NOVUS ASINUS AUREUS

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NOVUS ASINUS AUREUS
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NOVUS ASINUS AUREUS
(Attenti, ragazzi, nonj è inglese.)
Romanzo quasi picaresco
BREVE PREMESSA:
Cari lettori, innanzi tutto mi chiederete chi sono e da dove vengo. Mi chiamo Apuleio (un nome
bizzarro che m’impose un padre bizzarro, fanatico degli antichi classici) e Sinceri di cognome (cognome
che a nessuno mai s’addisse quanto a me, nemico d’ogni menzogna, come ho sempre vissuto ed ancora
mi ritrovo).
Anch’io, similmente a tutti voi, sono nato per caso, perché il nascere è davvero un bel caso: proprio
quello spermatozoo tra tanti e quell’ovulo, e proprio in quell’attimo, e così per il padre, per la madre e,
via via, per tutti gli ascendenti sino all’inizio dei secoli; ma poi il nascere bene, soprattutto. Infatti,
anche il nascer bene è come giocare alla roulette, uno su trentasei? Su trentasette se contiamo anche lo
zero? E forse ancora di più, perché in realtà, la fortuna ne aiuta uno su cento? Su mille? Non vi sono
statistiche in proposito; diciamo che nascer bene è, anch’esso, insieme, un bel caso ed una bella fortuna.
Intendiamoci, per nascer bene non intendo nascere ricchi (naturalmente un certo benessere aiuta), ma
avere un padre ed una madre che si amano e che ti vogliono bene, uno o più fratelli con i quali vivere in
armonia, ché il non essere figlio unico e già, anche quella, di per se stessa, una bella fortuna, perché
t’insegna a discutere, a difendere il tuo, ad arrangiarti: a prepararti per la vita, insomma.
Inoltre, sono nato in Italia, buona sorte anche questa e per la civiltà della sua gente e per le bellezze
naturali ed artistiche che regalmente l’adornano, ma, purtroppo a Reggio Emilia.
Sarei potuto nascere nei climi caldi del meridione, in quelli dolci dell’Umbria e del Lazio o in quelli
secchi delle Dolomiti e, invece, ero nato nella terra dal clima più brutto ed infame che vi sia: sempre
umido, caldo d’estate e freddo d’inverno, ma, tant’è, non si può avere tutto dalla vita.
La mia città (figlia di Marco Emilio Lepido, ma di madre ignota), popolata da gente intelligente ed
industriosa, piccolina com’è, si vanta di aver dato i natali al Boiardo, all’Ariosto, al Correggio, a
Lazzaro Spalanzani ed a quel Silvio D’Arzo che mi educò nelle lettere.
Cresciuto ai bordi d’una strada dove le macchine, allora, erano rare quanto son oggi i cavalli bianchi
e dove ogni cortile era aperto al giuoco mio e dei miei amici, avevo fatto collezione di piacevoli ricordi
che non m’avevano mai più abbandonato.
Inoltre, frequentando il liceo scientifico della città natale con insegnanti che sapevano mantenere il
rispetto, pur concedendo la confidenza, i miei studi, considerati da ogni studente tra i più duri, erano
risultati particolarmente gradevoli.
Così, io trascorsi i miei primi anni di vita in cose d’altri tempi che poi, come voi ben sapete, si
sono andate perdendo in una parvenza di democrazia infarcita d’un rozzo progresso.
Tornando ai fatti, un brutto giorno la fortuna m’aveva voltato improvvisamente le spalle
costringendomi ad emigrare.
Partito da Reggio, ancora in età giovanile, per emigrare negli Stati Uniti, ormai centro del mondo
come un tempo Roma antica, avevo imparato la lingua del posto ed ero riuscito ad avere un buon
successo nel commercio.
Ora, anziano, sono ritornato in Italia, alla città natale, per scrivere di questa mia avventura in Utopa,
della quale, sinora, non ebbi a parlare con nessuno, per timore d’essere deriso.
Infatti, cari lettori (sempre che n’abbia più d’uno), gli avvenimenti che vi narrerò potranno, forse,
sembrarvi incredibili, ma sono rigorosamente veri; se così non fosse, mi sarei ben guardato
dall’importunarvi con cose che, già all’apparenza, paiono fantasiose. Vi dico questo, perché, pensandovi
uomini colti ed amanti della scienza galileiana, potreste prendere sottogamba le mie misere avventure
dovute ad opera della magia nera.
In queste memorie, infatti, voi troverete cose assolutamente assurde (uomini risuscitati, animali
parlanti; persino merli intelligenti) tanto che chi avrà la costanza di leggerle sino in fondo (o sino alla
feccia, se preferite) forse dirà con un sorriso di compatimento:
“Caro ragazzo, tutto quello che narri non ha né capo né coda.”
Ma anche Utopa non ha più né capo né coda.
Purtroppo per voi, ogni tanto, magari forzando, ho inserito una mia poesia che sembrava adattarsi
all’occasione;
perdonatemi,
ognuno
ha
le
sue
debolezze.
Essendo Utopa un paese così bizzarro dove si può ricevere una denuncia per diffamazione, anche solo
per aver calpestato l’ombra altrui in una giornata di sole, affinché non si possa individuare la nazione
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alla quale mi riferisco, ho tradotto i nomi propri in un rozzo italiano. Vi prego di scusarmi, ma ad
Utopa vi è chi vive con simili limpide azioni morali.
PRIMA PARTE
Svolgendosi il mio lavoro nel campo della produzione e vendita del pellame, ero venuto in Utopa,
come in genere facevo una volta l’anno, per affari. Sceso all’aeroporto di Panzanella, dopo qualche
incontro con alcuni commercianti locali che lavoravano chi nel campo dell’abbigliamento e chi in quello
dei divani, me ne stavo, con la mia comoda automobile, viaggiando verso Filona (nota capitale dello
stato).
E’ questa una graziosa città bella e di notevoli dimensioni, costruita su alcuni colli, che ha un clima
molto gradevole in tutte le stagioni e sembra esser nata benedetta da Dio. Ad est e nord, un fitto bosco
di conifere copre le colline per giungere sino ai piedi delle montagne, a sud ed ovest, una distesa di
campi declina in una larga pianura.
A Filona dovevo incontrarmi, per trattare un affare, col signor Ileo Causticchio, proprietario di un
importante gruppo televisivo e grosso industriale nel campo della pelletteria (cinture, giacche, pantaloni
e chi più né ha più né metta).
Avevo da poco superratto l’uscita di La Balla, il fiorente borgo (semidistrutto dall’ultima guerra e
poi ricostruito lasciando mano libera alla più ripugnante speculazione edilizia), quando la mia
automobile iniziò a sbuffare, causa un repentino, giustificato appetito; io passai quindi dalla benzina al
gas liquido (fortemente tassato ad Utopa, perché poco inquinante) per poi arrestarmi a fare il pieno.
Il distributore era posto in un’enorme area di servizio dove, tra i numerosi altri, mi colpì subito un
negozio che portava, in bella evidenza, un’insegna luminosa particolare. Le lettere si accendevano, una
ad una, sino a formare la dicitura ‘Insegnoteca’, per poi spegnersi tutte in una volta e riprendere, da
principio, la loro pubblicità.
Incuriosito, entrai per chiedere che merce si vendesse in quel locale dall’insegna, a dir poco, bizzarra.
Mi accolse una commessa secca da far schifo, unica eccezione due buffi meloni al posto del seno,
con i capelli unti pitturati di rosso e le labbra d’un bel nero opaco alla Dracula (“allegria!” come diceva
un tempo un noto presentatore televisivo del mio paese).
Nel caso particolare, tutto era reso ancor più affascinante dal vestiario.
Poiché una nota sarta aveva trasformato, in vestire alla moda, la ‘mise’ delle prostitute che ormai si
distinguevano solamente dal linguaggio più castigato e dall’abbigliamento talebano (figuratevi che
sorprese a volte!), la ragazza lasciava intravedere persino le mutande, all’apice delle due zampe storte,
infatti, in Utopa, solo le donne dotate di belle gambe (Dio mio, come sono poche) le nascondono
dentro una gonna lunga o le intubano in un paio di pantaloni.
Il tutto la faceva sembrare appena uscita da un quadro di Picasso e mi venne fatto di pensare, per
contrasto, alle belle brasiliane di Rio durante il carnevale e di ringraziare il Signore d’aver fatto sì che
Utopa non rappresentasse il mondo.
Il mio senso d’orrore iniziale aumentò quando, con modo saccente, mi disse che nel suo locale si
vendevano insegne per negozi (come chiaramente indicava ‘Insegnoteca’, diceva lei); si trattava di
convincere i commercianti all’uso di eleganti neologismi, quali ‘Cretinoteca’ e ‘Stupideria’; del resto,
erano il non plus ultra della cultura e della modernità (la lingua si evolve, naturalmente). Il posto era
ben scelto, perché questi signori intelligenti passavano il fine settimana lontanissimi dalla loro
residenza e, quando si fermavano, al ritorno, erano talmente frustrati e svaniti che era più facile
convincerli ad un acquisto, giocando sulla stanchezza.
M’informai, inoltre, di uno strano fatto: la ragazza portava delle scritte sia sulla camicetta sia sulla
gonna, cosa che, per me forestiero, rappresentava una bizzarra novità. Lei mi spiegò trattarsi di capi
griffati: la camicetta era di Gai in Campagna e la gonna di Fretta e Fritte, noti maestri artigiani del
vestiario.
“Sono ditte che devono spendere parecchio denaro in pubblicità di questo genere! – osservai. – Qui
in Utopa ne ho vista molta.”
La ragazza mi guardò con compassionevole stupore:
“Siamo noi che paghiamo per portare questi capi.”
“Ecco una cosa priva di senso.”
Ma lei mi spiegò che, era solo una questione di equità e di giustizia.
“Un tempo, i grandi sarti cucivano un piccolo rettangolo di stoffa col nome all’interno
dell’indumento, poi si pensò che fosse di cattivo gusto non far conoscere l’autore di un capo così
prezioso (anche i pittori firmano i quadri) e l’etichetta fu messa all’esterno, ma, essendo il nome troppo
piccolo per essere letto con facilità, si provvide ad evidenziarlo.”
“Mi sembra una cosa ben fatta.”
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“Ora vi è chi sostiene che, sempre per una questione di buon gusto, di fianco al nome si dovrebbe
scrivere anche il prezzo: starebbe ad indicare l’alto valore dell’artista.”
“Sono così cari?”
“Senz’altro meno di quello che valgono. Purtroppo, qualche raro sarto furbastro compra dei capi
all’ingrosso (camicette ad esempio) per pochi spiccioli, le manda a ricamare in estremo oriente, poi ha il
coraggio di rivenderle, come se fosse originali, sino a 300 patacche.” (la moneta di Utopa, cambiata
praticamente alla pari col dollaro).
“Mi sembrano tante patacche anche per quelle autentiche!” Osservai.
“Tante davvero, ma qual è il prezzo dell’arte?”
Le chiesi, poi, dove si potesse prendere un caffè, visto che nessuno dei numerosi locali di quella
grande area di servizio, dove si vendevano persino mobili a buon prezzo, portava la dicitura bar, o posto
di ristoro, o che so io.
“Proprio fuori del negozio, a destra.”
