Quel che resta della città
Con gli scarti prodotti ogni giorno
si può costruire o ricostruire una città
Andrea Segrè
Non sprecare:
almeno nel tuo frigorifero
L’equazione ‘meno rifiuti = meno
inquinamento’ impone l’imperativo
ecologico di ridurre lo spreco
Gianluca Gobbi
Less is more
Istantaneità, ubiquità e intimità
sono le caratteristiche di un
medium senza corpo come la radio
Walid Mawed
Waiting for Water:
fluire di acqua, fluire di genti
Per riflettere sull’importanza dell’acqua
è necessario che non sia visibile.
Solo l’assenza ne mette in luce la presenza
Bruna Biamino
Una slow fotografa
tra essenzialità e misura
Ph © Matteo Ghisalberti, In my town
Concentrazione nell’inquadratura, pochi
ritocchi al computer, riduzione del superfluo
per una maggiore attenzione ai particolari…
i trucchi svelati
34 — Sottrazione
Quel che resta della città
Dallo scarto può prendere forma anche una città. Parigi, un tempo meta dei Grand Tour
degli aristocratici e rinomata come capitale dei gourmet, è ora rappresentata
(e costruita) tramite gli scarti prodotti dai suoi abitanti e raccolti dall’artista
nelle strade e nei marciapiedi parigini. La serie di fotografie Paris Remains raffigura
vedute della città che ripercorrono le fasi della pianificazione urbana.
Ma più che il progresso si rappresenta qui il declino
Gayle Chong Kwan
Non sprecare:
almeno nel tuo frigorifero
Qualcosa rimane. Non tutto il cibo può essere cucinato e consumato e molti prodotti
alimentari vengono destinati alla discarica a ridosso della loro data di scadenza.
Last Minute Market è il progetto che da sette anni insegna a rimettere in circolazione
questa merce scartata ma ancora commestibile da destinare a mense pubbliche.
Il messaggio è farci meno abbagliare da offerte speciali che lasciamo marcire
in frigorifero: meno rifiuti, più civiltà. Il 2010 è l'anno della campagna europea
Un anno contro lo spreco. Un'occasione davvero imperdibile
Andrea Segrè
Sottrazione — 35
Gayle Chong Kwan, 7.02, Paris Remains (series), 2008
È oramai necessario che la città e i suoi
abitanti si rendano conto che le risorse
sono limitate e che troppo spesso vengono sprecate, anche e soprattutto nelle
aree urbane dove la concentrazione antropica è maggiore: nei negozi, nei centri
commerciali, nei ristoranti, nelle farmacie, soprattutto nelle nostre case e in
particolare nei nostri frigoriferi – i più
grandi giacimenti di prodotti pronti per
essere gettati via – ma ovunque in verità. Del resto, la merce prodotta e accumulata se non viene consumata deve
essere in qualche modo eliminata, distrutta, al limite regalata, per fare posto
agli altri prodotti che vengono continuamente ‘sfornati’ dal mercato stesso. Dove
metteremmo altrimenti quelli nuovi? Lo
spreco è un valore aggiunto del mercato,
ne fa parte: si accumula. Usa e getta, obsolescenza programmata sono ormai le
parole d’ordine del nostro sistema produttivo. Che genera rifiuti, inquinamento,
malessere, povertà.
Cosa significa sprecare? “Consumare
inutilmente, senza frutto; usare in modo
che determinate qualità o quantità di
una cosa vadano perdute o non vengano utilizzate”. Chiaro, ma non completo. Bisogna entrare nei particolari per
capire meglio questo “consumare senza
discernimento”. Sprecare, dunque sempre legato al verbo consumare, significa
in particolare: “non utilizzare proficuamente o nel modo giusto”. Non a caso
nella società contemporanea lo spreco
costituisce sempre più spesso il frutto
non tanto e non solo dell’eccessivo
consumo, quanto del mancato utilizzo
di un determinato bene. Che invece potrebbe ancora essere usato, almeno da
qualcuno: per vivere.
Appunto: il ciclo di vita dei beni, e talvolta anche delle persone, è proprio
breve. Brevissimo. Le ‘isole ecologiche’
come si chiamano oggi, invece che discariche, sono piene di prodotti di ogni
genere ancora integri, commestibili o
funzionanti, scartati a causa di qualche
difetto del tutto irrilevante, oppure sacrificati per fare spazio al ‘nuovo che avanza’
nell’effimera civiltà dell’‘usa e getta’. È
come a Leonia, una delle città invisibili
di Italo Calvino dove “l’opulenza […] si
misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove”.
