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Voci dai territori occupati 1 aprile 2014 www.bocchescucite.org numero 189 Ecco Yusef nel campo della sua famiglia a raccogliere akub, quel cardo che mamma era pronta a cucinare. Ma Yusef, 14 anni, è stato ucciso proprio qui dall’esercito, perché si è permesso di attraversare il muro che isola il suo campo dalla sua casa. Donatella e Amira: due donne e l'inferno di queste ore Quanto ancora dovremo aspettare? Anche ora uno sparo, e poi un altro! Ho paura. Soprattutto ho paura di farne l’abitudine. 24 marzo 2014, “Non è più finita. Dicono che a Jenin ieri hanno uccisi 6 palestinesi! Qui all'ospedale stanotte fino all'una gli spari hanno continuato. Il Caritas Baby Hospital dista dal campo profughi 100 metri. Ho sentito le grida della gente. Spari a raffica, in continuazione. Vi assicuro che fa male, molto male questa aggressione continua sulla popolazione! Tirano l'elastico fino a che si rompa e i palestinesi, non sopportando più... Così la giustificazione dell'esercito per “intervenire” è sempre pronta. Sogno che arrivi qualcuno che con la bacchetta magica metta fine a tanta sofferenza, ingiustizia, negazione dei diritti e prepotenza dell'esercito di occupazione. Cosa fare? A chi rivolgersi? E' ora di dire BASTA! Mettiamoci insieme! Possibile che non si possa fare niente? Possibile che ci sia connivenza con questa politica che sta distruggendo un popolo? Possibile che nessuno abbia un cuore? BASTA BASTA! Aiutateci a dire BASTA!”. sr. Donatella Si accavallano in questi giorni notizie sempre più pesanti, da Betlemme a Jenin a Hebron. I violentissimi “scontri” -come li chiamano i giornali- nei campi profughi, sono in realtà invasioni di centinaia di soldati, assedio dei villaggi, occupazione delle case a colpi di fucile, mentre dai tetti si fa fuoco su qualsiasi “oggetto” in movimento. Ed ecco alcuni ragazzi che riescono a far breccia nel muro di Betlemme, e le “risposte” cruente con il via libera del primo ministro Netanyahu: “L’esercito israeliano risponderà con la forza a chiunque organizzi attacchi allo stato di Israele”. Ma siamo stanchi anche di leggere così le notizie. Per questo abbiamo preferito il diario di Sr. Donatella alle più fredde agenzie di stampa e dopo di lei pubblichiamo la lettera che Amira Hass ha scritto ad un suo compatriota soldato: 21 marzo 2014. La paura dell'abitudine Da giorni gli spari continuano ininterrotti nel campo di Aida a due passi da noi. Gas lacrimogeni, bombe assordanti, pallottole di gomma e altro. Anche oggi mentre stavamo recitando il rosario lungo il muro. Incredibile! Pregare per la pace e a pochi metri si sparava! Mi fa impressione andare su e giù lungo il muro recitando ave marie e a pochi metri il suono degli spari. Terra Santa? Quanto ancora dovremo aspettare? Anche ora uno sparo, e poi un altro! Ho paura. Soprattutto ho paura di farne l'abitudine. Un suono ormai familiare che non mi fa più sussultare. Qui nei reparti anche i piccoli neonati sembrano abituarsi a questo sottofondo di morte. È un suono in mezzo ad altri, come quello del muezin che ora sta pregando e..... ancora un altro sparo! Finirà un giorno? Newsletter BoccheScucite 23 marzo I sassi di Davide, la bontà dell'uomo e la vita senza più valore... Anche oggi pomeriggio spari nel campo di Aida e anche ora mentre vi sto scrivendo! La gente e in particolare i giovani si ribellano: non accettano che la situazione continui così. Ma ecco...Davide non esiste più! La fionda e un sasso, anzi molti sassi non sono più sufficienti. Vi assicuro che sto dubitando sulla bontà dell'uomo... Sulla sua capacità di riscatto! Qui la vita, come in Siria e in qualsiasi parte della terra dove c'è guerra, non ha nessun valore! Da stanotte questo pensiero abita la mia mente ed è entrato nel mio