Uscendo entrai nel bar dalla porta adiacente sulla quale troneggiava la scritta ‘Cocacoleria e
Tostoteca.’ Il locale, gestito da un commerciante evidentemente moderno ed acculturato, era pieno di
turisti e, quindi, fui costretto, per avere un panino ed un caffè ristoratore, a mettermi in fila ed attendere
il mio turno.
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Davanti a me v’erano due distinti signori: uno era vestito in modo un po’ appariscente, ma tutto
griffato, con, al polso, un Rotolex con cinturino d’oro, cosa che lo indicava per un arricchito di recente
fortuna; l’altro, molto distinto e ricercato nel parlare, in una strana foggia che l’avrebbe fatto classificare
per un uomo bizzarro, se non si fosse stati in periodo di carnevale.
Stavano discutendo animatamente, il primo più focoso, il secondo più garbato, quasi per convincere.
Cercando di allungare le orecchie (si fa per dire, ché nessuno di noi desidera diventare un somaro,
anche se poi, come vedrete, ci può succedere), compresi che si stava parlando di magia e la cosa
m’interessò subito. Io, infatti, prima ancora degli avvenimenti straordinari che mi sarebbero accaduti in
seguito, pur essendo una persona seria, ho sempre creduto nel sopranaturale.
La cosa non vi deve meravigliare, cari lettori, perché una mia tata, donna di grande serietà, mi aveva
narrato che da bambina era stata a servizio in una villa dove si sentiva. Questa importante casa
padronale, al centro di una vasta tenuta, aveva una grande cucina le cui pareti erano impreziosite e
riscaldate da vecchi rami pregevoli: tegami, stampi per budini, pentole, colini, leccarde, scaldini,
persino una stufetta sterilizzatrice ed un bagnomaria da speziale e chi più né ha più né metta, una vera,
preziosa raccolta.
La padrona di casa, quando aveva degli ospiti per il pranzo o per la cena, accampando scuse (a volte
persino ridicole), attirava le ospiti nella cucina anticipando, così, il piacere della mensa grazie all’invidia
che si disegnava sui loro volti.
Vedo che alle lettrici brillano gli occhi, ma vi era, ahimè, una contropartita: ogni sera, a mezzanotte,
nella stanza, pentole, tegami, coperchi, insieme a tutti gli altri elementi di quella pregevole e rumorosa
mercanzia, cadevano dalle pareti.
Figuratevi il baccano nel pieno del sonno!
Ma a tutto ci si abitua e i padroni si sarebbero rassegnati se non fosse stata una grossa scomodità per
la servitù che, tra l’atro, dormiva al piano superiore; succedeva spesso che scendendo, il mattino,
stressata dal lavoro, dopo una notte insonne e, spesso, piena di angoscia (il personale di servizio era,
allora, così sensibile e psicologicamente fragile), dovendo fare due rampe di scale dagli alti gradini,
rischiasse, spesso, qualche incidente con conseguente frattura ossea. Nonostante mancassero le prove, di
tali argomenti si erano fatti forti i sindacati, con una grossa spesa per i proprietari che avevano dovuto
aggiungere al salario un’indennità di rischio. Da parte del datore di lavoro si era tentato di
mercanteggiare, ma, causa uno sciopero selvaggio in pieno inverno che aveva costretto il padrone (allora
si diceva così) a trasportare la legna dal sotterraneo e la signora ad alzarsi in ore antelucane per accendere
la stufa, dopo una lunga resistenza di ben due giorni, i proprietari avevano ceduto.
Quei poveri diavoli, ahimè senza saperlo, avevano acquistato, nello stato di fatto e di diritto,
un’abitazione infestata da fantasmi scortesi; avrebbero voluto rivenderla, ma, purtroppo, v’erano troppe
serve (sapete com’erano, allora, le serve) tra il personale di servizio e s’era sparsa la voce: nessuno
voleva comprarla più, quella villa. In quanto ai domestici, il fatto di dover rimettere, tutte le mattine,
ogni cosa al suo posto, col tempo era divenuta una noiosa abitudine ben retribuita che faceva di
quell’impiego un lavoro ricercato, in specie dai più volonterosi, mentre i lamenti dei proprietari
salivano sino al cielo.
Io mi sono sempre fidato ciecamente di quella tata ed ecco perché credo in certe cose e, se allo
scoccare della mezzanotte, in una sera tempestosa, mi venisse di vedere un fantasma, non mi
meraviglierei per nulla e potrei anche invitarlo per una partita a scacchi: un giuoco serio che si addice ad
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un’apparizione seria (perché credo che i fantasmi burloni si trovino solo nei libri d'increduli autori
burloni).
Tornando ai fatti dell’area di servizio autostradale, i due signori furono molto gentili e si
presentarono, il primo, Franco Mirelli, aveva dato un passaggio all’altro che si era qualificato per il
filosofo Socrate. Naturalmente, essendo io la persona che vi ho detto, non mi sorpresi per nulla della
stranezza e mi misi subito dalla parte di quest’ultimo contro l’incredulo antagonista.
Il nocciolo del dibattito era la magia. Socrate cercava di convincere il Mirelli circa l’esistenza di
streghe (le più famose ai suoi tempi vivevano a Larissa) e demoni, mentre l’altro, uomo sicuramente
ignorante (proprietario d’una costosa Ferrari, macchina bellissima e seria, costretta, suo malgrado, ad
ospitarlo), buttava tutto in ridere. Affermava che, a queste baggianate, si credeva all’epoca del filosofo,
ma, da allora, molt’acqua era passata sotto i ponti. La discussione aveva continuato per un certo tempo,
con i pro ed i contro più impensati, a volte scaldandosi, a volte assumendo i toni di un pacato
conversare, con l’intervento di altri signori e signore che esprimevano chi lo stupore e chi, come il
Mirelli, un accento di sciocca presunzione; e, diciamo la verità, era difficile sopportare la loro aria
d’increduli saccenti. Figuratevi che, avendo io chiesto ad uno di questi signori come si potesse spiegare
la presenza di Socrate, morto da millenni, egli, con una sghignazzata, aveva affermato che anche per
carnevale tutto diventa possibile: basta un costume.
Ma io non intendo tediarvi, miei cari lettori (sempre che voi abbiate avuto la costanza di seguirmi
sin qui), con le ragioni filosofiche e la narrazione d’avvenimenti straordinari che erano portati avanti dai
contendenti.
Ad un certo punto, dopo essersi ben rifornito di bibite e panini, il signor Mirelli ci piantò in asso
sbuffando e lasciando a piedi il povero Socrate. Naturalmente fui costretto ad offrirgli un passaggio
(ignorando di quanti guai sarebbe stata foriera la mia gentilezza) e devo ammettere, tra l’altro, che la
cosa mi fece un certo piacere, perché la curiosità mi stava stuzzicando.
Così, appena fatta benzina, ci avviammo.
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Poco prima di Fandonia, causa un incidente clamoroso, fummo bloccati da una lunga coda, cosa che
succede facilmente ad Utopa quando si viaggia in autostrada, e la cosa stupisce noi che veniamo da
paesi dove tali inconvenienti sono segnalati precocemente, onde evitare al cittadino contribuente una
simile, grossa seccatura.
Seccati da tali inconvenienti, appena ci fu possibile, uscimmo dall’autostrada.
La statale verso Filona era leggermente in salita, tagliata in una pianura incolta. Si vedevano vecchie
case solide che resistevano ancora, altre cadenti ed altre già crollate causa l’abbandono. L’urbanesimo
aveva sradicato i contadini dalle loro terre spingendoli verso l’eldorado dell’industria.
Questa povera gente, costretta alla dura fatica dei campi, aveva accolto con gioia l’idea del lavoro a
catena. In tal modo uccidevano la noia dei mesi invernali, quando erano costretti a scaldarsi nel tepore
della stalla, giocando a carte davanti ad un bicchiere di vino. Finalmente ci si poteva alzare alle prime
ore del mattino, nel vivace fresco delle nebbie invernali, per raggiungere, con un lento e distensivo
viaggio in treno, il posto di lavoro; la sera, affamati (causa un pranzo sommario come il processo di una
dittatura) sempre con lo stesso distensivo sistema di trasporto, potevano tornare alla casta dimora. La
stanchezza aveva distrutto l’appetito, così, dopo un leggero salutare spuntino (pensate il risparmio!), si
riposava in un sonno ristoratore non interrotto dagli incubi che spesso ci dà lo stomaco greve. Oh
tristezza delle loro spose!
Mentre, così, noi correvamo sulla strada, naturalmente ignorando ogni limite di velocità sicuri
dell’assenza della polizia, dopo lo scambio dei soliti convenevoli, io chiesi a Socrate di come fosse
riuscito a tornare dall’oltretomba ed egli, con voce profondamente triste, come si addice a chi da gran
tempo soffre, usando il tu come s’usava ai suoi tempi, cominciò a narrare.:
“Tu ben sai che io sono un suicida e, di conseguenza, giaccio sprofondato all’inferno.”
Gli feci osservare che la cosa era poco credibile e soprattutto di non andarlo a dire in giro, perché la
gente, oggigiorno, è troppo intelligente e modesta per credere in Dio; figurarsi poi nel diavolo.
“Soprattutto ai giovani, colti come sono, con scuole che sanno accorciare le orecchie agli asini!”
“Vedi, - mi disse, - Dio esiste indipendentemente dal fatto che gli uomini lo credano. Se ai miei
tempi qualcuno avesse sostenuto l’esistenza dell’America, i più l’avrebbero preso per pazzo; eppure
l’America esisteva anche allora. Così è con Dio, che si creda o no; e purtroppo esiste anche il diavolo! poi approfittando del mio stupore, continuò. - Vi era una volta un angelo bellissimo chiamato Lucifero
che un giorno Dio cacciò dal Paradiso. Alcuni affermano che fu una bella cosa, altri che fu
un’ingiustizia (tra questi, Lucifero stesso ed i suoi demoni), altri ancora se ne fregano, ma il fatto, credi
a me, avvenne realmente e costò un sacco di guai a tutti noi uomini.
“Questa storia la conosco benissimo.”
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“Ti pregherei di lasciarmi continuare; sai che, per natura, sono un chiacchierone e, all’inferno, la mia
pena consiste nel rimanere sempre muto. Posso mangiare, defecare, dormire, sorridere, ma devo sempre
ascoltare gli altri (e tu non immagini quante stupidaggini dicano anche lassù) senza potere mai
intervenire. Che fatica! Perciò, dopo più di duemila anni di silenzio, per piacere, fammi sfogare
tranquillo.”
Come mi dovevo comportare, pover’uomo? Lo lasciai dire ed egli, naturalmente, ne approfittò per
raccontarmi una lunga storia, per altro, certamente credibile.
“E' naturale che la caduta del diavolo nel profondo inferno non sia stata senza dolore e senza
drammatiche conseguenze: una lussazione inguaribile all'anca, il piede sinistro aperto in due, il naso
schiacciato in modo orribile ed il trauma, naturalmente; sono cose che scuotono e lasciano un segno.
Messo alla scelta se subire interventi chirurgici dolorosi ed insicuri (la chirurgia allora era ai
primordi, tanto che per addormentare i pazienti davano loro una botta in testa), o modificare i canoni
della bellezza nell'ambito dell'inferno, ora suo regno indiscusso, Lucifero scelse quest'ultima via che,
oltre essere la meno dolorosa, era anche la più economica e la più semplice.”
“E’ proprio così brutto?”
Chiesi incuriosito.
