L`orrore, l`immaginario e l`Occidente

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L`orrore, l`immaginario e l`Occidente
Attilio Mangano
L’orrore, l’immaginario e l’Occidente
l’immagine,l’errore,la sua lettura possibile
Il disvelarsi dell’orrore è analogo insomma alla fuoruscita del male dal vaso di Pandora,
alla visione di un processo in cui il disvelarsi non si arresta, il veleno cresce e corrode
tutto intorno, all’intuizione che questa banalità possibile del male è motore di
fascinazione e che tutto ciò chiama in causa le radici di una storia e di una cultura,
(come fa ad esempio il Pasolini regista del film su Salò spostando le 120 giornate di Sade
ad altra epoca ,al nazismo appunto). L’immaginario del vaso di Pandora rimanda a una
colpa, a qualcosa di infranto, è questo il punto di congiunzione da cogliere: se anche noi
(occidente, democrazia , modernità) siamo traversati da questa colpa - ce lo insegna la
procedura rituale del “capro espiatorio” - dobbiamo anche noi espiare. Il lavoro di
scavo attorno a questa domanda chiave è qualcosa cui è impossibile sottrarsi ma è anche
sovraccarico di ricadute nei topoi classici di antropologie “naturalistiche”, oscillando
fra la memoria dell’archetipo e la continua ridefinizione “moderna” del rapporto fra
natura e cultura, olismo e individualismo.
Il falso e il vero dell’immagine - L’immaginario del vaso di Pandora e il male radicale
- Il mondo è moderno, le persone antiche : l’immaginario e l’archetipo - Quale
ammissione di colpa? Della donna? Dell’Occidente? Del moderno? - Mele marce,
catena di comando, responsabilità - Perdere l’anima? - L’immagine della testa
mozzata e l’autocensura
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Il falso e il vero dell’immagine
La foto che circola su Internet riprende il caporale Ted Boudreaux, un riservista dei
marines originario della Louisiana, assieme a un bambino irakeno: sono davanti a un
capanno, presumibilmente in una zona desertica, sorridono entrambi e sollevano il pollice
in alto in segno di esultanza. Peccato che di questa foto circolino due versioni: una
(inviata anonimamente a una organizzazione americana per i diritti degli islamici,
contraria alla guerra) fa vedere che il bambino ha in mano un cartello in cui si può
leggere: Il caporale Boudreaux ha ucciso mio padre e ha messo incinta mia sorella; la
seconda, messa in rete da un sito ideologicamente ostile ai pacifisti, vede nello stesso
cartello la seguente scritta, ben diversa: Il caporale Boudreaux ha salvato mio padre e ha
soccorso mia sorella. Infuria la polemica: il caporale Boudreaux si dichiara innocente, i
marines stessi indagano e si sono rivolti al Naval Criminal Investigative Services, esperti
di scientifica digitale. Quando dunque una foto, e in particolare poi una foto digitale, è
vera?
E quanto vale il luogo comune secondo cui un’immagine descrive sempre la realtà
per quello che essa è davvero. La vicenda di questi stessi giorni , le foto false del Daily
Mirror sulle torture di soldati inglesi, (in cui il falso è stato documentato per così dire
dall’esterno, dal fatto cioè che le armi usate e il camion non fossero in dotazione ai
soldati inglesi) segnala drammaticamente la sfida in corso: in pratica tutte le immagini di
una foto digitale possono essere falsificate e ciò può arrivare alla lunga a punti estremi di
messa in dubbio, a una situazione tale da poter far crollare la convinzione stessa della
foto come immagine vera della realtà. Che legittimità può avere la fotografia come prova
documentale sempre preferibile se essa può essere manipolata al punto da annullare la
verità?
Una delle grandi tesi dei fondatori di Medicina senza frontiere era quella per cui
senza una fotografia non esiste alcun massacro ed essa sembra essere confermata e
smentita al tempo stesso dagli ultimi avvenimenti: confermata perché il confine tra il
visibile e l’invisibile rende reale l’immagine di una scena di tortura come quelle delle
carceri irakene e cancella in quanto non fotografate e non visibili- tutte le altre torture
che nello stesso giorno , senza foto documentali, sono state perpetrate in altre parti del
mondo (quanti hanno letto negli stessi giorni la dichiarazione di chi uscito dalla carceri
cubane ha raccontato di essere stato torturato? La dichiarazione stessa non ha fatto
notizia, sopravanzata dalla prova visibile delle torture in Irak ). Essa è pero anche
smentita dall’obiezione inerente la sua falsificabilità: il caso limite clamoroso è stato
quello di pochi anni fa per la ex Jugoslavia quando la stessa scoperta di fosse comuni era
chiamata in causa come prova e messa in dubbio perché in fondo non c’erano prove e
foto di massacri, lo spostamento in massa di popolazioni in fuga era indicato come prova
del genocidio in atto e però ridotto dai critici a puro e semplice spostamento indotto dai
bombardamenti.
Gli episodi recenti di uso propagandistico di fotomontaggi e falsi vari sono sotto gli
occhi di tutti: la finta immagine di Bush che guarda dentro un binocolo coi tappi è
comparabile con la finta immagine di Kerry seduto a un tavolo pacifista mentre ascolta
gli infiammati discorsi di Jane Fonda. (quest’ultima, in verità, era già approdata al New
York Times e c’è voluta la prova data dal vero fotografo, Ken Light, col suo negativo
originale per far vedere che Kerry non era accanto a Jane Fonda). Il successo di nuovi siti
web che hanno come oggetto lo smontaggio e la decodificazione dei falsi (tra cui il
famoso Snopes. Com) o al contrario la contro-informazione indica che la guerra è già in
corso da tempo e la posta in gioco si va precisando. Mettiamo da parte i problemi anche
delicati e complessi di teoria estetica, di analisi metodologica del rapporto tra fotografia
e realtà che certo portano con sé un bagaglio di saperi specialistici che qui non è possibile
approfondire oltre. Non ci fidiamo delle parole perché sono parole, crediamo alle foto
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perché sono foto. “Tutto ciò è assurdo” ha scritto il noto fotografo Pedro Meyer “E’
nostra responsabilità investigare la verità, avvicinarci alle immagini con cura e
attenzione”. In questo caso, prima di dar luogo nel lettore all’obiezione o all’accusa di
ricorrere tutto sommato ad argomentazioni sofistiche su ciò che è vero e ciò che non lo è,
o a tesi di tipo pirandelliano per cui “così é se vi pare” o perfino di escogitare
argomentazioni diabolicamente capziose da avvocato difensore della buona fede
americana che insinua il dubbio ma siete sicuri che le foto di torture corrispondano al
vero? Per tutelare meglio il suo cliente, è opportuno riconoscere che il sentimento diffuso
di orrore e di disgusto che in gran parte del mondo ha assalito l’opinione pubblica è un
fatto reale e che è altrettanto reale quella specie di improvvisa scoperta del male che ha
spinto tante persone a pensare o a dire: “è troppo, basta” con autentica indignazione.