Come ci ricorda Zygmunt Bauman, nella
36 — Sottrazione
Gayle Chong Kwan, 7.21, Paris Remains (series), 2008
società consumistica è necessario scartare e sostituire: il consumismo, oltre ad
essere un’economia dell’eccesso e dello
spreco, è anche un’economia dell’illusione. L’illusione, come l’eccesso e lo
spreco, non segnala un malfunzionamento dell’economia dei consumi. È al
contrario, sintomo della sua buona salute,
del suo essere sulla giusta rotta. Ed è segno distintivo dell’unico regime che può
assicurare a una società dei consumatori
la sopravvivenza. Oggi – è paradossale,
ma è così – dobbiamo ‘sopravvivere al
troppo’ o, in alcuni casi, al troppo poco.
È il caso del cibo, ad esempio. Guardiamo dentro il nostro frigorifero, osserviamo il nostro comportamento di
consumatori eccessivi e spreconi. Secondo alcune stime ogni nucleo familiare
italiano getterebbe via il 19% del pane,
il 17% della frutta e della verdura, ogni
anno 515 euro di prodotti alimentari su
una spesa mensile di 450 euro, circa il
10%. Il fautore del ‘principio di sovrabbondanza’, Peter Sloterdijk, scriveva che:
“Mentre per la tradizione lo spreco rappresentava il peccato per eccellenza
contro lo spirito di sussistenza, perché
metteva in gioco la riserva sempre insufficiente di mezzi di sopravvivenza,
nell’era delle energie fossili si è realizzato intorno allo spreco un profondo
cambiamento di senso: oggi si può dire
che lo spreco è diventato il primo dovere civico. L’interdizione della frugalità
ha sostituito l’interdizione dello spreco
– questo significano i continui appelli a
sostenere la domanda interna”. In realtà
l’obsolescenza programmata dei prodotti è uno dei principi dello spreco che
perdura anche nel Ventunesimo secolo.
Ma se adottiamo comportamenti che tendono a ridurre lo spreco ci indirizziamo
verso una razionalizzazione del nostro
stile di vita seguendo un’ottica pro-ambiente. Meno spreco vuol dire meno
rifiuti, meno danni all’ambiente, meno inquinamento, insomma più ‘eco’. Ridurre
lo spreco deve quindi divenire un imperativo ecologico, un diktat da seguire,
che non ne porterà alla sua eliminazione
ma sicuramente ad una sua contrazione,
perché paradossalmente lo spreco, o almeno una sua parte, può fare del bene.
Infatti lo spreco, ciò che si getta via, almeno in parte può essere utile, almeno per qualcuno. I prodotti invenduti
Sottrazione — 37
Gayle Chong Kwan, 7.58, Paris Remains (series), 2008
possono essere considerati come una
potenziale offerta di prodotti. Alla stessa
stregua è possibile immaginare che vi
possa essere una domanda inespressa
proprio per quegli stessi prodotti. Pensiamo solo agli indigenti, consumatori
senza potere di acquisto. Ecco un ossimoro: lo spreco utile. Ciò che per tanti è
abbondanza, e quindi spreco, per qualcun altro è scarsità e quindi opportunità.
Lo spreco può dunque trasformarsi in risorsa. E soprattutto può diventare il paradigma di una nuova società. È ciò che
propone e fa concretamente Last Minute
Market, spin off accademico dell’Alma
Mater Studiorum, Università di Bologna.
Un sistema di recupero dei beni invenduti auto sostenibile che coniuga, per
davvero, solidarietà con sostenibilità.
Prolungare la vita dei beni vuol dire allungare anche quella di chi li utilizza: cestinare e distruggere i prodotti prima del
loro uso o della loro fine naturale è un po’
come farli morire, e con loro eliminare le
persone che invece potrebbero consumarli. Ma non basta. Perché l’equazione
meno spreco più ecologia porta ad una
nuova società. La società sufficiente
dove abbastanza non è mai troppo, dove
più non è sempre uguale a meglio, dove
anzi si può fare di più con meno e, se
necessario, anche meno con meno. È
una società capace di sostituire, quando
serve, il denaro (mercato) con l’atto del
donare, e non soltanto perché si tratta
di un anagramma: il dono porta alla relazione e alla reciprocità. È una società capace di prevenire la formazione di rifiuti
promuovendo nuovi stili di consumo e
di vita. Ed è questo anche il senso della
campagna europea Un anno contro
lo spreco 2010, promossa da Last Minute Market con il Parlamento Europeo
(Commissione Agricoltura), campagna di
sensibilizzazione dell’opinione pubblica
sui temi legati allo spreco e alle modalità per ridurlo. Campagna che ha avuto
una tappa importante a Torino Spiritualità il 25 settembre con una serie di azioni
concrete contro lo spreco.
Info e approfondimenti
Andrea Segrè, Lezioni di Ecostile. Consumare,
crescere, vivere, Bruno Mondadori, Milano 2010.
www.lastminutemarket.it
www.unannocontrolospreco.org
www.andreasegre.it
38 — Sottrazione
Less is more
La radio supera la sua cecità, scende in strada e sul web,
va a teatro e diventa multimediale
Gianluca Gobbi
“Qualcuno esiste solo se ha una funzione, e chi ne ha poca esiste poco.