“Certo. E tu pensa alla mia sofferenza, abituato al senso del bello che respiravo in Atene, abitare in
quel luogo e non poter mai criticare, condannato al silenzio come sono laggiù, dove si considerano
orribili la Venere di Milo e la Nike di Samotracia.”
“Ora si pronuncia Naik! - interruppi. – Lo dice anche il poeta:
La Nike alata, o nobile sagacia
Trasforman nella Naik di Samotracia.”
Mi guardò come si guarda un deficiente, poi continuò:
“Figurati che spesso si può vedere Satana bellissimo, dice lui, seduto in trono con quel suo
corpaccio rosso, le corna, la coda ed una lingua biforcuta tutta nera; se aggiungi il piede rotto che
sembra quello di un caprone e che, essendo rosso e nero, per forza di cose siamo costretti a tifare Milan,
figurati lo schifo.”
Io ero rimasto stupito da questa sua descrizione, sorpreso, soprattutto, di come gli artisti, nei secoli,
avessero rappresentare il demonio in modo così reale, quasi in fotografia, senza averlo mai visto.
“Ti credo! – affermai con convinzione. – Ma mi stupisce che una persona retta come sei tu sia stata
condannata all’inferno.”
“Tu sai bene che, condannato a morte innocente, mi suicidai a scopo educativo, ma in paradiso le
leggo sono leggi e le attenuanti non vengono prese in considerazione. Lì non siamo ad Utopa, quello è
un tribunale che non perdona, perché Dio non permette in alcun modo, ahimè, che si deroghi dai suoi
comandamenti.”
Essendo quindi un’anima dannata era soggetto alla seccatura degli spiritisti. Succedeva raramente che
lo cercassero, perché, per fortuna, si trattava di esseri dotati di una cultura limitata che spesso non
arrivavano nemmeno a conoscere Napoleone.
“Pensavo che fosse molto gettonato!”
Interruppi.
“In effetti, è abbastanza noto, ma sicuramente più dai matti che dagli spiritisti, comunque sempre
meno di quanto si pensi.”
Dopo un attimo di respiro, riprese il racconto dicendo d’essere stato invitato a battere un colpo
durante una seduta spiritica di tre amici che facevano tutto, senza convinzione, per poi deridere i gonzi
che credevano a queste corbellerie.
Socrate, essendo particolarmente gentile e disponibile e poco richiesto (sotto sotto sperava di poter
iniziare una discussione con spiritisti dotati di una certa cultura) aveva pensato di intervenire.
“Fossi stato Caino o Giuda mi avrebbero accordato subito un permesso, ma io sono un dannato mal
visto, perché ho vissuto in modo troppo morale ed onesto; nessuno si sarebbe preso la briga di aprirmi
le porte degli inferi ed allora ho dovuto approfittare del fatto che Asmodeo era mandato in missione
sulla terra.
“Quali pasticci doveva venire a combinare?”
“In quei giorni - riprese a dire, - Lucifero si trova nella sua residenza invernale sul pianeta Mercurio.
E’ il più vicino al sole, dove si può vivere in un clima delizioso più caldo di quello infernale.
D’inverno, infatti, la temperatura del suo regno tende a scendere a valori ben più bassi di quelli solari ed
egli, quindi, per evitare infreddature e malanni, preferisce trasportare sul pianeta Mercurio la residenza e
la sede del governo.”
Ma quella mattina, Lucifero era rientrato per una riunione della massima importanza.
“L’avresti potuto vedere seduto su di una pira di legna ardente (quel supplizio così gradito alle
streghe), circondato dai suoi migliori consiglieri, tutti presenti, da Asmodeo a Belfagor. Naturalmente
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vi era anche il diavoletto di Cartesio, immerso nell'acqua dentro il suo piccolo tubo di vetro, ma quello
nessuno l’ascolta. Se appena abbozza di voler parlare, un qualche diavolo cattivo lo spinge sotto con un
dito ed allora giunge solo il gorgogliare delle bolle che le sue parole formano nel liquido.”
“Di cosa si stava discutendo?”
Chiesi incuriosito.
“Si trattava di una specie di tavola rotonda intorno al fatto che i peccatori erano sempre più numerosi
e con peccati sempre più originali e moderni: quindi si sarebbe dovuto non solo aumentare il numero
dei gironi infernali, ma anche renderli idonei alle pene richieste dalle nuove colpe.”
“E in che modo sei riuscito ad uscire.”
“Hanno mandato il gobbo Asmodeo, dal viso di furetto, a consultare un urbanista di sinistra, molto
di moda, ed io mi sono infilato dietro.
Purtroppo, giunto sul posto della seduta spiritica, quei tre giuggioloni, stanchi d’aspettarmi, se
n’erano andati. Allora sono rimasto lì come un allocco, perché Asmodeo era già rientrato.”
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Trovandosi abbandonato sulla terra, Socrate aveva cercato un posto per dormire; abituato al caldo
(come, del resto, sono tutti i dannati), passare la notte all’addiaccio, in quel freddo febbraio, sarebbe
stato, per lui, un tormento peggiore di quelli dell’inferno stesso
Per sua disgrazia era privo di denaro ed, in Utopa, non esistono alberghi dove ti diano gratis una
camera per la notte.
“Potevi cercare un ostello della gioventù.”
“Figurati, ho più di duemila anni!”
Allora il nostro filosofo si era guardato attorno per vedere se vi fosse stato qualcuno disposto a
dargli un suggerimento.
Nell’antica Atene avrebbe trovato senz’altro un qualunque cittadino pronto ad ospitarlo, ma egli, al
corrente che nei tempi attuali, molto più progrediti, il senso dell’ospitalità era ridotto al lumicino, non
sapeva che pesci prendere. Tra l’altro era in un lungo viale alberato da piante moribonde, (scheletri privi
di foglie), assolutamente deserto, che fiancheggiava una strada di gran traffico. Poi, guardando meglio,
aveva visto un tipo bizzarro, vestito d’una pelle d’agnello, il quale sedeva fumando, appoggiato allo
scheletro d’un pioppo rinsecchito che non infastidiva più nessuno con le allergie procurate dai suoi
pappi.
L’uomo (dalla folta capigliatura bianca ed il volto pelle e ossa che lo rendeva simile ad un biblico
predicatore di sventure) sprizzava guizzi di fiamme attraverso gli occhiali, tenendo in mano un bastone,
ben dritto e tornito, che recava all’apice un gran cartello bianco, sul quale, in cupi e grossi caratteri neri,
figurava lo scritto: ‘Disobbedienza civile.’
Socrate, uomo di ben altre superate idee, si era avvicinato a quel tizio chiedendo, urbanamente,
spiegazione. Rancidino, che così si chiamava, membro d’una piccola perniciosa famiglia che lavora, da
sempre, a distruggere le civiltà, dopo averlo squadrato in malo modo, gli aveva risposto molto serio
con voce minacciosa e tuonante:
“Senti la puzza del gas che si sviluppa da tutte queste automobili? Pensi che qualcuno se ne
preoccupi? Neanche per sogno. Ma con un'ingiusta legge, si è proibito di fumare nelle strade e nei
luoghi pubblici per ridurre l’inquinamento ed io, con la mia disobbedienza civile, difendo il diritto dei
cittadini alla libertà.”
Bisogna sapere, infatti, che ad Utopa se uno si drogava lo mettevano subito a fare il bidello in una
scuola elementare, ma, se fumava fuori delle rare riserve adibite a tal uso, rischiava la morte.
Socrate era rimasto stupefatto, lui che, condannato a morte ingiustamente, si era tolto la vita per
insegnare ai discepoli che la legge dello stato deve essere sempre rispettata, anche quando sbaglia, ora
aveva subito un colpo non indifferente alle sue convinzioni; quindi s’era presentato e gliel’aveva detto a
quel tizio, ma lui s’era messo a ridere:
“Dunque tu sei Socrate. Ecco il perché dei tuoi abiti stravaganti. Ti conosco e conosco la tua
filosofia da vecchio chiacchierone bilioso. E’ vero che la democrazia l’avete inventata voi Ateniesi, ma i
tempi sono cambiati ed ora gente ridicola come te la ricovererebbero in una squallida casa di riposo per
vecchi rimbambiti; noi, nuovi maestri, dobbiamo adeguare gli insegnamenti per i giovani ai tempi
moderni e predicare loro che la vera libertà si ha solo con l’arbitrio libertario.”
Io, allora, avevo interrotto il racconto del filosofo, che in quel momento mi era sembrato
particolarmente abbattuto, cercando di consolarlo:
“Dopo più di duemila anni tutti ti ricordano, Socrate, e t’indicano come uno dei più grandi maestri
della nostra civiltà; tra un secolo nessuno si ricorderà più di quel tizio.”
“Forse non valeva la pena di suicidarsi con la cicuta per avere di questi epigoni!” mi rispose con
profonda tristezza, poi riprese a narrare.
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Dopo aver esposto la sua difficile situazione a Rancidino, questi, sempre con la stessa voce tuonante
e minacciosa, foriera di sventure, gli aveva indicato un motel di lusso dove Panfila, persona amica
molto rispettabile, affittava camere a prostitute in cerca di facile carriera nel campo dello spettacolo ed a
vecchi Vip rimbambiti.
Aveva detto che si trattava di un ambiente signorile frequentato da divi, magnati del cinema,
padreterni della televisione e belle donnine, generalmente oche. Panfila stessa, che aveva percorso quella
strada maestra, era una dama famosa, ma ormai vecchia, brutta, e bizzarra, tuttavia ancora esperta in certe
cose e piena di voglie. Se avesse avuto la fortuna di piacerle, forse l’avrebbe ospitato, gratis, per
simpatia.
Purtroppo Socrate, da li a poco, sarebbe stato costretto a sperimentare, sulla sua pelle, quella trista
ospitalità, non avendo altra scelta.
Appena arrivato, si era accorto che il locale era un vero bordello:
“Non capisco perché quel postribolo lo chiamino Motel!”
“Caro Socrate, non essendo di Utopa, non puoi sapere che in questo paese vi è il gusto della
provocazione e dell’osceno, ma vi è anche il pudore delle parole. Si può andare a letto con quanti si
vuole e con chi si vuole raccontandolo a destra e manca, ma certe parole non si possono pronunciare
mai, tutti restano sempre amici o fidanzati; ed i finocchi (li chiamava così anche Catullo), orgogliosi
della loro diversità, devi chiamarli Gay.”
Socrate, da vero filosofo, si accontentò di sorridere.
Un mascalzone, di quelli che vanno imbrattando i muri, aveva scritto di fianco alla porta
dell’albergo una poesia dedicata a Panfila:
Un buon chirurgo t'ha rifatto il viso
Cancellando le zampe di gallina,
A fondo nel sedere t'hanno inciso,
Ti han tolto due bistecche alla pancina,
Or ti sembra di stare in paradiso,
D'esser tornata quasi una bambina;
Ma sbatti gli occhi, mamma mia che orrore,
T'apri di dietro con un gran fragore.
Il nostro filosofo, sul momento, aveva pensato che si trattasse di cattivo gusto, ma, appena vista
Panfila, si era ricreduto ed era rimasto scioccato. Da lontano sembrava giovane e carina, però, quando
t’avvicinavi e potevi guardarla bene, ti rendevi conto che si trattava d’una vecchia bavosa, tutta rifatta.
Era stata, diceva lei, in una clinica nella quale l’avevano completamente ringiovanita.