Per dirla in termini più chiari ed efficaci possibili, il fatto che ai tempi della guerra
d’Algeria solo 121 intellettuali in Francia presero posizione di piena denuncia
dell’atrocità delle torture che la polizia e l’esercito francese avevano praticato sui
prigionieri algerini mentre oggi milioni di persone sono insorte sdegnate è un grande
segno di sensibilità democratica dell’opinione pubblica e indica al tempo stesso la portata
della differenza tra una denuncia ai mass-media e all’opinione pubblica prima dell’epoca
televisiva e mediale-informatica e la nuova epoca. Ma è proprio questo rapporto tra
immagine dell’orrore e orrore reale a fare “problema” e a porre all’ordine del giorno
l’analisi dei suoi significati immaginari.
L’immaginario del vaso di Pandora e il male radicale
L’orrore disvelato torna a proporre in tutta la sua nettezza il tema del male radicale, ha
scritto fin dai primi giorni il filosofo Massimo Cacciari. “La realtà cruda è questa: solo
quando la scopriamo in tutta la sua oscenità, sbattuto in prima pagina, ci ridestiamo al
male radicale che ci affligge, che è proprio di noi uomini. Tutto ciò che combatte il
terrore con le armi del terrore non ha diritto di giudicare i criminali di Abu Graib. Ma
proprio per questo pietà per i torturatori. Non solo perché non sanno quello che fanno e si
fanno. Pietà anche per la nostra natura che in loro si disvela secondo la più perfetta
misura della sua miseria”. E dunque il contagio dell’orrore è improvviso squarcio che si
apre per “la nostra natura che in loro si disvela”, l’insopportabilità di una conoscenza
reale del male.
Pochi altri osservatori hanno avuto il coraggio di un simile discorso per nulla
consolatorio, ripreso in parte da Barbara Spinelli: “Diceva Hanna Arendt che gli uomini
normali non sanno che tutto è possibile. Non sanno che il desiderio di arrecare sofferenza
e di umiliare il corpo e l’anima dell’avversario in prigionia può divenire a tal punto
banale - evento piatto, alla portata di tutti - che chiunque può ammetterlo e sentirsi
incolpevole e perfino vantarsene. Non solo, è possibile che il torturatore il volto
vittorioso di chi mostra un trofeo, il sorriso di chi è intimamente appagato, i gesti di
esultanza - si faccia fotografare nel momento in cui si compiace di torturare. Per chi e
perché ha scattato quelle foto, se non per rivedere ancora e ripetutamente il proprio corpo
di fabbricatore del male assoluto Il tabù esiste proprio per questo: perché nel giro di un
attimo siamo capaci di scivolare dalla civiltà alla barbarie, e perché questa realtà la
fronteggiamo con sacralizzati divieti che è blasfemo intaccare. Sono discorsi che
riscoprono nel disvelarsi dell’orrore insieme la radicalità e la banalità del male, invitando
ad aprire piste di ricerca che però indicano il punto limite, una simbolica scoperta del
precipizio e l’invito ad arrestarsi prima, a metà strada tra la freudiana pulsione di morte e
la cristiana com-passione, nella comprensione della compresenza di sofferenza sadica,
coazione e rottura del limite nell’immaginario e del suo riformularsi, umano, troppo
umano. (“Non chiamerei in causa la bestialità, l’imbarbarimento, l’animalesco. Siamo
nell’ambito dell’umano, troppo umano”, scrive sempre Cacciari in un altro intervento). E’
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qui appunto che il discorso si complica e si chiude in se stesso o cerca una via di sfogo,
che può trovare forse la sua sintesi e chiave interpretativa nel mito del vaso di Pandora.
Il disvelarsi dell’orrore è analogo insomma alla fuoruscita del male dal vaso di
Pandora, alla visione di un processo in cui il disvelarsi non si arresta, il veleno cresce e
corrode tutto intorno, all’intuizione che questa banalità possibile del male è motore di
fascinazione e che tutto ciò chiama in causa le radici di una storia e di una cultura, (come
fa ad esempio il Pasolini regista del film su Salò spostando le 120 giornate di Sade ad
altra epoca ,al nazismo appunto). L’immaginario del vaso di Pandora rimanda a una
colpa, a qualcosa di infranto, è questo il punto di congiunzione da cogliere: se anche noi
(occidente, democrazia , modernità) siamo traversati da questa colpa - ce lo insegna la
procedura rituale del “capro espiatorio” - dobbiamo anche noi espiare.
Se però la funzione rituale del capro espiatorio serve a “espellere” il male fuori di noi,
trovando il colpevole su cui convogliare la pena per purificare il mondo,
l’insopportabilità del disvelarsi dell’orrore, del “male che è dentro di noi”, fa scattare la
domanda impossibile da risolvere: allora noi (occidente, democrazia, modernità) siamo
come quelli che si dichiarano nostri nemici e praticano il terrore?
Il mondo è moderno, le persone antiche : l’immaginario e l’archetipo
Il lavoro di scavo attorno a questa domanda chiave è qualcosa cui è impossibile sottrarsi
ma è anche sovraccarico di ricadute nei topoi classici di antropologie “naturalistiche”,
oscillando fra la memoria dell’archetipo e la continua ridefinizione “moderna” del
rapporto fra natura e cultura, olismo e individualismo. “Sei ancora quello della pietra e
della fionda/uomo del mio tempo.
Eri nella carlinga
con le ali maligne, le meridiane di morte
T’ho visto- dentro il carro di fuoco,
alle forche, alle ruote di tortura.
T’ho visto: eri tu , con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora, come sempre”
Salvatore Quasimodo.
