L`orrore, l`immaginario e l`Occidente Di Attilio Mangano

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L`orrore, l`immaginario e l`Occidente Di Attilio Mangano
Immaginario sociale
21/11/2006
L’orrore, l’immaginario e l’Occidente
Di Attilio Mangano
1. Il falso e il vero dell’immagine
La foto che circola su Internet riprende il caporale Ted Boudreaux, un riservista dei marines
originario della Louisiana, assieme a un bambino irakeno : sono dava nti a un capanno,
presumibilmente in una zona desertica, sorridono entrambi e sollevano il pollice in alto in segno di
esultanza. Peccato che di questa foto circolino due versioni: una (inviata anonimamente a una
organizzazione americana per i diritti degli islamici, contraria alla guerra) fa vedere che il bambino
ha in mano un cartello in cui si può leggere: Il caporale Boudreaux ha ucciso mio padre e ha messo
incinta mia sorella; la seconda, messa in rete da un sito ideologicamente ostile ai pacifisti, vede
nello stesso cartello la seguente scritta, ben diversa: Il caporale Boudreaux ha salvato mio padre e
ha soccorso mia sorella. Infuria la polemica: il caporale Boudreaux si dichiara innocente, i marines
stessi indagano e si sono rivolti al Naval Criminal Investigative Services, esperti di scientifica
digitale. Quando dunque una foto, e in particolare poi una foto digitale, è vera?
E quanto vale il luogo comune secondo cui un’immagine descrive sempre la realtà per quello che
essa è davvero. La vicenda di questi stessi giorni , le foto false del Daily Mirror sulle torture di
soldati inglesi, (in cui il falso è stato documentato per così dire dall’esterno, dal fatto cioè che le
armi usate e il camion non fossero in dotazione ai soldati inglesi) segnala drammaticamente la sfida
in corso: in pratica tutte le immagini di una foto digitale possono essere falsificate e ciò può arrivare
alla lunga a punti estremi di messa in dubbio, a una situazione tale da poter far crollare la
convinzione stessa della foto come immagine vera della realtà. Che legittimità può avere la
fotografia come prova documentale sempre preferibile se essa può essere manipolata al punto da
annullare la verità?
Una delle grandi tesi dei fondatori di Medicina senza frontiere era quella per cui senza una
fotografia non esiste alcun massacro ed essa sembra essere confermata e smentita al tempo stesso
dagli ultimi avvenimenti: confermata perché il confine tra il visibile e l’invisibile rende reale
l’immagine di una scena di tortura come quelle delle carceri irakene e cancella - in quanto non
fotografate e non visibili- tutte le altre torture che nello stesso giorno , senza foto documentali, sono
state perpetrate in altre parti del mondo (quanti hanno letto negli stessi giorni la dichiarazione di chi
uscito dalla carceri cubane ha raccontato di essere stato torturato? La dichiarazione stessa non ha
fatto notizia, sopravanzata dalla prova visibile delle torture in Irak ). Essa è pero anche smentita
dall¹obiezione inerente la sua falsificabilità: il caso limite clamoroso è stato quello di pochi anni fa
per la ex Jugoslavia quando la stessa scoperta di fosse comuni era chiamata in causa come prova e
messa in dubbio perché in fondo non c’erano prove e foto di massacri, lo spostamento in massa di
popolazioni in fuga era indicato come prova del genocidio in atto e però ridotto dai critici a puro e
semplice spostamento indotto dai bombardamenti. Gli episodi recenti di uso propagandistico di
fotomontaggi e falsi vari sono sotto gli occhi di tutti: la finta immagine di Bush che guarda dentro
un binocolo coi tappi è comparabile con la finta immagine di Kerry seduto a un tavolo pacifista
mentre ascolta gli infiammati discorsi di Jane Fonda. (quest’ultima, in verità, era già approdata al
New York Times e c’è voluta la prova data dal vero fotografo, Ken Light, col suo negativo originale
per far vedere che Kerry non era accanto a Jane Fonda). Il successo di nuovi siti web che hanno
come oggetto lo smontaggio e la decodificazione dei falsi (tra cui il famoso Snopes. Com) o al
contrario la contro- informazione indica che la guerra è già in corso da tempo e la posta in gioco si
va precisando. Mettiamo da parte i problemi anche delicati e complessi di teoria estetica, di analisi
metodologica del rapporto tra fotografia e realtà che certo portano con sé un bagaglio di saperi
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specialistici che qui non è possibile approfondire oltre. Non ci fidiamo delle parole perché sono
parole, crediamo alle foto perché sono foto. “Tutto ciò è assurdo. - ha scritto il noto fotografo Pedro
Meyer- E’ nostra responsabilità investigare la verità, avvicinarci alle immagini con cura e
attenzione ”. In questo caso, prima di dar luogo nel lettore all’obiezione o all’accusa di ricorrere
tutto sommato ad argomentazioni sofistiche su ciò che è vero e ciò che non lo è, o a tesi di tipo
pirandelliano per cui “così é se vi pare” o perfino di escogitare argomentazioni diabolicamente
capziose da avvocato difensore della buona fede americana che insinua il dubbio ma siete sicuri che
le foto di torture corrispondano al vero? Per tutelare meglio il suo cliente, è opportuno riconoscere
che il sentimento diffuso di orrore e di disgusto che in gran parte del mondo ha assalito l’opinione
pubblica è un fatto reale e che è altrettanto reale quella specie di improvvisa scoperta del male che
ha spinto tante persone a pensare o a dire: “è troppo, basta” con autentica indignazione.
Per dirla in termini più chiari ed efficaci possibili, il fatto che ai tempi della guerra d’Algeria solo
121 intellettuali in Francia presero posizione di piena denuncia dell’atrocità delle torture che la
polizia e l’ esercito francese avevano praticato sui prigionieri algerini mentre oggi milioni di persone
sono insorte sdegnate è un grande segno di sensibilità democratica dell’opinione pubblica e indica
al tempo stesso la portata della differenza tra una denuncia ai mass- media e all’opinione pubblica
prima dell’epoca televisiva e media le- informatica e la nuova epoca. Ma è proprio questo rapporto
tra immagine dell’orrore e orrore reale a fare “problema” e a porre all’ordine del giorno l’analisi dei
suoi significati immaginari.