Al posto del seno v’erano due grosse palle di silicone, due prosciutti stagionati avevano sostituito
le cosce, due mezze angurie le chiappe cadenti. e le si era tolta una grossa fetta della pancia. Tagliando e
tirando la pelle, per poi cucirla, erano sparite tutte le rughe dal viso che sembrava gonfiato con una
pompa, ma, ahimè, se Panfila sbatteva gli occhi, come aveva scritto quel poeta, si apriva di dietro con
conseguenze non sempre gradevoli sia per il rumore sia per il profumo. Il tutto, diceva la donna, era
stato fatto con una spesa non indifferente e per l’intervento e per il soggiorno in clinica.
Cosi affermava lei, ma, visto i risultati su questa cadente baldracca maestra di magie, Socrate
riteneva che avesse ottenuto quei mirabolanti esiti grazie l’intervento di diavoli di bassa forza che
ricompensavano in questo modo i suoi miserabili amplessi.
Ed in questo, sbagliava.
Come venni poi a sapere, questa Panfila era stata una bellissima giovane molto libera (un tempo si
sarebbe detto ninfomane) la quale, avendo letto in un romanzo di Gian Vauli, un autore italiano dei
primi del novecento, che il demonio si univa alle streghe penetrandole con organo biforcuto, aveva
trovato nel satanismo la sua vocazione.
Divenuta strega, il guaio per lei era stato quello di non corrispondere ai gusti di moda agli inferi: in
poche parole, bella per gli uomini era brutta per i demoni. Le avevano rifilato il diavoletto di Cartesio
che, piccolo com’era, non poteva darle grandi soddisfazioni. Tutto ciò l’aveva stressata rendendola
particolarmente cattiva.
Per sua fortuna, divenuta brutta invecchiando, le era rinata in cuore la speranza di piacere a Belzebù,
ma questi voleva donne orribili, ma non appassite.
Viste morire ogni sua possibilità, si era messa nelle mani di chirurghi estetici, luminari della
scienza, che l’avevano trasformata nel modo descritto da Socrate e, divenuta finalmente orribile, ma
soda, era riuscita a sedurre Satana stesso che ne aveva fatto la sua amante, congiungendosi con lei tutti i
sabati sera. Si trovavano, or qua or là, sempre in un bosco, dove lei, vecchia beghina del satanismo,
giungeva a cavallo d’una scopa tradizionale.
Tornando a noi, per il nostro disgraziato filosofo senza soldi, non v’era stata scelta: aveva dovuto
sottostare alle insane voglie dell’ostessa, e passare la notte con lei.
97
Naturalmente, la mattina, nonostante fosse molto affaticato, appena possibile era fuggito da quella
casa, inseguito dalle maledizioni della vecchia strega che, irata dal suo abbandono, gli aveva predetto
una morte orrenda.
“Che t’importa, tu sei già morto!” osservai.
“Infatti. La morte non mi spaventa, ma il modo si: anch’io sento il dolore. Inoltre, ella ha esteso la
sua maledizione a chiunque m’avesse prestato aiuto.”
“E me lo dici solo ora? Maledetto idiota!” Urlai spaventato.
“Ormai, purtroppo, non ti serve a nulla né urlare né fuggire. Quello che è fatto è fatto. Si tratta di
una strega potente e la sua magia ti raggiungerebbe ovunque tu ti nascondessi.”
Davvero consolante!
Al mattino aveva trovato Mirelli che, gentilmente, si era fermato e gli aveva dato un passaggio.
‘‘‘
Chiacchierando, a volte anche concitati, si marciava in autostrada ad andatura tranquilla, quando
fummo fermati dalla polizia stradale: una coppia di ragazze su due moto italiane. Una era bella e l’altra
brutta, logicamente gentile la prima e fiscale la seconda.
Ci avevano intimato l’alt, perché eravamo entro i limiti di velocità. Un reato gravissimo, affermò la
più brutta, che provoca numerosi sorpassi ed il sorpasso è la causa del maggior numero d’incidenti.
Mentre la ragazza ci spiegava queste cose, Socrate, da saggio ed emerito filosofo, approvava con la
testa quei ragionamenti pieni di tanta logica.
“Sono stranieri – intervenne la più carina dopo aver visto i documenti – certamente non conoscono
le nostre leggi.”
“Questa trasgressione comporta il ritiro della parente; è un reato gravissimo e non mi era mai
successo di vedere qualcuno tanto mascalzone da comportarsi in modo così pericoloso: solo i
centoquaranta!”
“Brutta e carogna!” pensai.
Ma Socrate, l’astuto filosofo che, da vivo, tirava fuori la verità dalla pancia altrui, stando all’inferno
ne aveva imparato una più del diavolo.
“Il mio amico è di origine italiana.”
“Ecco spiegato tutto. Sappiamo che in quel paese tutti rispettano i limiti di velocità, come
assurdamente prescrive la loro legge.”
Affermò conciliante la più carina.
“Purtroppo ce lo insegnano i nostri padri sin dalla più tenera età!” intervenni.
Vidi le due ragazze parlottare tra loro, con la più bella che cercava di convincere l’altra, poi, mentre
quest’ultima se n’andava indispettita, la prima ci disse che, per questa volta, avrebbero lasciato correre,
ma stessimo attenti di non incorrere più nella stessa infrazione.
Ripartii con la mia formidabile sportiva a duecento l’ora.
“Amico mio, come mai così piano?.”
“Un triste retaggio della mia educazione infantile.”
Risposi.
Uscendo dall’autostrada avevamo chiesto al funzionario, che ritirava i soldi del pedaggio, di
consigliarci un albergo con autorimessa. Era buio, quando vi arrivammo; situato in una vasta piazza
davanti al palazzo del capo dello stato, era uno di quei locali che nelle guide gastronomiche doveva
avere più stelle della bandiera degli Stati Uniti, dove si va per pagare molto senza riempirsi la pancia,
ma dove, chiunque abbia anche solamente una spruzzatina di Vip, non può non essere stato.
Lì ci fermammo per la cena e per la notte.
Poiché il nostro Socrate era privo di denaro, entrai con tristezza, conscio che l’onere del soggiorno
sarebbe stato tutto a mio carico.
Mentre egli mi attendeva sprofondato in una comoda poltrona, io mi recai alla ricezione. Visti i
prezzi sbalorditivi, per risparmiare almeno sul dormire, presi una sola camera a due letti, separati
naturalmente, ben conoscendo certi vizietti degli antichi greci, poi, stanco del viaggio ed accasciato per
la folle spesa che avrei dovuto sborsare al risveglio, raggiunsi Socrate.
Nel frattempo, stanco per la rispettabile età, il filosofo si era addormentato e russava in modo privo
di ogni decoro, forse sognando di concionare nell’agorà. Mentre mi guardavo attorno, non lo nego, con
una certa vergogna, venne un cameriere che ci disse di seguirlo e ci condusse al nostro tavolo per la
cena. Io, ossessionato dal timore di un prezzo regale, cercavo di scegliere i piatti con oculatezza (da
buon commerciante conosco il significato del risparmio) mentre Socrate, pezzente privo di risorse ed a
mio carico, tendeva ad abbuffarsi dei cibi più raffinati.
“Credimi – mi disse farfugliando col cibo in bocca, – all’inferno forniscono robaccia, desidero
proprio un pranzetto buono ed abbondante.”
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E che vino, amici miei, aveva ordinato (questi maledetti dannati sono proprio al corrente di tutto):
era una bottiglia DOC con tutta un’altra sfilza di letterine (un mezzo alfabeto) delle quali ignoravo il
significato, ma che aumentavano notevolmente il prezzo del beveraggio.
Avrei avuto molto da obiettare in condizioni normali, però ero talmente spaventato per le ipotetiche
maledizioni della strega, da non poter nemmeno reagire.
Mentre Socrate si abbuffava, facendo rumori sconvenienti, io, di tanto in tanto, tendevo l’orecchio
ad ascoltare i discorsi di un Pulcinella ed una Colombina, seduti al tavolo vicino al nostro, che stavano
giusto cinguettando. Per carnevale, infatti, a Filona la maggior parte delle persone si maschera
abitualmente.
Tutte le sciocchezze e le sdolcinature scambiate reciprocamente, cari lettori, le lascio alla vostra
immaginazione, ma ad un certo punto era successa una cosa tanto sgradevole quanto importante:
Pulcinella, chiamato al cellulare, era sbiancato in volto.
“Una cosa terribile! – aveva detto mentre, una volta chiusa la comunicazione, riponeva il telefonino
nell’astuccio. – Era mia moglie, mi ha comunicato che in un incidente stradale è morto un nostro
conoscente, un certo Franco Mirelli.”
Ed all’urletto di Colombina:
“Forse lo conosci?”
Continuò.
“Altro se lo conosco! – aveva risposto lei con aria giuliva. – Era mio marito.”
Poi avevano ripreso tranquillamente a cinguettare.
Ma in me non vi era più nessun interesse per ascoltare ancora i discorsi altrui: avevo sentito una
stretta al cuore; ecco la maledizione della strega Panfila, si trattava, senz’altro, di quel signor Mirelli che
era stato così gentile con Socrate, da dargli un passaggio. All’orrore della morte si aggiungeva, anche,
l’indifferente disprezzo della moglie
Come potete ben capire, il mio pasto si trasformò in fiele; posai coltello e forchetta ed attesi,
taciturno, che il filosofo finisse di cenare. Poi salimmo in camera non senza una certa paura da parte mia
che, ormai, temevo la vendetta della strega.
Purtroppo, come io credo che avvenga a tutti, anche quando la nostra mente è piena di orribili
pensieri, ad un certo punto il sonno mi vinse. Si trattò di un terribile dormiveglia pieno di incubi
popolati da una serie infinita di signori Mirelli ridotti in polpette, sino a quando fui svegliato, di
soprassalto, dalle voci di due donne che stavano litigando.
Una la riconobbi subito, dalla descrizione che me n’aveva fatto Socrate, per l’inconfondibile strega
Panfila, anche perché ogni tanto s’apriva dietro; l’altra, nuda, tranne per un turbante di preziosa stoffa
orientale che le copriva il capo, era bellissima, specie nel corpo fornito della cellulite necessaria nei
posti giusti. Nonostante la mano nera del terrore mi stringesse il cuore, non potei fare a meno
d’ammirare quella donna perfetta in un paese dove s’era soliti girare tra acciughe e balene.
Panfila stringeva in mano un cuore (che poi seppi essere quello di Socrate) e l’altra, che la prima
chiamava Lucilla, cercava di stapparglielo.
“Perché non uccidiamo anche questo? – aveva urlato, allora, Panfila. – Dopo avrai anche tu il tuo
cuore da mangiare.”
“E’ un bel giovane; varrebbe la pena di farselo.”
“Hai ragione, mangia tu che l’uomo me lo faccio io.”
Naturalmente ero rimasto bloccato dall’orrore ed allora, mentre Lucilla, una volta divorato in un sol
boccone quell’orribile pasto, mi aveva tenuto fermo con una forza diabolica, l’altra, seguendo il
consiglio dell’amica, dopo avermi usato violenza carnale, si era liberata su di me della sua urina fetida,
come se quella vacca avesse pascolato in un campo d’asparagi.
Fatti i comodi loro, prorompendo in un riso satanico, le due streghe se ne uscirono dalla finestra,
cavalcando, in tandem, la fatidica scopa.
Passato il primo momento d’orrore, quasi presago, guardai dalla parte di Socrate e vidi che le due
donne, prima di violentarmi, l’avevano sgozzato.