cuore. L'uomo sembra non essere altro che un "animale" come spesso alcuni soldati israeliani chiamano i palestinesi! Cos'è la vita amici? Qui dove la VITA vera ha assunto la nostra natura umana, si fanno scelte contro la VITA! Mi fa paura questo. Ancora uno sparo! Signore non abbandonarci, aiutami a credere nel bello che c'e' anche se nascosto! Riprendo a lavorare da una stanza all'altra, abbracciando i sorrisi e i corpicini malati dei nostri piccoli del Charitas. Lettera al soldato che ha ucciso Yusef (14 anni) Caro soldato, tu sostieni di aver sparato ad un palestinese perché aveva sabotato la barriera di separazione. Quando eri a cena con la tua famiglia, venerdì sera, hai detto loro che sei stato tu ad ucciderlo, ricevendo l’approvazione di tuo padre e di tua madre? Oppure hai masticato il tuo riso e mangiato la tua bistecca in silenzio? Hai perso un po’ del tuo sonno pensando a Yusef? O sei forse convinto di avere eseguito un ordine, come un leale soldato, e che la colpa fosse di Yusef, un ragazzo nato il 15 dicembre 1999, che aveva 14 anni e tre mesi quando gli hai sparato? Ti sei reso conto di avere commesso un crimine, oppure ci vorranno alcuni anni prima che tu lo capisca? Ti sei reso conto almeno che l'unica colpa di Yusef era quella di essere uscito a raccogliere dei cardi - akub in arabo – per aiutare la propria famiglia a tirare avanti? (...) Lo sai, soldato, che dove ti trovavi e hai ucciso è terra palestinese? E che il villaggio di quei ragazzini, Deir al-Asal al-Fauqa, è stato occupato nel 1967 e i loro abitanti espulsi nel 1948? Tu hai sparato. Yusef si è messo a correre, mentre gli altri si buttavano a terra tu hai continuato a sparare. (...) Avete poi catturato gli altri due ragazzini che erano con Yusef. Li avete bendati e ve ne siete andati. Si sa, grazie agli ordini contraddittori che ricevete dai vostri superiori certamente avrete ritenuto che le vostre vite fossero in pericolo, e quindi il popolo di Israele ti applaudirà, perché tu fai parte del popolo di Israele. Amira Hass, Haaretz, 24 marzo 2014 2 Una stretta di mano e un buon viaggio sono stati gli ultimi consigli ad Andrea, amico di BoccheScucite che la sera seguente avrebbe dovuto già essere sotto la tenda di Daoud a Betlemme. Ma Israele ha deciso questo signore era in realtà “un pericolo per la sicurezza di Israele”... Arrestate quel terrorista! BoccheScucite: Se lo leggi sul giornale ti sembra impossibile che sia realmente accaduto. Ma se una "boccascucita" te lo racconta con la sua voce ferma, il suo volto pieno di amarezza e il suo coraggio di non fermarsi all'ipocrisia che deve sempre coprire tutte le azioni compiute dallo stato d'Israele, allora ti rendi conto che è successo proprio così. Andrea Pesce ha parlato... Andrea Pesce: Premetto che sono “arrivato” alla Palestina attraverso lo studio della Shoa', ossia del genocidio del popolo ebraico in Europa durante il nazi fascismo: anni fa, affrontando per motivi personali e di studio questo terribile capitolo della nostra storia, sentii che per capire meglio argomenti come l’antisemitismo, il razzismo, l’ingiustizia, la disumanizzazione delle persone, il conformarsi al pensiero dominante, e le conseguenze di tutto ciò, avrei dovuto conoscere Israele e la Palestina. Quindi, da circa 15 anni, visito quella Terra, da semplice turista, che tenta di comprendere, che si interroga e prova ad agire per il bene, nel proprio “piccolo”, degli israeliani e dei palestinesi. Tutto questo, senza alcun ruolo ufficiale, né come volontario, né come attivista, sempre solo come semplice visitatore che si fa delle domande e, se ne vale la pena, le pone agli altri, come cercherò di fare anche qui con voi. Durante l’ultimo viaggio, a dicembre 2013, avevo visitato Betlemme e sentito parlare della Tent of Nations, un’associazione