Questo principio fondamentale dell’arte,
come dell’etica, si realizza alla radio più
radicalmente che non sul palcoscenico”.
Le parole di Rudolf Arnheim, autore de
La radio, l’arte dell’ascolto a distanza di
più di settant’anni sono attualissime per
definire un medium dalla vitalità insopprimibile. In grado per lungo tempo di
essere il primo mezzo di comunicazione
di massa e di incassare come un boxeur
esperto l’avvento della televisione che,
come uno specchio irriverente, lo mette
di fronte alla sua sottrazione di spazi e
di forme espressive. Pur con i suoi limiti
strutturali la radio gode di una libertà
superiore a ogni altro mezzo di comunicazione, come rileva Guido Michelone
nel suo saggio Dalla radiofonia alla radiodrammaturgia, perché esprime per
intero la creatività, fornendo all’ascoltatore “l’oggetto e l’idea dell’oggetto,
il reale e l’ipotetico”. Tra le sue caratteristiche, continua Michelone, spiccano “l’istantaneità e l’ubiquità”, perché
non esiste “mediazione tra emittente e
recettore del messaggio, recepito simultaneamente in luoghi diversi anche
tra loro lontanissimi”. McLuhan aggiunge l’intimità, dato che “la radiofonia
tocca personalmente perché presenta
un mondo di comunicazioni e sottintesi
tra lo speaker e l’ascoltatore” e dunque
“l’aspetto immediato della radio è questo: un’esperienza privata”. Tutti elementi che esaltano il desiderio del suo
pubblico così appassionato e fedele di
concorrere al successo dei programmi,
in particolare dalla seconda metà degli
anni Settanta quando irrompe nell’etere
la radiofonia ‘libera’, privata, commerciale che porta ad un aumento esponenziale delle voci e della tipologia di
emittenti. Le radio generaliste accusano il colpo e sono costrette a reinventarsi dotandosi di nuovi linguaggi e
Sottrazione — 39
aprendo i microfoni ai cittadini, sempre più desiderosi di essere parte integrante delle trasmissioni e non semplici
ascoltatori. Negli ultimi quindici anni la
presenza su larga scala del telefonino
e la crescita di Internet si rivelano due
straordinari propulsori per la radio, che
può raggiungere chiunque in tempo reale sollecitando l’ospite anche sull’ultima notizia colta navigando in Rete e
può intercettare facilmente le opinioni
del pubblico. I siti delle emittenti si prestano ad integrare i servizi giornalistici
con riprese e foto utilizzando il videofonino di ultima generazione con cui viene
realizzata la corrispondenza in diretta
radiofonica. Affiancando un articolo riassuntivo al podcast del pezzo appena
andato in onda, la radio va incontro a
chi non lo ha potuto ascoltare live e in
un colpo solo è tv, medium digitale e
giornale. Un’autentica rivincita: la concorrenza spietata delle immagini non è
riuscita a mandare al tappeto un mezzo
capace di resistere riappropriandosi
della sua vera forza che, osserva Gianfranco Bettetini in La radio come mezzo
di comunicazione, consiste nel “felice compromesso tra la sua struttura
tecnica, che la colloca nell’ambito dei
mass-media, e la dimensione personalizzata degli scambi comunicativi”.
La radio è un medium senza corpo
che per muoversi nello spazio ha bisogno della complicità degli ascoltatori ai quali concede il privilegio di
“liberare il proprio immaginario”, sintetizza Aldo Grasso, aggiungendo che “il
suo carattere di astrattezza permette
alla radio di creare i migliori mondi reali
possibili, come un’arte nuova che comincia dove cessano il teatro, il cinema
e la narrazione.” Fin dalla sua nascita
questo mezzo deve costantemente
fare i conti con la propria ‘cecità’ e
con la sostanziale unidimensionalità,
contrapposta alla tridimensionalità del
teatro e alla bidimensionalità del cinema. Ma la radio sempre più spesso
si fa ‘vedere’ dal suo pubblico quando
non ha timore di lasciare le rassicuranti
stanze insonorizzate e si fa carne per
occupare uno spazio aperto come la
piazza, in occasione di manifestazioni
o concerti. Una strategia efficace per
cementare il rapporto con gli ascoltatori soddisfacendo le curiosità più
impensabili, compresa la richiesta di
appoggio a un referendum per reintrodurre con effetto immediato il potere
d’acquisto della lira. Oppure può cogliere la straordinaria occasione di attrarre nuovi ascoltatori: è stato chiesto
di trasferire il Fuori onda radiofonico di
Radio Flash a teatro. Quattro magiche
serate che hanno visto sullo stesso
piano pubblico, ospiti e conduttore per
contribuire alla nascita della ‘notizia’:
prima il ruolo della donna nei media,
poi la scuola “Stella” cadente?, Torino
capitale europea dei giovani e il citizen
journalism. Per un paio d’ore il tentativo di analizzare un fenomeno senza
trucchi. Il sentimento di sincera riconoscenza dei partecipanti a questa
sorta di agorà multimediale prova che
a mettere in circolo le idee e ad ascoltare le osservazioni del Paese reale c’è
soltanto da guadagnare. E che anche
uscendo dai propri studi la radio può
essere libera, ma libera veramente.