2. L’immaginario del vaso di Pandora e il male radicale
L’orrore disvelato torna a proporre in tutta la sua nettezza il tema del male radicale, ha scritto fin
dai primi giorni il filosofo Massimo Cacciari. “La realtà cruda è questa: solo quando la scopriamo
in tutta la sua oscenità, sbattuto in prima pagina, ci ridestiamo al male radicale che ci affligge, che è
proprio di noi uomini. Tutto ciò che combatte il terrore con le armi del terrore non ha diritto di
giudicare i criminali di Abu Graib. Ma proprio per questo pietà per i torturatori. Non solo perché
non sanno quello che fanno e si fanno. Pietà anche per la nostra natura che in loro si disvela
secondo la più perfetta misura della sua miseria ”. E dunque il contagio dell’orrore è improvviso
squarcio che si apre per “la nostra natura che in loro si disvela ”, l’insopportabilità di una
conoscenza reale del male. Pochi altri osservatori hanno avuto il coraggio di un simile discorso per
nulla consolatorio, ripreso in parte da Barbara Spinelli: “Diceva Hanna Arendt che gli uomini
normali non sanno che tutto è possibile. Non sanno che il desiderio di arrecare sofferenza e di
umiliare il corpo e l’anima dell’avversario in prigionia può divenire a tal punto banale - evento
piatto, alla portata di tutti - che chiunque può ammetterlo e sentirsi incolpevole e perfino
vantarsene. Non solo, è possibile che il torturatore - il volto vittorioso di chi mostra un trofeo, il
sorriso di chi è intimamente appagato, i gesti di esultanza - si faccia fotografare nel momento in cui
si compiace di torturare. Per chi e perché ha scattato quelle foto, se non per rivedere ancora e
ripetutamente il proprio corpo di fabbricatore del male assoluto Il tabù esiste proprio per questo:
perché nel giro di un attimo siamo capaci di scivolare dalla civiltà alla barbarie, e perché questa
realtà la fronteggiamo con sacralizzati divieti che è blasfemo intaccare. Sono discorsi che
riscoprono nel disvelarsi dell’orrore insieme la radicalità e la banalità del male, invitando ad aprire
piste di ricerca che però indicano il punto limite, una simbolica scoperta del precipizio e l’invito ad
arrestarsi prima, a metà strada tra la freudiana pulsione di morte e la cristiana com-passione, nella
comprensione della compresenza di sofferenza sadica, coazione e rottura del limite
nell’immaginario e del suo riformularsi, umano, troppo umano. (“Non chiamerei in causa la
bestialità, l’imbarbarimento, l’animalesco. Siamo nell’ambito dell’umano, troppo umano ”, scrive
sempre Cacciari in un altro intervento). E’ qui appunto che il discorso si complica e si chiude in se
stesso o cerca una via di sfogo, che può trovare forse la sua sintesi e chiave interpretativa nel mito
del vaso di Pandora.
Il disvelarsi dell’orrore è analogo insomma alla fuoruscita del male dal vaso di Pandora, alla visione
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di un processo in cui il disvelarsi non si arresta, il veleno cresce e corrode tutto intorno,
all’intuizione che questa banalità possibile del male è motore di fascinazione e che tutto ciò chiama
in causa le radici di una storia e di una cultura, (come fa ad esempio il Pasolini regista del film su
Salò spostando le 120 giornate di Sade ad altra epoca ,al nazismo appunto). L’immaginario del vaso
di Pandora rimanda a una colpa, a qualcosa di infranto, è questo il punto di congiunzione da
cogliere: se anche noi (occidente, democrazia , modernità) siamo traversati da questa colpa - ce lo
insegna la procedura rituale del “capro espiatorio” - dobbiamo anche noi espiare.
Se però la funzione rituale del capro espiatorio serve a “espellere” il male fuori di noi, trovando il
colpevole su cui convogliare la pena per purificare il mondo, l’insopportabilità del disvelarsi
dell’orrore, del “male che è dentro di noi”, fa scattare la domanda impossibile da risolvere: allora
noi (occidente, democrazia, modernità) siamo come quelli che si dichiarano nostri nemici e
praticano il terrore?
3. Il mondo è moderno, le persone antiche : l’immaginario e l’archetipo
Il lavoro di scavo attorno a questa domanda chiave è qualcosa cui è impossibile sottrarsi ma è anche
sovraccarico di ricadute nei topoi classici di antropologie “naturalistiche ”, oscillando fra la memoria
dell’archetipo e la continua ridefinizione “moderna” del rapporto fra natura e cultura, olismo e
individualismo. “Sei ancora quello della pietra e della fionda/uomo del mio tempo. Eri nella
carlinga/ con le ali maligne, le meridiane di morte/ - T’ho visto- dentro il carro di fuoco,/alle forche,
alle ruote di tortura. / T’ho visto: eri tu , con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio, / senza
amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora, come sempre” ( Salvatore Quasimodo).
E non a caso è proprio il carcerato Adriano Sofri a porre in tutta la sua drammaticità il dilemma del
moderno, dichiarando perentoriamente il suo sconvolgimento davanti all’immagine dell’aguzzinodonna. “La chiave di interpretazione dominante che vale per la guerra e in generale per la storia del
mondo, vale a maggior ragione per la tortura . La tortura è prima di tutto una manifestazione- la più
abominevole- della sessualità. La spoliazione della persona, la sua riduzione a corpo nudo, e la
degradazione del corpo nudo alla sua anonima genitalità, è qui il centro della tortura”. Sofri tocca
davvero il punto nevralgico ma si aggira attorno a un problema, le manifestazioni della sessualità
nella cultura umana, che ha una tale eredità complessa di tabù e di stereotipi “politicamente corretti”
da moltiplicare le domande stesse. Si pensi ad esempio come la “riduzione a corpo nudo” e la
riduzione del corpo nudo alla sua “anonima genialità” sia una caratteristica centrale
dell’immaginario erotico, a tal punto decisiva - suo malgrado- che parlare solo di “degradazione ”
non aiuta a capire una serie di manifestazioni e di rappresentazioni della sessualità in primis la
pornografia) in cui “l’intenzione sessuale” si manifesta appunto come assolutamente esplicita e
insieme candida, per così dire (sono gli aggettivi che Sofri usa a proposito dell’esplicitarsi nelle foto
irakene dell’intenzione sessuale della tortura). “Sodomizzazioni, sesso orale forzato, stanno da
sempre nel repertorio delle stanze da tortura” osserva Sofri, ma è lecito osservare che queste stesse
manifestazioni e infinite altre stanno da sempre nel repertorio dell’immaginario erotico , sicché il
discorso si complica. Che questo insieme di processi di oggettivazione del corpo, compresa la sua
“degradazione ”, stiano da sempre nelle camere “segrete” dell’eros aiuta a capire ad esempio il
groviglio inestricabile di natura e cultura operante nella pornografia , nel suo impasto permanente
di banalizzazione- degradazione- sacralizzazione (si pensi alla difficoltà di rapporto tra femminismo
e pornografia- per fare un esempio della complessità culturale dell’immaginario erotico- al fatto che
la condanna etico-politica della degradazione-oggettivazione del corpo femminile vede sempre
l¹albero e non la foresta). Sono solo accenni, sta di fatto che l¹intervento di Sofri ha in ogni caso il
grande merito di indicare la posta in gioco: da un lato infatti “una ragazza, e il suo ragazzone, che si
fanno le foto ricordo mentre torturano, torturano per farsi le foto ricordo”. Dall’altro, “qualunque
ordine o autorizzazione o omissione abbiano ricevuto, la loro allegra creatività (goliardia, ha detto
la povera madre della ragazza) è la rivelazione più significativa e irreparabile della vicenda”.