che forse voi già conoscete e che mi aveva colpito per il metodo rigorosamente non violento e conquistato con il motto “ci rifiutiamo di essere nemici”. Avevo quindi preso contatto con loro e avevo programmato, all’interno di una lunga visita (un mese) in Israele e Palestina, anche dei giorni di volontariato alla Tent of Nations. Arriva quindi il giorno della partenza, lo scorso 18 marzo, con un volo El Al da Venezia per Tel Aviv: già all’aeroporto veneziano vengo fatto oggetto di un esame approfondito da parte del servizio di sicurezza israeliano sia riguardo il bagaglio che per il passaporto (gli israeliani, in base ad un accordo tra Enac e governo di Tel Aviv, possono operare in questo modo nei nostri aeroporti, sotto gli occhi di agenti italiani in borghese). Comunque, sono tranquillo, non ho niente da nascondere, non ho fatto niente di male, e quindi mi sottopongo a tutto piuttosto serenamente, tranne quando la ragazza deputata ad “esaminarmi”, con noncuranza mi chiede: “Sua figlia non è triste che lei stia via un mese?”. Newsletter BoccheScucite Questo genere di domande non hanno nulla a che fare con la sicurezza, con la famigerata “security”, cui gli agenti israeliani fanno continuamente ricorso per giustificare pratiche più o meno invasive. Vorrei tornare su questo punto della “security” più avanti. Poi mi dicono che devo acconsentire ad un ulteriore ispezione del bagaglio: acconsento. Allora mi informano che non posso portare la macchina fotografica in cabina con me (è una macchina vecchio stampo), e che deve essere caricata in stiva. Pregandoli di non spaccarmela, acconsento. Poi un ispezione sul mio corpo, acconsento. Poi un ulteriore controllo sul passaporto: acconsento. Solo quando mi dicono che forse il bagaglio non arriverà a Tel Aviv con lo stesso mio volo, mi agito: si è fatto tardi, è vero, ma solo perché durante il check-in il servizio di sicurezza ha fatto regolarmente sfilare davanti a me i passeggeri israeliani (immaginate qualsiasi altra compagnia europea o del cosiddetto mondo civilizzato che fa passare davanti a chi ha pagato il biglietto come tutti gli altri, i passeggeri della propria nazionalità...). Vedo che il pulmino esce dall’aeroporto, allora chiedo ai due giovani agenti se posso fare una domanda, mi rispondono “non ora”. Comunque alla fine... si parte! Al Ben Gurion Airport però le cose prendono una piega leggermente diversa. Dalle ore 19 del 18 marzo alle ore 19 del 19 marzo vengo, in sequenza, interrogato ripetutamente dalla polizia di frontiera, poi respinto, di nuovo perquisito (bagaglio e corpo) e infine detenuto in un cosiddetto “migration facility”, poi rispedito in Italia. Voglio sottolineare subito che quello che conta testimoniare qui è: A) non tanto e non solo il motivo del mio respingimento; B) quanto invece la successiva restrizione coatta in un luogo, che è semplicemente una prigione. A) poiché ho cercato inizialmente di nascondere il mio programma di volontariato presso la Tent of Nations, le Autorità Israeliane dicono ora (attraverso l’ambasciata italiana a Tel Aviv, che si sta dando molto da fare per seguire il mio caso, e di questo voglio qui dargliene atto) che dovevo chiedere un visto per volontariato; potrei obbiettare che dopo l’esame di Venezia ero stanco e volevo solo raggiungere il mio albergo; che ritengo gravemente lesivo della mia privacy il fatto che la polizia di frontiera israeliana possa accedere al mio account e-mail, senza chiedermene il permesso; che il clima creato dal medesimo staff addetto alla sicurezza è di palese inimicizia, disprezzo e lesioni dei miei diritti (per esempio chiamare la mia ambasciata: risposta sprezzantemente negativa); che dopo ore di attesa, interrogatori, domande ripetute e persino diniego di un bicchier d’acqua e/o di cambiare 3 