40 — Sottrazione
Waiting for Water:
fluire di acqua, fluire di genti
L’acqua da risorsa sprecata a risorsa contesa.
Da elemento di consumo quotidiano a fattore di controllo politico
Walid Mawed
Nel mondo occidentale, in un anno, mediamente, una persona percorre 18.000
chilometri e consuma 110.000 litri d’acqua: come dire 6 litri per ogni chilometro percorso o un cucchiaino d’acqua
ogni due passi. L’acqua si muove con le
persone, dove si muovono le persone.
L’acqua, fonte di vita per eccellenza, da
risorsa preziosa diviene risorsa contesa,
al punto di finire al centro di conflitti come
quello israelo-palestinese: lo dimostra il
fatto che, sottolinea Vandana Shiva, in
Le guerre dell’acqua, “tra il 1967 e il 1982
le acque del West Bank e della striscia di
Gaza sono state controllate dall’esercito”
e che “i pozzi palestinesi non potevano
essere più profondi di 140 metri, mentre i
pozzi israeliani potevano raggiungere una
profondità di 800 metri”. Ma prestiamo
mai la necessaria attenzione a questa risorsa o la diamo piuttosto per scontata,
quasi fosse una costante immutabile?
Da queste riflessioni prende forma il progetto Waiting for Water, che attraverso
azioni artistiche anticonvenzionali cerca
di incidere sul nostro rapporto quotidiano
con l’acqua per renderlo più rispettoso
Sottrazione — 41
e consapevole, stimolando la crescita di
una coscienza nuova, di una più diffusa
consapevolezza delle problematiche
connesse alla distribuzione, al controllo
e all’impiego di questa risorsa.
Il progetto, avviato nel 2004 durante la
partecipazione ad Unidee, residence internazionale per creativi curato da Cittadellarte-Fondazione Pistoletto, si è
concretizzato con l’installazione di ‘muri’
di tessuto nero sospesi sopra a fiumi,
come sul Cervo a Biella, sulla Dora Baltea a Ivrea, sul Po a Torino per i Giochi
Olimpici Invernali del 2006, sul Ledra a
Gemona del Friuli o tesi in spazi urbani
come a Messina o nel Quadrilatero Romano a Torino. Un ‘muro’ nero a bloccare visivamente il flusso dell’acqua, ad
impedire la visione di parte del ‘paesaggio liquido’ abituale, a nascondere e
trasformare in sorpresa quel flusso continuo che ci troviamo davanti abitualmente
e che di conseguenza ci appare ovvio.
Il nero, ‘non-colore’ potente ed invasivo,
steso nel contesto naturale del letto di un
fiume, rappresenta un puro elemento artificiale che ci costringe finalmente a prestare
attenzione all’acqua, alla sua presenza naturale, resa solo presunta dalla barriera
morbida imposta dall’installazione. Interpretando l’incessante mutamento dell’acqua – sia nella forma che nella funzione
– attraverso il suo scorrere dalla sorgente al
mare, parte del tessuto usato per le installazioni si trasforma nella Water Collection,
una collezione di abiti ispirata ai vestiti semplici e funzionali delle portatrici d’acqua.
L’ampio spettro delle attività sposta Waiting for Water dal terreno dei puri progetti
artistici a quello della mobilitazione sociale,
lo moltiplica e lo dissolve in un laboratorio
aperto e collettivo, la cui forma è modellata
insieme da una rete fluida di collaboratori –
la watercollection.net – dalle reazioni e dai
contributi del pubblico e poi ancora dalla
continua azione delle forze naturali.
I diversi interventi sono il prodotto di un ‘network instabile’ il cui proposito è restituire
centralità all’acqua tanto nelle questioni
socio-politiche, quanto nelle soluzioni
proposte a tali questioni: l’acqua deve rimanere libera, poiché è la nostra stessa
libertà possibile a riflettersi sulla sua superficie increspata.
42 — Sottrazione
Una slow fotografa
tra essenzialità e misura
Intervista alla fotografa Bruna Biamino di Liana Pastorin
DOMANDA La fotografia ha sovente lo scopo di fissare un futuro ricordo, per non
perdere la memoria di un luogo o un momento particolare. Come si è modificata
questa pratica con l’introduzione delle
macchine digitali e con l’abuso, per così
dire, di scatti fotografici?
RISPOSTA La fotografia ha avuto un enorme cambiamento passando dalla modalità tradizionale al digitale, innovazione che,
per certi versi, è stata molto utile per quei
professionisti, come i fotografi di architettura, che sono facilitati nella risoluzione
di alcuni problemi, come l’eliminazione di
elementi di disturbo nello scatto di un’architettura che si vuole isolata, neutra, corretta poi in Photoshop.
