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Voci dai territori occupati
1 aprile 2014
www.bocchescucite.org
numero 189
Ecco Yusef nel campo della sua famiglia a raccogliere akub, quel cardo che mamma era
pronta a cucinare. Ma Yusef, 14 anni, è stato ucciso proprio qui dall’esercito, perché si è
permesso di attraversare il muro che isola il suo campo dalla sua casa.
Donatella e Amira: due donne
e l'inferno di queste ore
Quanto ancora dovremo aspettare? Anche ora uno sparo, e
poi un altro! Ho paura. Soprattutto ho paura di farne
l’abitudine.
24 marzo 2014, “Non è più finita. Dicono che a
Jenin ieri hanno uccisi 6 palestinesi! Qui
all'ospedale stanotte fino all'una gli spari hanno
continuato. Il Caritas Baby Hospital dista dal
campo profughi 100 metri. Ho sentito le grida
della gente. Spari a raffica, in continuazione. Vi
assicuro che fa male, molto male questa
aggressione continua sulla popolazione! Tirano
l'elastico fino a che si rompa e i palestinesi, non
sopportando più... Così la giustificazione
dell'esercito per “intervenire” è sempre pronta.
Sogno che arrivi qualcuno che con la bacchetta
magica metta fine a tanta sofferenza,
ingiustizia, negazione dei diritti e prepotenza
dell'esercito di occupazione. Cosa fare? A chi
rivolgersi? E' ora di dire BASTA! Mettiamoci
insieme! Possibile che non si possa fare niente?
Possibile che ci sia connivenza con questa
politica che sta distruggendo un popolo?
Possibile che nessuno abbia un cuore? BASTA BASTA! Aiutateci a dire BASTA!”. sr. Donatella
Si accavallano in questi giorni notizie sempre
più pesanti, da Betlemme a Jenin a Hebron. I
violentissimi “scontri” -come li chiamano i
giornali- nei campi profughi, sono in realtà
invasioni di centinaia di soldati, assedio dei
villaggi, occupazione delle case a colpi di fucile,
mentre dai tetti si fa fuoco su qualsiasi
“oggetto” in movimento. Ed ecco alcuni ragazzi
che riescono a far breccia nel muro di
Betlemme, e le “risposte” cruente con il via
libera del primo ministro Netanyahu:
“L’esercito israeliano risponderà con la forza a
chiunque organizzi attacchi allo stato di
Israele”. Ma siamo stanchi anche di leggere così
le notizie. Per questo abbiamo preferito il diario
di Sr. Donatella alle più fredde agenzie di
stampa e dopo di lei pubblichiamo la lettera che
Amira Hass ha scritto ad un suo compatriota
soldato:
21 marzo 2014. La paura dell'abitudine
Da giorni gli spari continuano ininterrotti nel
campo di Aida a due passi da noi. Gas
lacrimogeni, bombe assordanti, pallottole di
gomma e altro. Anche oggi mentre stavamo
recitando il rosario lungo il muro. Incredibile!
Pregare per la pace e a pochi metri si sparava!
Mi fa impressione andare su e giù lungo il muro
recitando ave marie e a pochi metri il suono
degli spari. Terra Santa? Quanto ancora
dovremo aspettare? Anche ora uno sparo, e poi
un altro! Ho paura. Soprattutto ho paura di
farne l'abitudine. Un suono ormai familiare che
non mi fa più sussultare. Qui nei reparti anche i
piccoli neonati sembrano abituarsi a questo
sottofondo di morte. È un suono in mezzo ad
altri, come quello del muezin che ora sta
pregando e..... ancora un altro sparo! Finirà un
giorno?
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BoccheScucite
23 marzo I sassi di Davide, la bontà
dell'uomo e la vita senza più valore...
Anche oggi pomeriggio spari nel campo di Aida
e anche ora mentre vi sto scrivendo!
La gente e in particolare i giovani si ribellano:
non accettano che la situazione continui così.
Ma ecco...Davide non esiste più! La fionda e un
sasso, anzi molti sassi non sono più sufficienti.