delle monetine per acquistare una bottiglia d’acqua da un macchina dispenser, una persona normale, senza niente da nascondere, può anche cadere in contraddizione e/o confusione; che volendomi recare nella West Bank, occupata militarmente dall’esercito israeliano, ritenevo di essere sempre e comunque sotto il loro controllo, e quindi che fosse superfluo rivelare ogni mia intenzione, desiderio, sogno; che essendo Israele una democrazia certi metodi e pratiche fossero impossibili. Ma io chiedo spiegazioni per quello che é successo dopo. Alle ore 3 di mattina del 19 marzo vengo prelevato da due agenti (?) nella hall del Ben Gurion e accompagnato ad un pulmino fuori dalla hall stessa, ma sempre dentro all’area portuale. Nota bene: io avevo i miei averi dentro una borsa di plastica fornita dal personale dell’aeroporto, che nel frattempo si era trattenuta il mio zaino per motivi di sicurezza (ancora questa parola: “security”). Vedo che il pulmino esce dall’aeroporto, allora chiedo ai due giovani agenti se posso fare una domanda, mi rispondono “non ora”. Dopo 5 minuti il pulmino si ferma davanti ad una palazzina contraddistinta da un’alta rete metallica, ricurva alla sommità, e da sbarre alle finestre. Seguo all’interno i miei accompagnatori, che mi conducono in una stanza dove mi dicono di lasciare tutte le mie cose, compreso il cellulare. Chiedo di prendere una maglietta, un libro e una penna. Rispondono “ok, ma non la penna”, insisto, ma loro non cedono. Strano a dirsi, ma più che il dover abbandonare il telefono cellulare, e’ stata la negazione di una semplice penna a farmi realizzare che mi trovavo in una prigione. Poi vengo rinchiuso in una cella, dove già si trova un uomo che la mattina dopo mi dirà essere serbo. Non sono in grado di esprimere cosa ho provato e pensato durante le ore successive, chiuso nella cella. Posso solo dire che ho provato la necessità di “pensare” in un modo completamente diverso da quello cui sono abituato, l’unico che mi appartiene, altrimenti rischiavo di prendere a testate il muro. Ma non è facile... Alle ore 07.30, una “guardia” israeliana apre la cella, ed essendomi io catapultato fuori, mi grida aggressivamente: “Allora vai via stasera con un volo su Milano, si o no, si o no?” In lacrime, ho risposto “sì, vi prego, lasciatemi andare a casa”. Alle ore 17.35 (il volo per Milano era alle 18.20) sono stato prelevato dalla cella e caricato sull’aeroplano. Alle ore 22 del 19 marzo sono atterrato a Milano Malpensa. BoccheScucite: Ma secondo te, cosa c’è dietro questo accanimento che arriva a violare i fondamentali diritti della persona? Prima di tutto c’è un’errata e perversa interpretazione del concetto di “sicurezza”, la famigera- Newsletter BoccheScucite ta “security”. In questo periodo ho ripensato molte volte alla battuta di un vecchio palestinese, sentita presso il “confine” di Allenby, dalla Giordania ai Territori Occupati, dopo ore di attesa e interrogatori da parte delle forze di sicurezza dell’IDF: “gli israeliani pensano di essere gli unici al mondo ad aver bisogno di sicurezza”. In altre parole, la “security” è vissuta in Israele come un potenziale viatico alla negazione dei diritti altrui e, incredibile a dirsi, sembra quasi che vi sia una volontà più o meno esplicita di farsi odiare. Ma io non voglio odiare nessuno, sarebbe una negazione della mia umanità. Non odio gli israeliani, non voglio odiarli, vorrei parlare con loro, provare a spiegare, nella convinzione che per una convivenza pacifica e duratura si debba puntare all’umanità di ciascuno di noi, e che io ho intravisto, in alcuni brevi momenti, anche nei miei “carcerieri” e nelle guardie della Polizia di Frontiera Israeliana. BoccheScucite: È incredibile: Alla porta di casa che ti stava aspettando in Palestina c’è scritto: "We refuse to be