Ecco che l’orrore “rivelato” testimonia la sua stessa banalizzazione, si manifesta come rituale
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condiviso (nel suo intreccio “partecipato” di comando e obbedienza, che evoca uno dei grandi
passaggi interpretativi della moderna critica antropologica della politica, la volontà di servire di cui
parla Etienne de la Beotie ). Ecco la degradazione partecipata, in cui il comando è condiviso
culturalmente dallo stesso immaginario : l’agenzia specialistica coi suoi manuali moderni di tortura
indica tecnologie del corpo come procedure di umiliazione e lo fa, come dire, a ragion veduta, ben
sapendo (avendo cioè studiato e “culturalizzato” i tratti del pudore e della vergogna, della
degradazione e della pena,presenti nell’immaginario arabo) di arrecare offesa, di produrre una
ferita “significativa e irreversibile”, uno shock culturale. E’ questo insomma il vero peccato
compiuto, la scelta di rovesciare sull’altro la rottura del tabù. L¹altro grande merito dell’intervento
di Sofri va individuato nella capacità di riconoscere dentro lo shock culturale la simbolizzazione
dell’evento: il fatto che l’aguzzino sia donna indica il punto limite del percorso della liberazione
femminile: la “sbarazzina ventenne americana che tiene al guinzaglio- alla catena ” sembra proprio
rivelare la parola d’ordine-limite della sua stessa libertà: “Avete da guadagnarle le vostre catene.
Per quanto dunque sia lecito scherzare ancora oggi sull’ingenuità favolosa di quei nostri antenati”
che credettero di battersi per dieci anni a Troia per la bella Elena è arrivato il momento di accorgersi
che anche gli ultimi, quelli che non avrebbero da perdere che le loro catene, hanno da perdere le
loro donne. Quel che più conta, se ne sono accorti loro, gli ultimi: da quando le distanze si sono così
accorciate da renderli spettatori di un mondo in cui le donne diventano padrone di sé.
Dunque la vittoria di quel mondo avverte il pastore errante nella steppa dell’Asia col suo gregge e le
sue donne e il suo televisore satellitare che una simile oltraggiosa destituzione può toccare anche a
lui. L’evento rivela dunq ue la discontinuità, lo scarto che si riapre: l’uomo è moderno, lo è anche il
pastore errante col suo televisore satellitare, ma rimane antico. Sofri dice per la precisione: “il
mondo è moderno, le persone antiche”
4. Quale ammissione di colpa? Della donna? Dell’Occidente? Del moderno?
Anche Sofri perviene a una sorta di ammissione di colpa che chiama in causa proprio quella
difficoltà di comprensione e rispetto che si rivela appunto nel “vero” confronto che si viene aprendo
tra Occidente e Oriente, quello sulla posizione della donna. All’origine dei movimenti di
opposizione islamisti, dal wahabismo ai fratelli musulmani a Bin Laden, sta lo scandalo per i
costumi sessuali occidentali e per la condizione delle donne. “Le puttane ebree e americane. Una
piega sessuale segna lo stesso terrorismo suicida-omicida” aggiunge Sofri ricordando le donne
cecene stuprate dai russi che vengono indotte a divenire attentatrici suicide per riscattarsi o le
kamikaze di Hamas che portano in grembo il figlio di un adulterio. Tutto questo orrore ha trovato
nelle fotografie di Abu Ghraib la convalidazione che gli islamisti volevano, oltre le proprie stesse
immaginazioni frustrate o morbose e occorre chiedersi quale uso delle foto stiano facendo gli sciiti
e anche i pasdaran iraniani per restituire le donne alla prigionia di sempre. La colpa delle foto di
tortura è dunque di fare il gioco del terrorismo, che può ritenere di essere legittimato a reagire
all’offesa , l’affermazione è però in parte incauta e può trovare una sua obiezione: in che misura
l’esistenza stessa di ebrei ricchi e dediti all’usura può essere evocata come qualcosa che faceva il
gioco dell’antisemitismo? L’esistenza di zone dell’immaginario è uno spazio specifico, che esiste
sia prima che dopo l’azione terroristica, che a sua volta non si cura di dover rispondere della propria
azione secondo i criteri del diritto ma si nutre appunto di un suo peculiare immaginario dell’odio e
si autolegittima.
La fine dell’articolo di Sofri è quasi un aut-aut: se, andando a casa loro per liberarli sorridia mo
anche noi alla nostra collega fotografa dal bordo della catasta di corpi nudi che abbiamo
ammucchiato a botte, avremo ancora il diritto di provare dolore, ma non più di provare sgomento, al
prossimo 11 settembre. Il filo sottile che unisce ammissione di colpa e autocolpevolizzazione
continua a essere teso.
“Che cosa siamo noi donne, dopo Lynndie England?” si chiede a sua volta la femminista Marina
Terragni, che vuole riassumere il senso di spavento provato. “Lynndie non è l’emancipata. Lyindie
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è la figlia dell’emancipata, nata a cose fatte, quando l’idea ormai si era fatta carne. E’ vedere che
l’estremo del cammino delle idee quando vanno troppo libere e slegate dai corpi c’è la loro
(s)tortura, in fondo alla libertà non c’è più libertà, in fondo all’amore nemmeno più amore.
Se tante volte abbiamo detto che il conflitto tra i sessi è al centro di questa guerra e della guerra
delle nostre vite, e della politica e della storia, adesso ne abbiamo le prove documentarie
deliziosamente fetish con slippini e guinzagli, sofferenza e godimento”. Per questo però non è
possibile gettare via, per orrore della tortura corporale, la corporeità, “bisogna rimettere al centro
ciò che è al centro, finirla lì di torturarci e di torturare strappando slippini e guinzagli al contesto
opaco dell’orrore per riportarli nella sola luce che ci viene data, quella dell’amore. Avere per
esempio il coraggio, noi donne e noi femministe, di riparlare di sesso e di piacere, territori
abbandonati delle origini”.
