Shakespeare tra contemporaneità e modernità

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Shakespeare tra contemporaneità e modernità
Stefano Sciacca
Shakespeare tra contemporaneità e modernità
Fondazione culturale Noli
Shakespeare tra contemporaneità e modernità
Ogni grande artista, il cui nome si è conservato nel tempo, è stato all’avanguardia. Non si è limitato, cioè, a
imitare ciò che andava di moda, ma ha avvertito l’esigenza di modulare uno stile proprio, individuale e nuovo,
a costo di non essere compreso dai contemporanei. Fu il caso di Gustav Mahler, coraggioso avanguardista e
alfiere di innovazione, che arrivò a dire, mosso da disperazione più che da presunzione, «il mio tempo verrà».
Un prezzo che Shakespeare non fu costretto a pagare per diverse ragioni, la più significativa delle quali è la
capacità di ricorrere a livelli di comunicazione diversi e stratificati, in ciò agevolato dalle particolari
caratteristiche delle forme d’arte, particolari e complesse, con cui si confrontò: il teatro, un ibrido di
creazione, interpretazione e di intrattenimento, e il sonetto, dotato sia di un significato oggettivamente
apprezzabile, sia di un metasignificato comprensibile solo al dedicatario e alla ristretta cerchia dei suoi
accoliti.
La ricerca di un segnale di modernità tra le notizie biografiche, le critiche letterarie e le opere stesse del
drammaturgo porta a distinguere quanta influenza abbia esercitato su Shakespeare l’epoca a lui
contemporanea e, allo stesso tempo, quanto distacco egli sia riuscito a impiegare nell’osservazione, nella
comprensione, nell’elaborazione e nella riscrittura di quella realtà attraverso la propria sensibilità personale.
Nei suoi drammi, questa forma di regressione rivelatrice coincide spesso con la condizione di buffone o di
matto, insomma con la marginalità e la malattia; alterazioni e anomalie nelle quali anche i romantici –
principali riscopritori di Shakespeare – avrebbero riconosciuto la via d’accesso alla Verità.
L’opera della definitiva maturità fu la Tempesta, all’epoca della quale Shakespeare aveva raggiunto equilibrio
e stile tali da conferire alla creazione una complessità che sfugge a qualunque tentativo di definirla tragedia
piuttosto che commedia. Prospero non impersonò soltanto la proiezione delle scelte dell’autore, rivolte al
futuro, al ritiro dalla scena, al ritorno a casa, ma anche il definitivo tramonto delle illusioni riposte dall’ultima
generazione di umanisti nelle scoperte scientifiche del Rinascimento, nella speranza di cambiare il Mondo e
il corso della Storia. Questi però non volevano proprio saperne di assecondare le aspettative degli uomini,
che Montaigne, al quale sembra ispirato il pensiero shakespeariano, considerava addirittura patetici nella
loro pretesa di riuscire ad avere il controllo dell’Universo, quando era più che evidente che non governavano
neanche la loro stessa fragile esistenza. Ecco Shakespeare al suo meglio, in bilico tra l’entusiasmo del passato,
la frustrazione del presente e lo sguardo distaccato verso l’avvenire.
Una premessa a proposito della natura, delle fonti e degli obiettivi del presente studio
A distanza di quattrocento anni dalla morte di Shakespeare, il teatro, la poetica, la vita privata, addirittura
l’identità stessa del drammaturgo inglese sono stati oggetto di ogni genere di ricerca, di analisi, di critica, di
interpretazione e di speculazione.
Seguendo la bipartizione proposta da Mario Praz, si può sommariamente distinguere, all’interno di questo
sconfinato repertorio destinato a essere ulteriormente accresciuto, tra i contributi di commentatori che si
sono accostati alle opere di Shakespeare seguendo un approccio storico – valorizzando perciò l’influenza del
contesto in cui l’autore visse e operò – e quelli di coloro che invece hanno preferito un approccio valutativo,
elaborando cioè un’interpretazione condizionata in prevalenza dal gusto e dalla sensibilità della propria
epoca.
Poiché risulterebbe presuntuoso e illogico preferire per principio un metodo all’altro, si è deciso di ricorrere
a un compendio dei due1, allo scopo di approdare a conclusioni autonome, coerenti con il lavoro
recentemente svolto da questa Fondazione e, in particolare, con le riflessioni sul rapporto tra arte e
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Di cui costituiscono una preziosa espressione la ricostruzione storico – biografica di Stephen Greenblatt, Vita, arte e
passioni di William Shakespeare, capocomico e il testo critico di Jan Kott, Shakespeare nostro contemporaneo.
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contemporaneità, che hanno interessato il ciclo di conversazioni ispirato alle Considerazioni inattuali di
Nietzsche, e con lo studio dedicato alla tragedia moderna che ha investito la condizione di intellettuali e artisti
in seguito alle grandi rivoluzioni sociali, economiche e culturali occorse a cavallo tra la fine del XVIII secolo e
l’inizio del XIX, confluito nella pubblicazione intitolata Tracce di realismo a Noli.
Shakespeare, i suoi anni e quanto seguì
Con il termine società moderna, si intende qui fare riferimento al sistema di relazioni private e pubbliche
fondato sulla concezione borghese e capitalista che si è imposta in seguito alla rivoluzione industriale, alla
Rivoluzione francese e alla diffusione, per effetto delle conquiste napoleoniche, del modello giuridico
elaborato in seguito a quest’ultima, conformemente ai principi sui quali si era fondata la proclamazione della
Repubblica.
Ciò che segnò il definitivo superamento dell’ancien régime fu il ricorso a nuovi criteri nell’organizzazione della
gerarchia sociale: gli antichi privilegi, legati allo stemma nobiliare, vennero formalmente ripudiati e
sostanzialmente sostituiti con quelli derivanti dalla ricchezza. Nella fase iniziale della transizione non dovette
essere infrequente che blasone e censo corrispondessero, tuttavia da quel momento in avanti era diventato
possibile per chiunque, indipendentemente dalle proprie origini, ambire a raggiungere le più alte posizioni
della scala sociale, soltanto avesse disposto dei mezzi economici necessari e, al tempo stesso, sufficienti per
riuscirci. Il denaro avrebbe infine contato più d’ogni altra cosa.
Nel 1596, la domanda proposta al Collegio degli Araldi da John Shakespeare, padre di William, volta ad
acquistare uno stemma nobiliare venne rinnovata dal figlio. John ne aveva formalmente titolo in ragione degli
incarichi pubblici che aveva ricoperto presso la città di Stratford upon Avon, benché la sua firma si esaurisse
in una croce. Il figlio, viceversa, era già un affermato e noto drammaturgo, cionondimeno non avrebbe avuto
diritto a presentare una nuova domanda a proprio nome. Il dissesto finanziario del padre aveva impedito
l’accoglimento dell’originaria richiesta: essere in grado di sostenere le imposte araldiche non sarebbe stato
sufficiente ma risultava comunque necessario per acquistare l’Arme. Il figlio, tuttavia, stava accumulando un
cospicuo capitale grazie ad accorti investimenti nel teatro e, facendo valere i meriti di servizio paterni,
ottenne ciò che desiderava: evidentemente la ricchezza che aveva già raggiunto e che avrebbe ancora
aumentato, arrivando ad acquistare tra le molte proprietà immobiliari anche New Place, la più bella
dell’intera cittadina natale, non gli bastava. William Shakespeare cullava un’ambizione diversa e, per l’epoca,
certamente maggiore: realizzare il passaggio dalla condizione di plebeo a quella di gentiluomo. Consapevole
che la sua attività di attore veniva considerata un’occupazione estremamente degradante, socialmente
stigmatizzata e derisa, Shakespeare, autore tragico per eccellenza, visse in prima persona la tragedia
moderna dell’artista: per lo stemma tanto agognato (effigiante una lancia d’argento, raffigurazione d’arme
del cognome della famiglia), scelse il motto Non Sanz Droict, che dimostra la necessità e tradisce il desiderio
di difendere la legittimità del proprio acquisto. Sembrerebbe però che un malizioso errore di trascrizione,
consistente nell’inserimento di una virgola tra le parole Non e Sanz, avesse trasformato quella scusa non
richiesta in un’accusa manifesta. Nonostante l’immediata correzione, il drammaturgo subì gli scherni dei
contemporanei, di cui resta traccia nella commedia dell’amico e collega Ben Jonson, Every man out of his
humour, e dovette certamente soffrire a causa del conflitto che lo affliggeva: ambiva a salire la scala
gerarchica ma, al contempo, si rendeva conto della vanità del proprio assillo. Giunse a ridicolizzare il suo
stesso atteggiamento nella figura di Malvolio, il maggiordomo della Dodicesima notte, ambizioso impostore
che aspirava superbamente a sposare una nobildonna e che finì, vittima della propria hybris (una volontà
negativa attestata dal nome medesimo del personaggio), per essere imprigionato come matto, insomma «un
somaro pieno di sussiego che manda a mente il comportamento da tenere, senza testo, e lo ripete
sbracciandosi a più non posso».
Quelli di Malvolio erano gli atteggiamenti tipici dell’attore e non c’è dubbio che Shakespeare fosse stato
attratto dal teatro appunto per il fascino che esercitava su di lui l’opportunità di emulare sulla scena i gesti
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gentilizi. È altrettanto probabile che egli si aggrappasse alle origini nobiliari della madre, imparentata con
l’illustre famiglia degli Arden di Park Hall, per rivendicare una posizione sociale che, almeno in parte,
considerava spettargli, non senza diritto: nelle sue tragedie sviluppò ripetutamente il tema dell’improvviso
spossessamento del ruolo legittimo e della conseguente lotta per la ricomposizione dell’ordine iniziale, la cui
più matura espressione fu la parabola di Prospero, sulle cui implicazioni autobiografiche non è dato dubitare.