La gola era squarciata, ma non vi era una sola goccia di sangue, come se le streghe l’avessero bevuto
tutto in un osceno, diabolico brindisi.
L’arma del delitto, un orribile coltello a serramanico, era anch’essa pulita (forse l’avevano nettato
golosamente con la lingua). Senza pensarci, quasi istintivamente, lo afferrai, ma subito compresi la
tragica situazione nella quale ero venuto a trovarmi; causa le impronte digitali che avevo lasciato
sull’arma: sarei stato accusato dell’omicidio del mio amico, e sentii brividi di freddo corrermi lungo la
schiena. La maledizione di Panfila aveva iniziato a colpire.
‘‘‘
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L’unica idea che mi venne in mente fu quella di fuggire il più presto possibile ed allora, senza
nemmeno lavarmi, mi rivestii e, afferrata la valigia, corsi giù per le scale, tenendo un fazzoletto contro
il naso per non essere soffocato dal fetore del lerciume sotto i miei abiti.
Capirete che, in tali condizioni, me la sarei filato via molto volentieri, ma, prima che avessi potuto
uscire dalla porta dell’albergo, il muscoloso portiere, una specie di mastino baffuto, aveva percepito
subito, sin da lontano, quell’olezzo che emanava dal mio corpo sporco d’urina. La cosa lo rese
sospettoso (tra l’altro si aspettava una mancia generosa); il mio stato di disordine, infine, non fece altro
che peggiorare la situazione. Allora mi bloccò chiedendomi notizie del conto e, visto il mio imbarazzo,
m’accompagnò alla ricezione. Lì si accorsero subito che non avevo pagato e la diffidenza di quel
maledetto mastino andò aumentando.
“Se ricordo bene, caro il mio manigoldo, ieri sera eri in compagnia d’un amico e temo proprio che,
poco fa, tu stessi scappando dopo averlo derubato e, quel che è peggio, per filare insalutato ospite”
E mentre parlava, il portiere, per difendersi dal mio puzzo, si teneva stretto il naso con due dita,
sicché la voce, di per se stessa sgradevole, assumeva dei toni profondi che sembravano farla salire dagli
inferi.
Lì per lì balbettai qualche sciocca ed incredibile giustificazione, il che servì solo ad aumentare viepiù
i suoi sospetti, ed allora, presomi per i pantaloni, mi spinse su per le scale. Giunto in camera gli si parò
davanti la tragica situazione: Socrate sgozzato nel letto. Ad un simile spettacolo, il mastino iniziò ad
urlare:
”Correte! Correte! Vi è un morto!”
La stanza si riempì rapidamente di molte persone.
“Io sono un medico – disse un giovane dalla faccia melensa. - Quest’uomo è stato assassinato.”
Ed, allora, il portiere corse al telefono per chiamare i gendarmi; erano due ragazze in divisa, ma
graziose e gentili, nonostante l’aspetto marziale, sicché avrei preferito conoscerle in ben altre circostanze.
Queste, dopo avermi fatto lavare accuratamente, mi ammanettarono con delicatezza, per portarmi in
carcere accusato d’omicidio, mentre tutti i presenti urlavano:
“E’ un vampiro! Ha bevuto il sangue.”
“Ha mangiato anche il cuore! - aggiunse il giovane medico, dopo aver ispezionato il cadavere. Gliel’ha strappato dallo squarcio della gola.”
Possibile che qualunque disgrazia succeda vi sia sempre un medico in zona! Che portino iella?
Figuratevi il mio sgomento! Pregai una guardia di lasciarmi telefonare a Causticchio, e quella,
mossa a compassione dal terrore che avevo disegnato sul volto, accondiscese. Il mio amico fece venire
subito a soccorrermi l’avvocato Azzeccagarbugli (quel nome mi ricordò qualcosa, forse un suo antenato
coinvolto in qualche torbida storia di donne?), cosa che mi tranquillizzò.
“Niente paura, ragazzo mio! – esclamò, appena arrivato. – Ti farò uscire dal carcere immediatamente.
Tu sei amico di Causticchio, uno degli uomini più in vista del paese; questo tuo infortunio sarà sulla
prima pagina di tutti i giornali, perché rappresenta un fatto di cronaca clamoroso. In questi casi,
trattandosi d’omicidio, ad Utopa è relativamente facile ottenere la libertà provvisoria. Se poi un
imputato, per sua disgrazia, è trattenuto in carcere, può ricorrere al tribunale sociale, poi a quello
libertario ed infine a quello dell’arbitrio e uno o l’altro lo libererà sicuramente. La cosa cambia per i
reati della piccola gente, perché il disgraziato può aspettare senza suscitare lo scandalo dei mas media.”
Ciò detto mi portò davanti al giudice e tutto si risolse, come l’avvocato aveva affermato, in cinque
minuti.
Uscendo dal tribunale vidi che, in alto, alla fine dello scalone, vi era una statua di donna discinta e
piangente ed io chiesi all’avvocato di chi si trattasse:
“La giustizia,” rispose.
“Ma come? Non ha la bilancia in mano?.”
“In Utopa i giudici, in genere, sono legati a movimenti politici che danno loro i giusti indirizzi. Se
tu vedi bene, nella statua della giustizia si è sostituita la bilancia con la stadera, sicché il braccio,
trascinato dal peso, guarda sempre in basso. Ma ora dobbiamo parlare, perché domani vi sarà il tuo
processo”
“Così presto?”
“Il mondo giuridico si è diviso a lungo in due grandi correnti di pensiero. Alcuni ritenevano che
fosse socialmente preferibile procedere contro i grandi, anche nel caso di tempi infiniti, causa i cavilli;
altri, invece, che tutti, anche i più miseri, avessero il diritto d’essere processati. I giudici, come ogni
altro cittadino che ricopra delle cariche importanti, hanno diritto al loro spazio televisivo e quindi sono
interessati soprattutto a casi giudiziari clamorosi che durino a lungo; ed anche noi, penalisti di grido,
apparteniamo alla prima corrente di pensiero che fortunatamente ha avuto il sopravvento.
Tu, come amico di Causticchio, sei uno straniero molto importante, ma non ti si può lasciar marcire
nelle carceri in attesa di giudizio, perché il tuo caso è troppo evidente. Sarebbe bastato un minimo
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dubbio per rimandare la sentenza alle calende greche, con gran gioia dei giudici, dei cittadini e
soprattutto dei giornalisti. Figurati, quelle cime vi avrebbero sguazzato dentro, loro che per capire una
cosa impiegano sempre tre giorni.”
Lo guardai con un certo stupore.
“Tre giorni?”
“Ascoltano una dichiarazione, poi, sul giornale, la interpretano alla rovescia, sicché il terzo giorno
devono sempre rettificare.”
“Anche quelli della televisione?”
“Quelli sono più intelligenti: a loro ne bastano due, perché la notizia la danno il giorno stesso.”
“Ignoranza o malafede?”
“A volte l’una a volte l’altra, a volte tutte e due. Resta il fatto che si sarebbero buttati a pesce
sull’argomento. Probabilmente qualcuno di loro t’avrebbe proposto di posare nudo per un settimanale
ed avresti dovuto organizzare un servizio d’ordine, per mettere in fila le donne che avrebbero desiderato
venire a letto con te.”
‘‘‘
Causticchio era, quel che si suol dire, un nuovo ricco, ma un buon uomo in fondo, anche se rozzo e
sbruffone; la moglie, che non avevo ancora avuto il piacere di conoscere e sulla quale circolavano strane
chiacchiere, dicevano fosse una zucca vuota, bella e presuntuosa la quale conduceva, in televisione, un
programma ecologico sugli animali. Tra due persone così diverse poteva esserci stato solamente un
matrimonio d’interesse, nel quale un coniuge aveva portato la sua bellezza e l’altro i mas media, utili
alla carriera televisiva della donna: un contratto di vendita, infine, nel quale il povero Causticchio,
innamorato, pensava di aver fatto un buon affare.
La villa del mio amico, formata di mille ghirigori e svolazzi che ne facevano un capolavoro del
cattivo gusto, era situata ai bordi della città, al centro di un parco splendido. Entrati dalla strada, un
lungo viale conduceva alla casa padronale; dietro, oltre il prato alberato, la proprietà confinava col bosco
che circondava il più grande manicomio di Utopa.
Io ero già stato ospite di Causticchio altre volte e sapevo che dopo aver suonato bisognava attendere
a lungo, perché, prima d’aprire, v’erano almeno dieci circuiti televisivi da osservare e cinquantamila
catenacci da rimuovere.
Differentemente da quanto avviene qui da noi, dove si preferisce donare che prendere e quindi le
porte sono sempre aperte, in questo sfortunato paese (non lo crederete e vi sembrerà impossibile) il furto
e la violenza sono molto frequenti.
Che il mio ospite fosse un arricchito si vedeva subito, appena giunti a casa sua; finito il rumore di
ferraglie, infatti, ti veniva ad aprire un distinto signore, in abito scuro e farfallino nero che risultava,
poi, essere un maggiordomo, e ti faceva accomodare in un ampio salotto al quale i mobili antichi, in
diversi stili accostati a casaccio, davano l’aria più d’un museo che d’una casa.
Le pareti, come chiedeva la moda, erano decorate grazie a moderne macchie di colore che si
ottenevano lanciando, contro il muro, bottiglini di vetro pieni d’inchiostri variopinti; il tutto, tra
l’altro, costava meno dei soliti quadri di pittura contemporanea e l’effetto era migliore.
Non rimasi solo a lungo, perché venne a ricevermi l’ultima moglie di Causticchio (la quinta? la
sesta?). Sul momento mi sembrò che la donna non avesse una fisionomia nuova, poi, all’improvviso,
mi resi conto che si trattava della strega Lucilla (quella stessa che aveva aiutato Panfila a violentarmi e
ad uccidere il povero Socrate)
Essendo senza turbante, vidi che aveva la testa rasata, (pettinatura? In gran voga, opera magistrale di
un grande coifeure) tanto da sembrare una zucca, e questo, forse, sul momento, mi aveva confuso le
idee. Naturalmente non era più nuda, ma indossava un paio di pantaloni tutti decolorati e rattoppati,
sotto una camicetta striminzita e sfilacciata che lasciava trasparire il seno con i capezzoli rosa: roba di
gran classe, da sfilata di moda.
Ma queste considerazioni le feci dopo, perché la prima impressione fu terribile: che colpo, ragazzi!
Poiché fingeva di non riconoscermi, accettai la finzione che mi toglieva dall’imbarazzo. La voce era
dolce e lei cinguettava con la leggerezza di un uccellino in primavera. Che fascino!
Avevamo appena esaurito i convenevoli, quando arrivò anche il marito, in un variopinto principe di
Galles, tanto da sembrare più un pavone bizzarro che un uomo.
Nell’attesa della cena si iniziò a parlare dei soliti sciocchi argomenti, come succede in genere a
persone la cui conoscenza è superficiale, arte nella quale Causticchio era maestro. Il mio ospite, però,
non intendeva tediare la signora, tanto che ben presto, gentilmente, volle portare la conversazione verso
un argomento che potesse interessare la moglie.
“Nonostante possieda un apparecchio costosissimo con venticinque altoparlanti, guardo la
televisione di rado.”
101
“Naturalmente se non vado in onda io!” interruppe Lucilla che, come vi ho detto, conduceva un
programma televisivo di tipo ecologico a favore degli animali.