Difficile sapere quanto questo rilancio del “coraggio di parlare di sesso e di piacere” sia condiviso
da altre donne del femminismo, la preoccupazione di dis tinguersi dalla aguzzino-donna è forte.
Sia Sofri che la Terragni indicano in qualche modo una sorta di superamento del limite, una surmodernità come effetto perverso, in cui “le idee vanno troppo libere e slegate dai corpi”,
riproponendo quanto meno in termini impliciti la distinzione tra libertà e licenza: la tortura ha
sempre un retroterra nella sessualità e però ne costituisce l’estremizzazione ;in cui il tutto è lecito.
In questo senso c’è una ammissione di colpa che chiama in causa non tanto la modernità ma la sua
ingenua pretesa di estensione lineare, di accelerazione, di superamentro del limite, l’idea che ci sia
sempre e comunque un progresso. “Penso che dobbiamo abituarci a cons iderare la modernità come
qualcosa di staccato e di dissociato e opposto alle persone ”, scrive Sofri, mentre i suoi frutti si
accumulano e si depositano “in modo astratto e incontrollabile”. Qui è il punto di incontro fra una
ricerca delle “colpe” possibili della modernità stessa e l’immaginario del vaso di Pandora, della
fuoruscita inarrestabile del male. Il retroterra culturale è nel nichilismo (Barbara Spinelli) del
dostoiewskiano “se dio è morto tutto è permesso”, fino alla caduta del tabù. E i tabù non cadono da
un giorno all’altro, “la caduta è preparata da un generale permissivismo, da una cultura
dell’impunità, da parole che smorzano il tremendo e sono chiamate eufemismi, perché rendono
accettabile il male evitando di nominarlo. Infatti le autorità Usa non parlano di tortura: parlano di
abusi, di condizioni che facilitano l’interrogatorio, di trattamenti fisici, di errori. Questa cultura che
ingentilisce la colpa ha messo le radici molto tempo prima, non solo in America ma in Occidente, e
l’11 settembre ha accelerato la degradazione.” Il passaggio al giudizio più marcatamente politico è
quasi automatico in questa analisi: “sono bastate alcune fotografie e tutta la retorica si è sfasciata.
E” quel che accade quando una democrazia come l’americana ha l’arroganza di credere che tutto le
sia permesso: che solo per lei valga l’impunità. Non ha torto il senatore Ted Kennedy, quando dice
che la Statua della Libertà è caduta per terra”. Il nesso tra orrore e colpa si chiarisce attraverso
l’individuazione del sottobosco del permissivismo e del nichilismo e nel suo contraltare del tabù che
si rompe. La colpa della tortura, della donna-aguzzino, del commpiacimento dell’umiliazione, è in
un’arroganza del potere cui tutto è consentito, la politica USA è in questo senso il simbolo del
superamento del limite, il rivelarsi dell’orrore chiama in causa le nostre radici. Sofri e Spinelli sono
il punto alto di una cultura delle colpe dell’occidente che si pone certo con serietà di fondo il
problema del perché dell’orrore, ma esso ha per altri versi un suo sviluppo accelerato, una suo
automatismo mass-mediologico, un suo ideologismo che recupera la vulgata e incontra nella sua
strada l’anti-americanismo diffuso, la mentalità e lo schema per cui bene o male quel che accade è
colpa nostra, la faciloneria di un pacifismo in cui è più importante la denunzia dell’errore, la guerra,
per sottolineare l’urgenza del tirarsi fuori da questa, come se bastasse tirarsi fuori per risolvere il
problema.
5. Mele marce, catena di comando, responsabilità
Per semplificare: è colpa nostra, ce lo siamo cercati. L’11 settembre delle torri gemelle è la risposta
alle nostre colpe. Caustico come suo solito l’elefantino di Giuliano Ferrara: “Paolo Mieli ha
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ripubblicato nel Corriere della Sera frasi di Alexis de Tocqueville sulla necessità di brutalizzare il
nemico arabo di allora per dimostrare che il rischio tortura è dentro di noi, ne l nostro stesso codice
migliore”, definendo l’interrogativo autocritico su ciò che è dentro e ciò che è fuori come una
specie di trappola autodissolutoria in cui le torture di Abu Graib diventano “un altro caso alla
vietnamita di autocolpevolizzazione dell’Occidente”.
L’immaginario del vaso di Pandora produce nel circuito mediale il susseguirsi delle immagini come
scoperta e denunzia, un film a puntate, un processo appena iniziato che riserva altro male e altre
sorprese. Ed è normale che l’opinione pubblica democratica voglia discutere e sapere chi è il
colpevole, non si accontenti di una smentita, voglia prove, conferme, individuazione di
responsabilità. E’ appunto “il codice migliore” dell’occidente che lo impone. In questo senso
sarebbe ingenuo lamentarsi di come tutto ciò vada in politica, ci mancherebbe che non vi andasse,
non è mai bieca “strumentalizzazione ” una lettura politica delle cause, una individuazione degli
errori, un riconoscimento delle responsabilità, una ricerca di soluzioni diverse. Tuttavia il prezzo da
pagare a questa politicizzazione media le è lo spostamento dai significati immaginari ai significati
pratici, il condensarsi delle interpretazioni in schemi, che hanno il merito (e il limite) di
semplificare: la domande diventa di chi è la colpa e lo scontro si politicizza nei due schemi
contrapposti, lo schema cosiddetto delle mele marce (i colpevoli singoli sono individuati o verranno
individuati, il vizio non è nel sistema ma nei singoli e limitati errori) e lo schema delle colpe in alto,
poiché chi coma comanda non poteva non sapere.
Lo scontro politico è inevitabile e perfino salutare, la sloganizzazione lo è però molto meno.
Lo schieramento che va dal centro-sinistra ai no global cerca di risolvere i suoi contrasti trovando
nella parola d’ordine del ritiro immediato dei soldati italiani la parola d¹ordine unificante, convinta
che “l’effetto Zapatero” possa dare i suoi frutti elettorali fino a mettere da parte ogni indicazione
politica del “che fare” per la stessa stabilizzazione medio orientale. Solo Massimo Cacciari , quasi
un Pierino di turno inascoltato, dice le elementari verità. “Oggi si è scoperchiato l’inferno, bisogna
evitare che esploda. L’Europa non ha nemmeno tentato di trovare una via unitaria, non mi risulta
che i paesi europei si siano mai seduti allo stesso tavolo per approntare il testo di una risoluzione
dell’ONU che preveda un completo mutamento della strategia. Vanno tutti in ordine sparso”.