Spesso a questa degradazione sociale si accompagnava anche una momentanea perdita di identità, uno
smarrimento che induceva a revocare in dubbio persino la consapevolezza di sé, e Shakespeare sembra
essere stato personalmente affetto da un tormento simile: nel 1599 richiese, ottenendolo, il permesso di
impalare con il blasone degli Arden lo stemma acquistato in precedenza, spinto ancora una volta dall’ansia
di corroborare il motto adottato; nondimeno, nei sonetti dimostrava di avere piena consapevolezza della
vergogna sociale legata al mestiere di chi, come il tintore, imbrattava le mani con il mezzo del proprio lavoro.
Si tratta della stessa contraddizione che avrebbe colpito anche molti piccoli borghesi della letteratura, del
teatro e del cinema, a cavallo tra la seconda metà del 1800 e la prima del 1900, estenuati fino alle soglie della
pazzia dal desiderio di guadagnare il rispetto e l’approvazione dei superiori e, allo stesso tempo, avvelenati
dal rancore nei confronti dei medesimi soggetti, responsabili di averli mantenuti a distanza e addirittura
umiliati a causa della loro inferiorità, stabilita secondo i criteri di una gerarchia che, rendendosi conto di non
poter scalare, gli infelici personaggi iniziavano improvvisamente e incoerentemente a biasimare. Fu il caso,
in particolare, del protagonista de Il sosia di Dostoevskij, la cui tragica lotta contro il rivale arrivista costituiva
in realtà la proiezione di un conflitto interiore con le proprie più segrete aspirazioni di successo,
inevitabilmente frustrate. Anche Goljàdkin, come Malvolio, sarebbe stato condannato dalla sua folle
ambizione a essere internato in manicomio.
Sebbene dunque, ai tempi di Shakespeare, un gentiluomo, ancorché caduto in disgrazia, potesse ancora
legittimamente pretendere il diritto di precedenza da un popolano qualunque, pur arricchito a dismisura – a
conferma che l’antico sistema di privilegi resisteva – emersero, a poco a poco, vere e proprie isole sulle quali
già si percepivano strani tremiti, segnali lontani dell’avvento della modernità. I teatri.
Al loro interno, non soltanto era possibile per un attore, un miserabile mestierante, impersonare la
maestosità di un conte e per un drammaturgo, un modesto scribacchino, detronizzare i re e far tagliare loro
la testa, ma anche per uno spettatore comune, appena un plebeo, accomodarsi tra i gentiluomini, essere
ammirato da tutti e, per la durata dell’esibizione, sovvertire le gerarchie semplicemente al costo di tre penny.
Le tribune dei teatri – insieme ai bordelli vicino ai quali questi vennero eretti – furono i primi luoghi in cui si
verificò la promiscuità che avrebbe rappresentato il tratto distintivo del passaggio alla società moderna.
Sul palcoscenico, poi, giustificati dalla dimensione di grande farsa riconosciuta a qualunque rappresentazione
teatrale, potevano essere inscenati episodi di trasgressione, disobbedienza, ribellione, disordine e persino
essere messi in discussione i valori e i principi che predicatori, istituzioni scolastiche e autorità si impegnavano
strenuamente a inculcare nella popolazione.
A proposito di spettacoli, si può sostenere con ragionevole sicurezza che due visioni, in particolare, dovettero
impressionare Shakespeare al proprio arrivo nella capitale dopo la formazione in provincia: la prima furono
le teste mozzate dei nobili che avevano congiurato contro la regina e attentato alla sua sicurezza, esibite
come monito sul ponte di Londra; la seconda, invece, fu la rappresentazione del Tamerlano di Christopher
Marlowe, storia di un povero pastore della Scizia, che con disumana crudeltà, sfrenata ambizione,
straordinaria forza di volontà e indubbio carisma, ponendosi a capo di un gruppo di predoni, riusciva
lentamente ma inesorabilmente a rovesciare regni, a trucidare re e a conquistare il mondo. Una figura di
avventuriero spregiudicato e noncurante delle istituzioni, che avrebbe ispirato i tiranni partoriti
dell’espressionismo tedesco, allorché il cinema di Weimar colse il presagio dell’avvento di mostri assetati di
sangue e di potere, quali si sarebbero rivelati Hitler e Stalin. Ancora più significativa risulta poi l’affinità con i
grandiosi e tragici personaggi che ricorsero nella filmografia di Orson Welles: pur ammettendo un enorme
debito nei confronti di Shakespeare, è innegabile che egli concepì Kane, Arkadin e Quinlan alla stregua di
forze incontenibili e primordiali, scaturite dal nulla alla conquista dell’assoluto senza rispettare qualsivoglia
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regola o gerarchia ma, anzi, deridendole e disprezzandole proprio come l’implacabile conquistatore di
Marlowe.
Benché Shakespeare dovesse essere stato conturbato dalla forza eversiva della trionfale storia di Tamerlano
– al pari della maggior parte dei suoi contemporanei, che ne decretarono lo straordinario successo – le
decapitazioni e le altre truculente esecuzioni, compiute quotidianamente agli angoli delle strade londinesi,
lo spaventarono di più: tra potere e anarchia egli scelse il primo, anche se questo per sopravvivere ricorreva
al terrore e alla violenza, piuttosto che all’applicazione della legge e all’equa amministrazione della giustizia.
A differenza di Marlowe, autore scapigliato e maledetto, che fu contemporaneamente spia al servizio della
corona e incorreggibile rissaiolo da taverna, Shakespeare, nel quale i contemporanei riconoscevano un’indole
particolarmente schiva e riservata, si dimostrò un conservatore e guardò con sospetto e con orrore ogni
forma di violento turbamento della sovranità da parte di spinte incontrollate provenienti dal basso, come la
sommossa popolare capeggiata dal tessitore Jack Cade.
Proprio nel racconto del tentativo di Cade e dei suoi facinorosi seguaci di sovvertire l’ordine sociale e di
stravolgere le istituzioni che ne erano espressione a cominciare dalla giustizia – celebre la proposta di uno
dei ribelli: «la prima cosa da fare è ammazzare tutti gli avvocati» – emergeva l’interesse di Shakespeare nei
riguardi della plebaglia urbana, con la quale era da poco entrato in contatto e che, ai suoi occhi di
campagnolo, sembrava animata da una vitalità incontenibile e potente, benché estremamente spaventosa.
Secondo Greenblatt, il drammaturgo stabilì che era «la folla di Londra – la concentrazione mai vista prima di
corpi che si muovono insieme lungo le vie strette, attraversando e riattraversando il grande ponte,
affollandosi nelle taverne, nelle chiese e nei teatri – la chiave di ogni spettacolo. La vista di tutta quella gente
– insieme al suo baccano, al suo fiato pesante, alla sua rozzezza e alla violenza potenziale – sembra essere
stata la prima e indimenticabile impressione che Shakespeare trasse dalla grande città».
Un’impressione paragonabile a quelle estive che in Dostoevskij suscitò la visita della metropoli inglese,
attraversata da un fiume di operai alienati. Un’immagine di disordine chiassoso che richiama le processioni
dipinte da James Ensor, un frenetico girone infernale degno degli artisti della nuova oggettività e
dell’espressionismo tedesco.
Shakespeare, anzi, fu talmente stuzzicato dall’immagine distopica della capitale inondata da una folla
inferocita e irrefrenabile che la adattò, sia pure anacronisticamente, anche ai contesti storici del Giulio Cesare
e del Coriolano.
L’attrazione verso quel caos – che dovette non soltanto sorprendere il suo animo, ma persino atterrirlo –
tradisce l’esistenza di una tensione sotterranea e mai totalmente sopita, che si agitava al di là dell’impassibile
distacco con cui Shakespeare si tenne prudentemente alla larga dalle polemiche più aspre, sia pubbliche che
private. Mai accettò una provocazione da rivali e concorrenti; mai si espose apertamente sulla stretta
attualità.
Anzi – ennesima contraddizione – difese lo status quo, la rigidità del sistema che, in quanto attore e
drammaturgo, lo emarginava e gli avrebbe impedito, se non fosse stato per i diritti acquisiti dal padre, di
salire la scala gerarchica.
Nondimeno, a modo proprio fu anche lui un conquistatore venuto dal nulla, il semplice diplomato di una
scuola di grammatica di campagna, mal sopportato dagli University Wits, i drammaturghi laureati presso i
prestigiosi atenei di Oxford e di Cambridge, i quali conducevano una vita di stravizi, disonorando la loro stessa
prestigiosa formazione e l’elevata condizione sociale che ne conseguiva, rispetto alla quale si consideravano
ancora superiori. Anche nei loro confronti Shakespeare ebbe un comportamento ambivalente: ne trasse
ispirazione per definire uno dei personaggi più umani, appassionanti e commoventi della sua intera
produzione, Falstaff – che i più autorevoli storiografi considerano tratteggiato sul profilo di Robert Greene,
uno dei più ostili componenti del circolo degli universitari – ma, appunto come il principe Hal in Enrico IV,
dopo aver dato retta per un po’ allo «spirito ribelle della [loro] leggerezza», dalla quale apprese come far
esprimere realisticamente ubriaconi, bugiardi, bari, ruffiani e parassiti, si rifiutò di seguirne il modello
dissoluto, che molto probabilmente considerava un paradosso sociale.
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In definitiva, dunque, benché le note biografiche restituiscano l’immagine di uno Shakespeare non del tutto
innocente – la leggenda vorrebbe che la fuga da Stratford fosse dovuta a guai con il giudice di pace locale, in
seguito a un’accusa di caccia di frodo ai daini, il tipico passatempo dei giovani ribelli – la sua esistenza non fu
macchiata da niente più di piccoli atti di disobbedienza, null’altro che puerili marachelle. Per il resto,
Shakespeare aveva un vero e proprio culto dell’autorità e delle gerarchie, come rivela l’inequivocabile
discorso di Ulisse nella scena III dell’atto I di Troilo e Cressida: «Il principio sull'autorità è stato trascurato […].