Vi assicuro che sto dubitando sulla bontà
dell'uomo... Sulla sua capacità di riscatto! Qui
la vita, come in Siria e in qualsiasi parte della
terra dove c'è guerra, non ha nessun valore! Da
stanotte questo pensiero abita la mia mente ed è
entrato nel mio cuore. L'uomo sembra non
essere altro che un "animale" come spesso
alcuni soldati israeliani chiamano i palestinesi!
Cos'è la vita amici? Qui dove la VITA vera ha
assunto la nostra natura umana, si fanno scelte
contro la VITA! Mi fa paura questo. Ancora uno
sparo! Signore non abbandonarci, aiutami a
credere nel bello che c'e' anche se nascosto!
Riprendo a lavorare da una stanza all'altra,
abbracciando i sorrisi e i corpicini malati dei
nostri piccoli del Charitas.
Lettera al soldato che ha ucciso Yusef (14
anni)
Caro soldato, tu sostieni di aver sparato ad un
palestinese perché aveva sabotato la barriera di
separazione. Quando eri a cena con la tua
famiglia, venerdì sera, hai detto loro che sei
stato tu ad ucciderlo, ricevendo l’approvazione
di tuo padre e di tua madre? Oppure hai
masticato il tuo riso e mangiato la tua bistecca
in silenzio? Hai perso un po’ del tuo sonno
pensando a Yusef? O sei forse convinto di avere
eseguito un ordine, come un leale soldato, e che
la colpa fosse di Yusef, un ragazzo nato il 15
dicembre 1999, che aveva 14 anni e tre mesi
quando gli hai sparato? Ti sei reso conto di
avere commesso un crimine, oppure ci vorranno
alcuni anni prima che tu lo capisca?
Ti sei reso conto almeno che l'unica colpa di
Yusef era quella di essere uscito a raccogliere
dei cardi - akub in arabo – per aiutare la
propria famiglia a tirare avanti? (...) Lo sai,
soldato, che dove ti trovavi e hai ucciso è terra
palestinese? E che il villaggio di quei ragazzini,
Deir al-Asal al-Fauqa, è stato occupato nel
1967 e i loro abitanti espulsi nel 1948?
Tu hai sparato. Yusef si è messo a correre,
mentre gli altri si buttavano a terra tu hai
continuato a sparare. (...)
Avete poi catturato gli altri due ragazzini che
erano con Yusef. Li avete bendati e ve ne siete
andati. Si sa, grazie agli ordini contraddittori
che ricevete dai vostri superiori certamente
avrete ritenuto che le vostre vite fossero in
pericolo, e quindi il popolo di Israele ti
applaudirà, perché tu fai parte del popolo di
Israele. Amira Hass, Haaretz, 24 marzo 2014
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Una stretta di mano e un buon viaggio sono stati gli ultimi consigli ad Andrea, amico di
BoccheScucite che la sera seguente avrebbe dovuto già essere sotto la tenda di Daoud a Betlemme.
Ma Israele ha deciso questo signore era in realtà “un pericolo per la sicurezza di Israele”...
Arrestate quel terrorista!
BoccheScucite: Se lo leggi sul giornale ti sembra impossibile che sia realmente accaduto. Ma
se una "boccascucita" te lo racconta con la sua
voce ferma, il suo volto pieno di amarezza e il
suo coraggio di non fermarsi all'ipocrisia che
deve sempre coprire tutte le azioni compiute
dallo stato d'Israele, allora ti rendi conto che è
successo proprio così. Andrea Pesce ha parlato...
Andrea Pesce: Premetto che sono “arrivato”
alla Palestina attraverso lo studio della Shoa',
ossia del genocidio del popolo ebraico in Europa durante il nazi fascismo: anni fa, affrontando
per motivi personali e di studio questo terribile
capitolo della nostra storia, sentii che per capire
meglio argomenti come l’antisemitismo, il razzismo, l’ingiustizia, la disumanizzazione delle
persone, il conformarsi al pensiero dominante, e
le conseguenze di tutto ciò, avrei dovuto conoscere Israele e la Palestina. Quindi, da circa 15
anni, visito quella Terra, da semplice turista,
che tenta di comprendere, che si interroga e
prova ad agire per il bene, nel proprio
“piccolo”, degli israeliani e dei palestinesi. Tutto questo, senza alcun ruolo ufficiale, né come
volontario, né come attivista, sempre solo come
semplice visitatore che si fa delle domande e, se
ne vale la pena, le pone agli altri, come cercherò
di fare anche qui con voi.