“La tua trasmissione è forse l’unica che m’interessi veramente. In genere, gli altri conduttori perdono
tempo a mostrare bambini del terzo mondo che muoiono di fame e di malattie, – continuò il mio
ospite. - Li inseriscono nei telegiornali, nei documentari, persino nelle trasmissioni di canzonette. La
cosa mi rende nervoso, perché mi fa pensare a quei poveri cani e gatti randagi, dei quali non parla mai
nessuno, che soffrono tanto e magari finiscono prigionieri in canili dove non danno loro nemmeno il
minimo indispensabile.”
“Io ne parlo sempre nelle mie trasmissioni.”
“Certo, amore, ma gli altri no, e la situazione di queste care bestiole, in molte occasioni, è
drammatica. I cattivi padroni li comprano, poi se ne stancano e, l’estate, li abbandonano lungo una
strada per non portarseli dietro in villeggiatura. Quei bambini invece, beati loro, non li abbandona mai
nessuno, ma fanno notizia e così si trascurano gli animali.”
Convenni anch’io che la cosa era riprovevole, pur osservando che sarebbe stato difficile abbandonare
il bambino da parte di un genitore del terzo mondo il quale non conosceva nemmeno la parola ‘ferie’
“Io penso che sia il caso, per quelle povere bestiole abbandonate, di mettere le ruote nelle chiese!”
Continuai, poi, con fare perentorio.
Stavo giusto dicendo che i politici avrebbero dovuto codificare una carta dei diritti degli animali,
quando l’uomo in nero ci venne ad avvisare che il pranzo era servito.
Mi sedetti a tavola con la consueta tristezza: la cena, infatti, come sempre avveniva in Utopa con la
nuova cucina alla moda, fu qualcosa di allucinante. Si sosteneva che, in tempi evoluti, dovesse
evolversi anche il cibo verso una nuova cucina: il mio ospite voleva essere all’avanguardia in ogni
campo ed il suo cuoco era, ahimè, uno dei maestri di tanta novità.
“Sulla mia tavola non vi sono animali fatti a forma di altri animali dalla cui pancia si vedono uscire
dei piccioni vivi, come si narra che faccia Trimalcione, nobile signore di eletta qualità che vive in Italia,
ma cibi semplici, secondo le ricette dei cuochi più moderni e raffinati.”
La cena, infatti, si segnalò per la presenza di vivande preziose e stravaganti, non lingue di
pappagallo, naturalmente, ma caviale, salmone, e aragosta rovinati da strane salse, bizzarre gelatine e
così via, ma d’ogni cosa solamente un assaggio, come si conviene a questo nuovo modo di mangiare
che ti lascia disgustato a pancia vuota.
Dovetti assaggiare di tutto per non offendere l’ospite. Il servizio era svolto da cameriere che
lasciavano vedere le poppe, e, soprattutto, splendide gambe (come avrebbero voluto tenerle nascoste,
povere ragazze, ma il mostrarle era una clausola del contratto di lavoro). Col loro visetto grazioso,
rendevano sopportabile la ridicola cena. Portavano le vivande preziose in rutilanti ceramiche di cattivo
gusto, posandole su di una tovaglia evidentemente ricamata in oriente con assurde gondole. Le posate,
naturalmente d’argento, erano quanto di più barocco si potesse vedere ed i bicchieri soffiati, ma l’uno
diverso dall’altro per colore, nascondevano quello prezioso del vino.
La conversazione fu di una noia terribile, ma, per fortuna e per forza di cose, ben presto si passò a
parlare d’affari, mentre la moglie, sotto la tavola, mi toccava le gambe, col piede scalzo, salendo sino a
livelli invitanti,
Nel frattempo Causticchio stava dicendo che, se avessi potuto avere la cittadinanza di Utopa, tutto
sarebbe stato più facile per me, sia per i miei commerci in Filona sia perché avrei potuto evadere il fisco
nel mio paese. Vedendo che ero impallidito e mi agitavo stranamente, non sapendo che il piede di sua
moglie stava muovendosi in modo entusiasmante, mi chiese se la cosa m’interessasse. Non conoscendo
le mie origini italiane (voi credete alla chiacchiera che fuori d’Italia tutti paghino le tasse? ma fatemi il
piacere!), pensava che fossi un contribuente coscienzioso.
“Scusami per il mio comportamento! – dissi imbarazzato. - Mi sento molto stanco. Ciò che mi è
successo mi ha lasciato svuotato. La cittadinanza m’interessa moltissimo, ma mi hanno detto che non è
facile ottenerla.”
“Per te non ci sono problemi, credo che tu superi il minimo di patrimonio ritenuto indispensabile e,
anche se non vi arrivassi proprio, qui è tutto un mercato delle vacche: ungi e ottieni; infine siamo in
democrazia. In ogni modo, domani pomeriggio ti porterò a seguire una seduta del parlamento e, dopo,
c’incontreremo col capo del governo per parlare del nostro caso.”
“Di cosa discuteranno i parlamentari?”
“Di un grosso problema riguardante l’inquinamento dovuto alle automobili.”
“Un argomento molto interessante.”
Osservai, ricordando la protesta di Rancidino della quale mi aveva parlato Socrate.
“Il governo di destra sostiene che si debba passare all’elettricità e l’opposizione, invece, ad energie
alternative.”
“Indubbiamente un dibattito ad alto livello.”
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“Se ne discusse anche nella passata legislatura, quando era al potere la sinistra Allora le tesi erano le
stesse ma capovolte. Poi tutto finì in una bolla di sapone.”
Poiché in quel momento iniziavo ad emettere gridolini, colpa del maledetto piedino muliebre,
interpretando la mia agitazione per stanchezza, Causticchio osservò:
“Hai avuto una dura giornata e vedo che sei stanco, se lo desideri ti puoi ritirare.”
Ne approfittai subito, per togliermi dall’imbarazzo. Finsi di andare in camera mia, ma mi recai in
cucina da Fiammetta, la più carina delle cameriere (mi aveva stretto l’occhio durante la cena e mi stava
attendendo.)
“Svelto! – mi disse questa ragazza degna dei suoi tempi. – Andiamo a letto. Sabato scorso, qui
abbiamo avuto un pranzo e non ho potuto recarmi in discoteca. Io conduco una vita sana: niente alcolici
e fumo, mangiare moderatamente, evacuare una volta il giorno e scopare una volta la settimana. Perciò
niente preliminari: questa settimana sono in astinenza.”
Diciamo che si trattava di una brava ragazza che non era né viziosa, né anoressica, né stitica, né
ninfomane, tanto da meritare subito la mia attenzione, ma ogni fisico ha le sue esigenze; una novella
Beatrice che il grande poeta avrebbe amato e cantato:
Tanto gentile e tanto onesta pare
La pupa mia, quand’ella altrui saluta,
Che ogni lingua divien tremando muta
E gli occhi non si sazian di guardare.
Ella sen va, sentendosi laudare,
Modernamente d’umiltà svestuta,
Come se fosse giù dal ciel venuta
Mammelle e cosce a farti rimirare.
Sotto quell’abito fatto sol di velo,
Sempre modesta, con virginal candore,
Porta uno slip che le ricopre il pelo.
Di tutto il suo, nasconde solo il cuore
Fatto di rovi, avvolto dentro il gelo,
Poi va gridando a tutti: “Voglio amore!”
“Figliola, se non mi fai qualche panino temo d’andare in bianco.”
La consigliai e la trattativa si concluse in modo soddisfacente per entrambi.
La notte tentò di venirmi in camera anche Lucilla, ma, un po’ stanco per l’impegno precedente, un
po’ fedele al desiderio di non tradire un amico, finsi di dormire.
‘‘‘
La mattina successiva, mentre ci recavamo in tribunale, l’avvocato chiese come mi fossi trovato in
quel breve tempo che era intercorso tra l’arresto e la libertà provvisoria.
Gli dissi che la cella era larga e spaziosa, dotata di ogni confort moderno, dal bagno lussuoso alla
televisione; non mi potevo certo lamentare del trattamento, perché anche la colazione era stata di
prim’ordine.
Vi era però una cosa che non avevo capito, durante la passeggiata nel grazioso giardino del carcere,
ero venuto a contatto esclusivamente con carcerati in attesa di giudizio. Avevo chiesto spiegazione ad
una guardia la quale mi aveva spiegato che i condannati, in quel carcere, erano tutti fuori per ferie o per
buona condotta e la cosa mi era sembrata strana.
“Non tutti! – precisò, sorridendo, Azzeccagarbugli. – In un’altra ala del carcere vi sono quelli che
hanno approfittato della libertà per commettere gravi reati; questi vengono nuovamente arrestati e chiusi
in prigione per riprendere dall’inizio il loro corso di rieducazione.”
L’avvocato mi spiegò, poi, che, qualunque fosse il delitto, in Utopa si tendeva a far prevalere la
rieducazione del colpevole rispetto al risarcimento del danno subito.
“Anche in caso di omicidio?”
”A maggior ragione; più sono gli omicidi commessi e più è necessaria una rieducazione. Tanto non
si può ridare la vita al morto, e se un famigliare ha subito quel danno, in fondo in fondo, cavoli suoi. I
cittadini sono tutti uguali, perché il giudice dovrebbe mettersi in mezzo? Noi siamo un paese di grande
civiltà e tradizione giuridica e ciò che conta veramente è la rieducazione del colpevole e non la pena; in
un caso di omicidio la rieducazione è ancora più necessaria.
“E tutto questo ti sembra giusto?”
“Certamente. Tanto più, da quando alcuni studiosi dell’università di Filona sono riusciti a mettere
in chiaro l’episodio di Caino ed Abele: dopo accurate ricerche storiche, quegli eminenti professori hanno
dimostrato che si era a lungo equivocato sull’episodio, causa un’errata interpretazione della Bibbia.
Dio non maledisse Caino dopo l’omicidio di Abele, anzi, per rieducarlo gli fornì, ad uno ad uno,
fratelli sempre più buoni che egli tolse di mezzo regolarmente. Allora Dio cambiò tattica dandogli una
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sorella. Caino la violentò, ma non la uccise e questo, per lui, fu un enorme passo avanti verso la sua
rieducazione.”
Tacque ed allora, incuriosito, gli chiesi com’era finita quella storia.
“La Bibbia, purtroppo, non lo dice, ma la scoperta ha avuto un’enorme influenza sulla nostra
giustizia. ”
“Davvero un esempio di grande civiltà.”
“Certamente. Figurati che una corrente di pensiero sostiene, addirittura, che Caino sia stato solo
un’invenzione di Dio, così come i delinquenti sono una pura e semplice invenzione delle guardie. Ma
per fortuna queste idee avveniristiche, che causerebbero un grave danno economico a noi avvocati, sono
portate avanti da una piccola minoranza.”
Azzeccagarbugli sperava molto, nel mio caso, su la tradizione giuridica del suo paese e, se le cose si
fossero messe male, al momento opportuno avrebbe giocato una carta vincente; così diceva lui, senza
altro spiegazioni.
Quando giunsi in tribunale, l’avvocato mi comunicò che il mio sarebbe stato il terzo processo di
quella seduta della corte. Naturalmente credevo che la cosa sarebbe andata per le lunghe ma tutto, come
aveva detto Azzeccagarbugli, si svolse in modo addirittura fulmineo.
Nel primo caso, si trattava di un giovanetto, accusato di aver rubato una mela, nella attesa del
processo da lungo tempo.