Quando l'autorità non è più l'alveare cui tutte le api operaie fanno capo, che miele ci si può aspettare? Se la
gerarchia è mascherata, i più indegni fan bella figura anch'essi nella mascherata generale. I cieli stessi, i
pianeti, e questa terra ch'è centro di ogni cosa, rispettano grado, priorità, rango, stabilità, corso, proporzione,
tempo, forma, dovere e fedeltà col massimo rigore. […] Ma se i pianeti si mischiassero a caso in maligno
disordine, quali pestilenze, mostruosità, rivolte, tempeste marine e terremoti, turbini di vento, terrori,
mutazioni, orrori, spaccherebbero, frantumando e sradicando, l'unità e il sereno connubio dei ceti dal loro
saldo posto! Quando la gerarchia è scossa, che è la scala ad ogni grande impresa, l'azione volge a male. Le
comunità, i ranghi nelle scuole, le corporazioni, il pacifico commercio fra terra e terra, la primogenitura e il
diritto di nascita, le prerogative dell'età, della corona, degli scettri, degli allori, come potrebbero, senza
gerarchia, conservare il timbro del legittimo? Si spezzi la gerarchia, si porti a dissonare quella corda, e
sentirete quale discordia seguirà! Tutto litigherà con tutto […]. Tutto avrà nome potere, e il potere volontà e
la volontà desiderio e il desiderio, lupo universale, assecondato doppiamente dalla volontà e dal potere, farà
dell'intero universo la sua preda per poi, alla fine, divorar se stesso».
Revocare in dubbio l’autorità e alterare la gerarchia terrestre – che trovava corrispondenza e, dunque, traeva
legittimazione in quella celeste – avrebbero generato, nella convinzione di Shakespeare, una terrificante
sommossa dal basso il cui esito sarebbe stato la più totale rovina.
All’inizio del II atto della stessa tragedia, il drammaturgo diede nondimeno prova della complessità del suo
pensiero e, soprattutto, della capacità di insinuare nello spettatore il tarlo del dubbio, mettendo in
discussione principi che aveva appena definito incontestabili, anzi sacri, per bocca dell’illustre Ulisse. Lo
sfrontato Tersite, lo spregevole plebeo omerico, il diverso, il reietto, il marginale, nel corso di quelli che tutti
sembravano considerare vaneggiamenti, ai quali nessuno prestava attenzione se non per giustificare le
percosse che gli riservavano, offrì la prospettiva di colui che frequenta i generali achei pur non essendo uno
di loro: «Ulisse e il vecchio Nestore, il cui cervello era già tutto pappa prima che i vostri nonni avessero unghie
ai piedi, vi legano all'aratro come foste buoi da tiro e vi fanno arare questa guerra». Dalla sua posizione di
osservatore privilegiato ma estraneo – così infimo che sarebbe risultato meschino, miserabile, persino
volgare per un appartenente all’élite compromettersi infliggendogli una punizione più severa di qualche
colpo di scettro – Tersite ipotizzò che le parole di Ulisse non fossero altro che l’astuto sotterfugio per
mantenere una pace sociale funzionale agli egoistici interessi dei capi tra i capi. Questo personaggio minore
era l’antenato dei buffoni e dei matti che ricorsero tanto spesso nel teatro shakespeariano, all’interno del
quale si sono fatti portavoce di verità e, forse, del cinismo e dello scetticismo propri dello stesso autore.
Anche il passaggio del II libro dell’Iliade che lo riguardava venne considerato da molti studiosi del passato un
episodio comico, durante il quale Omero concedeva ai suoi eroi, belli e buoni, di sfogare la frustrazione
sull’inferiore e il deforme, individuando nel comune disprezzo per Tersite lo strumento di ricomposizione
delle loro divisioni interne. Mentre nel poema omerico, però, il suo intervento ricalcava sostanzialmente
quello di Ulisse e la punizione gli veniva inflitta non per il senso delle parole, ma per l’impudenza di essersi
rivolto ai capi – quindi, per aver alterato solo formalmente la gerarchia – nel dramma di Shakespeare egli
contestava apertamente le fondamenta medesime di quella gerarchia, esprimendo cioè una verità propria,
che soltanto dalla sua particolare prospettiva appariva evidente.
In ogni caso, l’atteggiamento prudente di Shakespeare – il quale al massimo si spinse a intervenire per bocca
di apparizioni minori e grottesche – contribuì di certo a renderlo gradito agli illustri protettori del teatro, che
temevano la diffusione di messaggi troppo sovversivi, capaci di incendiare l’animo violento della folla e,
conseguentemente, di destabilizzare la pace del regno.
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In proposito, gli storiografi narrano addirittura che la regina Elisabetta in persona redarguì Sir Philip Sidney
per essersi lasciato coinvolgere, durante una partita di tennis, in un alterco con il conte di Oxford, superiore
a lui per rango: se la gente comune avesse saputo che persino un cavaliere non rispettava un titolo maggiore
rispetto al proprio, sarebbe stata gravemente compromessa la cieca fede nella logica sulla quale era fondata
l’ubbidienza al potere.
Al di là di singoli episodi più o meno realistici, è certo che sul finire del XVI secolo, quando Shakespeare visse
a Londra, non c’era taverna o locanda in cui non venissero infiltrate spie con il compito di scovare sospetti di
sedizione, numerosi proclami invitarono ripetutamente la cittadinanza a prestare attenzione nei confronti di
qualunque possibile minaccia e a denunciarla senza esitazione, i predicatori più severi e intransigenti si
accanivano nei confronti di intrattenimenti immorali il cui unico effetto era di corrompere i costumi e di
avvelenare l’anima. I teatri, in considerazione della capacità di attirare una moltitudine di persone e di
comunicare messaggi d’ogni genere, erano nell’occhio del ciclone – con la conseguenza, tuttavia, che proprio
l’insistenza con cui se ne parlava, sia pure in termini denigratori, contribuì ad aumentare il richiamo sul
pubblico.
Comunque, pur essendo potenziali focolai di idee rivoluzionarie, i teatri sopravvivevano al riparo
dall’applicazione degli editti più severi: sorti sulle rovine dei monasteri cattolici che Enrico VIII aveva fatto
distruggere, quelle creature moderne si nutrivano paradossalmente degli antichi privilegi giuridici assegnati
a specifiche aree della città, definite Libertà o Recinzioni. Vere e proprie isole giuridiche, paragonabili a quella
fantastica su cui Prospero, potente demiurgo della Tempesta e alter ego di Shakespeare, edificò il dominio
della fantasia, della volontà, dei capricci.
Erano i primi vagiti della modernità e il drammaturgo venuto da Stratford uno dei massimi interpreti in scena.
Compiacere il sovrano risultava essenziale per restarvi. Si trattava soprattutto di questione di affari, almeno
così la concepì Shakespeare, che grazie al teatro poté coronare a un certo punto della vita il sogno di ritirarsi
in campagna, nei luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza, e trascorrere il tempo nell’ozio, secondo quanto
conveniva a un autentico gentiluomo.
Macbeth fu scritto per celebrare la discendenza del re scozzese Banquo, profeticamente investita della
corona e destinata a governare in pace: è appunto questo che conferma l’epilogo trionfale della tragedia.
Shakespeare dimostrò ripetutamente straordinaria capacità di attingere alle opere altrui o alla cronaca per
piegare le une e l’altra alle proprie esigenze professionali e artistiche; in questo caso, sembrò ispirarsi alla
cerimonia di benvenuto allestita per Giacomo I in occasione della visita presso l’università di Oxford. Il nuovo
re succedeva a Elisabetta, vale a dire colei che aveva fatto decapitare sua madre dopo averla deposta: non
poteva che essere lieto di sentirsi raccontare che, in quanto discendente di Banquo, il suo regno sarebbe
rimasto al sicuro, a dispetto delle continue minacce, come quelle appena sventate della Congiura delle polveri
e dell’attentato ordito dal conte di Gowrie. Gli organizzatori dello spettacolo di Oxford lo accolsero
rievocando l’episodio della profezia che lo stesso progenitore di Giacomo avrebbe ricevuto secoli prima.
Questo espediente soprannaturale, che tanto aveva impressionato il re, andava mantenuto ma la
rassicurante profezia delle sibille, con cui si era aperto il device oxfordiano, fu sostituita dalle oscure parole
di tre streghe: Shakespeare era solito ricorrere a strumenti di inquietudine e di incertezza – una delle
caratteristiche in seguito maggiormente apprezzate e mutuate dagli epigoni romantici – per diffondere
un’atmosfera opaca, intorbidita dalla nebbia, satura di aria sporca, squarciata da tempeste di lampi, avvolto
dalla quale il pubblico sarebbe stato costantemente in tensione. Delle sibille non era legittimo dubitare, ma
delle streghe qualunque uomo timorato di Dio si sarebbe dovuto insospettire. Il presagio, ora rivolto a
Macbeth, sotto l’apparenza di rassicurazione celava in verità un’esortazione all’autodistruzione.
Dunque, pur trattandosi di un lavoro concepito per rassicurare il re, questo geniale e sottilmente beffardo
drammaturgo si concentrò sulla convinzione, in lui fortemente radicata, che il re non fosse mai al sicuro,
neppure dopo una carneficina, che avrebbe dovuto teoricamente metterlo al riparo da qualunque minaccia.
Shakespeare sapeva di potersi permettere questa ironia, senza che il trionfo della morte sul protagonista
indispettisse lo spettatore più influente e più illustre di tutto il regno: Macbeth era un usurpatore,
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l’antagonista dell’avo di Giacomo e, oltretutto, era stato ispirato a commettere le proprie atrocità dalle parole
delle streghe che, nell’ottica del re, particolarmente superstizioso, e dei predicatori protestanti erano una
manifestazione del demonio tentatore.
L’autore si concentrò sulla tragedia interiore del personaggio, il quale quanto più avrebbe desiderato mettere
fine alla catena di sangue che ha innescato, tanto più in quel sangue si trovava immerso, fino ad annegarvi.
E intanto veniva roso dal dubbio di essere stato tratto in inganno da quelle «cose grinzute in così sconce vesti,
che non paiono gente di questa terra eppure ci stanno sopra».
Tuttavia l’analisi del ciclo di cronache storiche dimostra che nell’esperienza di Shakespeare il re sarebbe stato
sempre in pericolo, indipendentemente dalla circostanza che egli fosse un re giusto o ingiusto, buono o
cattivo, legittimo o illegittimo.