Durante l’ultimo viaggio, a dicembre 2013, avevo visitato Betlemme e sentito parlare della
Tent of Nations, un’associazione che forse voi
già conoscete e che mi aveva colpito per il metodo rigorosamente non violento e conquistato
con il motto “ci rifiutiamo di essere nemici”.
Avevo quindi preso contatto con loro e avevo
programmato, all’interno di una lunga visita (un
mese) in Israele e Palestina, anche dei giorni di
volontariato alla Tent of Nations.
Arriva quindi il giorno della partenza, lo scorso
18 marzo, con un volo El Al da Venezia per Tel
Aviv: già all’aeroporto veneziano vengo fatto
oggetto di un esame approfondito da parte del
servizio di sicurezza israeliano sia riguardo il
bagaglio che per il passaporto (gli israeliani, in
base ad un accordo tra Enac e governo di Tel
Aviv, possono operare in questo modo nei nostri aeroporti, sotto gli occhi di agenti italiani in
borghese). Comunque, sono tranquillo, non ho
niente da nascondere, non ho fatto niente di
male, e quindi mi sottopongo a tutto piuttosto
serenamente, tranne quando la ragazza deputata
ad “esaminarmi”, con noncuranza mi chiede:
“Sua figlia non è triste che lei stia via un mese?”.
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Questo genere di domande non hanno nulla a
che fare con la sicurezza, con la famigerata
“security”, cui gli agenti israeliani fanno continuamente ricorso per giustificare pratiche più o
meno invasive. Vorrei tornare su questo punto
della “security” più avanti.
Poi mi dicono che devo acconsentire ad un ulteriore ispezione del bagaglio: acconsento. Allora
mi informano che non posso portare la macchina fotografica in cabina con me (è una macchina vecchio stampo), e che deve essere caricata
in stiva. Pregandoli di non spaccarmela, acconsento. Poi un ispezione sul mio corpo, acconsento. Poi un ulteriore controllo sul passaporto:
acconsento. Solo quando mi dicono che forse il
bagaglio non arriverà a Tel Aviv con lo stesso
mio volo, mi agito: si è fatto tardi, è vero, ma
solo perché durante il check-in il servizio di
sicurezza ha fatto regolarmente sfilare davanti a
me i passeggeri israeliani (immaginate qualsiasi
altra compagnia europea o del cosiddetto mondo civilizzato che fa passare davanti a chi ha
pagato il biglietto come tutti gli altri, i passeggeri della propria nazionalità...).
Vedo che il pulmino esce
dall’aeroporto, allora chiedo ai
due giovani agenti se posso fare
una domanda, mi rispondono
“non ora”.
Comunque alla fine... si parte! Al Ben Gurion
Airport però le cose prendono una piega leggermente diversa. Dalle ore 19 del 18 marzo alle
ore 19 del 19 marzo vengo, in sequenza, interrogato ripetutamente dalla polizia di frontiera, poi
respinto, di nuovo perquisito (bagaglio e corpo)
e infine detenuto in un cosiddetto “migration
facility”, poi rispedito in Italia.
Voglio sottolineare subito che quello che conta
testimoniare qui è: A) non tanto e non solo il
motivo del mio respingimento; B) quanto invece la successiva restrizione coatta in un luogo,
che è semplicemente una prigione.
A) poiché ho cercato inizialmente di nascondere
il mio programma di volontariato presso la Tent
of Nations, le Autorità Israeliane dicono ora
(attraverso l’ambasciata italiana a Tel Aviv, che
si sta dando molto da fare per seguire il mio
caso, e di questo voglio qui dargliene atto) che
dovevo chiedere un visto per volontariato; potrei obbiettare che dopo l’esame di Venezia ero
stanco e volevo solo raggiungere il mio albergo;
che ritengo gravemente lesivo della mia privacy
il fatto che la polizia di frontiera israeliana possa accedere al mio account e-mail, senza chiedermene il permesso; che il clima creato dal
medesimo staff addetto alla sicurezza è di palese inimicizia, disprezzo e lesioni dei miei diritti
(per esempio chiamare la mia ambasciata: risposta sprezzantemente negativa); che dopo ore di
attesa, interrogatori, domande ripetute e persino
diniego di un bicchier d’acqua e/o di cambiare
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delle monetine per acquistare una bottiglia d’acqua da un macchina dispenser, una persona normale, senza niente da nascondere, può anche
cadere in contraddizione e/o confusione; che
volendomi recare nella West Bank, occupata
militarmente dall’esercito israeliano, ritenevo di
essere sempre e comunque sotto il loro controllo, e quindi che fosse superfluo rivelare ogni
mia intenzione, desiderio, sogno; che essendo
Israele una democrazia certi metodi e pratiche
fossero impossibili.