E non a caso è proprio il carcerato Adriano Sofri a porre in tutta la sua drammaticità il
dilemma del moderno, dichiarando perentoriamente il suo sconvolgimento davanti
all’immagine dell’aguzzino-donna. “La chiave di interpretazione dominante che vale per
la guerra e in generale per la storia del mondo, vale a maggior ragione per la tortura . La
tortura è prima di tutto una manifestazione- la più abominevole- della sessualità. La
spoliazione della persona, la sua riduzione a corpo nudo, e la degradazione del corpo
nudo alla sua anonima genitalità, è qui il centro della tortura”. Sofri tocca davvero il
punto nevralgico ma si aggira attorno a un problema, le manifestazioni della sessualità
nella cultura umana, che ha una tale eredità complessa di tabù e di stereotipi
“politicamente corretti” da moltiplicare le domande stesse. Si pensi ad esempio come la
“riduzione a corpo nudo” e la riduzione del corpo nudo alla sua “anonima genialità” sia
una caratteristica centrale dell’immaginario erotico, a tal punto decisiva suo malgradoche parlare solo di “degradazione” non aiuta a capire una serie di manifestazioni e di
rappresentazioni della sessualità in primis la pornografia) in cui “l’intenzione sessuale” si
manifesta appunto come assolutamente esplicita e insieme candida, per così dire (sono gli
aggettivi che Sofri usa a proposito dell’esplicitarsi nelle foto irakene dell’intenzione
sessuale della tortura). “Sodomizzazioni, sesso orale forzato, stanno da sempre nel
repertorio delle stanze da tortura” osserva Sofri, ma è lecito osservare che queste stesse
manifestazioni e infinite altre stanno da sempre nel repertorio dell’immaginario erotico ,
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sicché il discorso si complica. Che questo insieme di processi di oggettivazione del
corpo, compresa la sua “degradazione”, stiano da sempre nelle camere “segrete” dell’eros
aiuta a capire ad esempio il groviglio inestricabile di natura e cultura operante nella
pornografia, nel suo impasto permanente di banalizzazione - degradazionesacralizzazione (si pensi alla difficoltà di rapporto tra femminismo e pornografia- per fare
un esempio della complessità culturale dell’immaginario erotico - al fatto che la
condanna etico-politica della degradazione-oggettivazione del corpo femminile vede
sempre l’albero e non la foresta). Sono solo accenni, sta di fatto che l’intervento di Sofri
ha in ogni caso il grande merito di indicare la posta in gioco: da un lato infatti “una
ragazza, e il suo ragazzone, che si fanno le foto ricordo mentre torturano, torturano per
farsi le foto ricordo”. Dall’altro, “qualunque ordine o autorizzazione o omissione abbiano
ricevuto, la loro allegra creatività (goliardia, ha detto la povera madre della ragazza) è la
rivelazione più significativa e irreparabile della vicenda”.
Ecco che l’orrore “rivelato” testimonia la sua stessa banalizzazione, si manifesta
come rituale condiviso (nel suo intreccio “partecipato” di comando e obbedienza, che
evoca uno dei grandi passaggi interpretativi della moderna critica antropologica della
politica, la volontà di servire di cui parla Etienne de la Boetie). Ecco la degradazione
partecipata, in cui il comando è condiviso culturalmente dallo stesso immaginario:
l’agenzia specialistica coi suoi manuali moderni di tortura indica tecnologie del corpo
come procedure di umiliazione e lo fa, come dire, a ragion veduta, ben sapendo (avendo
cioè studiato e “culturalizzato” i tratti del pudore e della vergogna, della degradazione e
della pena,presenti nell’immaginario arabo) di arrecare offesa, di produrre una ferita
“significativa e irreversibile”, uno shock culturale. E’ questo insomma il vero peccato
compiuto, la scelta di rovesciare sull’altro la rottura del tabù. L’altro grande merito
dell’intervento di Sofri va individuato nella capacità di riconoscere dentro lo shock
culturale la simbolizzazione dell’evento: il fatto che l’aguzzino sia donna indica il punto
limite del percorso della liberazione femminile: la “sbarazzina ventenne americana che
tiene al guinzaglio- alla catena” sembra proprio rivelare la parola d’ordine-limite della
sua stessa libertà: “Avete da guadagnarle le vostre catene. Per quanto dunque sia lecito
scherzare ancora oggi sull’ingenuità favolosa di quei nostri antenati” che credettero di
battersi per dieci anni a Troia per la bella Elena è arrivato il momento di accorgersi che
anche gli ultimi, quelli che non avrebbero da perdere che le loro catene, hanno da perdere
le loro donne. Quel che più conta, se ne sono accorti loro, gli ultimi: da quando le
distanze si sono così accorciate da renderli spettatori di un mondo in cui le donne
diventano padrone di sé.
Dunque la vittoria di quel mondo avverte il pastore errante nella steppa dell’Asia col
suo gregge e le sue donne e il suo televisore satellitare che una simile oltraggiosa
destituzione può toccare anche a lui. L’evento rivela dunque la discontinuità, lo scarto
che si riapre: l’uomo è moderno, lo è anche il pastore errante col suo televisore satellitare,
ma rimane antico. Sofri dice per la precisione: “il mondo è moderno, le persone antiche”
Quale ammissione di colpa? Della donna? Dell’Occidente? Del moderno?
Anche Sofri perviene a una sorta di ammissione di colpa che chiama in causa proprio
quella difficoltà di comprensione e rispetto che si rivela appunto nel “vero” confronto che
si viene aprendo tra Occidente e Oriente, quello sulla posizione della donna.
All’origine dei movimenti di opposizione islamisti, dal wahabismo ai fratelli
musulmani a Bin Laden, sta lo scandalo per i costumi sessuali occidentali e per la
condizione delle donne. “Le puttane ebree e americane. Una piega sessuale segna lo
stesso terrorismo suicida-omicida” aggiunge Sofri ricordando le donne cecene stuprate
dai russi che vengono indotte a divenire attentatrici suicide per riscattarsi o le kamikaze
di Hamas che portano in grembo il figlio di un adulterio. Tutto questo orrore ha trovato
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nelle fotografie di Abu Ghraib la convalidazione che gli islamisti volevano, oltre le
proprie stesse immaginazioni frustrate o morbose e occorre chiedersi quale uso delle foto
stiano facendo gli sciiti e anche i pasdaran iraniani per restituire le donne alla prigionia di
sempre. La colpa delle foto di tortura è dunque di fare il gioco del terrorismo, che può
ritenere di essere legittimato a reagire all’offesa , l’affermazione è però in parte incauta e
può trovare una sua obiezione: in che misura l’esistenza stessa di ebrei ricchi e dediti
all’usura può essere evocata come qualcosa che faceva il gioco dell’antisemitismo?
L’esistenza di zone dell’immaginario è uno spazio specifico, che esiste sia prima che
dopo l’azione terroristica, che a sua volta non si cura di dover rispondere della propria
azione secondo i criteri del diritto ma si nutre appunto di un suo peculiare immaginario
dell’odio e si autolegittima.
La fine dell’articolo di Sofri è quasi un aut-aut: se, andando a casa loro per liberarli
sorridiamo anche noi alla nostra collega fotografa dal bordo della catasta di corpi nudi
che abbiamo ammucchiato a botte, avremo ancora il diritto di provare dolore, ma non più
di provare sgomento, al prossimo 11 settembre. Il filo sottile che unisce ammissione di
colpa e autocolpevolizzazione continua a essere teso.
“Che cosa siamo noi donne, dopo Lynndie England?” si chiede a sua volta la
femminista Marina Terragni, che vuole riassumere il senso di spavento provato. “Lynndie
non è l’emancipata. Lyindie è la figlia dell’emancipata, nata a cose fatte, quando l’idea
ormai si era fatta carne. E’ vedere che l’estremo del cammino delle idee quando vanno
troppo libere e slegate dai corpi c’è la loro (s)tortura, in fondo alla libertà non c’è più
libertà, in fondo all’amore nemmeno più amore.