Il difensore sostenne la tesi che la cosa sarebbe stata grave se il ragazzo l’avesse fatto per fame, ma
siccome il giovane era di famiglia benestante e, quindi, sempre ben pasciuto, la colpa doveva essere
attribuita esclusivamente alla società. L’arringa del difensore raggiunse il suo scopo, il ragazzo fu
assolto e portato in trionfo dagli amici, mentre le donne (in maggioranza giovani madri) piangevano
commosse.
Il secondo caso trattava di un ventenne di buona famiglia che aveva violentato una prostituta.
L’arringa fu breve anche in questo caso; come molti giovani benestanti entravano in negozi e
supermercati ad arraffare merce affermando che si trattava di un esproprio proletario, anche l’accusato,
per lo stesso motivo, si era appropriato d’una merce in vendita lungo la pubblica via, senza pagarla.
Non si trattava quindi di una violenza carnale, ma di un atto connesso ai diritti di libertà politica.
Anche questo imputato fu assolto tra le urla di stizza dei papponi che, se quella moda avesse preso
piede, avrebbero visto messi a rischio i loro lauti guadagni.
E finalmente, terzo ed ultimo, si giunse al mio processo.
“Signori della corte! – iniziò l’avvocato, - qui siamo davanti ad un accusato, che, secondo il
pubblico ministero, sarebbe un assassino, ma manca il movente. Un uomo ricco e stimato che uccide un
derelitto raccolto per la strada? Andiamo, via!
Inoltre egli sostiene che il morto sia il filosofo Socrate ucciso da due streghe. Siamo sicuramente in
presenza di un individuo incapace di intendere e di volere.”
Naturalmente egli calcò la mano anche sul fatto che, essendomi comportato da vampiro (infatti,
come ricorderete, avevo bevuto il sangue del morto e mangiato il suo cuore) non potevo essere molto
normale. Questa volta la discussione andò un po’ più per le lunghe, ma, nonostante la facondia del mio
legale, fui condannato all’ergastolo.
A questo punto avvenne il colpo di scena sul quale l’avvocato aveva puntato le sue carte.
Azzeccagarbugli mi fece compilare un’autocertificazione nella quale assicuravo la corte del mio
pentimento. Si giudicò che era inutile mantenere tutta la vita, a spese della comunità, per rieducarlo, un
tizio che, con la sua dichiarazione, dimostrava di essere già rieducato.
Naturalmente passai subito dall’ufficio dell’avvocato per l’onorario.
Prima, egli mi fece leggere alcuni giornali che parlavano del mio caso; quelli governativi di destra
sostenevano che era assolutamente idiota condannare un uomo per aver assassinato un tizio morto da più
di duemila anni, quelli dell’opposizione invocavano l’ergastolo per chi aveva privato l’umanità di un si
grande filosofo.
“Come vedi - disse l’avvocato, - i giornali sono tutti molto seri, perché sostengono i loro punti di
vista con valide argomentazioni, anche se dicono sempre l’uno il contrario dell’altro.”
Poi Azzeccagarbugli venne a parlare del vile denaro e, udita la cifra, mi resi conto che l’ergastolo
sarebbe stato ben poca cosa in paragone all’onorario.
Vedendo il mio pallore, l’avvocato pensò bene di giustificarsi:
“Forse ti può sembrare che io sia esoso, ma il mio avere è proporzionato alla difficoltà del caso.
Diciamo subito che ti ho difeso anche se sono certo che tu sia colpevole ed affatto pentito, ma prima
di lasciarti, voglio darti un buon consiglio: se ti dovesse venir desiderio, di nuovo, qui ad Utopa,
d’uccidere qualcuno, e credo fermamente che lo rifarai, uccidi uno dei tuoi genitori, o, addirittura,
entrambi; nessun giudice si assumerà la responsabilità di condannarti.”
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Pagato l’onorario (e come fa un povero diavolo, in Utopa, a difendersi seriamente) mi recai a casa di
Causticchio, il quale mi aveva invitato per il pranzo, visto che il pomeriggio ci saremmo dovuti recare
in parlamento.
‘‘‘
Il Senato, disegnato da un importante architetto italiano come spesso avveniva nei tempi andati, era
di squisita fattura, come si conviene ad un edificio pubblico di tale importanza. Appena entrati si era
accolti in un magnifico salone affrescato da validi autori e ci si rendeva conto di quanto fossero inadatti
all’ambiente quegli uomini vestiti di squallidi abiti moderni. Ma erano i pensieri e le sensazioni di un
attimo, perché eri subito distratto da un odore fortissimo di tartufo. Facendoglielo osservare, chiesi al
mio amico se dopo la seduta vi sarebbe stata una cena.
“Niente pranzi. – disse il mio amico. - E’ la puzza abituale dei nostri acrobati saltimbanchi, .”
In quel momento ci si trovava in un ampio salone ed egli mi stava mostrando una strana
pantomima. Vi ricordate, nei viaggi di Gulliver, i ruffiani uomini di corte che si sdilinquivano davanti
all’imperatore di Lilliput? Ebbene, (così poco cambia l’uomo) qui eravamo in presenza dello stesso
sconcio spettacolo.
“Anche oggi i senatori si esibiscono nei loro soliti esercizi.” Affermò Causticchio.
Vi era chi faceva capriole, chi stava in equilibrio su di una corda elastica e chi, approfittando della
sua elasticità, spiccava acrobatici salti mortali; com’erano tutti abili in quest’ultimo esercizio dal quale
uscivano per ricadere sopra la corda in piedi, senza mai perdere l’equilibrio e chi saltava più in alto era
applaudito. Altri passavano sotto un cordone teso e facevano a gara nell’abbassarlo sempre di più, sino
quasi a dover strisciare per terra.
Ciascuno si produceva nell’uno o nell’altro di questi fantastici e diversi numeri da circo, ma una
cosa li univa tutti: avevano una sedia attaccata al culo che non mollavano mai, per nessun motivo e
qualunque fosse l’acrobazia che stavano compiendo.
Attorno a loro una grossa folla sembrava che applaudisse, ma in realtà, allungando le mani, cercava
di togliere il sedile di sotto a quei poveretti che lo difendevano col vigore e la ferocia delle bestie
selvatiche.
Come gli atleti, che si facevano ammirare in questi abili esercizi, anche coloro che assistevano erano
divisi in gruppetti, ciascuno dei quali si esibiva davanti ad un uomo a volte piccolo e goffo, a volte
gobbo e storpio che ostentava pose statuarie, chiesi a Causticchio il perché di questo fatto.
“Questi onorevoli signori eseguono le acrobazie davanti al capo del loro partito che li premierà o li
punirà a secondo del divertimento che sapranno fornirgli.”
Poi si sentì suonare una campanella e tutti i senatori, sempre con la loro brava sedia attaccata alculo,
presero posto nell’emiciclo del Senato ed ebbe inizio la seduta.
Entrammo nelle tribune anch’io e Causticchio, ma, così facendo, si passò davanti ad una porta
chiusa dalla quale uscivano voci concitate. Causticchio mi svelò subito il mistero:
“La nostra è una sana democrazia e quella è la famosa stanza del conflitto d’interesse. Vi sono
richiusi tutti quei parlamentari che hanno rapporti economici con l’argomento del quale si discute in
Senato. Oggi, ad esempio, tutti quelli che posseggono azioni di ditte automobilistiche e petrolifere.”
“Una cosa saggia.”
“Certamente; tanto più che, nella sala attigua, un loro delegato di fiducia sta trattando il
finanziamento ai partiti da parte delle ditte in causa nella discussione e così i conti tornano per tutti.”
Quando il relatore ebbe finito di illustrare la legge, iniziò un’eletta e lunga discussione, ma, alla
fine, il capo del governo tagliò corto proponendo un emendamento conciliante: le centrali per la
produzione dell’energie alternative, necessarie alle automobili ecologiche, avrebbero funzionato a
petrolio.
Purtroppo ad un sottosegretario, mentre con una mano stringeva quella del presidente per
congratularsi, l’altra si rattrappì per un crampo e la sua sedia rotolò verso il centro dell’emiciclo. Si
scatenò allora una rissa furibonda, sia da parte del pubblico sia dei colleghi ed i commessi ebbero un bel
da fare a dividere i contendenti, mentre il presidente dell’assemblea, naturalmente senza alzarsi dal
prezioso scanno, scampanellava a lungo. Sedata la baruffa si votò e la legge passò all’unanimità: soldi e
faccia erano entrambi salvi.
Così si sciolse la seduta.
Usciti che fummo dal Senato, mi venne fatto di pensare che basta un nonnulla a cambiare il giudizio
storico su di un uomo. Caligola fu considerato pazzo per aver fatto Senatore un cavallo, se avesse fatto
Senatore un asino sarebbe passato alla storia come un uomo di spirito.
‘‘‘
Finita la riunione Causticchio mi conduce dal capo del governo.
Costui, animo nobile e caritatevole, dopo avermi estorto una cifra consistente per i suoi poveri (che
ahimè erano tanti anche tra i parlamentari) mi disse che si sarebbe dato da fare per soddisfare il mio
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desiderio (nella peggiore delle ipotesi sarebbe ricorso alla cittadinanza onoraria), ma, nel frattempo,
secondo la consuetudine locale, avrei dovuto seguire un corso d’educazione per conoscere storia, usi e
costumi di Utopa e perfezionarmi nella lingua.
A tale scopo, fui chiuso in un monolocale senza finestre e con la porta sbarrata, rischiarato da una
luce riposante, dove cominciò la mia triste sventura.
Le pareti erano formate da un grande schermo televisivo a 360°che trasmetteva giorno e notte; non
veniva mai nessuno, salvo a portarmi il cibo tre volte al dì ed io non potevo far altro che guardare o
dormire.
E lì mi si tenne chiuso un mese.
Per poche e rare conduttrici intelligenti, ero costretto a subirmi le chiacchiere di mille bellissime
zucche vuote, tutte ossigenate che lasciavano vedere, alla base della nuca, la radice nera del capello con
un ripugnante senso di sporco e che accusavano le colleghe d’avere fatto carriera usando il letto. Poiché
tutte dicevano la stessa cosa, sarebbe stato difficile separare il grano dal loglio, sempre che di grano ve
ne fosse stato; e, presentati da pochi vecchi, ma validi marpioni, dovevo ascoltare individui che non
conoscevano né i modi né i tempi dei verbi, né l’esatta pronuncia dell’Utopico e facevano volare gli
accenti qua e là sulle vocali, come se fossero farfalle impazzite; ma quasi tutti erano pieni di crassa
ignoranza, di presunzione e, spesso e volentieri, imitavano il pregevole spettacolo che avevo visto fare
dai saltimbanchi alla camera.
Le trasmissioni erano riempite, senza limiti, da sfilate oscene di vecchie ‘buone donne’, da culi e
seni, seni e culi sino alla nausea, mentre le folle applaudivano il nulla, a comando. Oppure si vedevano
storie cretine piene di monotone scopate sempre uguali: un colpetto quando era sopra lui ed un altro
quando era sopra lei.
Naturalmente si trattava di trasmissioni su canali privati, mossi solo da motivi di interesse. Devo
ammettere, tuttavia, che qualche trasmissione buona vi era anche su queste reti, ma, chissà per quale
strambo motivo, sempre la notte, e, non avendo un registratore, per seguirla avrei dovuto invertire il
ritmo della vita.
Sempre di notte, però, vi era anche della pubblicità spesso interrotta da rapporti amorosi anche tra
lesbiche e tra finocchi, cosa che i magistrati, tenuti per legge a perseguire ogni reato, giudicavano
favorevoli alla difesa del comune senso del pudore.