Ma io chiedo spiegazioni per quello che é successo dopo.
Alle ore 3 di mattina del 19 marzo vengo prelevato da due agenti (?) nella hall del Ben Gurion
e accompagnato ad un pulmino fuori dalla hall
stessa, ma sempre dentro all’area portuale. Nota
bene: io avevo i miei averi dentro una borsa di
plastica fornita dal personale dell’aeroporto, che
nel frattempo si era trattenuta il mio zaino per
motivi di sicurezza (ancora questa parola:
“security”). Vedo che il pulmino esce dall’aeroporto, allora chiedo ai due giovani agenti se
posso fare una domanda, mi rispondono “non
ora”.
Dopo 5 minuti il pulmino si ferma davanti ad
una palazzina contraddistinta da un’alta rete
metallica, ricurva alla sommità, e da sbarre alle
finestre. Seguo all’interno i miei accompagnatori, che mi conducono in una stanza dove mi
dicono di lasciare tutte le mie cose, compreso il
cellulare. Chiedo di prendere una maglietta, un
libro e una penna. Rispondono “ok, ma non la
penna”, insisto, ma loro non cedono. Strano a
dirsi, ma più che il dover abbandonare il telefono cellulare, e’ stata la negazione di una semplice penna a farmi realizzare che mi trovavo in
una prigione.
Poi vengo rinchiuso in una cella, dove già si
trova un uomo che la mattina dopo mi dirà essere serbo. Non sono in grado di esprimere cosa
ho provato e pensato durante le ore successive,
chiuso nella cella. Posso solo dire che ho provato la necessità di “pensare” in un modo completamente diverso da quello cui sono abituato,
l’unico che mi appartiene, altrimenti rischiavo
di prendere a testate il muro. Ma non è facile...
Alle ore 07.30, una “guardia” israeliana apre la
cella, ed essendomi io catapultato fuori, mi grida aggressivamente: “Allora vai via stasera con
un volo su Milano, si o no, si o no?”
In lacrime, ho risposto “sì, vi prego, lasciatemi
andare a casa”.
Alle ore 17.35 (il volo per Milano era alle 18.20) sono stato prelevato dalla cella e caricato
sull’aeroplano. Alle ore 22 del 19 marzo sono
atterrato a Milano Malpensa.
BoccheScucite: Ma secondo te, cosa c’è dietro
questo accanimento che arriva a violare i fondamentali diritti della persona?
Prima di tutto c’è un’errata e perversa interpretazione del concetto di “sicurezza”, la famigera-
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ta “security”. In questo periodo ho ripensato
molte volte alla battuta di un vecchio palestinese, sentita presso il “confine” di Allenby, dalla
Giordania ai Territori Occupati, dopo ore di
attesa e interrogatori da parte delle forze di sicurezza dell’IDF: “gli israeliani pensano di essere
gli unici al mondo ad aver bisogno di sicurezza”. In altre parole, la “security” è vissuta in
Israele come un potenziale viatico alla negazione dei diritti altrui e, incredibile a dirsi, sembra
quasi che vi sia una volontà più o meno esplicita di farsi odiare. Ma io non voglio odiare nessuno, sarebbe una negazione della mia umanità.
Non odio gli israeliani, non voglio odiarli, vorrei parlare con loro, provare a spiegare, nella
convinzione che per una convivenza pacifica e
duratura si debba puntare all’umanità di ciascuno di noi, e che io ho intravisto, in alcuni brevi
momenti, anche nei miei “carcerieri” e nelle
guardie della Polizia di Frontiera Israeliana.
