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WITTGENSTEIN: Pensare le differenze
“Ti insegnerò le differenze”1 scrisse nel Re Lear Shakespeare. Rampollo di una miliardaria
famiglia viennese, Ludwig Wittgenstein, nato nel 1889 e spirato nel 1951, sul tema delle differenze
incardinò le sue riflessioni. Tant’ è che aveva pensato di citare le parole shakespeariane come incipit
di un’opera pubblicata dopo due anni dalla sua morte: Ricerche filosofiche. Un titolo, uno stile
cognitivo. Un modo di pensare alternativo, aperto, plurale, capace di spezzare le catene della
singolarità, radiografare le eterogeneità dietro lo schermo delle identità e combattere con il chinino
della riflessione accorta la malaria del dogmatismo. Per molti anni il Nostro fu divorato da un tarlo:
“mostrare che le cose che sembrano identiche sono in realtà differenti”2. Così disse a un amico3.
L’ossessione: come funziona la parola
Ingegnere filosofo, il viennese fu ossessionato dalla riflessione sul linguaggio. Se è vero che gli
uomini trafficano con le cose del mondo, ancor più vero è che i fatti del mondo sono muti, senza il
linguaggio. La realtà si presenta ai sensi. Ma è con il linguaggio che si rap-presenta. Le parole sono
forme vicarie. Quando pensiamo al significato, pensiamo essenzialmente al vocabolario, laddove
troviamo l’elenco dei significati che un termine può avere. Identifichiamo parole e nomi. In realtà,
l’unità fondamentale del significato non è la parola, come crede il luogo comune, ma la
proposizione. La parola, infatti, funziona, ha senso, solo nel contesto di una proposizione. La parola
isolata può avere significati differenti e slegati tra loro. Una cartina al tornasole può essere, ad
esempio, la parola “espresso”: se sono al bar può significare un caffè, alla stazione un treno,
all’edicola un periodico. La singola parola può essere ambigua. Sant’Agostino, filosofo di Tagaste,
nelle sue Confessioni4 cristallizzò la parola come denominazione. E tale immagine ancora domina la
scena. In realtà, vi sono eserciti di parole che ricoprono ranghi differenti. Vi sono, ad esempio, parole
che indicano azioni quali: dormire, soffrire, gelare ecc. Altri termini il cui ufficio, invece, consiste
nell’etichettare delle proprietà: verde, basso, bello. Altri ancora come “e”, “o” “se”, che non
fungono da specchio alla realtà. Insomma, la parola non è essenzialmente un sostantivo a cui
corrisponda necessariamente una sostanza del mondo. Non appartiene allora alla parola singola, il
potere di dare voce ai fatti nel mondo, ma alle proposizioni. Sono queste (le proposizioni) le
macchine in cui l’ingranaggio della parola ruota.
1
L. Perissinotto, Wittgenstein. Una guida, Feltrinelli, Milano 2008, p. 95.
L. Wittgenstein, Conversazioni e ricordi, tr. it. E. Caccia e V. Mingardi, Neri Pozza, Milano 2005, p. 157.
3
M.O’C Drury.
4
Con la citazione di un brano tratto dalle Confessioni di Agostino si aprono le Ricerche filosofiche.
2
Il problema
Le proposizioni riducono i fatti in parola. Grazie ad esse possiamo rappresentare lo stato delle
cose. Quest’ultimo – lo stato – è determinante per il linguaggio. In altri termini, vi dev’essere
un’essenza, qualcosa in comune, tra la proposizione e lo stato delle cose. Se non ci fosse quel
qualcosa in comune ci si ritroverebbe come ai tempi di Babele. Questo attesta, in versione
prosciugata, la teoria del linguaggio significante. Il linguaggio è isomorfico alla realtà e ciò vuol dire
che il parlante smarrisce il significato se con il linguaggio non rispecchia il mondo. Sennonché,
Wittgenstein si rende conto che con questa posizione essenzialista si apre un fossato incolmabile,
una faglia continentale tra l’immagine del linguaggio (significante) e il modo in cui il linguaggio
effettivamente opera. Le parole e le proposizioni sono strumenti versatili. Per una corretta
concezione del linguaggio occorre emanciparsi dall’immagine agostiniana e osservare come esso
davvero funziona nella vita reale. Detto altrimenti, non è l’astrazione della nomenclatura, il segno
morto, a dirci cos’è il linguaggio. Per scoprirlo, ci tocca osservare il modo in cui le persone lo usano.