Il re non era mai al sicuro perché quello che Jan Kott definisce il grande meccanismo della Storia si trovava in
moto perenne e operava del tutto indiscriminatamente, ripetendosi sempre uguale a se stesso, finendo cioè
per schiacciare immancabilmente anche colui che lo aveva messo in moto: nella concezione storica di
Shakespeare questo concetto era già chiaro ai tempi di Ulisse – «tutto avrà nome potere, e il potere volontà,
e la volontà desiderio, e il desiderio, lupo universale, assecondato doppiamente dalla volontà e dal potere
farà dell'intero universo la sua preda per poi, alla fine, divorar se stesso».
Il successo di Tamerlano aveva insegnato a Shakespeare che il desiderio di conquistare la corona e di
raggiungere il potere – che ne costituiva la prerogativa principale – produceva sul pubblico un richiamo
magnetico, irresistibile. Ogni spettatore, all’interno del teatro, era ossessionato dalla corona – ogni uomo, in
effetti, lo è – e anche i suoi personaggi lo sarebbero stati, al punto da non guardare in faccia a nessuno,
neppure ad alleati, amici o parenti, e da non provare alcuna umana pietà; proprio come il terribile pastore di
Scizia. Con la significativa differenza, però, che non sarebbero morti di vecchiaia, bensì uccisi a propria volta
da un altro pretendente al trono.
Raccontando questo meccanismo, Shakespeare si limitò a rispecchiare fedelmente il quadro di congiure,
tradimenti e violenze incessanti a lui tanto famigliare: ben consigliato dalla sua istintiva cautela, egli attinse
frequentemente alla storia del passato inglese e non solo, per rileggere i problemi della propria travagliata
epoca. Del resto non avrebbe potuto fare diversamente: una disposizione del 1559 di Elisabetta, appena
salita al trono, stabiliva infatti che non fosse consentita la recita di «interludi nei quali questioni di religione
o del governo e dell’amministrazione della nazione fossero discusse e trattate». Tra le preoccupazioni della
regina c’era anche quella che il permesso di rappresentare regnanti e dignitari avrebbe finito «per rendere la
grandezza ordinaria».
Tuttavia, non c’è dubbio che l’intenzione del drammaturgo fosse di riferirsi alla sua Londra anche quando
ambientava la storia in altri luoghi o in altri tempi. Lo attesta il costante riferimento alla plebaglia in cui si era
imbattuto al proprio arrivo nella capitale: in Antonio e Cleopatra sono «schiavi meccanici con grembiuli
bisunti, regoli e martelli» – simili agli operai alienati del sottosuolo di Metropolis, capolavoro cinematografico
di Fritz Lang – mentre in Coriolano i plebei insorti, dopo aver ottenuto ciò che chiedevano, festeggiavano la
vittoria lanciando in aria i cappelli, come era costume dei londinesi elisabettiani.
Fu appunto la stretta relazione che il teatro di Shakespeare intrattenne con l’epoca in cui visse e con le sue
numerose contraddizioni a suscitare l’interesse e l’ammirazione dei romantici, a cominciare da Wolfgang
Goethe, il quale in uno scritto critico del 1813 osservò: «l’Inghilterra è dappertutto […] Il poeta del resto visse
tempi significativi, di cui colse tanto le virtù quanto i vizi. […] e non ci avrebbe colpito altrettanto se non fosse
stato così coinvolto nello spirito vivo della propria epoca».
Dei suoi giorni, Shakespeare raccontò soprattutto il terrore con il quale ogni individuo, non soltanto il re, era
costretto a fare incessantemente i conti. Non solamente in città, dove i sospetti trovavano conferma
attraverso le torture, per poi tramutarsi in una nuova esecuzione da celebrare lungo le vie affollate, tra le
risa e le grida sguaiate di una folla assetata di sangue e di squartamenti, ma altresì in campagna, dove il
drammaturgo aveva trascorso la giovinezza assistendo all’instancabile caccia tra protestanti e cattolici, in un
clima di insicurezza, risentimenti, diffidenza e paura sempre più soffocanti.
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Shakespeare tra contemporaneità e modernità
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Shakespeare aveva orrore delle torture e delle esecuzioni ma, allo stesso tempo, si rendeva conto che simili
spettacoli costituivano un richiamo per il pubblico, nell’ambito di un contesto culturale che considerava i
combattimenti tra cani inferociti e orsi accecati uno degli svaghi più divertenti: in quanto professionista
dell’intrattenimento, egli doveva assecondare e persino compiacere questo gusto per il macabro e il
truculento del quale nelle sue opere restano infatti inequivocabili tracce – Macbeth, accerchiato senza
scampo dai propri nemici, esclamava «sono legato al palo, non posso fuggire, devo affrontare la mia muta
come l’orso».
Inoltre, il drammaturgo riteneva che il carattere esemplare di certe punizioni corporali e addirittura del
patibolo avesse la propria utilità pratica, come confermano le parole dell’ufficiale di Stato veneziano che
intende ottenere da Iago una spiegazione ai misfatti commessi: «I tormenti ti apriranno la bocca. […] Se c’è
qualche sopraffina crudeltà per torturarlo duramente e a lungo, gli venga riservata».
Nella sua coscienza di intellettuale si profilava così un conflitto tra diritti individuali, che attraverso le
conquiste della modernità vengono oggi considerati inviolabili, e l’esigenza pubblica dell’ordine mantenuto
a ogni costo, anche ricorrendo al sacrificio di quelle prerogative.
Questa dialettica interiore, certamente dolorosa, contribuì a conferire ai testi shakespeariani la loro
spiazzante complessità: alla dolcezza della forma espressiva e all’incanto poetico delle immagini, si
contrappose una violenza selvaggia, efferata, affatto insensibile. Una contaminazione che scandalizzò e
indispettì i suoi più accaniti detrattori, i lumi sette e ottocenteschi. Che pure furono forse troppo frettolosi
nel formulare il proprio giudizio: alla luce della sua esperienza personale, reduce dagli orrori delle dittature
nazista e sovietica, il critico polacco Jan Kott non poté fare a meno di riconoscere che «il lettore della metà
del XX secolo non considera la morte atroce della maggior parte dei personaggi come una necessità estetica
o come una regola fissa della tragedia, apportatrice della catarsi, e neanche come una peculiarità del cupo
colpo di genio di Shakespeare. È portato piuttosto a giudicare la morte crudele dei personaggi principali come
una necessità storica o come qualcosa di assolutamente naturale […] lo spettatore moderno scorge molto di
più di quello che la critica ottocentesca definì una caricaturale e grottesca congerie di inutili atrocità».
Un’analisi complessiva e onesta dimostra comunque che riprodurre non significava approvare: Shakespeare
stigmatizzò ripetutamente la gratuita atrocità di certe torture, come quella riservata a Gloucester nel Re Lear,
e l’eccessivo rigore di alcuni provvedimenti. Nel testo intitolato Sir Thomas More, che non venne mai
rappresentato per problemi di censura, ma di cui si conserva il manoscritto – unico autografo shakespeariano
rimasto – il drammaturgo affrontò il tema della xenofobia che, dopo la cacciata degli ebrei dall’Inghilterra di
Edoardo I nel 1290, aveva colpito le piccole comunità di stranieri provenienti principalmente dalle Fiandre e
dall’Olanda. Lo sceriffo di Londra, Thomas More, sedava i moti antistranieri della folla, tratteggiando i pericoli
insiti nella violenta deportazione che essi invocavano: «cosa avete ottenuto? Ve lo dico io. Avete insegnato
come si fa a far prevalere l’insolenza e la mano forte, come si soffoca l’ordine – e di questa via nessuno di voi
vivrà per diventare vecchio, perché altre canaglie con capricci formati da mano identica, da ragioni identiche
e da identici diritti, come pescicani divoreranno voi, e uomini diventati pesci famelici si mangeranno l’uno
con l’altro».
Il grande meccanismo della Storia si sarebbe dunque ripetuto ancora una volta, coinvolgendo ogni ceto, ogni
piolo della scala sociale. La lezione di Sir Thomas More era che la violenza avrebbe chiamato altra violenza.
Un avvertimento che Orson Welles rivolse al diabolico trio del film noir La signora di Shanghai, ricorrendo alla
medesima immagine di pescicani che, eccitati dall’odore del sangue fino a perdere la ragione, arrivavano a
mordersi l’uno con l’altro e persino ad addentare se stessi.
Oltre a questo monito, però, Shakespeare non si spinse; non assunse cioè una posizione netta sulla piaga
della xenofobia, che da abile uomo di spettacolo voleva comunque sfruttare per richiamare il pubblico.
Piuttosto si sforzò, con innegabile successo, a costringere lo spettatore nella condizione del nemico pubblico,
a fargli provare la stessa paura e il medesimo disagio: «ammettiamo che siano cacciati e poniamo che questo
vostro baccano abbia placato tutta la maestà d’Inghilterra. Immaginate di vederli, quegli sventurati stranieri:
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i bambini in spalla, le povere mercanzie in mano; trascinano il passo pesante verso i ponti lungo la costa, in
cerca di un passaggio».
Sir Thomas More non andò in scena, ma la soluzione della immedesimazione coatta venne riproposta nel
mercante di Venezia, allorché Shakespeare svelò i pensieri dell’ebreo Shylock, appena prima della sua
imminente e umiliante punizione: «io sono un ebreo. Non ha occhi un ebreo? Non ha mani un ebreo, organi,
membra, sensi, affetti, passione? Non è nutrito dallo stesso cibo, ferito dalle stesse armi, assoggettato alle
stesse malattie, curato dagli stessi rimedi, riscaldato e raffreddato dallo stesso inverno e dalla stessa estate,
come lo è un cristiano? Se ci pungete, non sanguiniamo? Se ci fate il solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate,
non moriamo? E se ci fate torto, non dovremmo vendicarci?».