BoccheScucite: È incredibile: Alla porta di
casa che ti stava aspettando in Palestina c’è
scritto: "We refuse to be enemies", ci rifiutiamo
di considerarvi nostri nemici. I palestinesi resistono con una nonviolenza che è messa a dura
prova ogni giorno da decenni. Alla luce della
violenza che anche tu -che palestinese non seihai subito, come si potrà uscire da questa enorme contraddizione?
Andrea Pesce: Nel mio piccolo, pensando a
come agire ad un livello terra terra, credo che si
debba puntare, attraverso metodi inequivocabilmente non violenti, alla “emersione” della realtà
palestinese, della loro storia, dei loro traumi,
della loro cultura, e della loro esistenza, soprattutto. I palestinesi esistono, esistono, esistono.
Sono convinto che ci sia una gigantesca rimozione alla base della mentalità media israeliana,
alla cultura israeliana, e forse questa rimozione
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è presente anche nella cultura del popolo ebraico europeo e statunitense. Purtroppo il sotterraneo senso di colpa che attanaglia i governi europei, per gli orrori del nazifascismo e l’immensa,
spaventosa tragedia della Shoa, non aiuta, non
aiuta per nulla. La rimozione riguarda la presenza, storica e attuale, di un altro popolo sulla
medesima terra dove gli Israeliani hanno fondato il loro Stato. In qualche modo, ricordare questa presenza e diritto all’esistenza, automaticamente ti trasforma nella migliore delle ipotesi in
un “problema”, nella peggiore in un nemico.
Questo spiegherebbe in parte l’atteggiamento
nei miei confronti: ossia una testimonianza vi-
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vente, in carne ed ossa, di un “amico” dei palestinesi, e che quindi costringe a mettere in discussione la rimozione di quel “problema”.
Questo atteggiamento è tenuto sotto controllo
tramite la militarizzazione (cioè quando sono un
soldato, una guardia, un’agente di sicurezza,
non devo e non posso pormi alcuna questione di
coscienza) e da una rimozione palese ed esplicita tra i civili: basta provare a parlare con un
israeliano “medio” della questione palestinese e
nel 99% dei casi la risposta sarà: “non parlo di
politica”. Tutti abbiamo i nostri traumi, con cui
dobbiamo convivere, e c’è chi, semplicemente,
li rimuove. A livello individuale questo implica
la capacità di confrontarsi con il dolore e la sofferenza. Ma a livello di massa, la rimozione può
provocare dei crimini, più o meno gravi.
Bisogna quindi, credo, fare ogni sforzo necessario per spiegare che la questione palestinese non
è solo “politica”, che possiamo anche tralasciare, voltandoci dall’altra parte, ma riguarda quello che ci rende umani, palestinesi, israeliani,
italiani, tutti.
Yusef a-Shawamreh
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Solo il raggiungimento della condizione di Stato potrebbe salvare la Cisgiordania da
un’incombente ondata di violenze, crimini, caos, malattie, sostiene un importante rapporto
palestinese.
Sull’orlo del fallimento l'Autorità Nazionale Palestinese oggi
di Amira Hass
La gente non vuole trovarsi
senza un potere centrale che sia
in grado di evitare il caos e
l’anarchia per le strade, anche
se è molto critica nei confronti
dell’ANP.
Il collasso dell’Autorità Nazionale Palestinese
trasformerebbe la Cisgiordania in un luogo violento e caotico, ad alto tasso di criminalità e a
rischio per la salute. Ma, anche se la maggioranza dei palestinesi volesse la sopravvivenza dell’A.N.P., sia per amore di un fondamentale ordine sociale o per interesse personale, e nonostante i timori di Israele di dover farsi carico di
tre milioni di palestinesi della Cisgiordania, il
regime del presidente Mahmoud Abbas crollerebbe in poco tempo se Israele continuasse a
ostacolare l’aspirazione palestinese all’indipendenza.
Queste sono le conclusioni a cui è arrivato un
consistente studio durato 6 mesi e condotto dal
rinomato Centro Palestinese di Analisi e Ricerca Politica (Palestinian Center for Policy and
Survey Research) di Ramallah, diretto dal Dr.