L’utilizzo della pellicola piana 20x25, o
anche di quella a rullo 6x9, il grande o il
medio formato, necessitavano di un banco ottico e di grande attenzione e tempo
da dedicare all’inquadratura per ottenere
l’effetto desiderato.
Il digitale ‘fintamente’ non costa nulla: non
c’è il costo della pellicola, è vero, ma gli
scatti sono molti di più perché viene a
mancare quella concentrazione richiesta
dalla modalità tradizionale e si investono
molte ore per il ritocco al computer.
Il mio lavoro è essenzialmente sull’architettura e sul paesaggio. Normalmente
non opero ritocchi importanti né numerosi
perché sono convinta che il computer sia
uno strumento utile ma che debba essere
utilizzato con assoluta misura.
D Il troppo distrae, è ridondante e non aiuta il ricordo, non stimola la memoria. Da
alcuni anni conduci uno studio sui deserti
medio-orientali, con l’obiettivo di fissare
l’essenzialità di quei luoghi. Ma operare
per sottrazione non è un metodo per modificare la realtà?
R Paesaggi simbolici non è il mio primo
lavoro personale, ma è certamente quello che mi ha permesso di coagulare una
serie di esperienze e di riflessioni, perché
ho acquisito maggiore consapevolezza,
anche a seguito di un’esperienza che mi
ha obbligato ad una riflessione più profonda sull’esistenza. Questo progetto è
iniziato nel 2007 quando mi trovavo a Gerusalemme per raccontare il Barocco piemontese, e decisi di ritornare nei deserti
medio-orientali, in Giordania, in Marocco,
in Tunisia e riprendere un progetto che
avevo abbozzato tempo prima. In Israele
ho trovato un valore della realtà che corrisponde al mio sentirmi a casa. Sono paesaggi che hanno 3 o 4 colori, non di più, e
che nella mia fotografia cerco di bilanciare
e raccontare non tanto per rappresentare
ciò che ho visto ma ciò che ho provato nel
guardarli. Le mie riprese sono sempre più
panoramiche, meno concentrate su un
soggetto in particolare, bensì cercano di
cogliere un colore, una sensazione, uno
stato emotivo. In fase di elaborazione tolgo
sostanza al colore per lasciare l’essenza.
I miei deserti non hanno nulla di esotico:
riprendo dagli scavi romani ai parcheggi
d’auto, la dimensione del deserto ma non
l’epica del Sahara, tracce storiche o scoperte in cui mi sono imbattuta, cogliendo
magari un piccolo particolare annegato in
un più grande contesto, che riporto all’attenzione di chi guarda.
Manipolo la realtà ma con la convinzione
che il togliere porti a scoprire e a comprendere il vero spirito di un luogo.
D Sei stata ispirata da autori di romanzi
o dal cinema o questa tua tensione ha
Sottrazione — 43
Neghev1, 2007
stampa getto inchiostro
cm 100x150
a che fare anche con un’insoddisfazione
del nostro modo di vivere superficiale e
consumistico?
R Il cinema mi ha ispirato molto di meno
di alcuni testi che hanno al contrario stimolato la mia immaginazione. I miei primi
lavori erano in bianco e nero e risentivano
della folgorazione che avevo subito dalla
descrizione di interni dei romanzi di alcuni
scrittori russi ed ebrei di fine Ottocento e
inizi Novecento, come Bruno Schulz, autore di Le botteghe color cannella, o Sin-
ger oppure Jiri Langer. Andando avanti
con la ricerca, spostandomi dagli interni
agli esterni e ai paesaggi, mi sono accorta
della necessità di trovare un punto centrale per riuscire a raccontare una storia. I
paesaggi urbani sono di fatto dei racconti
in cui ho cercato di catturare l’essenzialità
procedendo a togliere il più possibile il superfluo, quello cioè che, a mio avviso, non
è indispensabile per restituirne lo spirito.
Credo però che questo mio modo di
operare abbia anche a che fare con una
certa reazione a questo mondo così
soffocato dalle cose. Abbiamo molto,
troppo e non nascondo di aver provato
anche recentemente un senso di colpa
nell’acquistare un altro pullover. Non ne
avevo davvero bisogno.
D Hai un tuo profilo su Facebook e usi in
generale i social network? Come ti rapporti con la velocità della contemporaneità nei rapporti personali e nel lavoro?
R Mi capita di incontrare occasionalmente
e di fare quindi una conoscenza superfi-
44 — Sottrazione
DeadSea7, 2008
stampa getto inchiostro
cm 100x150
ciale di numerose persone e ciò mi lascia
insoddisfatta, non ritrovo tracce in me di
quegli sporadici accadimenti. Preferisco
guardare le persone in faccia. Mi sento un
po’ in controtendenza e mi definisco una
fotografa ‘slow’: l’attenzione e l’intensità
della concentrazione e il senso della misura sono i fattori che più mi interessano.