Egli aveva colto l’umanità dell’antagonista – verso il quale doveva spingerlo una particolare compassione,
legata al fatto che anche suo padre John, rispettabile guantaio e pubblico funzionario, aveva prestato soldi a
usura e, forse, lo stesso Shakespeare si impegnò in simili affari – e lo aveva fatto con tanta profondità
d’indagine che il regista polacco Roman Polanski, sopravvissuto agli orrori del ghetto di Varsavia, volendo
fotografare la condizione dei suoi concittadini fatti prigionieri, seviziati e annientati, ricorse proprio allo sfogo
disperato pronunciato da Shylock.
In questo modo, il drammaturgo aveva ribaltato con un solo straordinario monologo la prospettiva tra
carnefice e vittima. Un’altra intersezione con la sensibilità di Polanski che si dedicò agli imprevedibili sviluppi
di questa relazione, satura di tensione, in film come Cul de sac o La morte e la fanciulla. Kott, reduce come
Polanski dallo shock dell’olocausto, considerò che il passaggio da una condizione all’altra avvenisse attraverso
l’annientamento del ricordo e delle illusioni nell’elemento distruttore: ecco che la vittima abiurava ogni
convinzione etica, ogni freno, ogni limite e si trasformava in carnefice.
Prestare attenzione alle parole e ai sentimenti del diverso – anche quando si trattava dell’oggetto dell’odio
e della diffidenza comune – risultava in linea con l’abituale ricorso di Shakespeare a buffoni, giullari e matti
in funzione di disvelamento di nuove prospettive, inaspettati orizzonti – un ruolo che sarebbe stato assegnato
anche all’outsider interpretato da Toshiro Mifune ne I sette samurai, capolavoro di uno tra i più grandi registi
shakespeariani, Akira Kurosawa: si è già osservato in proposito che, mentre per Omero Tersite era soltanto
un parassita, per Shakespeare egli era dotato di una sensibilità rivelatrice. In effetti, i personaggi
shakespeariani, lungi dal ridursi a stereotipi monodimensionali, funzionali soltanto allo sviluppo della storia,
possedevano una loro complessa natura degna di essere indagata in quanto ricca di mistero e di incognite.
Si tratta di una delle più moderne conquiste della poetica shakespeariana: la Storia non ha segreti, non
dipende da un imperscrutabile volere divino – le apparizioni di spiriti e streghe, immancabili secondo la moda
contemporanea, erano descritte in modo tale da non chiarire se si tratti di presenze reali o piuttosto della
proiezione di tormenti, di speranze e di ambizioni di personaggi psicologicamente disturbati.
No, la Storia è il risultato delle scelte umane e tende a ripetersi ciclicamente, travolgendo tutti in un efferato
gioco al massacro, una disperata lotta per la vita di sapore verghiano.
Resta solo da vedere chi metterà in moto il grande meccanismo e per quali ragioni lo farà: sono i pensieri e
le emozioni umane a costituire un’incognita, uno spaventoso e imprevedibile rebus. E Shakespeare avrebbe
sviluppato compiutamente sia la complessità dei caratteri sia l’espressione dei sentimenti, degli stati
d’animo, del dubbio. Soprattutto il dubbio.
Praz confrontò i principali protagonisti shakespeariani con il controverso dottor Faust di Goethe, con gli
indecisi borghesi di Dostoevskij e con il sorriso enigmatico della Gioconda di Leonardo. Una comparazione
che rivela come la modernità di Shakespeare risieda non nelle risposte, che egli non offrì, ma nelle molte
domande irrisolte che seppe suscitare. Di fronte all’immutabilità della Storia, i suoi personaggi si dannarono
come una mosca impotente al di là di un vetro: si interrogavano, passavano dalla condizione di re a quella di
buffone, impazzivano. Vivevano, lottavano, soccombevano e infine morivano. La tragedia però non
consisteva nella morte, ma nell’incapacità di risolvere il dilemma, di sciogliere i nodi, di vincere l’incertezza.
Il dubbio è la dimensione interiore dell’epoca moderna in cui l’uomo, distrutti i pilastri dell’antico regime, si
scoprì a piangere sulle rovine di ciò che era stato – il pensiero corre allora al dipinto di Füssli – spaventato
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dalla mancanza di riferimenti altrettanto saldi. Lo stesso spavento che per Shakespeare provocò immaginare
la detronizzazione di Riccardo II, la cui rovinosa caduta equivalse alla rovina dell’intero sistema feudale, alla
precipitazione del sole nel più profondo degli abissi.
Shakespeare scavò nella confusione dell’animo, ricorrendo a quella che Greenblatt ha acutamente definito
la sottrazione radicale di spiegazioni sul comportamento e anticipando così la tecnica del perturbante che
Freud riconobbe essere una delle peculiarità della letteratura romantica.
All’esito di questo esercizio di psicanalisi, Shakespeare dava forma espressiva a ciò che normalmente è
informe: il pensiero. Trecento anni prima di Dostoevskij, di Van Gogh e dello stesso Freud, il drammaturgo
inglese sperimentò l’analisi psichica dei suoi personaggi.
Harold Bloom, in proposito, si spinse a considerare: «Freud ha realizzato una versione in prosa delle opere di
Shakespeare. Ciò che noi consideriamo la psicanalisi di Freud è in realtà un’invenzione shakespeariana, che
Freud si è limitato a codificare». Forse, si tratta di un riconoscimento eccessivo, tuttavia si tenga conto della
circostanza che lo stesso padre della psicanalisi sembrerebbe aver riconosciuto un debito verso il lavoro di
altri intellettuali: «i poeti e i filosofi prima di me hanno scoperto l’inconscio; ciò che ho scoperto io è stato il
metodo scientifico attraverso cui l’inconscio può essere studiato». Tra quei pensatori, il drammaturgo inglese
occupa certamente una posizione in primo piano.
Sul percorso della straordinaria conquista dell’inconscio, la tecnica shakespeariana seguì un’evidente e
rilevante evoluzione.
Dapprima i personaggi recitavano le loro emozioni, filtrandole quindi attraverso la mediazione della ragione.
Questo era particolarmente evidente nei discorsi di Riccardo II e di Riccardo III che, dal punto di vista della
forma, risultavano fluenti, accurati, articolati in maniera pienamente consapevole.
Viceversa, nel monologo di Bruto di cui alla scena I dell’atto II di Giulio Cesare i pensieri si manifestarono allo
stato puro, grezzo, disordinato: si tratta di improvvise esclamazioni di collera, di intuizioni capaci di
sorprendere il loro stesso autore, di frasi troncate dall’esitazione e dalla perplessità – straordinariamente
simili ai soliloqui sconclusionati di Goljàdkin ne Il sosia.
Le domande si accavallavano l’una sull’altra, assediavano la mente, la strangolavano senza lasciare il fiato per
le risposte; quel sistema funzionò, tanto che Shakespeare decise di riproporlo in tutti i drammi successivi:
evidentemente aveva compreso che tormentare i personaggi con questo genere di domande irrisolte,
invitando il pubblico a indovinare risposte, che egli ritardava a fornire o non forniva affatto, costituiva il
segreto della immedesimazione. Le angosce dei protagonisti avrebbero assalito anche lo spettatore,
costretto a vivere lo sviluppo della tragedia dalla deforme e limitata prospettiva di costoro, subendo a propria
volta il corso irreparabile degli eventi.
Il dubbio finiva per allungarsi sull’esistenza stessa: essere o non essere. Un assillo così insopportabile da aver
spinto un gran numero di artisti di fine ‘800 e inizio ‘900 oltre le soglie dell’isteria, della pazzia, del suicidio.
Estremo atto di libertà attraverso cui l’uomo può sottrarsi agli ingranaggi spietati e indifferenti del grande
meccanismo, simile alla marea di Verga o al Moloch nel Metropolis di Lang. Ultima scelta che sarebbe stata
negata soltanto a Gloucester nel Re Lear, una delle trovate più perverse di Shakespeare nell’ambito del
dramma più nichilista, che privò l’essere umano persino dell’estrema residua libertà di autodeterminarsi, nel
convincimento che pure questa residua possibilità costituisse in effetti soltanto un’utopia. Gloucester fu
costretto ad assistere alla propria definitiva degradazione – «un capolavoro della natura mandato in rovina»
– la stessa che sarebbe toccata al mondo intero: «questo gran mondo stesso finirà così nel nulla».
L’impotenza e la frustrazione di fronte a una sorte spietata, addirittura beffarda, indifferente e derisoria al
cospetto degli sforzi dell’individuo di determinare da sé il proprio destino, impongono a Gloucester di restare
immobile, di rinunciare all’iniziativa e alla protesta, di accettare la crudeltà del mondo. Riflessioni e
conclusioni del Re Lear che avrebbero ispirato, quanto nessun altro dramma del passato, il teatro moderno,
come dimostrano le sorprendenti analogie con l’atto senza parole che chiudeva Finale di partita di Beckett.
Vale a dire lo stesso autore che storpiò, attraverso la consapevole lente della modernità, la formula di
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Cartesio – «piange, dunque è vivo» – rendendo un chiaro omaggio anche al Re Lear: «noi siamo venuti
quaggiù piangendo. Appena nati, noi piangiamo per essere venuti in questo grande teatro di pazzi».
Shakespeare, comunque, aveva compreso che la principale causa del dubbio consisteva nel conflitto, spesso
insanabile, tra gli interessi individuali – che la centralità assegnata all’uomo dall’Umanesimo aveva esaltato
– e le ritualità collettive di tradizione feudale medievale, che ancora resistevano: Bruto era diviso tra il
sentimento di amicizia personale che lo lega a Cesare e la devozione al bene pubblico che ne esige
l’assassinio.
Ancora una volta, l’arte trasse ispirazione dalla realtà contemporanea che poneva la coscienza di ogni suddito
di fronte ad analoghi tormenti. Con la differenza che all’interno dell’animo di Bruto si misuravano due opposti
valori etici – un dilemma persino più nobile e più dolente venne imposto da John Ford, che Bourget definì lo
Shakespeare américain, al personaggio interpretato da John Wayne ne L’uomo che uccise Liberty Valance,
costringendolo a scegliere tra la realizzazione di se stesso e quella del proprio paese – mentre nel cuore degli
inglesi elisabettiani prevalevano il senso dell’opportunità e, il più delle volte, la paura.