Khalil Shikaki.
Un gran numero di palestinesi ha un ben radicato interesse nel fatto che l’ANP continui ad esistere, sostiene Shikaki. I rapporti con l’ANP
comportano “vantaggi di carattere finanziario,
status politico e sociale, e ci sono ambienti che
dipendono dai propri rapporti con l’ANP. Qualunque cosa dovesse succedere all'ANP li priverebbe di questi privilegi. Si tratta di organizzazioni, di gruppi economici o individui che hanno posizioni di potere che gli permettono di
distribuire favori ai propri sostenitori.
“Se ne avessero il potere, farebbero del loro
meglio per evitare [il crollo dell’ANP],” dice
Shikaki, “Ma persino quelli che hanno un interesse personale a soddisfare le richieste di Israele, con lo scopo di salvare l’ANP, non lo potranno fare ancora per molto.” Se il palestinese
medio ancora sostiene l' esistenza dell’ANP è
perché desidera un certo livello di ordine pubblico, aggiunge. “ La gente non vuole trovarsi
senza un potere centrale che sia in grado di evitare il caos e l’anarchia per le strade, anche se è
molto critica nei confronti dell’ANP e del suo
modo di operare. Ma i palestinesi sono disposti
a rischiare che collassi completamente, se ciò
accadesse nel contesto di una lotta per cambiare
lo status quo. Se ci fosse una buona ragione
perché crolli, allora [l’atteggiamento è] lasciamo che succeda.”
L’ANP ha compiuto 20 anni, ma critiche nei
confronti della sua efficacia si sono sentite già
all’inizio della seconda Intifada, nel 2000. Sono
tornate ed intensificate negli ultimi due o tre
anni, quando è apparso chiaro che l’ANP non è
stata in grado di ottenere nessuno dei due obiettivi per i quali è stata creata: la condizione di
Stato e la fornitura di servizi pubblici. Se a questo si aggiungono le sempre più acute difficoltà
economiche e la rottura con la Striscia di Gaza,
il quadro del fallimento è completo.
Lo studio conclude sostenendo che l’ANP potrebbe collassare in uno dei seguenti tre modi. Il
primo, lo scenario meno probabile, sarebbe la
decisione volontaria della dirigenza palestinese
di sciogliere l'ANP. Il secondo avverrebbe in
conseguenza del potere di Israele di punirla
economicamente, militarmente e politicamente,
insieme alla pressione politica ed economica,
soprattutto americana, in risposta a passi da
parte palestinese che violino l’attuale status
quo, come ad esempio far ricorso alla Corte
Penale Internazionale o dirigere una sollevazione non armata. La terza possibilità sarebbe il
crollo risultante da una agitazione e ribellione
interna palestinese.
21 marzo 2014, Ha’aretz,
(traduzione di Amedeo Rossi)
Squarcio nella recinzione dove Yusef è
stato colpito
(Itamar Barak, B'Tselem, 20 marzo)
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Ma quale “stato ebraico”?
di Ugo Tramballi
Prevale, tra le tante realtà che fanno oggi lo
Stato di Israele, la campagna che le destre e
una buona parte del governo stanno facendo in
nome di un anacronistico Stato etnico.
È superficiale sottovalutare o condannare
come “fascista” la pretesa di Netanyahu che
nella trattativa di pace sia considerata come
irrinunciabile “l’essenza ebraica dello Stato
d’Israele”. È parte della narrativa israeliana del
conflitto, come il diritto al ritorno dei profughi
lo è per i palestinesi. La questione è intendersi
sulle modalità dell’obiettivo: tra ammettere e
negare queste aspirazioni, il negoziato è in
grado di produrre una gamma di compromessi
intermedi.
Dai primi piani di spartizione territoriale dell’Onu alle proposte più avanzate e pacifiste per
la soluzione del conflitto (per esempio l’Accordo di Ginevra del 2003), si è sempre parlato di
uno Stato per gli ebrei e uno per gli arabi. Israele è esattamente nato per dare un rifugio agli
ebrei perseguitati di tutto il mondo. Il sionismo
non è un’ideologia razzista: è solo brutale come tutti i risorgimento nazionali, compreso il
nostro.