enemies", ci rifiutiamo di considerarvi nostri nemici. I palestinesi resistono con una nonviolenza che è messa a dura prova ogni giorno da decenni. Alla luce della violenza che anche tu -che palestinese non seihai subito, come si potrà uscire da questa enorme contraddizione? Andrea Pesce: Nel mio piccolo, pensando a come agire ad un livello terra terra, credo che si debba puntare, attraverso metodi inequivocabilmente non violenti, alla “emersione” della realtà palestinese, della loro storia, dei loro traumi, della loro cultura, e della loro esistenza, soprattutto. I palestinesi esistono, esistono, esistono. Sono convinto che ci sia una gigantesca rimozione alla base della mentalità media israeliana, alla cultura israeliana, e forse questa rimozione 4 è presente anche nella cultura del popolo ebraico europeo e statunitense. Purtroppo il sotterraneo senso di colpa che attanaglia i governi europei, per gli orrori del nazifascismo e l’immensa, spaventosa tragedia della Shoa, non aiuta, non aiuta per nulla. La rimozione riguarda la presenza, storica e attuale, di un altro popolo sulla medesima terra dove gli Israeliani hanno fondato il loro Stato. In qualche modo, ricordare questa presenza e diritto all’esistenza, automaticamente ti trasforma nella migliore delle ipotesi in un “problema”, nella peggiore in un nemico. Questo spiegherebbe in parte l’atteggiamento nei miei confronti: ossia una testimonianza vi- Newsletter BoccheScucite vente, in carne ed ossa, di un “amico” dei palestinesi, e che quindi costringe a mettere in discussione la rimozione di quel “problema”. Questo atteggiamento è tenuto sotto controllo tramite la militarizzazione (cioè quando sono un soldato, una guardia, un’agente di sicurezza, non devo e non posso pormi alcuna questione di coscienza) e da una rimozione palese ed esplicita tra i civili: basta provare a parlare con un israeliano “medio” della questione palestinese e nel 99% dei casi la risposta sarà: “non parlo di politica”. Tutti abbiamo i nostri traumi, con cui dobbiamo convivere, e c’è chi, semplicemente, li rimuove. A livello individuale questo implica la capacità di confrontarsi con il dolore e la sofferenza. Ma a livello di massa, la rimozione può provocare dei crimini, più o meno gravi. Bisogna quindi, credo, fare ogni sforzo necessario per spiegare che la questione palestinese non è solo “politica”, che possiamo anche tralasciare, voltandoci dall’altra parte, ma riguarda quello che ci rende umani, palestinesi, israeliani, italiani, tutti. Yusef a-Shawamreh 5 Solo il raggiungimento della condizione di Stato potrebbe salvare la Cisgiordania da un’incombente ondata di violenze, crimini, caos, malattie, sostiene un importante rapporto palestinese. Sull’orlo del fallimento l'Autorità Nazionale Palestinese oggi di Amira Hass La gente non vuole trovarsi senza un potere centrale che sia in grado di evitare il caos e l’anarchia per le strade, anche se è molto critica nei confronti dell’ANP. Il collasso dell’Autorità Nazionale Palestinese trasformerebbe la Cisgiordania in un luogo violento e caotico, ad alto tasso di criminalità e a rischio per la salute. Ma, anche se la maggioranza dei palestinesi volesse la sopravvivenza dell’A.N.P., sia per amore di un fondamentale ordine sociale o per interesse personale, e nonostante i timori di Israele di dover farsi carico di tre milioni di palestinesi della Cisgiordania, il regime del presidente Mahmoud Abbas crollerebbe in poco tempo se Israele continuasse a ostacolare l’aspirazione palestinese all’indipendenza. Queste sono le conclusioni a cui è arrivato un consistente studio durato 6 mesi e condotto dal rinomato Centro Palestinese di Analisi e Ricerca Politica (Palestinian Center for Policy and Survey Research) di Ramallah, diretto dal Dr. Khalil Shikaki. Un gran