so di non sapere nulla

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so di non sapere nulla
 1 PERCHÉ SOCRATE NON HA MAI DETTO “SO DI NON SAPERE NULLA”
E PERCHÉ IL SUO ‘DÉMONE’ PREFIGURA LA ‘PROAIRESI’ DI EPITTETO
- “So di non sapere”
Il primo dei testi greci sui quali si usa appoggiare questa affermazione di Socrate, vedremo se presunta o
meno, è un testo di Platone, il quale nella sua ‘Apologia di Socrate’ § 23b fa dire a Socrate:
“òsper an ei (o theòs) eìpoi òti oùtos umòn, ò ànthropoi, sophòtatos estìn, òstis òsper Socràtes ègnoken òti oudenòs axiòs
esti, tè alethèia, pros sophìan”
Il testo può essere tradotto così:
“è come se (il dio) dicesse che di voi, o uomini, questo è il più sapiente ossia chi, come Socrate, riconosce di essere in verità
del tutto incapace di giungere alla sapienza”.
Il contesto del discorso che Socrate sta facendo è quello delle inattese conseguenze che ha avuto la sua
inchiesta presso i politici, i poeti e gli artigiani di Atene, tesa a comprendere il significato dell’oracolo di
Delfi che lo definiva il più sapiente degli uomini. Questa inchiesta gli ha procurato inimicizie numerose
e violente, alle quali va fatta risalire l'origine del processo di cui egli è vittima. Gli ha anche procurato il
titolo di 'sapiente', mentre invece è probabile che l'unico vero sapiente sia il dio e che il compito affidatogli da Apollo fosse semplicemente stato quello di mostrare agli uomini che il loro sapere nulla vale a
paragone del divino sapere che si identifica con la vera sapienza.
Questo Platone fa dire a Socrate. Laddove con ogni verosimiglianza Platone, com’è sua abitudine, mette in bocca a Socrate quel che invece crede soltanto lui, dico Platone: il quale pensa evidentemente alla
sapienza come ad un’entità astratta, immutabile ed irraggiungibile. Appunto, le ‘idee’.
Dunque Platone non fa dire a Socrate: “So di non sapere”, cioè che Socrate nulla sa, che in verità è una
contraddizione in termini, un retorico gioco di parole; bensì che il suo sapere nulla vale a paragone del
divino sapere che si identifica con la vera sapienza, la quale è appannaggio unicamente del dio. Concetto che viene ripetuto nelle ultime parole dell’Apologia, parole che suonano così: “Ora voi andate a vivere ed io a morire. Chi di noi vada verso il destino migliore è ignoto a tutti fuorché al dio”.
Pertanto se si vuole salvare ad ogni costo il gioco di parole: ‘So di non sapere’ e dargli un senso non
contraddittorio, bisogna trasformarlo in questa forma: ‘So di non sapere quello che soltanto il dio può
sapere’ oppure, come minimo, in quest’altra forma: ‘So di non sapere quello che i politici, i poeti e gli
artigiani millantano di sapere ma in realtà non sanno’.
A questo punto è prudente ed opportuno astenersi da ulteriori analisi sul cosiddetto Platonismo.
Adesso però viene il bello.
C’è infatti almeno un secondo testo greco al quale è stata appoggiata l’espressione della quale ci stiamo
occupando. Questo testo compare nel § 32 del II Libro delle ‘Vite dei filosofi’ di Diogene Laerzio, libro
dedicato, tra altri pensatori, anche alla vita e alla filosofia di Socrate. Il testo è il seguente:
“(1) èleghe de kaì prosemaìnein to daimònion ta mèllonta autò; (2) to te èu àrchesthai micròn men me eìnai, parà micròn
de; (3) kai eidènai men medèn plèn autò toùto eidènai”
2 Per chiarezza e al fine di intenderlo meglio, è utile dividere questo breve testo in tre parti ed esaminarle
separatamente una per una.
Il primo periodo: (1) èleghe de kaì prosemaìnein to daimònion ta mèllonta autò;
non presenta difficoltà di interpretazione e tutti lo traducono più o meno così:
‘(1) (Socrate) soleva ripetere che il suo démone gli segnalava in anticipo quel che gli sarebbe accaduto’
Il secondo periodo: (2) to te èu àrchesthai micròn men me eìnai, parà micròn de;
ha invece procurato nel corso dei secoli molti mal di pancia a molti studiosi.
Nel 1594, la sua traduzione latina ad opera dell’Aldobrandino è stata la seguente:
- (2) ‘et bene incipere non parvum illud quidem esse, sed parvo proximum’.
Nel corso dell’Ottocento, il celebre Cobet espunge il verbo ‘àrchesthai’ e lo rende così:
- (2) ‘et rectum non esse quidem parvum, sed in parvo momento positum’.
Nello stesso secolo, l’Apelt traduce così:
- (2) ‘Das gute Gelingen sei zwar nichts Geringes, fange aber mit kleinem an’.
Nel novecento, anche R. D. Hicks espunge il verbo ‘àrchesthai’ e propone questa versione:
- (2) ‘that to make a good start was no trifling advantage, but a trifle turned the scale’.
Sempre nel Novecento, M. Gigante traduce così:
- (2) ‘il saper obbedire non è poca cosa, ma si conquista a poco a poco’.