Se tante volte abbiamo detto che il conflitto tra i sessi è al centro di questa guerra e della
guerra delle nostre vite, e della politica e della storia, adesso ne abbiamo le prove
documentarie deliziosamente fetish con slippini e guinzagli, sofferenza e godimento”. Per
questo però non è possibile gettare via, per orrore della tortura corporale, la corporeità,
“bisogna rimettere al centro ciò che è al centro, finirla lì di torturarci e di torturare
strappando slippini e guinzagli al contesto opaco dell’orrore per riportarli nella sola luce
che ci viene data, quella dell’amore. Avere per esempio il coraggio, noi donne e noi
femministe, di riparlare di sesso e di piacere, territori abbandonati delle origini”.
Difficile sapere quanto questo rilancio del “coraggio di parlare di sesso e di piacere”
sia condiviso da altre donne del femminismo, la preoccupazione di distinguersi dalla
aguzzino-donna è forte.
Sia Sofri che la Terragni indicano in qualche modo una sorta di superamento del
limite, una sur-modernità come effetto perverso, in cui “le idee vanno troppo libere e
slegate dai corpi”, riproponendo quanto meno in termini impliciti la distinzione tra libertà
e licenza: la tortura ha sempre un retroterra nella sessualità e però ne costituisce
l’estremizzazione ;in cui il tutto è lecito. In questo senso c’è una ammissione di colpa che
chiama in causa non tanto la modernità ma la sua ingenua pretesa di estensione lineare, di
accelerazione, di superamento del limite, l’idea che ci sia sempre e comunque un
progresso. “Penso che dobbiamo abituarci a considerare la modernità come qualcosa di
staccato e di dissociato e opposto alle persone”, scrive Sofri, mentre i suoi frutti si
accumulano e si depositano “in modo astratto e incontrollabile”. Qui è il punto di
incontro fra una ricerca delle “colpe” possibili della modernità stessa e l’immaginario del
vaso di Pandora, della fuoruscita inarrestabile del male. Il retroterra culturale è nel
nichilismo (Barbara Spinelli) del dostoiewskiano “se dio è morto tutto è permesso”, fino
alla caduta del tabù. E i tabù non cadono da un giorno all’altro, “la caduta è preparata da
un generale permissivismo, da una cultura dell’impunità, da parole che smorzano il
tremendo e sono chiamate eufemismi, perché rendono accettabile il male evitando di
nominarlo. Infatti le autorità Usa non parlano di tortura: parlano di abusi, di condizioni
che facilitano l’interrogatorio, di trattamenti fisici, di errori. Questa cultura che
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ingentilisce la colpa ha messo le radici molto tempo prima, non solo in America ma in
Occidente, e l’11 settembre ha accelerato la degradazione.” Il passaggio al giudizio più
marcatamente politico è quasi automatico in questa analisi: “sono bastate alcune
fotografie e tutta la retorica si è sfasciata.
E” quel che accade quando una democrazia come l’americana ha l’arroganza di
credere che tutto le sia permesso: che solo per lei valga l’impunità. Non ha torto il
senatore Ted Kennedy, quando dice che la Statua della Libertà è caduta per terra”. Il
nesso tra orrore e colpa si chiarisce attraverso l’individuazione del sottobosco del
permissivismo e del nichilismo e nel suo contraltare del tabù che si rompe. La colpa della
tortura, della donna-aguzzino, del compiacimento dell’umiliazione, è in un’arroganza del
potere cui tutto è consentito, la politica USA è in questo senso il simbolo del superamento
del limite, il rivelarsi dell’orrore chiama in causa le nostre radici. Sofri e Spinelli sono il
punto alto di una cultura delle colpe dell’occidente che si pone certo con serietà di fondo
il problema del perché dell’orrore, ma esso ha per altri versi un suo sviluppo accelerato,
una suo automatismo mass-mediologico, un suo ideologismo che recupera la vulgata e
incontra nella sua strada l’anti-americanismo diffuso, la mentalità e lo schema per cui
bene o male quel che accade è colpa nostra, la faciloneria di un pacifismo in cui è più
importante la denunzia dell’errore, la guerra, per sottolineare l’urgenza del tirarsi fuori da
questa, come se bastasse tirarsi fuori per risolvere il problema.
Mele marce, catena di comando, responsabilità
Per semplificare: è colpa nostra, ce lo siamo cercati. L’11 settembre delle torri gemelle è
la risposta alle nostre colpe. Caustico come suo solito l’elefantino di Giuliano Ferrara:
“Paolo Mieli ha ripubblicato nel Corriere della Sera frasi di Alexis de Tocqueville sulla
necessità di brutalizzare il nemico arabo di allora per dimostrare che il rischio tortura è
dentro di noi, nel nostro stesso codice migliore”, definendo l’interrogativo autocritico su
ciò che è dentro e ciò che è fuori come una specie di trappola autodissolutoria in cui le
torture di Abu Graib diventano “un altro caso alla vietnamita di autocolpevolizzazione
dell’Occidente”.
L’immaginario del vaso di Pandora produce nel circuito mediale il susseguirsi delle
immagini come scoperta e denunzia, un film a puntate, un processo appena iniziato che
riserva altro male e altre sorprese. Ed è normale che l’opinione pubblica democratica
voglia discutere e sapere chi è il colpevole, non si accontenti di una smentita, voglia
prove, conferme, individuazione di responsabilità. E’ appunto “il codice migliore”
dell’occidente che lo impone. In questo senso sarebbe ingenuo lamentarsi di come tutto
ciò vada in politica, ci mancherebbe che non vi andasse, non è mai bieca
“strumentalizzazione” una lettura politica delle cause, una individuazione degli errori, un
riconoscimento delle responsabilità, una ricerca di soluzioni diverse. Tuttavia il prezzo da
pagare a questa politicizzazione mediale è lo spostamento dai significati immaginari ai
significati pratici, il condensarsi delle interpretazioni in schemi, che hanno il merito (e il
limite) di semplificare: la domande diventa di chi è la colpa e lo scontro si politicizza nei
due schemi contrapposti, lo schema cosiddetto delle mele marce (i colpevoli singoli sono
individuati o verranno individuati, il vizio non è nel sistema ma nei singoli e limitati
errori) e lo schema delle colpe in alto, poiché chi coma comanda non poteva non sapere.
Lo scontro politico è inevitabile e perfino salutare, la sloganizzazione lo è però molto
meno.