numero di palestinesi ha un ben radicato interesse nel fatto che l’ANP continui ad esistere, sostiene Shikaki. I rapporti con l’ANP comportano “vantaggi di carattere finanziario, status politico e sociale, e ci sono ambienti che dipendono dai propri rapporti con l’ANP. Qualunque cosa dovesse succedere all'ANP li priverebbe di questi privilegi. Si tratta di organizzazioni, di gruppi economici o individui che hanno posizioni di potere che gli permettono di distribuire favori ai propri sostenitori. “Se ne avessero il potere, farebbero del loro meglio per evitare [il crollo dell’ANP],” dice Shikaki, “Ma persino quelli che hanno un interesse personale a soddisfare le richieste di Israele, con lo scopo di salvare l’ANP, non lo potranno fare ancora per molto.” Se il palestinese medio ancora sostiene l' esistenza dell’ANP è perché desidera un certo livello di ordine pubblico, aggiunge. “ La gente non vuole trovarsi senza un potere centrale che sia in grado di evitare il caos e l’anarchia per le strade, anche se è molto critica nei confronti dell’ANP e del suo modo di operare. Ma i palestinesi sono disposti a rischiare che collassi completamente, se ciò accadesse nel contesto di una lotta per cambiare lo status quo. Se ci fosse una buona ragione perché crolli, allora [l’atteggiamento è] lasciamo che succeda.” L’ANP ha compiuto 20 anni, ma critiche nei confronti della sua efficacia si sono sentite già all’inizio della seconda Intifada, nel 2000. Sono tornate ed intensificate negli ultimi due o tre anni, quando è apparso chiaro che l’ANP non è stata in grado di ottenere nessuno dei due obiettivi per i quali è stata creata: la condizione di Stato e la fornitura di servizi pubblici. Se a questo si aggiungono le sempre più acute difficoltà economiche e la rottura con la Striscia di Gaza, il quadro del fallimento è completo. Lo studio conclude sostenendo che l’ANP potrebbe collassare in uno dei seguenti tre modi. Il primo, lo scenario meno probabile, sarebbe la decisione volontaria della dirigenza palestinese di sciogliere l'ANP. Il secondo avverrebbe in conseguenza del potere di Israele di punirla economicamente, militarmente e politicamente, insieme alla pressione politica ed economica, soprattutto americana, in risposta a passi da parte palestinese che violino l’attuale status quo, come ad esempio far ricorso alla Corte Penale Internazionale o dirigere una sollevazione non armata. La terza possibilità sarebbe il crollo risultante da una agitazione e ribellione interna palestinese. 21 marzo 2014, Ha’aretz, (traduzione di Amedeo Rossi) Squarcio nella recinzione dove Yusef è stato colpito (Itamar Barak, B'Tselem, 20 marzo) Newsletter BoccheScucite 6 Ma quale “stato ebraico”? di Ugo Tramballi Prevale, tra le tante realtà che fanno oggi lo Stato di Israele, la campagna che le destre e una buona parte del governo stanno facendo in nome di un anacronistico Stato etnico. È superficiale sottovalutare o condannare come “fascista” la pretesa di Netanyahu che nella trattativa di pace sia considerata come irrinunciabile “l’essenza ebraica dello Stato d’Israele”. È parte della narrativa israeliana del conflitto, come il diritto al ritorno dei profughi lo è per i palestinesi. La questione è intendersi sulle modalità dell’obiettivo: tra ammettere e negare queste aspirazioni, il negoziato è in grado di produrre una gamma di compromessi intermedi. Dai primi piani di spartizione territoriale dell’Onu alle proposte più avanzate e pacifiste per la soluzione del conflitto (per esempio l’Accordo di Ginevra del 2003), si è sempre parlato di uno Stato per gli ebrei e uno per gli arabi. Israele è esattamente nato per dare un rifugio agli ebrei perseguitati di tutto il mondo. Il sionismo non è un’ideologia razzista: è solo brutale come tutti i risorgimento nazionali, compreso