A me pare che questo secondo periodo vada considerato in stretta relazione di dipendenza dal primo, e
mi riesce del tutto logico considerare che se Socrate ha appena parlato della presenza in lui di un démone che lo preavvisa del futuro, ebbene che sia questo ‘démone’ il riferimento dell’infinito presente medio-passivo ‘àrchesthai’ il quale, in questo contesto, può conservare del tutto propriamente il suo principale significato di ‘comandarsi/essere comandato’. ‘èu àrchesthai’ vuol dunque dire ‘essere ben comandato’
dal démone e la frase tradotta con tutta naturalezza in questo modo:
-(2) ‘che l’essere da esso ben comandati, anche su piccole questioni, non è piccola cosa’.
Veniamo da ultimo al terzo periodo (3) ‘kaì eidènai men medèn plèn autò toùto eidènai’.
Chi ha in mente il Socrate che dice “So di non sapere” è finalmente tranquillo e certo di capirne il significato senza ambiguità.
Infatti le due autorevolissime traduzioni che ho a disposizione in questo momento parlano chiaro.
R. D. Hicks espunge il secondo infinito perfetto ‘eidènai’ e propone questa versione:
- (3) ‘and that he knew nothing except just the fact of his ignorance’.
A sua volta M. Gigante, che invece non espunge il secondo infinito ‘eidènai’, traduce così:
- (3) ‘nulla sapeva eccetto che nulla sapeva’.
Siccome la grammatica e la sintassi greca qui lo permettono, a me pare molto più convincente continuare a mantenere anche in questo caso la strettissima relazione con il primo e con il secondo periodo, e
quindi il riferimento al ‘démone’ dal quale, come Socrate, ci siamo lasciati guidare finora. La semplice e
naturale traduzione di questo terzo periodo diventa allora:
- (3) ‘e di nulla sapere se non sapere che c’è questo démone’.
Ricapitoliamo adesso il tutto, confrontando le tre traduzioni complete di questo interessante frammento di Diogene Laerzio.
Secondo R. D. Hicks ‘(Socrates) used to say that his supernatural sign warned him beforehand of the future; that to
make a good start was no trifling advantage, but a trifle turned the scale; and that he knew nothing except just the fact of
his ignorance’.
Secondo M. Gigante ‘(Socrate) diceva che un demone gli prediceva il futuro; il saper obbedire non è poca cosa, ma si
conquista a poco a poco; nulla sapeva eccetto che nulla sapeva’.
3 Secondo F. Scalenghe ‘(Socrate) soleva ripetere che il suo démone gli segnalava in anticipo quel che gli sarebbe accaduto; che l’essere da esso ben comandati, anche su piccole questioni, non è piccola cosa; e di nulla sapere se non sapere che c’è
questo démone’.
Poiché il sapere di non sapere è comunque un sapere, e siccome Socrate non è uno sprovveduto orecchiante di filosofia, appoggiandomi all’esame appena fatto escludo che si possa attribuirgli la frase: “So
di non sapere”.
- Il ‘démone’ di Socrate è la prefigurazione della ‘proairesi’ di Epitteto
A me pare che quanto Socrate vuole intendere sia molto più profondo, e tanto più intrigante, se si tiene
bene a mente che tale ‘démone’ è già espressamente citato nell’atto di accusa presentato e giurato da
Meleto, e che è alla base del processo a Socrate.
Socrate vuole cioè comunicarci che il suo unico sapere consiste nel sapere di possedere entro di sé un
‘démone’ che lo guida alle scelte giuste.
Non è dunque in gioco ciò che gli mette in bocca Platone, ossia qualcosa che assomiglia molto alla
‘docta ignorantia’ al di là della quale l’uomo non può arrivare, giacché la ‘scientia’ è appannaggio esclusivo del dio. Questa, per esempio, è la sciagurata strada che porta alla ‘omniscientia’ del Dio giudeocristiano: e qui strattono le redini per fermarmi e non cominciare a ruggire.
Socrate afferma e ribadisce di percepire dentro di sé una voce, che egli chiama ‘démone’, la quale mai lo
incita a qualcosa, ma unicamente sorge in lui per trattenerlo dal fare qualcosa. Questo ‘démone’ è la sua
novità e la sua ricchezza, è la guida alla quale egli sempre si affida e che non lo ha mai tradito.
Tutto ciò non sembra la oscura, incerta, confusa anticipazione di qualcosa? Qualcosa di cui Socrate sa
soltanto, addirittura a costo della vita, testimoniare la presenza, ma che non sa né articolare né inserire
in un contesto che non sia la sua esperienza psicologica personale? Non sembra l’aurora di quella che
sempre fu, è e sarà il cardine, il criterio, il riferimento assoluto e invariante invano cercato da Platone
nelle ‘idee’? Per farla breve: il ‘démone’ di Socrate non sembra l’anticipazione di quella che Epitteto
chiamerà ‘proairesi’ e che si può anche tranquillamente chiamare ‘natura delle cose’?
Dunque a me pare di poter affermare che Socrate non è il padre del ‘So di non sapere’ bensì il nonno o
l’avo, se così si vuole, del ‘Io sono proairesi’.
Cosa ci sarà poi scritto in futuro sulle T-shirt che vende qualunque negozietto della Plaka di Atene è
ignoto a tutti fuorché al dio.