Lo schieramento che va dal centro-sinistra ai no global cerca di risolvere i suoi
contrasti trovando nella parola d’ordine del ritiro immediato dei soldati italiani la parola
d’ordine unificante, convinta che “l’effetto Zapatero” possa dare i suoi frutti elettorali
fino a mettere da parte ogni indicazione politica del “che fare” per la stessa
stabilizzazione medio orientale. Solo Massimo Cacciari , quasi un Pierino di turno
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inascoltato, dice le elementari verità. “Oggi si è scoperchiato l’inferno, bisogna evitare
che esploda. L’Europa non ha nemmeno tentato di trovare una via unitaria, non mi risulta
che i paesi europei si siano mai seduti allo stesso tavolo per approntare il testo di una
risoluzione dell’ONU che preveda un completo mutamento della strategia. Vanno tutti in
ordine sparso”.
E ancora: “Il banco di prova è l’Iraq. Come possiamo dire che vogliamo una politica
estera comune o la riforma delle Nazioni Unite e poi non praticare la strada dell’Europa e
di un nuovo ruolo dell’ONU?”.
Il punto debole della teoria “colpevolista” antiamericana non è tanto la critica della
politica americana in Iraq con tutti i suoi errori (tattici, politici, militari) ma la implicita
convinzione che quel complesso di logiche, ideologie, pratiche, attentati e guerre che
costituisce il “terrorismo” sia una risposta e una reazione agli Usa, non un progetto
strategico antioccidentale nel suo insieme, neototalitario nel suo insieme, antisemita nella
sua cultura di fondo ,non insomma un nemico reale che conduce una guerra asimmetrica
e ha chiari i suoi stessi obiettivi. E’ proprio la paura e la riluttanza nell’accettare l’idea
stessa che il nemico esiste non perché lo definiamo noi ma perché persegue una sua
guerra strategica. In questo senso le azioni del “terrorismo” non sono la risposta
all’intervento americana, qual cosa che “ci siamo cercati”, ma rispondono a una logica
più generale di guerra anti-occidentale che non ha in mente alcun accordo possibile,
nemmeno con i paesi europei. Le equiparazioni servono a poco, tanto meno se danno
luogo a una miserabile “contabilità degli orrori” (Sergio Romano) in cui una testa
mozzata si giustifica come risposta alla tortura e viceversa.
E’ vero però che l’interpretazione che formalmente ribadisce che la vicenda delle
torture riguarda solo dei “casi circoscritti” che verranno perseguiti individuando quali e
quante siano le responsabilità nella “catena di comando”, in sé ineccepibile nello
specificare dovutamente come in una democrazia la tortura sia comunque un crimine da
perseguire, non si cura di analizzare le cause, le trasformazioni stesse che sono alla base
del nuovo tipo di esercito in USA e che consentono se non autorizzano di fare a meno di
regole internazionali , mentre il punto da cogliere è proprio questo. Come osserva infatti
Michael Walser, il famoso autore di “Guerra giusta ed ingiusta”, è il tipo di modalità che
produce il tipo di conseguenza: “L’amministrazione ha affidato le prigioni a contractors
privati , riservisti impreparati, ragazzi a cui ha taciuto della Convenzione di Ginevra,
secondini dai dubbi trascorsi. Io denuncio la privatizzazione delle carceri in America da
tempo. Privatizzarle in Irak è stata una scelta ideologica. Significa diminuire il senso
della pubblica responsabilità, non rispondere politicamente di ciò che può accadere”. Ne
discende un gravissimo e particolare tipo di perdita di credibilità della politica militare
degli Usa che rende legittime e più che doverose le critiche poiché “il danno arrecato
dallo scandalo al nostro rigore morale, alla nostra immagine, al nostro cinismo, è stato
enorme”.
A questo punto il riconoscimento del costituirsi di specifiche subculture del ricorso
alla paura, all’umiliazione e alla tortura stessa come di un qualcosa che pretende di avere
una sua legittimazione politica nel fatto che “dopo l’11 settembre ci siamo tolti i guanti”
(affermazione di Cofer Black, ex direttore del contro-terrorismo) è riconoscimento di
qualcosa di più di un semplice errore, è il punto debole della teoria delle mele marce o dei
casi circoscritti. “Per la semplice ragione” ha osservato Cacciari “che un ragazzotto
dell’Alabama può riempire di pugni e calci un prigioniero irakeno, ma non fa piramide di
persone denudate, e non gli viene in mente di mettere le mutandine in testa a un imam.
Quelli sono atti ispirati da chi conosce la civiltà islamica, da chi sa bene che cosa possa
offendere più profondamente e irreversibilmente quella sensibilità e quella cultura”.
Ancora un problema di modelli culturali inerenti il diritto di guerra , che va al di là
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dell’episodio, ma che trova nell’episodio la conferma di ciò verso cui può precipitare
anche una democrazia come quella americana
Perdere l’anima?
Oltre a Michael Walser una sottolineatura importante del cambiamento in corso
nell’esercito Usa (ma non solo in quello) viene da Ernesto Galli Della Loggia che ricorda
come i liberatori americani del 1944 colpivano immediatamente per tre ragioni, per il
tratto disinibito e cordiale degli uomini, senza distinzione di rango; per la ricchezza
dell’intendenza (vera cornucopia di ogni bendiddio - dalle uova in polvere alla penicillina
alle calze di nylon) e infine per la quantità di occasioni culturali e di intrattenimento che
facevano da contorno, film, libri, giornali, trasmissioni radio, cicli di conferenze etc.
L’attuale esercito è molto diverso, sembra fatto solo per vincere la guerra e basta. Gli
esperti ci dicono che ormai la sua intendenza è ridotta a ben poca cosa perché tutto è dato
in appalto in outsourcing,che il numero dei suoi effettivi deve essere ridotto all’osso
perché in un esercito di mestiere ogni uomo costa molto e d’altra parte l’opinione
pubblica non sopporta un numero eccessivo di soldati sotto le armi. Ma è proprio così,
per l’appunto, rinunciando alla leva, trattando le forze armate come una qualunque
azienda che “produce sicurezza” al minimo costo possibile, teorizzando di conseguenza
la guerra come pura tecnica di impiego della forza, è in questo modo che lo strumento
militare rischia nei nostri paesi di perdere, insieme alla rappresentatività nazionale, anche
la propria anima. Rischia, come sta succedendo agli eredi di Omaha Beach e di
Guadalcanal, di consegnare il proprio onore nelle mani di aguzzini semianalfabeti guidati
da gelidi esperti di intelligence. Siamo di fronte insomma a una serie di trasformazioni di
fondo, in cui il peso di ciò che potremmo chiamare l’indotto diviene preponderante, il
fattore guerra - visto come vera e propria produzione aziendale di risultati militari
vincenti moltiplica gli strumenti laterali che fanno da supporto, affidando alle varie
agenzie specializzate (nella distribuzione, nella sicurezza, nell’informazione, nei trasporti
etc.) lo svolgimento di compiti specifici”. Ecco di nuovo Walser: “Abbiamo appena
un’idea di quanti siano in Iraq i lavoratori a contratto e di quanto vengano pagati. Ma
quel che più importa è che questa gente non è responsabile per il diritto militare USA e
allo stesso tempo si è vista garantire una completa autonomia nei confronti d’una
qualsiasi giurisdizione irachena futura.