Gli storiografi riferiscono che il padre di Shakespeare, in qualità di consigliere cittadino, supervisionò i restauri
della bella cappella della Ghilda di Stratford, consistenti nell’impietosa distruzione degli affreschi medievali,
secondo i dettami iconoclasti del governo protestante. Benché non sia possibile stabilire con quale stato
d’animo egli eseguì il proprio dovere di funzionario pubblico, il rinvenimento nel 1757 di un testamento
spirituale, nascosto tra i travicelli del tetto della casa degli Shakespeare e riferibile a John, dimostra che,
nell’intimità, egli dovette conservarsi cattolico. Il documento consisteva in un modulo preparato dai gesuiti
e distribuito segretamente ai richiedenti, i quali avrebbero potuto integrarlo con i propri dati. La sua funzione,
oltre a quella di professare la devozione al papa, era di riparare alla morte di un cattolico avvenuta all’interno
di un contesto protestante, che lo aveva privato degli strumenti necessari a ottenere la redenzione dell’anima
prima del trapasso: la confessione, l’estrema unzione, la comunione. Non solo, ma esso fungeva da ultima
implorazione ai propri cari di pregare per l’anima del defunto, compiere opere di bene a suo nome e
organizzare messe in suo suffragio. Insomma, di allestire ciò che i protestanti, considerando l’enorme
imbroglio con cui la chiesa cattolica si era arricchita a scapito di ignoranti e creduloni, definiva
dispregiativamente il «teatro del papa» – espressione che conferma, se mai ve ne fosse ancora bisogno, la
considerazione di cui godeva la rappresentazione teatrale ai tempi di Shakespeare: altro che arte, solamente
una volgare farsa.
Il dubbio, figlio della modernità, era scatenato dalle insicurezze, perlopiù di natura religiosa, che
caratterizzarono l’Inghilterra di Shakespeare. Ne restano tracce evidenti in Amleto, nell’ambito del quale
l’apparizione dello spettro sembra un chiaro tentativo di esorcizzare la paura suscitata dalla tesi protestante
secondo cui dopo la morte non sarebbe restata alcuna possibilità di comunicare con i morti. Inoltre la
domanda di Laerte che, al termine del conciso funerale concesso alla sorella sospettata di essersi tolta la vita,
si domanda «che altro si deve fare?» potrebbe corrispondere alla sconcerto causato nei credenti dopo la
sostituzione degli elaborati rituali funebri cattolici con quelli assai più essenziali del protestantesimo.
Soprattutto la circostanza che il re fosse stato ucciso «nel fiore dei peccati», senza cioè aver avuto modo di
pentirsene ed esserne redento, ricalcava la situazione contro cui chi compilava il testamento spirituale
sperava di cautelarsi. Allo stesso tempo, però, Amleto era figlio dei suoi tempi: tempi nei quali veniva
insegnato che gli spettri sono opera del demonio, apparso per trarre in inganno i vivi e indurli al peccato. Il
principe di Danimarca riconobbe inizialmente che quello con cui aveva parlato era uno «spettro onesto» ma,
in seguito, esitò a realizzare quanto questi lo aveva pregato di fare. Non opere di carità e messe in suffragio,
come disponevano i testamenti spirituali, ma una vendetta perpetrata attraverso l’omicidio. «Lo spettro che
ho visto può anche essere un diavolo e il diavolo può prendere un aspetto gradevole, sì, e forse, vista la mia
debolezza, la mia malinconia, lui che è così potente su chi ne soffre, mi inganna per dannarmi». Ad Amleto
occorse distaccarsi dal coinvolgimento emotivo della realtà e riflettere su come agire: scelse quindi di fingersi
folle. A differenza della versione originaria della storia danese, narrata dal cronachista Saxo Gramaticus, in
cui la pazzia costituiva una strategia necessaria ad avvicinare il re usurpatore senza destarne i sospetti, nella
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rivisitazione di Shakespeare – il quale, a onore del vero, pare essersi ispirato a una precedente rilettura di
Thomas Kyd, andata perduta – risultava superflua. E, in verità, non sarebbe stato mai neppure svelato se la
scelta di fingersi pazzo non fosse essa stessa il frutto di una pazzia preesistente all’incontro con lo spettro e
ai dubbi che ne seguirono. Forse la sua inazione cronica è una disposizione naturale, molto borghese, come
quella dell’uomo del sottosuolo di Dostoevskij o del protagonista della Educazione sentimentale di Flaubert.
Forse il sentimento di tedio e di nausea, che egli provava contemplando la grandezza dell’essere umano, non
fu che un presagio dello spleen baudelairiano.
Di certo, la scelta di Amleto di rifugiarsi in questa particolare condizione patologica sembrerebbe implicare
la convinzione che essa soltanto possa avvicinare l’uomo alla comprensione della verità, ispirarlo insomma
come avrebbero fatto stati febbrili o altre alterazioni psicofisiche nella visione dei romantici.
A dispetto delle numerose e significative trasposizioni cinematografiche della tragedia shakespeariana – si
consideri, in particolare, quella di Laurence Olivier che scelse deliberatamente una giovane attrice per il ruolo
della madre di Amleto, allo scopo di sottolineare il complesso edipico del protagonista, evidenziato per primo
da Freud – l’omaggio più interessante al dolore del principe di Danimarca venne tributato da John Ford in
Sfida infernale. Questo perché il padre del cinema western e del mito della frontiera – il cui peso sulla giovane
cultura nordamericana equivalse a quello di Shakespeare sul ben più anziano pensiero europeo – è riuscito a
mantenere inalterato il funzionamento del dubbio, a diffondere altrettanta opacità, a suscitare la stessa
irresistibile immedesimazione da parte del pubblico, stuzzicandone la curiosità senza saziarla fino in fondo,
all’interno, però, di un contesto completamente diverso: altro che notti buie e nebbiose, la sua scenografia
fu uno spazio solare, sul quale l’occhio, spingendosi verso la linea dell’orizzonte, scivolava senza incontrare
ostacoli. Eppure, nell’ambito di un’ordinaria e prevedibile storia di vendetta, l’animo tormentato di Doc
Holyday risultò del tutto impenetrabile: spinto dalla malattia verso l’autodistruzione, dedito all’alcolismo e
al delitto, si dimostrava infine uno spirito «onesto» e soprattutto sensibile nei confronti della modernità –
incarnata non soltanto dal rigore morale dello sceriffo Earp, portatore a ovest della civiltà orientale, ma anche
dagli immortali versi dell’Amleto, che il tenebroso pistolero conosceva a memoria.
Se è vero che Shakespeare non inventò mai nessuna delle sue storie, ma si limitò (per modo di dire) a rileggere
quelle degli altri, la sua fortuna fu decretata dalla capacità di individuare gli spunti più congeniali alla tecnica
di analisi psicologica che andò perfezionando: così la vicenda dell’incerto Amleto gli consentì di esplorare
quella relativamente ignota terra di confine tra il proposito omicida e la sua concreta attuazione – in questo
si può dire che egli anticipò il lavoro interiore svolto da Dostoevskij in Delitto e castigo e in seguito da
Hammett nei propri romanzi, la cui principale innovazione, secondo il collega e amico Raymond Chandler, fu
appunto di «restituire un delitto alla gente che ha un motivo per commetterlo».
Il motivo del gesto disperato di Giulietta, alla fine della tragedia dedicata al suo fatale amore con Romeo, è
scoprire il cadavere del giovane riverso su di lei, al risveglio dalla finta morte in cui era piombata. I due non
sarebbero riusciti a coronare il sogno di sposarsi, schiacciati ancora una volta dalla tensione tra il sentimento
personale e le aspettative delle rispettive casate di veder onorati i rituali collettivi che imponevano, nel loro
caso, di odiare gli appartenenti alla famiglia rivale – la stessa tensione che Cajkovskij ha riprodotto nella sua
Ouverture fantasia accentuando i contrasti tra i diversi soggetti tematici, corrispondenti all’astio tra Capuleti
e Montecchi, caratterizzato da un ritmo pulsante, una brutale frammentazione, la reiterata contrapposizione
imitativa tra gruppi di strumenti, e l’amore appassionato cantato dolcemente dalle viole all’unisono con il
corno e concluso dalla fragile delicatezza dell’arpa, fino a far prevalere, nella sinfonia come nella tragedia, il
tema della rivalità.
Nelle commedie di Shakespeare il matrimonio costituì sempre l’obiettivo al quale aspirarono le giovani
coppie. Tuttavia anche questo rito religioso, connotato da forme ben precise e, all’epoca, estremamente
rigide, rischiava di entrare in conflitto con la spensieratezza e la gioia del vero amore, tratto in trappola da
un’incauta lussuria.
Shakespeare contrasse matrimonio con una donna più anziana di lui, la quale sei mesi dopo la cerimonia
diede alla luce un figlio: visse i suoi anni migliori lontani dal suo tetto e soprattutto dal suo letto – lasciandole
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alla morte il solo legato del proprio «miglior secondo letto». Appunto attraverso l’esperienza personale, si
può ragionevolmente tentare di spiegare la frequenza di matrimoni riparatori, imposti da un rapporto
sessuale troppo impaziente e prematuro, che ricorsero nei drammi shakespeariani. Anticipando la lunga
tradizione teatrale ottocentesca di polemica avverso l’ipocrisia borghese dell’istituto matrimoniale, nelle
commedie problematiche di Shakespeare il rito prevalse con cinica indifferenza sui reali sentimenti dei futuri
sposi. Ironia della sorte, anche quando il matrimonio era stato celebrato in forma privata ma sorretto da un
sincero e appassionato sentimento, sarebbe calata la scure della morale pubblica, insensibile di fronte alla
buona fede della coscienza individuale, e al povero Claudio di Misura per Misura non sarebbe rimasto che
accettare la condanna a morte, emessa in applicazione della campagna intrapresa da Elisabetta contro la
lussuria.