Le parole barra proposizioni, per dirla con un’immagine ferroviaria, sono come le leve di una
locomotiva. In quanto leve, vanno impugnate e mosse, affinché la locomotiva funzioni. L’occhio del
profano coglie le leve nel loro insieme, senza differenziarle. Al rovescio, per il macchinista non sono
leve punto-e-basta, ciascuna di esse ha una funzione propria5 e particolare. Restando nel solco
metaforico, potremmo pensare alle parole-proposizioni come a una cassetta degli attrezzi6.
L’insieme degli arnesi è custodito nello stesso contenitore ed è impiegato dallo stesso artigiano.
Differenti, tuttavia, sono le funzioni di ciascuno strumento. Una sega, non è un martello e una
tenaglia non è un chiodo. In una concezione assorbente, essenzialista, possiamo sussumere sotto
un mono-concetto il complesso degli strumenti, omogenizzandolo. Potremmo dire in sintesi che
“servono a modificare qualche cosa”7. Ma riducendo il tutto a una voce generale, si liquefano le
forme e le funzioni dei singoli strumenti. Con la riduzione ad uno non accresciamo la nostra
conoscenza.
La parola affrancata
“Espresso” da solo può voler dire cose differenti, come abbiamo visto. E questo non vuol dire,
banalmente, che la parola è sdrucciolevole, perché scivola sull’ambiguità. Wittgenstein asserisce
qualcosa di più forte e decisivo. La parola può ricevere la sua forza proprio dal fatto di essere libera
da un’essenza. Per capire il passaggio, dobbiamo, però, contrastare, vaccinare, una sorta di
5
L. Wittgenstein, Grammatica filosofica (’32-’34) tr. it. M. Trinchero, La Nuova Italia, Firenze 1990, pp. 23-24.
L. Wittgenstein, Ricerche Filosofiche (1936-46; 1946-49), tr. it. R.Piovesan e M. Trinchero, Einaudi, Torino 1974, § 11.
7
Ivi, § 14.
6
atteggiamento naturale, che ci sospinge a vedere un legame tra parole e oggetti del mondo. In
questa concezione, di tipo agostiniano, la parola è vuota di significato, se a essa non corrisponde un
oggetto del mondo. Wittgenstein ribalta questa visione. Non è la struttura del mondo reale a
determinare la struttura del linguaggio, ma è quest’ultima a determinare la prima. In altri termini,
la struttura del linguaggio determina il modo in cui noi pensiamo il mondo reale. L’uomo per poter
parlare del mondo, deve pensarlo. Il pensiero non si forma nel vuoto. Necessita di un apparato
concettuale adatto a questo scopo. L’apparato concettuale deriva dal linguaggio. Gli arnesi sono
forniti dalla comunità di appartenenza. L’artigiano conosce gli arnesi del mestiere, in quanto li usa.
Del pari, il parlante può dire “comprendo una proposizione in quanto la adopero”. La natura del
linguaggio rispecchiante è monistica, giacché richiede che esso rifletta uno stato di cose. La natura
del linguaggio strumento è plurale, poiché uno strumento può essere impiegato con scopi differenti.
“Il linguaggio può estendersi indefinitamente, e non vi è alcuna singola essenza che colleghi tutti gli
usi del linguaggio. Non vi è alcuna caratteristica singola che riguardi tutto il linguaggio”8.
“Che cos’è?”
Quando parliamo vogliamo andare al cuore delle cose, coglierne l’essenza. Ci chiediamo “Che
cos’è?” e con questo interrogativo ci muoviamo nel solco di una tradizione plurisecolare. Il pedigree
di tale tradizione risale all’antica Grecia. Le parole portano il loro significato, perché sono
rappresentazione univoca delle cose. Se le parole hanno un significato, deve pur esserci una qualche
essenza che esse esprimono. Se non ci fosse sarebbe una catastrofe. Irromperebbe l’anarchia
parolaia. È Socrate il pensatore che in Occidente ha inaugurato l’indagine sull’uni-versale,
perfezionata dal suo allievo Platone. “Sapendo di non sapere” rivolgeva la domanda di rito “Che
cos’è?” a coloro che ritenevano di conoscere le cose. Il dialogo platonico Teeteto è un caso di scuola.
Socrate incontra Teeteto, e gli chiede lumi: “Cos’è scienza?”; la risposta del deuteragonista è una
sequela di casi specifici, nei quali, di volta in volta, si dà un’identità alla scienza. La scienza è
esemplificata come geometria, astronomia, armonia, calcolo ecc. Talché Socrate puntualizza: “non
ti ho chiesto, o Teeteto, di cosa si dia scienza né quante siano le scienze: non andavamo in cerca di
contarle, ma di conoscere che cosa mai sia la scienza”9. Dunque, scopo del dialogo filosofico è
trovare il dato comune, il punto unificante. Sotto un tema vi è un’identità, che è la sola e vera. Essa
è l’essenza nascosta. Al filosofo spetta il compito di svelarla. È un’esigenza della psiche e della
mente: l’identico è il luogo della stabilità. Il terreno roccioso su cui si sta fermamente. Lo ribadisce
8
B. Magee, I grandi filosofi: una introduzione alla filosofia occidentale, tr. it. F. Pistolato, Armando editore, Roma 1994,
p. 341.