Se commette crimini in Iraq, dovrà essere perseguita in America, ma è molto difficile
che ciò accada. Quindi devono rendere conto solo a chi li ha messi sotto contratto; il
quale è responsabile solo di fronte al Dipartimento della Difesa. Difficile calcolare
davvero, proprio per il caso irakeno (ma vale per molti altri contesti e se si aggiunge lo
specifico ruolo di strutture apposite, organizzazioni non governative, ospedali, assistenza,
commercio, tecnologie, volontariato di diverso ordine, strutture Nato, strutture ONU,
agenzie europee etc. si comprende quanto sia ampio e articolato il panorama stesso)
quante decine di migliaia di operatori, specialisti, servizi segreti, agenzie, operi in questo
momento, un vero e proprio sottobosco cui ovviamente aggiungere con conto a parte
giornalisti , televisioni etc. Non si tratta di richiamarsi nostalgicamente a un presunto bel
tempo antico della guerra (quale?) ma di comprendere come questo processo multiplo di
privatizzazione di mansioni, compiti e affari particolari ad agenzie apposite può apparire
più “produttivo” solo a prima vista come mera opera di razionalizzazione e di divisione
mentre in realtà risulta sempre più aziendalizzato , parcellizzato, privo di una identità di
fondo, ridotto a operazioni di scomposizione-ricomposizione in cui non si vede né un
tratto culturale comune né una reale presenza nel territorio se non, come si suol dire,
“calata dall’alto” e artificiosa.
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E’ qui che la perdita dell’anima di cui parla Della Loggia si riconnette a una logica di
mutazioni di cui manca il codice di valore. Ritroviamo nell’analisi di Cacciari il quadro
interpretativo di fondo: “la guerra è andata assumendo, dal primo conflitto mondiale in
poi, sempre più la forma della pura inimicizia, e il terrorismo ha prodotto la
radicalizzazione di questa tendenza. Questa è la deriva in cui navighiamo, e se non
mettiamo dei paletti, se cioè non ridefiniamo dei codici in questa nuova situazione, se non
riscriviamo i diritti dei combattenti, vincerà veramente la “barbarie”.
Una forma di discrimine fra combattenti regolari e “banditi” ha comunque retto fin
quando la guerra è stata soprattutto fra Stati e si è basata sulla Convenzione di Ginevra.
Ora la guerra oppone gli Stati ai banditi e non possiamo decidere che ci trattiamo da
bestie, gli uni con gli altri, che noi torturiamo mentre loro decapitano”. E’ noto che la
fragilità di una democrazia dipende dal suo rapporto vitale con l’opinione pubblica,
plurale e oscillante, una fragilità a suo modo positiva perché se il terrorismo coglie in ciò
un elemento di debolezza è invece la preziosità di questa fragilità a valere e ad avere la
meglio. Quando l’opinione pubblica è consapevole di ciò si arriva perfino a morire per la
democrazia e contro il totalitarismo. Ma se non si avverte la preziosità del benedemocrazia rimane solo la sua fragilità. “E se le democrazie si mettono a torturare, perché
dovrei ritenerle preziose? Contro gli integralismi che vogliono terrorizzarmi ed edificare
torri di Babele, sono disposto a morire. E’ il terrorista che non deve rendere conto di nulla
a nessuno, non noi che lo vogliamo combattere. Deve rimanere ben percepibile la
differenza”. E’ in questo scarto fra il non dover rendere conto a nessuno (terrorismo) e
dover sempre rendere conto agli altri (democrazia) che la questione stessa di come
rispondere ad azioni non regolari , caratteristica della stessa guerra asimmetrica, riapre
la questione delle scelte in termini che non possono mai essere solo tecnici, produttivi, in
cui conta il risultato a prescindere dalle “regole” con cui lo si raggiunge.
L’immagine della testa mozzata e l’autocensura
L’immagine della testa mozzata del soldato americano ha provocato, come è noto, un
nuovo groviglio di reazioni contrastanti e posto il problema del confronto, come se
davvero si fosse arrivati alla logica del pari e patta, accettando l’idea che la decapitazione
sia una risposta alla tortura. L’argomentazione sensata è comunque infine emersa “Nulla
di ciò che l’America ha fatto giustifica la spaventosa crudeltà dell’esecuzione di Nicholas
Berg; e d’altra parte la sua morte non vale a diminuire in nulla la vergogna dell’America
e la responsabilità dell’amministrazione Bush per il brutale trattamento inflitto ai
prigionieri” (New York Times)
Anche mettendo da parte gli aspetti più smaccatamente gridati e animatamente forzati
della polemica sulla opportunità o meno di mandare in onda o di pubblicare foto della
testa mozzata (tra cui però spicca per gusto gaglioffo il direttore de “L’Unità”, Furio
Colombo col suo incredibile articolo “Il TG5 accoglie le richieste degli assassini” con la
tesi per cui mandare in onda il video dell’esecuzione significa soddisfare le richieste dei
terroristi), è visibile che sono stati toccati dei nervi scoperti. Il caso-limite, ma non
proprio, anzi forse varrebbe la pena di caso emblematico, è la sequela di imbarazzi,
reticenze, contraddizioni, insulti emersa nel blog delle sinistre no global Indymedia: se si
appoggia la “resistenza” irakena contro gli occupanti perché non prendere in
considerazione il problema del diritto di rappresaglia? Ma chi autorizza chi in un caso
simile? Hanno un mandato morale? Il caso-limite vero non è tanto questo ma
l’imbarazzato silenzio di gran parte di stampa e media, con il non-detto che si rivela: se lo
sono cercati (gli americani).
Ma proprio per questo occorrerebbe scavare più a fondo nel sottobosco
dell’immaginario politicamente corretto, quello stesso che sa che la tortura esiste ed è
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momento-estremo della stessa cultura occidentale, legge non dichiarata, pratica segreta,
che trova nelle istituzioni totali il suo manifestarsi “normale” (e che, proprio per il suo
aspetto patologico di crimine contro l’umanità rivela l’orrore e torna a essere perseguito
attraverso l’individuazione e la condanna dei colpevoli) e che invece non sa capire la
differenza. Ha detto chiaramente Galli Della Loggia che “alle immagini delle torture
sappiamo come reagire: sappiamo cos’è la tortura, come e perché ci si arriva, e sappiamo
soprattutto cosa dobbiamo pensarne: non possiamo che essere contrari.