Infatti non ho sempre con me la macchina
fotografica, ma un quaderno per scrivere: è per me un ottimo esercizio guardare
e prendermi il tempo per riflettere senza
avere l’urgenza dello scatto. La fotografia
è un modo straordinario di vivere, incontrare persone e stringere amicizia anche
con le persone con cui si lavora.
D Qual è il tuo rapporto con l’architettura?
R Come quello di Nanni Moretti in Caro
Diario: vorrei vedere solo fotografie di
facciate di edifici.
Cammino sempre a naso in su perché
il paesaggio urbano è una continua
sorpresa, una continua tensione e a
differenza del paesaggio ambientale
non puoi mai sapere se ti farà sentire in
armonia con te stesso. Scatto sempre
avendo un progetto ben chiaro in testa e
riflettendo su ciò che sto per fare.
D Qual è stata la tua occasione perduta,
la fotografia che avresti voluto fare e non
hai mai scattato?
R Avrei voluto fotografare tutte le stanze degli alberghi in cui ho soggiornato
nella mia vita. Le avrei riprese tutte dallo
stesso punto di vista. Sono dei mondi
ognuno a sé stante.
Sottrazione — 45
Timna5, 2008
stampa getto inchiostro
cm 100x150
D Che cosa ti sei ripromessa di fare nel
prossimo futuro?
R A Gerusalemme un professore dell’università mi ha fatto visitare la città dalle
terrazze delle case. Un punto di vista
inusuale e affascinante. Mi piacerebbe
fare un corso per imparare a praticare il
parkour e godere così in modo giocoso di
prospettive inaspettate della città. Sicuramente allargherò i deserti del mio progetto a luoghi più epici e meno circoscritti,
come il Mali, la Mauritania, la Namibia.
D La fotografia può essere un’esperienza
multisensoriale?
R La campagna fotografica sui Luoghi
dello spirito, esposta nel 1998 all’Accademia Albertina in cui il mio tema erano i paesaggi sulle acque, e quella del
2003 della Darc, che mi aveva destinato
come tema la Versilia mi hanno aiutato
a identificare più precisamente ciò che
mi interessava dei paesaggi e ho cercato di affinare una sensibilità nel trasferire
odori e colori dell’infanzia nel racconto
fotografico. La luce e il colore dell’aria,
l’afa e i cieli bianchi per il troppo calore:
ciò che ho ricreato con la fotografia dava
un’immagine alla ‘calura’, un termine
che porta in sé più di una sensazione.
Paradossalmente lavoravo di più in quel
periodo perché trascorrevo molto tempo in camera oscura per ricreare certe
atmosfere, certe luci, che non adesso,
poiché il paesaggio del deserto che ho
finalmente trovato corrisponde perfettamente a ciò che stavo cercando.
Roundabout
Il Vuoto
Riflessioni sullo spazio in architettura
di Yona Friedman
Manifesto per la felicità.
Come passare dalla società
del ben-avere a quella del ben-essere
Marinotti Edizioni, 2004
pp. 240 | € 16.00
ISBN 9788882730567
Bollati Boringhieri, Temi 188
pp. 208 | € 16,00
ISBN 9788833920115
Donzelli Editore, Saggine, 2010
pp. XIV-306 | € 18.00
ISBN 9788860364579
Il saggio indaga il vuoto sia come concetto assoluto
(la mancanza), sia nella sua concretezza materiale
(spaziale, architettonica). Come contrappunto alla
rigorosa struttura della trattazione, questa duplicità
analitica è testimoniata da una certa libertà di associazione di opere appartenenti a tempi e luoghi
distanti tra loro, in cui il vuoto si manifesta di volta
in volta come assenza (nelle stanze vuote dipinte
da Van Gogh o da Hopper), simbolo (nel palazzo di
Cnosso), rinuncia (nelle architetture di Mies van der
Rohe), destino (nella dottrina taoista) o riflesso di
uno stato d’animo (nelle incisioni di Piranesi).
Considerare il vuoto nella sua fisicità presuppone
forse un approccio distante dalla nostra sensibilità: mentre in Oriente il concetto di vuoto, profondamente radicato nella cultura e nel sentire
comune, è punto di partenza ed attivo strumento
progettuale (nella casa giapponese così come nel
giardino zen), in Occidente il vuoto diviene un utile
momento di lettura ed analisi (della polis greca od
anche dell’architettura moderna), ma non solo. Il
vuoto in architettura, garante di senso e strumento compositivo, funziona anche da stimolatore
emozionale: solo per fare un esempio, forse è
proprio la perfetta e densa vacuità dello spazio
interno del Pantheon che continua a meravigliarci
a duemila anni dalla sua costruzione.