9
Theaet. 146a.
con vigore l’Eutifrone – altro dialogo platonico –, in cui un Socrate ottativo si fa emblema del discorso
essenzialista. L’anelito del filosofo verso discorsi, qualificati fermi e immobili, è stimato cosa più
desiderabile delle ricchezze di Tantalo. Socrate, come altri filosofi sulla stessa linea, manifesta il
“desiderio di generalità”10 o “di semplicità”11 e il “disprezzo verso il caso particolare”12. Giocando il
ruolo di chi può evincere “una essenza che tutto abbraccia”, è convinto di poter condurre con la
maieutica alla purezza e all’unità. Sennonché, per Wittgenstein è avvenuto il contrario. Non unità,
ma conflitti e antinomie da lì sono nati e si sono pasciuti. E l’idea che l’indagine filosofica “afferra
un’essenza che tutto abbraccia”13 ha avvolto la filosofia nell’“oscurità completa”14. Questo rapporto
superstizioso con la parola genera disorientamento filosofico. E soggiunge, il Nostro, che, in ragione
di ciò: “noi cerchiamo una sostanza in corrispondenza di un sostantivo; un sostantivo ci induce a
cercare una cosa che corrisponda a esso”15. E questo pone il pensiero a rischio di teratologia.
Cambia il mestiere del filosofo
Il lavoro del filosofo per lo più è apparso simile a quello di un minatore alla ricerca di diamanti.
Tonnellate di materiale da scavare e scartare, “sotto la superficie delle cose”16, per trovare la
“purezza cristallina”17 dell’essenza. Ciò che è sempre identico e se ne “sta saldo e inamovibile”18,
“fuori dello spazio e del tempo”19. Per il pensiero monolaterale vi è la via maestra che porta alla
comprensione del significato di una parola. Il suo selciato è fatto di identità tra la parola e le sue
applicazioni concrete. Ciò, però, non solo smentisce la potenza etimologica di comprendere.
Prendere insieme, infatti, è prendere-cum, che in sé apre al plurale. Ma ha soprattutto il torto di
aver “paralizzato la ricerca filosofica”20, poiché “non solo non ha portato alcun risultato, ma ha
anche indotto il filosofo a respingere, come irrilevanti i casi concreti, la sola cosa che avrebbe potuto
aiutarlo a com-prendere21 l’uso del termine generale”22. Nell’investigazione sull’essenza, infatti, si
può sempre riscontrare un caso in cui “la parola non sembra accordarsi con il concetto cui ci hanno
condotto altri usi. Si dice: ma non è così! – eppure è così – e non si può far altro che ripetere di
10
L. Wittgenstein, Libro blu (1933-34), in Id. Libro blu e Libro marrone, tr. it. A. G. Conte, Einaudi, Torino 1983, p. 28.
L. Wittgenstein, Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, a cura di M. Ranchetti,
Adelphi, Milano 1967, p. 109.
12
Libro blu (‘33-‘34), cit., pag. 28.
13
L. Wittgenstein, Zettel (1930-48), tr. it. Trinchero, Einaudi, Torino 1986, § 444.
14
Libro blu (1933-34), cit., pag. 28.
15
Libro blu (1933-34), cit. p. 6.
16
Ricerche Filosofiche, cit., § 92.
17
Ivi, § 107.
18
Ivi, § 103.
19
Ivi, § 108.
20
Libro blu (1933-34), cit., p. 30.
21
Il trattino è una mia aggiunta esplicativa.
22
Libro blu (1933-34), cit., p. 30.
11
continuo queste antitesi”23. Com-prendere, allora, è un’uscita dalla monocrazia del dato comune.
Chi ha l’anelito socratico dell’essenza può soddisfarlo. Per Wittgenstein resta la libertà originaria di
scovare il punto unificante. Ma mette in guardia sulla logica monistica. E lo fa al quadrato. In primo
luogo, revocando in dubbio che l’atto filosofico decisivo consista nell’individuare la pretesa essenza
(di oggetti o fenomeni) a cui le parole si riferirebbero. La differenza, con buona pace di Socrate, ha
pari diritto di cittadinanza. Anzi, è più interessante ospitarla e interrogarne i significati. In secondo
luogo, non siamo sotto scacco: o vi è l’essenza che dà adito alla parola, oppure essa ha diversi
significati slegati tra loro (come “espresso”, parola polisemantica). “Niente è, in quanto tale o in
maniera essenziale, provvisto o privo di senso”24.