E ancora: “Il banco di prova è l’Iraq. Come possiamo dire che vogliamo una politica estera comune
o la riforma delle Nazioni Unite e poi non praticare la strada dell’Europa e di un nuovo ruolo
dell’ONU?”.
Il punto debole della teoria “colpevolista” antiamericana non è tanto la critica della politica
americana in Iraq con tutti i suoi errori (tattici, politici, militari) ma la implicita convinzione che
quel complesso di logiche, ideologie, pratiche, attentati e guerre che costituisce il “terrorismo” sia
una risposta e una reazione agli Usa, non un progetto strategico antioccidentale nel suo insieme,
neototalitario nel suo insieme, antisemita nella sua cultura di fondo ,non insomma un nemico reale
che conduce una guerra asimmetrica e ha chiari i suoi stessi obiettivi. E’ proprio la paura e la
riluttanza nell’accettare l¹idea stessa che il nemico esiste non perché lo definiamo noi ma perché
persegue una sua guerra strategica. In questo senso le azioni del “terrorismo” non sono la risposta
all’intervento americana, qual cosa che “ci siamo cercati”, ma rispondono a una logica più generale
di guerra anti-occidentale che non ha in mente alcun accordo possibile, nemmeno con i paesi
europei. Le equiparazioni servono a poco, tanto meno se danno luogo a una miserabile “contabilità
degli orrori” (Sergio Romano) in cui una testa mozzata si giustifica come risposta alla tortura e
viceversa.
E’ vero però che l’interpretazione che formalmente ribadisce che la vicenda delle torture riguarda
solo dei “casi circoscritti” che verranno perseguiti individuando quali e quante siano le
responsabilità nella “catena di comando”, in sé ineccepibile nello specificare dovutamente come in
una democrazia la tortura sia comunque un crimine da perseguire, non si cura di analizzare le cause,
le trasformazioni stesse che sono alla base del nuovo tipo di esercito in USA e che consentono se
non autorizzano di fare a meno di regole internazionali , mentre il punto da cogliere è proprio
questo. Come osserva infatti Michael Walser, il famoso autore di “Guerra giusta ed ingiusta”, è il
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tipo di modalità che produce il tipo di conseguenza: “L’amministrazione ha affidato le prigioni a
contractors privati , riservisti impreparati, ragazzi a cui ha taciuto della Convenzione di Ginevra,
secondini dai dubbi trascorsi. Io denuncio la privatizzazione delle carceri in America da tempo.
Privatizzarle in Irak è stata una scelta ideologica. Significa diminuire il senso della pubblica
responsabilità, non rispondere politicamente di ciò che può accadere”. Ne discende un gravissimo e
particolare tipo di perdita di credibilità della politica militare degli Usa che rende legittime e più
che doverose le critiche poiché “il danno arrecato dallo scandalo al nostro rigore morale, alla nostra
immagine, al nostro cinismo, è stato enorme”.
A questo punto il riconoscimento del costituirsi di specifiche subculture del ricorso alla paura,
all’umiliazione e alla tortura stessa come di un qualcosa che pretende di avere una sua
legittimazione politica nel fatto che “dopo l’11 settembre ci siamo tolti i guanti” (affermazione di
Cofer Black, ex direttore del contro-terrorismo) è riconoscimento di qualcosa di più di un semplice
errore, è il punto debole della teoria delle mele marce o dei casi circoscritti. “Per la semplice
ragione - ha osservato Cacciari- che un ragazzotto dell’Alabama può riempire di pugni e calci un
prigioniero irakeno, ma non fa piramide di persone denudate, e non gli viene in mente di mettere le
mutandine in testa a un imam. Quelli sono atti ispirati da chi conosce la civiltà islamica, da chi sa
bene che cosa possa offendere più profondamente e irreversibilmente quella sensibilità e quella
cultura”. Ancora un problema di modelli culturali inerenti il diritto di guerra , che va al di là
dell’episodio, ma che trova nell’episodio la conferma di ciò verso cui può precipitare anche una
democrazia come quella americana
6. Perdere l’anima?
Oltre a Michael Walser una sottolineatura importante del cambiamento in corso nell’esercito Usa
(ma non solo in quello) viene da Ernesto Galli Della Loggia che ricorda come i liberatori americani
del 1944 colpivano immediatamente per tre ragioni, per il tratto disinibito e cordiale degli uomini,
senza distinzione di rango; per la ricchezza dell’intendenza (vera cornucopia di ogni bendiddio dalle uova in polvere alla penicillina alle calze di nylon) e infine per la quantità di occasioni
culturali e di intrattenimento che facevano da contorno, film, libri, giornali, trasmissioni radio, cicli
di conferenze etc. L’attuale esercito è molto diverso, sembra fatto solo per vincere la guerra e basta.
Gli esperti ci dicono che ormai la sua intendenza è ridotta a ben poca cosa perché tutto è dato in
appalto in outsourcing,che il numero dei suoi effettivi deve essere ridotto all’osso perché in un
esercito di mestiere ogni uomo costa molto e d’altra parte l’opinione pubblica non sopporta un
numero eccessivo di soldati sotto le armi. Ma è proprio così, per l’appunto, rinunciando alla leva,
trattando le forze armate come una qualunque azienda che “produce sicurezza” al minimo costo
possibile, teorizzando di conseguenza la guerra come pura tecnica di impiego della forza, è in
questo modo che lo strumento militare rischia nei nostri paesi di perdere, insieme alla
rappresentatività nazionale, anche la propria anima. Rischia, come sta succedendo agli eredi di
Omaha Beach e di Guadalcanal, di consegnare il proprio onore nelle mani di aguzzini
semianalfabeti guidati da gelidi esperti di intelligence. Siamo di fronte insomma a una serie di
trasformazioni di fondo, in cui il peso di ciò che potremmo chiamare l’indotto diviene
preponderante, il fattore guerra - visto come vera e propria produzione aziendale di risultati militari
vincenti - moltiplica gli strumenti laterali che fanno da supporto, affidando alle varie agenzie
specializzate (nella distribuzione, nella sicurezza, nell’informazione, nei trasporti etc.) lo
svolgimento di compiti specifici”. Ecco di nuovo Walser: “Abbiamo appena un’ idea di quanti siano
in Iraq i lavoratori a contratto e di quanto vengano pagati. Ma quel che più importa è che questa
gente non è responsabile per il diritto militare USA e allo stesso tempo si è vista garantire una
completa autonomia nei confronti d¹una qualsiasi giurisdizione irachena futura.