A chi spetta il diritto di decidere in materia di architettura? Come assicurare questo diritto alle persone cui esso spetta? Come farlo in un mondo che va
verso una povertà crescente? Come sopravvivere
in tale mondo? Di fronte agli attuali problemi di impoverimento e di esaurimento delle scorte diventa
indispensabile un’architettura ‘povera’ che riscopra i valori naturali e le tecniche compatibili con un
modo di vita più sobrio. Risponde a queste esigenze l’architettura di sopravvivenza. Essa, a differenza
dell’architettura classica che mira a trasformare il
mondo per renderlo favorevole all’uomo, cerca di
limitare le trasformazioni conservando solo le più
necessarie perché l’uomo sia in grado di sopravvivere in condizioni sufficientemente favorevoli. In altre parole, l’architettura classica trasforma le cose
per adeguarle all’uso umano, mentre l’architettura
di sopravvivenza prova a trasformare il modo in cui
l’uomo impiega le cose esistenti.
Viviamo in Paesi ricchi, ci siamo affrancati dalla povertà di massa e abbiamo accesso ai beni di consumo, all’istruzione, alla sanità, a una vita più lunga
e sana. Siamo più ricchi di beni e sempre più poveri
di relazioni. Ecco perché siamo sempre più infelici.
Ma davvero per divenire più ricchi economicamente dobbiamo per forza essere poveri di relazioni
interpersonali, di benessere, di tempo, di ambiente
naturale? Davvero non esiste un’altra strada? Parte
da queste basilari domande l’analisi e la proposta
di un economista che da anni studia il tema della
felicità nelle società avanzate. Perché i Paesi ricchi
non sono riusciti e non riescono a coniugare sviluppo economico e benessere? Il cuore del problema
è che lo sviluppo economico si è accompagnato a
un progressivo impoverimento delle nostre relazioni
affettive e sociali. Questo tipo di sviluppo non solo
non produce benessere ma crea anche enormi rischi per la stabilità economica, come la crisi attuale
dimostra. Essa infatti è il prodotto di un’organizzazione sociale che genera la desertificazione delle
relazioni umane. Ecco dunque perché il nostro sistema economico e molti aspetti della nostra esperienza sia individuale che collettiva – la famiglia, il
lavoro, i media, la vita urbana, la scuola, la sanità
– hanno bisogno di un profondo cambiamento culturale e organizzativo. Cambiare la scuola. Cambiare le città. Cambiare lo spazio urbano. Ridurre
il traffico. Ridurre la pubblicità. Sono alcune delle
proposte concrete che compongono un vero e
proprio manifesto per la felicità.
di Fernando Espuelas
Fernando Espuelas, laureatosi in architettura nel
1978 è attualmente preside della Facoltà di Architettura dell’Università Europea di Madrid, a cui
affianca la pratica progettuale; tra le sue ultime
opere l’auditorium e la biblioteca a Colmenar Viejo
e la biblioteca a El Escorial.
L’architettura di sopravvivenza
Una filosofia della povertà
Yona Friedman è nato a Budapest nel 1923. Vive
e lavora a Parigi. Ha insegnato presso diverse
università americane e collaborato con le Nazioni
Unite e l’Unesco.
di Stefano Bartolini
Stefano Bartolini insegna Economia politica ed
Economia sociale presso la Facoltà di Economia
Richard M. Goodwin dell’Università di Siena. Ha
pubblicato numerosi saggi sulle più prestigiose riviste internazionali.
Martha
Promises Written in the Water
The Forgotten Space
anno: 2010
regia: Marcelino Islas Hernández
cast: Magda Vizcaino, Leticia Gómez,
Penélope Hernández, Raúl Adalid,
Ismena Romero, Berenice Avilés
durata: 77'
origine: Messico
produzione: Zamora Films
anno: 2010
regia: Vincent Gallo
cast: Vincent Gallo, Delfine Bafort,
Sage Stallone, Lisa Love
durata: 75’
origine: Usa
produzione: Gray Daisy Film
anno: 2010
regia: Allan Sakula & Noël Burch
durata: 112'
origine: Olanda/Austria
produzione: WILDart Film, DocEye Film
Una remota Città del Messico, in cui Martha, impiegata da trent'anni come archivista in una compagnia di assicurazione, viene licenziata e sostituita da una ragazza più giovane e da un computer.
Settantacinquenne e sola, Martha subisce un vero
e proprio shock: le giornate scandite dal lavoro d'ufficio si svuotano e non bastano le cure che presta
presso un'anziana signora a sollevarla dal senso di
fallimento. Quando anche l'unica amica lascia la città per trasferirsi in campagna, il dolore di Martha si
fa più acuto: decide di lavorare ancora per un'ultima
settimana prima di togliersi la vita. Il Destino ha però
per lei pronte nuove sorprese.
Quando si capisce che si sta arrivando alla fine?
Il licenziamento, il distacco dalle persone care, la
scoperta improvvisa della solitudine. Lenti movimenti catturano un universo urbano chiuso e claustrofobico, dalla drammaticità a volte grottesca, a
volte surreale, in cui Martha diventa il paradigma del
declino fisico e mentale, ma anche di un improvviso
vigore quando si renderà conto che sarà stata la
morte ad essersi fatta beffa di lei e che lo spazio sta
per aprirsi di nuovo.