Tuttavia l’idea di nazione ebraica di Naftali
Bennett, ex imprenditore dell’hi-tech, ministro
dell’Economia, colono e leader del partito sciovinista Habayit Hayehudi (Casa Ebraica), è
piuttosto a senso unico. Per Bennett non solo
uno Stato per gli arabi palestinesi non deve
esistere: anche gli arabi cittadini d’Israele, dove non si possono espellere, devono essere
considerati cittadini di seconda classe. Questo
lo sono già nei fatti: secondo Bennett lo devono diventare anche per legge.
Sfortunatamente lo zelota Naftali non è solo.
Sono tanti i ministri degli Esteri italiani succedutisi in questo ultimo anno e mezzo. Tuttavia
ogni volta che Avgdor Lieberman viene in
visita alla Farmesina ed espone le sue idee sul
conflitto, gela il sangue ai suoi interlocutori.
Lieberman, oltre che vicepremier e ministro
degli Esteri israeliano, è il capo di Yisrael Beiteinu (Israele la Nostra Casa: hanno poca fantasia i nazionalisti) e un fan di Vladimir Putin.
Ma Naftali Bennet forse lo batte. Per contenuti, le sue assemblee di partito ricordano le adunate di Norimberga. “Dobbiamo mostrare tolleranza zero per le aspirazioni nazionali degli
arabi israeliani”, “Giudaizzare la Galilea e il
Negev (dove vive la maggioranza del 20%
della popolazione araba d’Israele, n.d.r.) è in
linea con i valori dello Stato”. Si parla di creare un’”Amministrazione per l’identità ebraica”
e di nuovo modello educativo “per rafforzare
Israele come Nazione-Stato ebraica”.
Ai molti che amano fare dell’erba di Israele
un unico fascio, vorrei tuttavia far leggere il
testo di una sentenza del giudice Aharon Barak, ex presidente dell’Alta Corte israeliana.
Barak aveva dato ragione ai Ka’dan, una famiglia araba israeliana alla quale era stato negato
il diritto di comprare casa in un villaggio abitato da ebrei. Naturalmente per Naftali Bennet il
giudice è un traditore.
Scriveva Aharon Barak nella sua sentenza
riportata da Ha’aretz: “Dai valori dello Stato
d’Israele come Stato ebraico e democratico,
noi non conseguiamo in alcun modo che lo
Stato debba discriminare fra i suoi cittadini... È
vero l’opposto. L’uguaglianza dei diritti fra
tutti gli esseri umani in Israele – quale sia l’affiliazione religiosa o nazionale – consegue dai
valori dello Stato d’Israele come Stato ebraico
e democratico”. Ecco il vero Stato ebraico che
nessuno al mondo può contestare. A parte Naftali lo zelota, naturalmente.
da Slownews, 12 marzo 2014
Entra nel suq di Gerusalemme...
un video tra colonie, muro e suppliche
Per Bennett non solo uno Stato
per gli arabi palestinesi non
deve esistere: anche gli arabi
cittadini d’Israele, dove non si
possono espellere, devono
essere considerati cittadini di
seconda classe.
Tutti i destinatari della mail
sono inseriti in copia nascosta
(L. 675/96). Gli indirizzi ai
quali
mandiamo
la
comunicazione
sono
selezionati e verificati, ma
può succedere che il
messaggio pervenga anche a
persone non interessate. VI
CHIEDIAMO SCUSA se ciò è
accaduto. Se non volete più
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preghiamo di segnalarcelo
mandando un messaggio a
[email protected] con
oggetto: RIMUOVI, e verrete
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Se hai uno smartphone verrai
rimandato direttamente al sito...
Riceviamo tante richieste di strumenti per sensibilizzare sull'occupazione ed è infatti fondamentale accompagnare i nostri “ragionamenti” geopolitici sulla Palestina con un alcune brevi immagini
della tragica realtà. Provate a far vedere ad un pellegrino appena rientrato da Gerusalemme queste
immagini. Vi dirà candidamente che pur essendoci stato una settimana, queste cose non gliele ha
mostrate nessuno.
BoccheScucite
ECCO IL LINK del VIDEO PAX CRUCIS da diffondere:
https://www.youtube.com/watch?v=xaRHFmnMGBQ
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