Se commette crimini in Iraq, dovrà essere perseguita in America, ma è molto difficile che ciò
accada. Quindi devono rendere conto solo a chi li ha messi sotto contratto; il quale è responsabile
solo di fronte al Dipartimento della Difesa. Difficile calcolare davvero, proprio per il caso irakeno
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(ma vale per molti altri contesti e se si aggiunge lo specifico ruolo di strutture apposite,
organizzazioni non governative, ospedali, assistenza, commercio, tecnologie, volontariato di dive rso
ordine, strutture Nato, strutture ONU, agenzie europee etc. si comprende quanto sia ampio e
articolato il panorama stesso) quante decine di migliaia di operatori, specialisti, servizi segreti,
agenzie, operi in questo momento, un vero e proprio sottobosco cui ovviamente aggiungere - con
conto a parte - giornalisti , televisioni etc. Non si tratta di richiamarsi nostalgicamente a un presunto
bel tempo antico della guerra (quale?) ma di comprendere come questo processo multiplo di
privatizzazione di mansioni, compiti e affari particolari ad agenzie apposite può apparire più
“produttivo” solo a prima vista come mera opera di razionalizzazione e di divisione mentre in realtà
risulta sempre più aziendalizzato , parcellizzato, privo di una identità di fondo, ridotto a operazioni
di scomposizione-ricomposizione in cui non si vede né un tratto culturale comune né una reale
presenza nel territorio se non, come si suol dire, “calata dall’alto” e artificiosa.
E’ qui che la perdita dell’anima di cui parla Della Loggia si riconnette a una logica di mutazioni di
cui manca il codice di valore. Ritroviamo nell’analisi di Cacciari il quadro interpretativo di fondo:
“la guerra è andata assumendo, dal primo conflitto mondiale in poi, sempre più la forma della pura
inimicizia, e il terrorismo ha prodotto la radicalizzazione di questa tendenza. Questa è la deriva in
cui navighiamo, e se non mettiamo dei paletti, se cioè non ridefiniamo dei codici in questa nuova
situazione, se non riscriviamo i diritti dei combattenti, vincerà veramente la “barbarie”.
Una forma di discrimine fra combattenti regolari e “banditi” ha comunque retto fin quando la guerra
è stata soprattutto fra Stati e si è basata sulla Convenzione di Ginevra. Ora la guerra oppone gli Stati
ai banditi e non possiamo decidere che ci trattiamo da bestie, gli uni con gli altri, che noi torturiamo
mentre loro decapitano”. E¹ noto che la fragilità di una democrazia dipende dal suo rapporto vitale
con l¹opinione pubblica, plurale e oscillante, una fragilità a suo modo positiva perché se il
terrorismo coglie in ciò un elemento di debolezza è invece la preziosità di questa fragilità a valere e
ad avere la meglio. Quando l’opinione pubblica è consapevole di ciò si arriva perfino a morire per
la democrazia e contro il totalitarismo. Ma se non si avverte la preziosità del bene-democrazia
rimane solo la sua fragilità. “E se le democrazie si mettono a torturare, perché dovrei ritenerle
preziose? Contro gli integralismi che vogliono terrorizzarmi ed edificare torri di Babele, sono
disposto a morire. E’ il terrorista che non deve rendere conto di nulla a nessuno, non noi che lo
vogliamo combattere. Deve rimanere ben percepibile la differenza ”. E’ in questo scarto fra il non
dover rendere conto a nessuno (terrorismo) e dover sempre rendere conto agli altri (democrazia) che
la questione stessa di come rispondere ad azioni non regolari , caratteristica della stessa guerra
asimmetrica, riapre la questione delle scelte in termini che non possono mai essere solo tecnici,
produttivi, in cui conta il risultato a prescindere dalle “regole” con cui lo si raggiunge.
7. L’immagine della testa mozzata e l’autocensura
L’immagine della testa mozzata del soldato americano ha provocato, come è noto, un nuovo
groviglio di reazioni contrastanti e posto il problema del confronto, come se davvero si fosse
arrivati alla logica del pari e patta, accettando l’ idea che la decapitazione sia una risposta alla
tortura. L’argomentazione sensata è comunque infine emersa “Nulla di ciò che l’ America ha fatto
giustifica la spaventosa crudeltà dell’esecuzione di Nicholas Berg; e d’altra parte la sua morte non
vale a diminuire in nulla la vergogna dell’America e la responsabilità dell’amministrazione Bush
per il brutale trattamento inflitto ai prigionieri” (New York Times)
Anche mettendo da parte gli aspetti più smaccatamente gridati e animatamente forzati della
polemica sulla opportunità o meno di mandare in onda o di pubblicare foto della testa mozzata (tra
cui però spicca per gusto gaglioffo il direttore de “L’Unità”, Furio Colombo col suo incredibile
articolo “Il TG5 accoglie le richieste degli assassini” con la tesi per cui mandare in onda il video
dell’esecuzione significa soddisfare le richieste dei terroristi), è visibile che sono stati toccati dei
nervi scoperti. Il caso- limite, ma non proprio, anzi forse varrebbe la pena di caso emblematico, è la
sequela di imbarazzi, reticenze, contraddizioni, insulti emersa nel blog delle sinistre no global
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Indymedia: se si appoggia la “resistenza” irakena contro gli occupanti perché non prendere in
considerazione il problema del diritto di rappresaglia? Ma chi autorizza chi in un caso simile?
Hanno un mandato morale? Il caso-limite vero non è tanto questo ma l’imbarazzato silenzio di gran
parte di stampa e media, con il non-detto che si rivela: se lo sono cercati (gli americani).
Ma proprio per questo occorrerebbe scavare più a fondo nel sottobosco dell’immaginario
politicamente corretto, quello stesso che sa che la tortura esiste ed è momento-estremo della stessa
cultura occidentale, legge non dichiarata, pratica segreta, che trova nelle istituzioni totali il suo
manifestarsi “normale” (e che, proprio per il suo aspetto patologico di crimine contro l’umanità
rivela l’orrore e torna a essere perseguito attraverso l’individuazione e la condanna dei colpevoli) e
che invece non sa capire la differenza. Ha detto chiaramente Galli Della Loggia che “alle immagini
delle torture sappiamo come reagire: sappiamo cos’è la tortura, come e perché ci si arriva, e
sappiamo soprattutto cosa dobbiamo pensarne: non possiamo che essere contrari.