Invece di una cultura in cui per odio ideologico si arriva a praticare lo sgozzamentodecapitazione di un innocente inerme senza che al suo interno si levi un coro indignato di
proteste, di questo non sappiamo cosa pensare. La nostra stessa cultura attuale ci obbliga
a pensare che non è legittimo esprimere giudizi di valore che in qualunque modo
riguardino le culture. La barbarie della nostra cultura (che ha nome nazismo, comunismo
e tanti altri ancora) quella sì sappiamo riconoscerla e ci sentiamo anche autorizzati a
nominarla, ma la barbarie che affonda le radici nelle altre culture no, in questo caso
abbiamo paura di essere presi per razzisti nemici del multiculturalismo. E’ per questo che
censuriamo le immagini dello sgozzamento-decapitazione di Nicholas Berg”.
Dunque l’autocensura è in qualche modo inconscia (a prescindere dalla responsabilità
personale e politica di chi dirige i media e ne orienta le scelte, che è invece quella tipica
di un’operazione ideologicamente selettiva) e ha perfino una sua estrema logica difensiva
di ritrarsi davanti all’orrore per “stare in pace”. Ma il danno politico e culturale è la
ennesima ricaduta nella “semplificazione” e questo immaginario lavora in silenzio, ha le
sue stanze, i suoi punti fermi politicamente corretti: in questo caso la tesi per cui chi “ha
voluto la guerra è responsabile dei suoi effetti e delle sue ricadute e solo la sua condanna
e la sua sconfitta (della coalizione presente in Iraq) può riportare la pace, tesi
politicamente ingenua in cui però agisce il sottobosco dell’immaginario, lo schema
binario causa-effetto, azione-reazione, con l’univocità fissa dell’immagine stessa
Quella stessa univocità è operante nell’immaginario dell’odio, in cui il nemico caproespiatorio è attore e simbolo del male e basta eliminarlo per eliminare il male.
L’innocenza lineare dello schema mentale che fissa e decreta il significato dell’immagine
va conosciuta e studiata nei suoi effetti allo stesso modo in cui va capita e riconosciuta la
non-innocenza della veicolazione dell’immagine stessa nella comunicazione simbolica.
Ha notato acutamente a questo proposito David Bidussa che “la scelta delle immagini da
mostrare, conservare e ricordare, in breve la costruzione dell’album pubblico non è una
questione né innocente né oggettiva. Non abbiamo che l’imbarazzo della scelta, ma
quella scelta non sarà casuale”. Bidussa fa volutamente degli esempi, si può decidere di
”sintetizzare il vissuto dell’ebraismo nel momento in cui Abramo alza il coltello su suo
figlio o nel passo di Ester in cui si dice che gli ebrei uccisero tutti i loro nemici con la
spada, si può scegliere come icona del cristianesimo il rogo dei libri o lo squartamento
degli eretici.
Sono immagini che stanno in quelle storie e nella memoria culturale di quelle
esperienze. Il problema non è se quelle immagini siano vere o false, il problema è se esse
siano o no la sintesi di quelle storie e dunque se alludano al carattere intrinseco e ultimo
di quelle credenze e di quelle esperienze. Noi siamo convinti del contrario non perché
non ce le ricordiamo (o perché le eliminiamo) ma perché ,quelle immagini stanno accanto
ad altre che ci compensano del disagio indotto da quelle stesse immagini. E dunque, alla
fine, perché riteniamo che la realtà è complessa e compito della qualità della ragione è
distinguere. A fare mucchio ci pensano già i fondamentalisti”.
C’è dunque un fondamentalismo dell’immagine quando il suo significato condensa il
mondo; così come esiste un fondamentalismo dell’immaginario quando esso riduce il
significato a una sorta di fissazione, di coazione-a-ripetere (tra l’altro, detto per inciso ma
non per questo meno significativo: gli studi sull’immaginario erotico sottolineano spesso
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il tratto ossessivo-ripetitivo dell’immagine condensata che dà il via alla stessa spinta al
piacere, così come altri studi segnalano la possibile differenza tra immaginario erotico
maschile e femminile proprio per il carattere aperto di quest’ultimo: quello maschile si
condensa sulla scena immaginata, quello femminile parte dalla scena ma si espande e
oltrepassa la scena stessa). E proprio come i fondamentalisti che mozzano la testa
vogliono dare all’immagine il significato esemplare di regola di eliminazione del nemico
per rimproverare altre correnti dell’islamismo di essere venute meno alla vera norma
religiosa (con ciò confermando che essi stessi vogliono condurre una battaglia di
conquista-riduzione dell’immaginario islamico, che dunque è a sua volta ben più
complesso e non riconducibile alla testa mozzata) anche a noi spetta un compito analogo
alla rovescia, vale a dire di allargamento dell’immaginario, che ha un preciso senso
politico liberatorio ed espansivo.
Il problema può essere esemplificato citando la lettera di una studentessa
quattordicenne al “Foglio” che riporta il testo di una relazione assegnatale a scuola
dall’insegnante di storia.
“Giovedì 13 maggio il giornale “Il Foglio” pubblica la foto della testa mozzata di un
giovane ebreo americano che lavorava in Iraq, con la seguente didascalia “Civiltà
islamica”. Durante la conquista dell’ovest era in uso tra i soldati americani prendere lo
scalpo degli indiani , durante la seconda guerra mondiale i comandi militari USA
avevano diramato l’ordine ai soldati di non portarsi a casa le teste dei giapponesi uccisi.
Durante la guerra del Vietnam circolavano foto di soldati americani che tenevano per i
capelli teste di vietnamiti. Se venissero diffuse attraverso Internet foto relative a questi
fatti con la didascalia “civiltà yankee”, cosa ne penseresti? Per la verità della cronaca la
studentessa aggiunge che lei non ha trovato sul “Foglio” la didascalia e in questo senso
anche questo episodio si rivela uno dei tanti momenti di polemica e guerriglia di
schieramento che sono emersi a macchia d’olio in questi giorni (“La didascalia non c’era
perché la civiltà islamica è grande e terribile come tutte le civiltà, compresa la nostra”,
risponde il direttore). Ma essa è particolarmente significativa di quel problema della
riduzione d’immagine a un nucleo centrale di cui parlava Bidussa, in questo caso appunto
l’immagine di una civiltà yankee che può benissimo essere condensata attorno agli
esempi citati perché questi esempi fan riferimento ad episodi e a momenti veri di cui è
possibile leggere appunto un semplificante filo conduttore, operazione che non è affatto
rara e che anzi è particolarmente diffusa. Anche se molti o tutti sanno o dovrebbero
sapere- come accanto a queste immagini è possibile raccontare storie diverse di altre
immagini, dall’abolizione dello schiavismo alla statua della Libertà a Bob Dylan,
comincia a emergere la consapevolezza che l’immagine crudele della civiltà yankee è un
sottoprodotto di una rappresentazione diffusa, che fa parte essa stessa della tradizione
occidentale. O per meglio dire, come segnala il recente e importante lavoro di Ian
Buruma e Avishai Margalit, Occidentalism. The West in the eyes of its enemies, è parte
integrante della nostra storia la costituzione di un immaginario delle colpe
dell’Occidente e dell’Occidente nemico di se stesso, uno stereotipo anch’esso, che si è
riversato nei suoi schemi di fondo nell’antioccidentalismo.