Paradossalmente, poi, il matrimonio più riuscito nel vasto repertorio shakespeariano è quello dei Macbeth,
che tra le pieghe della loro intima confidenza cullarono il medesimo sogno di potere e condivisero la stessa
perversa fantasia della tirannia. Due figure moderne di antieroi, che nelle loro rispettive personalità si
completavano l’una con l’altra fino a diventare un unico indivisibile tiranno protoespressionista. Si consideri,
al riguardo, la dialettica sonora che caratterizzò il primo poema sinfonico composto da Richard Strauss,
dedicato appunto al Macbeth: un progetto unitario di climax, ottenuto però attraverso l’armonioso intreccio
di andamenti diversi, il contrasto di due principali gruppi tematici – un’idea aggressiva che presto ripiega su
tono più dubbiosi, corrispondente al personaggio maschile, e uno slancio più determinato e deciso, nel quale
si manifestò la risolutezza della sposa.
Nel loro patologico e simbiotico rapporto, i coniugi anticiparono la relazione che sarebbe intercorsa tra il
grande meneur, il dottor Caligari, e la sua marionetta, il sonnambulo Cesare. Lady Macbeth, infatti, esercitò
sull’esitante marito uno stimolo sessuale, anzi un ricatto, mettendone ripetutamente in dubbio la virilità – e,
al contrario, gratificandolo per l’obbedienza: «quando osasti attuarlo, allora eri uomo; e se fossi più di ciò
che eri, allora saresti ancor più uomo» – e finì in tal modo per avvelenarlo: «vieni presto, che io possa versarti
nell’orecchio i miei demoni». In questo amore malato e contagioso che avrebbe determinato la
contaminazione e, quindi, la rovina di entrambi, senza però poter essere spezzato, si specchiò quello dei
sonetti, che vide il protagonista irrefrenabilmente attratto da una donna al cui richiamo, pur riconoscendone
i peggiori difetti morali, egli non poteva in alcun modo sottrarsi. Un legame, insomma, che sarebbe
deteriorato nell’infezione venerea: «simile a febbre è l’amor mio, ansioso sempre di quello che più a lungo
alimenta il mio male». Immagini e temi che anticiparono lo stereotipo della donna vampiro celebrata dai
decadentisti e quello della donna fatale del cinema noir, nelle varie manifestazioni e declinazioni, a
cominciare da Il fuoco di Pastrone.
Il protagonista principale della tragedia restava però lui, Macbeth, costretto a vivere una lunga notte senza
fine, imprigionato in un incubo, un topos della modernità approfondito dalla psicanalisi e dall’espressionismo,
sulle orme dei romantici, di Hoffmann e di Füssli.
Secondo Kott, anzi, «Macbeth ha [proprio] la coscienza dell’incubo», elaborato in un mondo dove il delitto
costituiva una necessità storica e in cui la sola aspirazione possibile era riuscire commettere un omicidio
capace di spezzare la catena di violenza. Allo stesso tempo, cedendo alla tentazione di provare a realizzare
questa aspirazione – questo sogno utopico destinato a tramutarsi in incubo reale – il delitto diventava
un’esperienza attraverso cui cercare di conoscere se stesso, di capire fino a che punto sarebbe stato in grado
di spingersi; ma, nel momento in cui si abbandonava all’omicidio per comprendere la propria inintelligibile
natura, quella medesima natura era già stata deturpata, orrendamente offesa, irrimediabilmente stravolta.
E il ricordo dell’uomo che non aveva commesso alcun delitto sarebbe risultato insopportabile per quello che
lo aveva fatto: si generava in tal modo un conflitto interiore così lacerante, da esigere l’annientamento del
ricordo. L’incubo, del resto, era la dimensione ideale per la manifestazione del conflitto tra ciò che si è e ciò
che si desidererebbe essere, in mancanza di qualunque filtro della morale.
L’andamento dei drammi regali, sostiene il critico polacco, e quello di Macbeth sono identici: si assisteva in
entrambi a una successione circolare di delitti, finché il cerchio non fosse stato chiuso e la scala gerarchica
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completamente salita dal protagonista, fino alla sua rovinosa caduta dal piolo più alto. Ma Riccardo III, in
quanto portatore della coscienza del grande meccanismo, ne accettava l’ineluttabile funzionamento,
Macbeth, al contrario, lo concepì come un incubo, sperando al proprio risveglio di poter scoprire una realtà
storica diversa: l’incubo che egli visse consistette dunque proprio nella ripetuta e frustrante constatazione
che realizzare un sogno simile sarebbe precluso a chiunque, anche al re.
Kott, rileggendo nella loro successione i drammi storici di Shakespeare, concluse anzi che in essi l’autore
aveva voluto sostenere l’illusorietà dell’evoluzione: non esiste un limite al delitto, raggiunto e varcato il quale
non se ne verificheranno mai più; la storia non è una retta, ma un cerchio, e il passato, lo spettro di Banquo,
ritornava da Macbeth per ribadirlo. Si tratta evidentemente di uno spunto in seguito colto dalla sensibilità
noir, dal momento che anche gli antieroi del cinema nero avrebbero ambito a un futuro di redenzione che
sarebbe stato loro precluso dall’immancabile intervento del destino – il classico finale beffardo. Ecco il grande
meccanismo che si ripete. L’uomo è davvero vincolato a una condizione di impotenza assoluta dalla quale,
come un orso accecato e legato al palo per il divertimento della folla, non può fuggire.
Ma, forse, sul finire della propria carriera Shakespeare mediò questo pessimismo con una serena
accettazione. In fondo, gli anni passavano anche per lui: i suoi rivali, gli University Wits, erano tutti sotto terra
già da un pezzo e lui disponeva di abbastanza mezzi per ritirarsi in campagna nell’ozio. Abbandonare Londra
dovette mettergli un po’ di malinconia. Aveva sempre vissuto in affitto in modeste sistemazioni nei pressi dei
teatri, prevalentemente ubicati nelle zone più periferiche e degradate della capitale. Andandosene, decise di
acquistare una proprietà immobiliare, quasi avesse voluto lasciare qualcosa di suo nella città che lo aveva
applaudito e portato in trionfo.
Poco prima della fine della Tempesta, Prospero rinunciava ai poteri magici e allo scenario delle illusioni sul
quale aveva a lungo regnato, per fare ritorno al mondo della realtà. In questa rinuncia è stato visto l’addio di
Shakespeare al palcoscenico, sul quale aveva governato e appunto prosperato attraverso la magia
dell’illusione. L’identificazione tra Prospero-mago e Shakespeare-drammaturgo è avvalorata dalla
circostanza, eccezionale nel teatro shakespeariano, che la durata della rappresentazione risultasse
pressappoco la stessa degli eventi rappresentati, determinando quindi una perfetta sovrapposizione tra la
dimensione dei personaggi e quella degli spettatori.
All’ultimo, appena prima di lasciare definitivamente il proscenio, Prospero si rivolgeva direttamente agli
spettatori, in un epilogo che si protraeva oltre la conclusione del dramma, spingendosi cioè fuori
dall’illusione, in direzione della realtà.
Nonostante la tradizionale classificazione come commedia, incentrata sui temi del perdono e della
riconciliazione, l’epilogo era ambiguo e spaventoso: «la mia fine sarà disperata»; per fornire una spiegazione
soddisfacente, Kott propose un’interpretazione alternativa e suggestiva, secondo cui si tratterebbe invece
della tragedia delle illusioni frustrate.
La tempesta ormai è passata, il fervore delle scoperte e il ribollire delle aspettative sono cessati. Seguirà
soltanto la rassegnazione, che l’esperienza piò aiutare ad affrontare serenamente, dopo che il grande
meccanismo si è inesorabilmente ripetuto, ancora una volta e ben più di una volta.
L’isola di Prospero – geograficamente collocabile nel Mediterraneo, ma ispirata alle isole scoperte dagli
esploratori del nuovo mondo – è pur sempre parte di questo mondo ed esso, a dispetto delle invenzioni che
caratterizzarono il primo rinascimento, alimentando ragionevoli speranze che il grande meccanismo potesse
essere finalmente arrestato, non era affatto mutato: Galileo dimostrò la bontà delle teorie di Giordano Bruno,
ma, per evitare di fare la medesima fine, preferì ritrattare. Leonardo concepì straordinarie macchine, pronte
a sfidare i limiti che per millenni avevano incatenato l’uomo alla sua misera impotenza, ma non poté
realizzarle a causa dell’inadeguatezza della materia allora disponibile, constatando con dolore l’incapacità
della tecnica di adeguarsi al pensiero, dell’illusione di trasformarsi in realtà. La Chiesa continuava a professare
la centralità dell’uomo nell’universo e nei disegni divini, mentre Montaigne, al quale si ispirò Shakespeare
chiaramente, evidenziava l’assurdità di questa ostinata convinzione: l’uomo non ha alcun potere da opporre
ai capricci della natura – lo sfogo degli elementi naturali, la tempesta appunto – e al grande meccanismo
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Shakespeare tra contemporaneità e modernità
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della Storia. Egli può soltanto accettare con serenità questa propria impotenza. Prospero viveva la tragedia
del conflitto tra la grandezza della mente umana e la maggior forza della crudeltà della Storia.
Per questo la Tempesta è una tragedia, in quanto raccontò la resa finale dei conti con il mondo reale, alla
quale fu costretta l’ultima generazione degli umanisti: il doloroso dramma delle illusioni perdute dopo
l’entusiasmo legato alla comunione tra eruditi, filosofi, artisti e ricercatori – la stessa che si ripeté molto dopo
per la generazione di intellettuali realisti e di avanguardisti ottocenteschi, delusi dal fallimento delle
rivoluzioni unitarie e dall’atteggiamento della borghesia, passata da forza rivoluzionaria a ceto reazionario.
Anche l’uomo tardo rinascimentale aveva contemplato un mondo che aspirò a migliorare e che, al contrario,
era facile prevedere sarebbe ulteriormente peggiorato, avvelenato dalla logica del denaro e dell’utile. Quella
che infine avrebbe trasformato la società moderna in ciò che essa è.