Gioco
“Gioco” è una parola illuminante. Essa sfugge a quell’aut aut, secondo il quale o la parola ha
un’essenza o risuona di nulla. Cosa hanno in comune i giochi? C’è un’essenza che unisca i giochi da
tavolo, olimpici, con la palla, le scommesse e così via giocando? Il gioco può essere essenzialmente
svago? I giocatori di calcio o gli atleti sopportano fatiche estenuanti per cingere la corona della
vittoria. Non è uno svago. Lo è per il pubblico? No. La gran parte dei giochi non hanno un pubblico,
eppure sono pur sempre giochi. Idem, una partita di calcio senza spettatori. La sfida all’avversario è
essenziale al gioco? No. Lo certificano i giochi di pazienza e i solitari, che si giocano individualmente.
È il gioco l’opposto del lavoro? No. Nei giochi di borsa c’è identità tra gioco e lavoro dell’agente
borsistico. Insomma, non c’è un significato sovrano. Un senso monarchico che include ed esclude.
Vi è una “rete di somiglianze che si sovrappongono e si incrociano a vicenda. Somiglianze in grande
e in piccolo”25. Detto questo, va ribadito che Wittgenstein non pone l’“altolà” al pensatore che voglia
calcare le orme di Socrate. La ricerca sull’essenza resta aperta. Ma avverte che il concetto ha le
caratteristiche di un corda, ottenuta dall’incrocio di differenti fibre. La forza della corda “non è data
dal fatto che una fibra corra per tutta la sua lunghezza, ma dal sovrapporsi di molte fibre l’una
all’altra”26. Attenzione! Wittgenstein qui non parla di diversi significati e di ambiguità della parola.
Al contrario, dice che alla parola “gioco” la forza è conferita proprio dalla libertà dall’essenza
monocratica. La sua forza è la pluralità. Quell’“aria di famiglia” che lascia scorgere i profili dei vari
casi.
Regole rigorose?
23
L. Wittgenstein, Pensieri diversi (1914-51), tr. it. M. Ranchetti, Adelphi, Milano 1980, p. 63.
Wittgenstein. Una guida, cit., p. 115.
25
Ricerche Filosofiche (1936-46; 1946-49), cit., § 67.
26
Ivi, § 67.
24
I significati di molte parole e i perimetri di molti concetti sono porosi. I contenuti sono vaghi. Se
si vuole com-prendere il significato di una parola, non si deve interrogare il dizionario, bensì vedere
bene l’uso che se ne fa nelle circostanze particolari del discorso in questione. Il linguaggio si coglie
in azione. Parlare un linguaggio è parte di un comportamento normale, continuo, sociale. Per tale
ragione, si possono gemellare i linguaggi e i giochi. Gli uni e gli altri hanno caratteristiche sociali e
sono retti da regole. Ricerche filosofiche è, prima che un titolo, un metodo di ricerca, quasi uno stile
cognitivo. Vanno passati in rassegna gli usi particolari della parola. Indagini specifiche sull’impiego
concreto della parola. Ancorché il lavoro sia dettagliato, esso implica anche l’apporto della fantasia:
il talento di pensare a ciò che non è ovvio. Per avere una corretta com-prensione del linguaggio
dobbiamo osservare quello che le persone fanno con le parole. “Comprendo una proposizione in
quanto la adopero”27. Il gioco e l’uso della parola hanno un’analogia. Sono entrambi sistematici,
ossia si applicano le regole, benché non tutto funzioni nel linguaggio, come nel gioco. “Non usiamo
il linguaggio secondo regole rigorose – né, d’altronde, esso ci è stato insegnato secondo regole
rigorose (…). Non pensiamo alle regole d’uso (…) mentre usiamo il linguaggio, ma in molti casi non
sappiamo neppure indicarle quando ce le chiedono”. Non per insipienza, ma perché non ci sono
proprio. La convinzione che ci debbano sempre essere regole è come “supporre che i bambini, ogni
volta che giocano a palla, giochino un gioco secondo regole rigorose”28. “Non possiamo pensare
che tutto funzioni, come non possiamo pensare che tutto funzioni in un gioco. Ma nello stesso
tempo vi è molta elasticità, vi è spazio per l’interpretazione; non tutto è governato da regole”29.
27
F. Waissmann, Ludwig Wittgenstein e il Circolo di Vienna, tr. it. S. de Waal, La nuova Italia, Firenze 1975, p. 158.
Libro blu (1933-34), cit., pag.37.
29
I grandi filosofi: una introduzione alla filosofia occidentale, cit., p. 341.
28