Si pensi ad esempio alla nota critica della Destra, nei primi anni del secolo, al
Konfortismus , ideologia del quieto vivere senza valori in nome dei propri affari,
alimentata da “mercanti e bottegai”, alle classiche letture offerte da importanti studiosi
come Sombart o Junger.
Si pensi anche a tutta la corposa tradizione del marxismo volgare ortodosso,
all’identificazione capitalismo – mercato - imperialismo come regola e pratica sistemica,
sono osservazioni per certi versi ben note. Si pensi a tutta la grande discussione sui limiti
di fondo della democrazia e la sua mediocrità, che mescola la marxiana critica della
rappresentanza in nome della democrazia diretta con la critica leniniana del
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parlamentarismo e la critica della destra al conformismo dei mediocri e al formalismo
delle procedure come regola di fondo della democrazia.
Anticapitalismo, antimperialismo, aniamericanismo non sono solo il risultato più che
legittimo di visioni del mondo e di grandi lotte degli oppressi, patrimonio positivo di
storiche lotte di emancipazione e di libertà, sono anche un codice mentale, una
semplificazione, uno schema che opera nell’immaginario come codice connettendo
appunto una serie di immagini. L’immagine negativa, vergognosa, crudele, della civiltà
yankee è qualcosa che ha una sua storia, una sua parziale verità e una sua forma sintetica
che si condensa. Tutto vero, ma a condizione di coniugare queste immagini con tutte le
altre per non fare appunto di ogni erba un mucchio. Anche articoli di analisi di ottimo
livello usciti in questi giorni concorrono a riprodurre questo tipo di riduzione : in un
bell’articolo Sandro Portelli afferma ad esempio che “la nuova Statua della libertà ha un
cappuccio nero” e vede negli esecutori di foto e torture non una esecuzione di ordine ma
un atto di orgoglio: “cercano di dare una forma estetica alla violenza che stanno
praticando, la vogliono esibire, vedere ed essere visti, celebrare e ricordare”. Così il
bravo studioso e giornalista chiama in causa “qualcosa di penosamente deja vu” e rievoca
la mostra di qualche anno fa al City Museum di New York, una mostra di fotografie di
linciaggi avvenuti fra il 1870 e il 1940. Scattate e riprodotte da fotografi professionisti
locali, queste immagini venivano spedite ad amici e parenti, regolarmente inoltrate e
consegnate a destinazione dalle poste federali. Dietro un corpo appeso e bruciato, il
mittente ha scritto: “Questo è il barbecue che abbiamo fatto ieri sera. Io sono quello nella
foto a sinistra segnato con una crocetta. Tuo figlio Joe”.
Che dire ancora, se non rischiando di ripetersi? Esistono certo radici, tradizioni, stili,
con un loro continuismo ed esistono appunto anche nel caso di torture e linciaggi nella
storia americana, Portelli ha il merito di evocare, ricordare, connettere. Ma è pur sempre
la storia dell’albero e della foresta e chi identificasse tout-court la civiltà yankee con la
tortura e il linciaggio commetterebbe lo stesso “errore” di chi identifica la civiltà islamica
con il taglio della testa. La ricchezza stessa di articoli, analisi, riflessioni critiche, di
costume, antropologiche, che ha accompagnato lo sdegno diffuso è qualcosa che va
distinta dall’animosità ostile e pregiudiziale della denunzia dei crimini americani e ha
mostrato appunto il rapporto fra opinione pubblica, società civile, critica politica nel
corpo stesso delle democrazie occidentali come una straordinaria capacità di produzione
di anticorpi, mentre lo stesso continua a non accadere nei mass media arabi e crea una
legittima inquietudine.
Al tempo stesso l’insieme di reticenze, omissioni, implicite accettazioni di quella
“contabilità dell’orrore” che pure a parole tutti dicono di non volere, rende legittime le
preoccupazioni sull’autocensura politicamente corretta che tende a scattare. Come
misurare appunto quella “barbarie” evitando di attribuirla alla “civiltà islamica” nel suo
insieme? Ma le cose hanno un nome e non è possibile dargliene un altro. Ce lo insegna
appunto chi dichiara l’Occidente nel suo insieme come nemico, obbligando alla paura e
all’orrore.
Attilio Mangano
i principali articoli citati o richiamati nel testo sono, in ordine:
Carola Frediani, Foto di bit senza parole, Il Manifesto, 16 maggio.
Corrado Augias, Caino e la bandiera della pace, La Repubblica, 14 maggio.
Adriano Sofri, Se l’aguzzino è una donna, La Repubblica, 9 maggio.
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Marina Terragni, Donne col guinzaglio, Il Foglio,13 maggio.
Barbara Spinelli, La fine di un tabù, La Stampa, 9 maggio.
Giuliano Ferrara, Se cediamo al senso di colpa la guerra non fa più per noi, Il Foglio,10
maggio.
Massimo Cacciari, Le sevizie, un terribile choc ma la soluzione non è il ritiro, intervista a cura
di Goffredo De Marchis, La Repubblica, 15 maggio.
Sergio Romano, La contabilità dell’orrore, Il Corriere della sera, 14 maggio.
Michael Walser, Una democrazia si risolleva sempre, (intervista a cura di E.C.), Il Corriere
della sera, 11 maggio.
Massimo Cacciari, Morire per la democrazia? Si, se non rinnega se stessa, (intervista a cura
di Nicoletta Tiliacos), Il Foglio, 14 maggio.
Michael Walser, I diritti dei prigionieri, La Repubblica, 15 maggio.
Ernesto Galli Della Loggia, Se l’America perde se stessa, Il Corriere della sera, 13 maggio.
Ernesto Galli Della Loggia, La tortura, la barbarie, Il Corriere della sera, 17 maggio.
David Bidussa, Teste mozzate, di tutt’erba un fascio, Il riformista, 18 maggio.
Antonio Polito, Il Konfortismus, ideologia senile dei Ferrara che sprezzano l’Occidente, Il
riformista, 18 maggio.
Sandro Portelli, L’orrore e l’orgoglio, Il Manifesto, 12 maggio.
Attilio Mangano
L’orrore, l’immaginario e l’Occidente
l’immagine,l’errore,la sua lettura possibile
Storia & Storici
prima edizione – dicembre 2011
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