Terzo film firmato, scritto, montato, musicato e
prodotto da Vincent Gallo. Una volontà forse narcisistica, ma precisa di procedere per sottrazione,
per realizzare un film scarno che abbatte ogni eccesso narrativo e produttivo e che apre a diversi
strati di lettura.
Una ragazza in fase terminale e un fotografo che
accetta di prendersi cura di lei per evitarle del dolore; per esaudire il suo desiderio di essere cremata, trova lavoro in un'agenzia di pompe funebri.
L'esplorazione del corpo della ragazza procede
per sezioni, quadri fotografici, parti viste con
sguardo anatomopatologico che si trasformano in
metafora di un cinema che non esiste più (il cinema di Cassavetes ad esempio), che rimandano ad
una bellezza visiva persa per sempre e che uniscono di colpo, inaspettatamente, due cadaveri. Un
grande film, una regia superba, una bomba non
implosa nell'incapacità di riuscire a gridare il dolore
e la disperazione dell'esistenza umana, nell'impossibilità di poter affermare che il cinema esiste e non
è perduto per sempre.
Un film saggio dalla forte potenza visiva su uno
dei più importanti processi economici che affliggono oggi il mondo, alla ricerca delle ragioni per
comprendere e descrivere il traffico marittimo contemporaneo in relazione con le complesse e solo
simboliche leggi del mare. Grande quantità di materiale di repertorio: interviste, immagini d'archivio,
clip da vecchi film. I container a bordo di navi, chiatte, treni e camion; interventi dei lavoratori, tecnici,
progettisti, politici e quelli che vengono marginalizzati dal sistema globale dei trasporti. Visite presso
agricoltori costretti ad abbandonare la propria terra in Olanda e Belgio, camionisti sottopagati a Los
Angeles, marinai a bordo di meganavi che fanno
la spola tra l’Asia e l’Europa e operai cinesi, i cui
salari bassi sono la fragile chiave dell’intero rebus.
A Bilbao, scopriamo l’espressione più sofisticata
dell’idea che l’economia marittima, e il mare stesso, sono in qualche modo obsoleti. Si cercano e
si tentano soluzioni di recupero: ma si può andare
avanti senza o contro la forza del mare?
www.vimeo.com/13836514
www.promiseswritteninwater.com
www.theforgottenspace.net
Fotobook 2010
Un’idea di fotografia democratica
Prosegue il dialogo per immagini iniziato negli scorsi numeri di TAO. Come
accaduto per Carlotta Maitland Smith e per Mauro Guglielminotti, anche in
questo numero le immagini che illustrano le aperture di sezione sono state
scelte a partire da un unico progetto fotografico. Questa volta, però, non si
tratta di un unico autore: l’occasione è venuta dal progetto Fotobook curato
da Elisa Bozzi e Roberto Dassoni della galleria Biffi Arte Fotografia e Video di
Piacenza: 30 artisti che hanno lavorato su cinque temi predefiniti che vanno
dal macro al micro. In my world, In my land, In my town, In my house, In my
hand: i fotografi hanno sviluppato questi temi seguendo la loro sensibilità, realizzando una carrellata di scatti molto diversi fra loro che hanno dato vita a
numerose personali e che sono stati riuniti in un unico catalogo.
Paolo Barbaro, responsabile delle raccolte fotografiche dello CSAC di Parma,
racconta il progetto: “Per dare una struttura a trenta storie, a trenta sguardi
diversi, i curatori si sono affidati a metafore molto fotografiche, anzi prospettiche: la prossimità e la distanza, dallo spazio esterno più ampio, quello del
mondo visibile, a quello della propria terra, e poi della propria città, della propria casa, fino a quello intimo, nelle proprie mani. Ogni autore ha scelto tre
opere, aderendo liberamente alla dimensione ‘prospettica’ ritenuta congeniale, e di queste ha disposto la stampa e la dimensione visibile nel progetto”.
TAO si appropria di tre di questi ‘sguardi’: quello di Matteo Ghisalberti, per
il taglio e l’‘assenza’, illustra la sezione Sottrazione; quello di Gloria Pasetto,
che inquadra una sovrapposizione di piani e di comunicazione, è stato scelto per l’apertura di Moltiplicazione; quello di Arianna Tagliaferri ‘aggiunge’ una
possibilità di visione e apre dunque la sezione Addizione.
Tutti gli scatti di Fotobook 2010 rimarranno visibili alla galleria Biffi Arte fino
alla fine dell’anno e poi lasceranno il posto a nuovi autori e nuove fotografie, sempre nel rispetto di un’idea democratica di fotografia, proposta ad un
prezzo popolare per favorire la diffusione delle immagini. L’idea di fotografia
democratica nasce dalla volontà di sottrarsi alle logiche di mercato e di dare
la possibilità a fotografi di talento di poter proporre i loro lavori abbattendo i
costi di stampa e di promozione.
www.fotobook.biz