La contemplazione della realtà suscitò perciò in Shakespeare tanto vivo orrore, quanto ne avrebbe ispirato a
Munch – costringendolo al suo celebre Urlo – scoprirsi così piccolo e gretto di fronte alla potenza di un
tramonto infuocato. Davanti alla forza della tempesta, un sovrano vale quanto un nostromo, anzi meno. Re
e buffoni, regni e cavalli: in condizioni estreme, al cospetto della morte, ogni cosa si equivale.
La vita dell’uomo è estremamente caduca e sfuggente, simile nell’immagine di Shakespeare a un intenso ma
breve sogno. L’isola costituì per Prospero l’occasione di fuggire dalla realtà, di illudersi che l’esistenza fosse
qualcosa di diverso. Così come illusoria sarebbe risultata l’aspirazione ad un avvenire per i protagonisti del
cinema noir: non sorprende dunque che, inaugurando a Hollywood un genere la cui poetica avrebbe
influenzato tutte le generazioni di registi, sceneggiatori e spettatori a venire, John Huston definì il falcone
maltese – a cui tutti davano la caccia ma che nessuno riusciva ad afferrare – «fatto della stessa sostanza di
cui sono fatti i sogni».
Ciò che del resto emergeva dal finale della Tempesta è che non esistono isole felici. In ogni contesto, di fronte
all’immutabilità della Storia, l’uomo resta disarmato, indifeso, fatalmente vulnerabile. Istintivamente portato
a sopraffare, ineluttabilmente destinato a essere infine sopraffatto a propria volta. Anche questa
considerazione venne in seguito mutuata dal cinema noir, allorché Welles applicò la poetica noir sulle sponde
di un esotico arcipelago, oltre quindi i confini della jungla d’asfalto, violenta e selvaggia, entro cui per molto
i cineasti si erano illusi di poterla idealmente rinchiudere.
Per definire la durezza della realtà, Shakespeare era passato dalla detronizzazione per mano dei facinorosi
usurpatori nelle cronache storiche, alla sconsacrazione della regalità per bocca di un matto nel Re Lear. Nel
tentativo di trovare una soluzione alla tragica antinomia tra terrore e anarchia, aveva elaborato la concezione
di un grande meccanismo che operava indifferentemente nei confronti di sovrani giusti e ingiusti, legittimi e
illegittimi, ma poi era approdato a un’ulteriore soluzione nell’Amleto, tanto da indurre Jean Paris a
considerarlo «un dramma sulla fine dell’era del terrore»: Fortebraccio non aveva avuto bisogno di
compromettersi con il delitto, per salire al trono di Danimarca. Tuttavia, si domandò polemicamente Jan Kott,
a quale prezzo? Fortebraccio non si era mai interrogato sul funzionamento della Storia, non possedeva alcuno
spessore morale di tipo tragico, non era né sarebbe cresciuto, maturato o progredito attraverso il dubbio.
Prospero invece, pur rinunciando alla vendetta violenta, pur non saziandosi di sangue, pur mettendo fine al
terrore, aveva continuato a porsi l’interrogativo sulla composizione della Storia e aveva infine trovato la
risposta: l’unico atteggiamento da contrapporre al funzionamento inesorabile del grande meccanismo è
l’amara saggezza dell’abdicazione. Troppo potere può dare alla testa e la descrizione delle sue straordinarie
arti magiche, esercitate arbitrariamente, ricordò al critico di metà XX secolo gli orrori della bomba atomica,
scaturiti proprio da un eccesso di potenza.
In questo consapevole e sereno abbandono – e soltanto in questo – risiede l’ottimismo de La tempesta.
Dopo tutto, allontanarsi dalla scena e rinunciare al teatro significavano per Shakespeare tornare
nell’anonimato di Stratford: il drammaturgo non considerò mai in maniera seria la pubblicazione dei propri
testi, non soltanto perché non avrebbero comunque prodotto gli stessi ricavi delle rappresentazioni teatrali
– l’analfabetismo, nonostante la diffusione delle bibbie voluta dai protestanti, continuava a essere diffuso –
ma anche e soprattutto perché egli concepiva quelle opere come creature vive solo e soltanto al momento
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della loro interpretazione, alla quale egli stesso prendeva parte. Shakespeare non si arricchì con i diritti
d’autore, che all’epoca peraltro erano perlopiù privilegi dello stampatore, ma attraverso i frutti delle azioni
dei teatri che deteneva: non era il guadagno di un artista, ma l’accorto investimento di un imprenditore.
Nella sua vita, l’edificio contò quanto se non di più dei versi. I teatri londinesi erano stati eretti appena prima
dell’arrivo di Shakespeare sulla scena cittadina – il Red Lion, primo teatro privato, sorse nel 1597 – e
determinarono le premesse della sua fortuna, come di quella di tanti altri drammaturghi: se per un verso
permisero alle compagnie di stabilirsi in un determinato posto, senza essere costrette come erano sempre
state a viaggiare in lungo e in largo per il regno, e di riscuotere con più facilità il prezzo dello spettacolo, sin
dal momento dell’ingresso del pubblico all’interno della struttura, per altro verso imposero di allestire un
numero maggiore di opere da destinare allo stesso mercato, più o meno ai medesimi spettatori, sempre in
cerca di storie nuove.
In un simile scenario doveva essere facile arricchirsi, se solo si fosse stati dotati del fiuto necessario, e
Shakespeare lo fu, aiutato anche dal favore di regnanti e maggiorenti. Qualche secolo dopo, Balzac non
avrebbe avuto la stessa fortuna, imbarcandosi in una disperata iniziativa editoriale. Ma l’autore de La
Commedia umana poté consolarsi almeno in parte con il successo dei propri romanzi – pur avendo compreso
il funzionamento del cinico e tutt’altro che colto commercio dell’arte, come emergeva chiaramente dalle
amare constatazioni di Illusioni perdute. Shakespeare, invece, non dovette credere alla sopravvivenza del
testo rispetto alla messa in scena. Una messa in scena che si trasformava, si arricchiva o si complicava di volta
in volta, non essendo mai, per definizione, una rappresentazione uguale all’altra.
Anch’egli tuttavia sperimentò una parentesi da artista cortigiano, durante la quale si dedicò all’arte pura,
forse traendone persino un certo sottile orgoglio. Nel 1592 i disordini e la peste bubbonica indussero le
autorità a chiudere temporaneamente i teatri: per Shakespeare e per il suo mondo significò dover
fronteggiare un’improvvisa disoccupazione. La dedica iniziale del componimento intitolato Venere e Adone
al conte di Southampton dimostrava che il drammaturgo popolare, riciclando il proprio talento in veste di
poeta colto, era in cerca di un mecenate dal quale ricevere protezione e sostegno. Allo scopo eminentemente
pratico di persuadere il giovane nobiluomo a prendere moglie, Shakespeare realizzò una serie di sonetti,
questi sì, concepiti per sopravvivergli e dotati di un valore autonomo che non pretendeva l’intermediazione
di alcun interprete.
In verità, anche il sonetto svolgeva una funzione ulteriore a quella squisitamente artistica, funzionando da
rotocalco mondano, da discreto passaparola, da frivolo gioco di corte: perciò oltre al significato
oggettivamente apprezzabile, l’abilità dell’autore si manifestava nella elaborazione di un metasignificato
accessibile soltanto al dedicatario e alla stretta cerchia dei suoi accoliti, per loro esclusivo divertimento. Ed
era proprio questa funzione privata a possedere il maggior valore sicché, anche nel caso del sonetto, il fine
ultimo era la sciarada che il messaggio nascosto avrebbe scatenato: soltanto un diverso tipo di farsa.
Comunque emerge abbastanza chiaramente che durante la breve stagione dei sonetti, allorché la
composizione si caricò di significati autobiografici, Shakespeare ammise la vergogna legata al proprio ruolo
di attore e riconobbe che la sua volgare attività di intrattenitore e di drammaturgo per la plebe lo condannava
all’emarginazione: «ahimè, è vero, ho saltellato a destra e a manca e ho fatto di me stesso un buffone da
spettacolo» e, ancora, «per amor mio, ti prego, rimprovera Fortuna, la dea colpevole di ogni mia mala azione,
che meglio non provvide alla mia vita, se non con mezzi volgari che generano modi volgari; da lì viene il
marchio che il mio nome porta e da lì la mia natura è quasi soggiogata da ciò con cui lavora, come la mano
del tintore».
Da queste rassegnate considerazioni, possiamo ricavare l’ulteriore conferma che Shakespeare si considerasse
mestierante, piuttosto che artista. Egli si definì «un buffone da spettacolo», la vittima delle contraddizioni
della propria epoca.
Forse non è del tutto infondato supporre che, nell’attribuire ai numerosi buffoni dei suoi drammi il compito
di dire la verità, egli stesse rivendicando quella medesima prerogativa per sé. Eppure, come avrebbero
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Shakespeare tra contemporaneità e modernità
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dovuto insegnare appunto le sue opere, la scoperta della verità costituisce il più delle volte il punto d’arrivo
della tragedia.
Al riguardo, però, Leszek Kołakowski evidenziò la straordinaria importanza della figura marginale ma
essenziale del buffone, così come anche quella dei risultati ai quali egli soltanto riesce ad approdare: «buffone
è colui che, pur frequentando la buona società, non ne fa parte e le dice delle impertinenze; colui che mette
in dubbio tutto ciò che passa per ovvio. Se appartenesse anche lui alla buona società, non potrebbe farlo e
sarebbe tutt’al più uno scandalizzatore da salotto. Il buffone deve trovarsi al di fuori della buona società,
deve guardarla dall’esterno per scoprire i lati non ovvi della sua ovvietà e i lati non definitivi della sua
definitività; al tempo stesso, deve frequentarla per conoscere i suoi mostri sacri e avere l’occasione di dirle
delle impertinenze. […] La filosofia dei buffoni è quella che in ogni epoca mette in dubbio ciò che è
considerato intoccabile, che rivela le contraddizioni di ciò che sembra ovvio e incontrastato, che mette in
ridicolo le evidenze del buon senso e scorge la ragione nelle assurdità».
Questa, in fondo, è la definizione dell’avanguardia. La definizione di ciò che significò l’opera di William
Shakespeare.
Stefano Sciacca
© agosto 2016,
Stefano Sciacca
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