Invece di una cultura in cui per odio ideologico si arriva a praticare lo sgozzamento-decapitazione
di un innocente inerme senza che al suo interno si levi un coro indignato di proteste, di questo non
sappiamo cosa pensare. La nostra stessa cultura attuale ci obbliga a pensare che non è legittimo
esprimere giudizi di valore che in qualunque modo riguardino le culture. La barbarie della nostra
cultura (che ha nome nazismo, comunismo e tanti altri ancora) quella sì sappiamo riconoscerla e ci
sentiamo anche autorizzati a nominarla, ma la barbarie che affonda le radici nelle altre culture no, in
questo caso abbiamo paura di essere presi per razzisti nemici del multiculturalismo. E’ per questo
che censuriamo le immagini dello sgozzamento-decapitazione di Nicholas Berg”.
Dunque l’autocensura è in qualche modo inconscia (a prescindere dalla responsabilità personale e
politica di chi dirige i media e ne orienta le scelte, che è invece quella tipica di un’operazione
ideologicamente selettiva) e ha perfino una sua estrema logica difensiva di ritrarsi davanti all’orrore
per “stare in pace”. Ma il danno politico e culturale è la ennesima ricaduta nella “semplificazione” e
questo immaginario lavora in silenzio, ha le sue stanze, i suoi punti fermi politicamente corretti: in
questo caso la tesi per cui chi “ha voluto la guerra è responsabile dei suoi effetti e delle sue ricadute
e solo la sua condanna e la sua sconfitta (della coalizione presente in Iraq) può riportare la pace, tesi
politicamente ingenua in cui però agisce il sottobosco dell’immaginario, lo schema binario causaeffetto, azione-reazione, con l’univocità fissa dell’immagine stessa
Quella stessa univocità è operante nell’immaginario dell’odio, in cui il nemico capro-espiatorio è
attore e simbolo del male e basta eliminarlo per eliminare il male. L’innocenza lineare dello schema
mentale che fissa e decreta il significato dell’immagine va conosciuta e studiata nei suoi effetti allo
stesso modo in cui va capita e riconosciuta la non- innocenza della veicolazione dell’immagine
stessa nella comunicazione simbolica. Ha notato acutamente a questo proposito David Bidussa che
“la scelta delle immagini da mostrare, conservare e ricordare, in breve la costruzione dell’album
pubblico non è una questione né innocente né oggettiva. Non abbiamo che l’ imbarazzo della scelta,
ma quella scelta non sarà casuale”. Bidussa fa volutamente degli esempi, si può decidere di
”sintetizzare il vissuto dell’ebraismo nel momento in cui Abramo alza il coltello su suo figlio o nel
passo di Ester in cui si dice che gli ebrei uccisero tutti i loro nemici con la spada, si può scegliere
come icona del cristianesimo il rogo dei libri o lo squartamento degli eretici.
Sono immagini che stanno in quelle storie e nella memoria culturale di quelle esperienze. Il
problema non è se quelle immagini siano vere o false, il problema è se esse siano o no la sintesi di
quelle storie e dunque se alludano al carattere intrinseco e ultimo di quelle credenze e di quelle
esperienze. Noi siamo convinti del contrario non perché non ce le ricordiamo (o perché le
eliminiamo) ma perché ,quelle immagini stanno accanto ad altre che ci compensano del disagio
indotto da quelle stesse immagini. E dunque, alla fine, perché riteniamo che la realtà è complessa e
compito della qualità della ragione è distinguere. A fare mucchio ci pensano già i fondamentalisti”.
C’è dunque un fondamentalismo dell’immagine quando il suo significato condensa il mondo; così
come esiste un fondamentalismo dell’immaginario quando esso riduce il significato a una sorta di
fissazione, di coazione-a-ripetere (tra l’altro, detto per inciso ma non per questo meno significativo:
gli studi sull’immaginario erotico sottolineano spesso il tratto ossessivo-ripetitivo dell’immagine
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condensata che dà il via alla stessa spinta al piacere, così come altri studi segnalano la possibile
differenza tra immaginario erotico maschile e femminile proprio per il carattere aperto di
quest’ultimo: quello maschile si condensa sulla scena immaginata, quello femminile parte dalla
scena ma si espande e oltrepassa la scena stessa). E proprio come i fondamentalisti che mozzano la
testa vogliono dare all’immagine il significato esemplare di regola di eliminazione del nemico per
rimproverare altre correnti dell’islamismo di essere venute meno alla vera norma religiosa (con ciò
confermando che essi stessi vogliono condurre una battaglia di conquista-riduzione
dell’immaginario islamico, che dunque è a sua volta ben più complesso e non riconducibile alla
testa mozzata) anche a noi spetta un compito analogo alla rovescia, vale a dire di allargamento
dell’immaginario, che ha un preciso senso politico liberatorio ed espansivo.
Il problema può essere esemplificato citando la lettera di una studentessa quattordicenne al “Foglio”
che riporta il testo di una relazione assegnatale a scuola dall’insegnante di storia.
“Giovedì 13 maggio il giornale “Il Foglio” pubblica la foto della testa mozzata di un giovane ebreo
americano che lavorava in Iraq, con la seguente didascalia “Civiltà islamica”. Durante la conquista
dell’ovest era in uso tra i soldati americani prendere lo scalpo degli indiani , durante la seconda
guerra mondiale i comandi militari USA avevano diramato l’ordine ai soldati di non portarsi a casa
le teste dei giapponesi uccisi. Durante la guerra del Vietnam circolavano foto di soldati americani
che tenevano per i capelli teste di vietnamiti. Se venissero diffuse attraverso Internet foto relative a
questi fatti con la didascalia “civiltà yankee”, cosa ne penseresti?. Per la verità della cronaca la
studentessa aggiunge che lei non ha trovato sul “Foglio” la didascalia e in questo senso anche
questo episodio si rivela uno dei tanti momenti di polemica e guerriglia di schieramento che sono
emersi a macchia d’olio in questi giorni (“La didascalia non c’era perché la civiltà islamica è grande
e terribile come tutte le civiltà, compresa la nostra”, risponde il direttore). Ma essa è particolarmente
significativa di quel problema della riduzione d¹immagine a un nucleo centrale di cui parlava
Bidussa, in questo caso appunto l’immagine di una civiltà yankee che può benissimo essere
condensata attorno agli esempi citati perché questi esempi fan riferimento ad episodi e a momenti
veri di cui è possibile leggere appunto un semplificante filo conduttore, operazione che non è
affatto rara e che anzi è particolarmente diffusa. Anche se molti o tutti sanno - o dovrebbero saperecome accanto a queste immagini è possibile raccontare storie diverse di altre immagini,
dall’abolizione dello schiavismo alla statua della Libertà a Bob Dylan, comincia a emergere la
consapevolezza che l’ immagine crudele della civiltà yankee è un sottoprodotto di una
rappresentazione diffusa, che fa parte essa stessa della tradizione occidentale. O per meglio dire,
come segnala il recente e importante lavoro di Ian Buruma e Avishai Margalit, Occidentalism. The
West in the eyes of its enemies, è parte integrante della nostra storia la costituzione di un
immaginario delle colpe dell’Occidente e dell’Occidente nemico di se stesso, uno stereotipo
anch’esso, che si è riversato nei suoi schemi di fondo nell’antioccidentalismo.