il nostro. Tuttavia l’idea di nazione ebraica di Naftali Bennett, ex imprenditore dell’hi-tech, ministro dell’Economia, colono e leader del partito sciovinista Habayit Hayehudi (Casa Ebraica), è piuttosto a senso unico. Per Bennett non solo uno Stato per gli arabi palestinesi non deve esistere: anche gli arabi cittadini d’Israele, dove non si possono espellere, devono essere considerati cittadini di seconda classe. Questo lo sono già nei fatti: secondo Bennett lo devono diventare anche per legge. Sfortunatamente lo zelota Naftali non è solo. Sono tanti i ministri degli Esteri italiani succedutisi in questo ultimo anno e mezzo. Tuttavia ogni volta che Avgdor Lieberman viene in visita alla Farmesina ed espone le sue idee sul conflitto, gela il sangue ai suoi interlocutori. Lieberman, oltre che vicepremier e ministro degli Esteri israeliano, è il capo di Yisrael Beiteinu (Israele la Nostra Casa: hanno poca fantasia i nazionalisti) e un fan di Vladimir Putin. Ma Naftali Bennet forse lo batte. Per contenuti, le sue assemblee di partito ricordano le adunate di Norimberga. “Dobbiamo mostrare tolleranza zero per le aspirazioni nazionali degli arabi israeliani”, “Giudaizzare la Galilea e il Negev (dove vive la maggioranza del 20% della popolazione araba d’Israele, n.d.r.) è in linea con i valori dello Stato”. Si parla di creare un’”Amministrazione per l’identità ebraica” e di nuovo modello educativo “per rafforzare Israele come Nazione-Stato ebraica”. Ai molti che amano fare dell’erba di Israele un unico fascio, vorrei tuttavia far leggere il testo di una sentenza del giudice Aharon Barak, ex presidente dell’Alta Corte israeliana. Barak aveva dato ragione ai Ka’dan, una famiglia araba israeliana alla quale era stato negato il diritto di comprare casa in un villaggio abitato da ebrei. Naturalmente per Naftali Bennet il giudice è un traditore. Scriveva Aharon Barak nella sua sentenza riportata da Ha’aretz: “Dai valori dello Stato d’Israele come Stato ebraico e democratico, noi non conseguiamo in alcun modo che lo Stato debba discriminare fra i suoi cittadini... È vero l’opposto. L’uguaglianza dei diritti fra tutti gli esseri umani in Israele – quale sia l’affiliazione religiosa o nazionale – consegue dai valori dello Stato d’Israele come Stato ebraico e democratico”. Ecco il vero Stato ebraico che nessuno al mondo può contestare. A parte Naftali lo zelota, naturalmente. da Slownews, 12 marzo 2014 Entra nel suq di Gerusalemme... un video tra colonie, muro e suppliche Per Bennett non solo uno Stato per gli arabi palestinesi non deve esistere: anche gli arabi cittadini d’Israele, dove non si possono espellere, devono essere considerati cittadini di seconda classe. Tutti i destinatari della mail sono inseriti in copia nascosta (L. 675/96). Gli indirizzi ai quali mandiamo la comunicazione sono selezionati e verificati, ma può succedere che il messaggio pervenga anche a persone non interessate. VI CHIEDIAMO SCUSA se ciò è accaduto. Se non volete più ricevere "BoccheScucite" o ulteriori messaggi collettivi, vi preghiamo di segnalarcelo mandando un messaggio a [email protected] con oggetto: RIMUOVI, e verrete immediatamente rimossi dalla mailing list. Se hai uno smartphone verrai rimandato direttamente al sito... Riceviamo tante richieste di strumenti per sensibilizzare sull'occupazione ed è infatti fondamentale accompagnare i nostri “ragionamenti” geopolitici sulla Palestina con un alcune brevi immagini della tragica realtà. Provate a far vedere ad un pellegrino appena rientrato da Gerusalemme queste immagini. Vi dirà candidamente che pur essendoci stato una settimana, queste cose non gliele ha mostrate nessuno. BoccheScucite ECCO IL LINK del VIDEO PAX CRUCIS da diffondere: https://www.youtube.com/watch?v=xaRHFmnMGBQ Newsletter BoccheScucite 7