Si pensi ad esempio alla nota critica della Destra, nei primi anni del secolo, al Konfortismus ,
ideologia del quieto vivere senza valori in nome dei propri affari, alimentata da “mercanti e
bottegai”, alle classiche letture offerte da importanti studiosi come Sombart o Junger.
Si pensi anche a tutta la corposa tradizione del marxis mo volgare ortodosso, all’identificazione
capitalismo – mercato - imperialismo come regola e pratica sistemica, sono osservazioni per certi
versi ben no te. Si pensi a tutta la grande discussione sui limiti di fondo della democrazia e la sua
mediocrità, che mescola la marxiana critica della rappresentanza in nome della democrazia diretta
con la critica leniniana del parlamentarismo e la critica della destra al conformismo dei mediocri e
al formalismo delle procedure come regola di fondo della democrazia. Anticapitalismo,
antimperialismo, aniamericanismo non sono solo il risultato più che legittimo di visioni del mondo
e di grandi lotte degli oppressi, patrimonio positivo di storiche lotte di emancipazione e di libertà,
sono anche un codice mentale, una semplificazione, uno schema che opera nell’immaginario come
codice connettendo appunto una serie di immagini. L’immagine negativa, vergognosa, crudele,
della civiltà yankee è qualcosa che ha una sua storia, una sua parziale verità e una sua forma
sintetica che si condensa. Tutto vero, ma a condizione di coniugare queste immagini con tutte le
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altre per non fare appunto di ogni erba un mucchio. Anche articoli di analisi di ottimo livello usciti
in questi giorni concorrono a riprodurre questo tipo di riduzione : in un bell’articolo Sandro Portelli
afferma ad esempio che “la nuova Statua della libertà ha un cappuccio nero” e vede negli esecutori
di foto e torture non una esecuzione di ordine ma un atto di orgoglio: “cercano di dare una forma
estetica alla violenza che stanno praticando, la vogliono esibire, vedere ed essere visti, celebrare e
ricordare”. Così il bravo studioso e giornalista chiama in causa “qualcosa di penosamente deja vu” e
rievoca la mostra di qualche anno fa al City Museum di New York, una mostra di fotografie di
linciaggi avvenuti fra il 1870 e il 1940. Scattate e riprodotte da fotografi professionisti locali, queste
immagini venivano spedite ad amici e parenti, regolarmente inoltrate e consegnate a destinazione
dalle poste federali. Dietro un corpo appeso e bruciato, il mittente ha scritto: “Questo è il barbecue
che abbiamo fatto ieri sera. Io sono quello nella foto a sinistra segnato con una crocetta. Tuo figlio
Joe”.
Che dire ancora, se non rischiando di ripetersi? Esistono certo radici, tradizioni, stili, con un loro
continuismo ed esistono appunto anche nel caso di torture e linciaggi nella storia americana, Portelli
ha il merito di evocare, ricordare, connettere. Ma è pur sempre la storia dell’albero e della foresta e
chi identificasse tout-court la civiltà yankee con la tortura e il linciaggio commetterebbe lo stesso
“errore” di chi identifica la civiltà islamica con il taglio della testa. La ricchezza stessa di articoli,
analisi, riflessioni critiche, di costume, antropologiche, che ha accompagnato lo sdegno diffuso è
qualcosa che va distinta dall’animosità ostile e pregiudiziale della denunzia dei crimini americani e
ha mostrato appunto il rapporto fra opinione pubblica, società civile, critica politica nel corpo stesso
delle democrazie occidentali come una straordinaria capacità di produzione di anticorpi, mentre lo
stesso continua a non accadere nei mass media arabi e crea una legittima inquietudine.
Al tempo stesso l’insieme di reticenze, omissioni, implicite accettazioni di quella “contabilità
dell’orrore” che pure a parole tutti dicono di non volere, rende legittime le preoccupazioni
sull’autocensura politicamente corretta che tende a scattare. Come misurare appunto quella
“barbarie” evitando di attribuirla alla “civiltà islamica” nel suo insieme? Ma le cose hanno un nome
e non è possibile dargliene un altro. Ce lo insegna appunto chi dichiara l’Occidente nel suo insieme
come nemico, obbligando alla paura e all’orrore.
nota: i principali articoli citati sono, in ordine:
Carola Frediani, Foto di bit senza parole, Il Manifesto, 16 maggio.
Corrado Augias, Caino e la bandiera della pace, La Repubblica, 14 maggio.
Adriano Sofri, Se l’aguzzino è una donna, La Repubblica, 9 maggio.
Marina Terragni, Donne col guinzaglio, Il Foglio,13 maggio.
Barbara Spinelli, La fine di un tabù, La Stampa, 9 maggio.
Giuliano Ferrara, Se cediamo al senso di colpa la guerra non fa più per noi, Il Foglio,10 maggio.
Massimo Cacciari, Le sevizie, un terribile choc ma la soluzione non è il ritiro, intervista a cura di
Goffredo De Marchis, La Repubblica, 15 maggio.
Sergio Romano, La contabilità dell’orrore, Il Corriere della sera, 14 maggio.
Michael Walser, Una democrazia si risolleva sempre, (intervista a cura di E.C.), Il Corriere della
sera, 11 maggio.
Massimo Cacciari, Morire per la democrazia? Si, se non rinnega se stessa, (intervista a cura di
Nicoletta Tiliacos), Il Foglio, 14 maggio.
Michael Walser, I diritti dei prigionieri, La Repubblica, 15 maggio.
Ernesto Galli Della Loggia, Se l’America perde se stessa, Il Corriere della sera, 13 maggio.
Ernesto Galli Della Loggia, La tortura, la barbarie, Il Corriere della sera, 17 maggio.
David Bidussa, Teste mozzate, di tutt’erba un fascio, Il riformista, 18 maggio.
Antonio Polito, Il Konfortismus, ideologia senile dei Ferrara che sprezzano l’Occidente, Il
riformista, 18 maggio.
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Sandro Portelli, L’orrore e l’orgo glio, Il Manifesto, 12 maggio.
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