Per fortuna in mezzo a tutto questo bailamme dei canali televisivi privati, ve n’era uno pubblico che
aveva come scopo l’acculturazione del plebeo ascoltatore.
Iniziava al mattino con una trasmissione scientifica nella quale un mago, dalla voce femminea,
prediceva il futuro leggendo l’oroscopo; dopo seguiva il così detto giuoco degli scacchi: due signori
direttori di giornali culturali, si sedevano ad un tavolo con una scacchiera. Da una parte v’erano i pezzi
bianchi che rappresentavano attori noti? o celebri sportivi, dall’altra i neri che rappresentavano grandi?
attrici ed efebiche modelle. Di fianco si sedeva un onnipresente giornalista che fungeva da arbitro. Ogni
scacco aveva un nome che corrispondeva ad una persona reale.
Il giornalista diceva un nome ed uno dei giocatori muoveva un pezzo, poi diceva un secondo nome
di sesso opposto ed il secondo giocatore muoveva un suo pezzo nello stesso posto del precedente. Si
venivano così a formare delle coppie che si dividevano e si riunivano in diverso modo. Venni poi a
sapere che, quando una coppia si formava, gli spettatori, felici, battevano le mani e quando si divideva
s’intristivano, per chi veniva abbandonato nel quadretto; vi era addirittura chi piangeva. Ogni mattina,
cambiati i giocatori, il giuoco riprendeva esattamente dalla situazione del giorno prima e tutto procedeva
all’infinito senza che nessuno vincesse mai.
Seguivano un certo numero di esperti per parlare su importanti argomenti che andavano dalla
psicologia dei fiori, ai modi di giungere a scambi di cortesia nelle riunioni condominiali, ad una rubrica
di medicina alternativa medievale, con consigli relativi alle più svariate e gravi malattie, dalla cura
dell’infarto a quella del tumore.
Come è logico, in un paese di così forte cultura qual è Utopa, lo spettacolo preferito era quello dei
giuochi a premio, di certo il più impegnato; venivano fatte delle ferree selezioni per trovare i
concorrenti, poi, durante la trasmissione, li si interrogava uno per volta, naturalmente, e, ad ogni
risposta esatta, il premio raddoppiava, sino a raggiungere la grossa cifra di cinquecentomila patacche.
Le prime difficoltà si superavano con la scelta della risposta esatta di fronte a tre proposte di
soluzione.
“Quanti angoli ha un triangolo? Uno, tre, oppure centotrentasette?”
Poi il giuoco diventava più difficile, quando si passava alla scelta tra due sole possibilità.
“Carlo Magno era un antico imperatore o una maschera napoletana?”
Ed infine l’ultimo quesito con una domanda secca e cattiva:
“Quanto fa due più due?”
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Se il candidato rispondeva, poniamo, quindici o diciassette veniva liquidato con poche parole, ma se
rispondeva cinque lo si consolava dicendogli:
“Bravo! Hai quasi indovinato. Se magari tu (perché tutti si davano del tu, come se si conoscessero
da secoli) avessi meditato e ti fossi concentrato maggiormente…” e così via.
Se la risposta era esatta, si assegnava un vistoso premio.
E poi il giuoco del calcio! Una vera ossessione che compare in tutte le salse. Nei paesi occidentali,
voi, spesso e volentieri, potete prendete a pedate i vostri figli, ma in Utopa è proibito: lo hanno detto
gli psicologi e guai a chi contraddice gli psicologi; e, allora, si sfogano tutti su di un povero pallone di
cuoio. Ventidue energumeni lo calciano e tutti gli altri urlano felici, liberando l’anima, per un attimo,
dal peso di figli vagabondi e lavativi.
Purtroppo anche su questo canale, per battere la concorrenza dei privati nell’assicurarsi la pubblicità,
v’erano spettacoli così detti ‘leggeri’, nei quali si educavano le fanciulle ad andarsene a letto col primo
venuto, diffondendo la verità che l’accordo sessuale era fondamentale e che l’amore romantico sarebbe
seguito, perché il sesso rappresentava il novanta per cento nella riuscita di un matrimonio felice, alla
faccia del dieci per cento per i figli, gli interessi comuni e così via. Per non turbarvi vi risparmierò gli
spettacoli di ripugnante violenza.
‘‘‘
Questo periodo, davanti alla televisione, per me fu pernicioso.
Gli Utopici, figli di mamme e papà fanatici telespettatori, allevati a questa scuola dalla più tenera
età, formavano anticorpi; io, invece, non ero vaccinato a quegli spettacoli e, senza accorgermene, pian
piano mi coprii di peli grigi, i piedi e le mani divennero zoccoli, le mie orecchie si allungarono e, in
poco tempo, per colpa della televisione, mi trasformai in somaro. (Come appresi poi, nessun anticorpo
sarebbe stato in grado di difendermi da quella stregoneria! finale.)
Fatto sta che mi trovai ad essere un vero e proprio asino, ma dotato di una doppia personalità (o
bestialità?): comprendevo il linguaggio degli animali, ma anche quello degli uomini; ragliavo, ma, con
un po’ di buona volontà, sarei stato in grado anche di parlare. Mi esercitai, in seguito, quand’ero da
solo, ritenendo, per il momento, che fosse preferibile non apparire come un fenomeno vivente, ed in
breve divenni bilingue.
Questo avvenimento terribile mi riempì di sgomento, ma in seguito, per me, sarebbe stato molto
utile. Il fatto di comprendere il linguaggio degli animali, mi avrebbe permesso di ascoltare da loro tante
storielle simpatiche ed istruttive, sicché mi venne il sospetto che Esopo, Fedro e La Foteine, con le loro
favole, non fossero stati altro che somari nelle mie stesse condizioni.
SECONDA PARTE
Causticchio, affranto dal dolore per la mia disgrazia, mi ospitò in un suo garage dove fui trattato con
tutti i riguardi che si devono ad un ospite.
La prima notte vennero sia Fiammetta sia Lucilla, per avere un rapporto sessuale con me. Tra loro
nacque subito una discussione, la cameriera, occasione unica, voleva vedere la differenza che poteva
esserci tra un essere umano e lo stesso trasformato in somaro, la seconda desiderava sfruttare l’amplesso
per la sua trasmissione sugli animali dicendo che, in questi documentari, il pubblico apprezzava
soprattutto due cose: la vista di un animale che, con ferocia, ne sbrana un altro (magari anche due o tre)
ed i rapporti sessuali. Fiammetta, avendo compreso le ragioni della padrona, ci riprese con una
telecamera.
Dissi a Lucilla che l’avrei soddisfatta solo se dopo il rapporto m’avesse tolto dal mio stato.
“Caro Apuleio la trasformazione che hai subito è dovuta alla maledizione di Panfila la quale ha
guidato la tua vita verso questa terribile metamorfosi.”
“A maggior ragione tu puoi salvarmi,” volli insistere.
“Non posso: Panfila è enormemente più potente di me e penso che solo lei potrebbe riportarti allo
stato iniziale. Per fortuna è molto vecchia e la tua unica speranza sta nella sua morte: solo in tal caso
avrei il potere di salvarti”
Io, inoltre, ero molto preoccupato per questo rapporto sessuale: avevo un cuore da uomo, ma un
fisico da asino e temevo, date le mie dimensioni, di combinare un pasticcio rompendo tutto. Per fortuna
la cosa andò bene, perché Lucilla si aprì come un fiore di petunia al sorgere del sole
Che spettacolo nuovo per il pubblico della televisione! Neppure i vecchi barbogi sarebbe stati in
grado di protestare, perché, anche se si trattava del ripugnante rapporto tra una donna ed un animale, in
effetti, chi avrebbe potuto mettere in dubbio che quell’animale era anche un uomo?
Naturalmente sarebbero intervenuti scienziati, moralisti e teologi, a discutere di questo nuovo
scandalo, ma poi tutto avrebbe avuto la solita sorte: finire nel dimenticatoio, ma sarebbe rimasto il
colpo giornalistico che forse avrebbe generato un nuovo tipo di spettacolo televisivo, da mandare nelle
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ore d’ascolto dei bambini. Il risultato di quell’accoppiamento (così ritenni allora) fu sconvolgente per
Lucilla che s’innamorò di me in modo folle. Da parte mia, ero ridotto in tal modo che per me sarebbe
stato del tutto indifferente unirmi con una donna o con un’asina; mi si era aperta una nuova interessante
prospettiva.
Venne poi il problema della mia educazione, perché, come asino, dovevo ottemperare all’obbligo
scolastico.
Bisogna sapere che in Utopa, ed in modo particolare a Filona, vanno tutti pazzi per le corse dei
cavalli. In questo campo hanno una vecchia tradizione di secoli, che dirò, di millenni, nei quali hanno
fornito alla civiltà dei veri campioni, invidiati da tutto il mondo.
Questi animali erano degli eccelsi quadrupedi che nelle corse anticipavano, con disinvoltura, tutti gli
altri, vincendo ovunque e tenendo alto, in ogni angolo della terra, il nome della loro patria. Ma anche
ad Utopa il tempo passava inesorabile e ben presto passarono i secoli e, col passare dei secoli e col
progresso, si andarono modificando le idee, sino a quando nacquero le ideologie. Allora vi fu un bello
spirito, privo di qualunque capacità di discernimento, che affermò solennemente:
“Tutti gli equini nascono uguali, è la società che, crudelmente, li rende diversi”.
Tale idea, altamente sociale, ebbe un grande successo ed un governo di sinistra decise quindi che
anche gli asini dovevano diventare cavalli da corsa e li spinse ad abbandonare il loro stato naturale per
frequentare le scuole sino al più alto livello. Allora il ministro della cultura in preda ai fumi nocivi
dell’ideologia,
Con giuochi di prestigio molto rari
Fé diventar cavalli anche i somari.
Questi poveri animali facevano pena essendo costretti a faticare ininterrottamente; i professori,
infatti, avendo a che fare con degli asini, non riuscivano a completare i programmi, e, quindi, li
caricavano di compiti per le vacanze estive durante le quali dovevano lavorare come somari (che poi non
eran altro).
Purtroppo queste bestie zuccone non riuscivano mai a salire oltre il livello dei muli: erano troppo
presuntuose per ritornare asini e troppo testone per fare i cavalli. I muli, inoltre, convinti, d’essere
riusciti a finire le scuole per loro merito e non per i calci ricevuti nel sedere, alimentavano la
presunzione con l’ignoranza; sciocchi com’erano, andavano in giro offendendo saggi ed anziani cavalli
Poiché nulla valevano e nulla sapevano, restando inutilizzati, si riunivano in centri triviali e
giravano per le strade incendiando automobili e distruggendo vetrine a colpi di zoccolo, mentre
affermavano, urlando, il loro diritto alle corse.
Purtroppo, causa l’inefficienza della scuola la quale doveva adattarsi ai somari, succedeva che anche i
cavalli regredissero allo stato di muli. Figuratevi che spettacolo negli ippodromi!
Tutto questo, inoltre, aveva creato il problema della mancanza d’asini per il lavoro e, quindi,
bisognava importarli da fuori e, andando avanti di questo passo, si sarebbero dovuti importare anche i
cavalli da corsa.
Tornando a me, io fuggii subito da quella scuola, che mi avrebbe trasformato in mulo, diventando,
così, l’unico asino nostrano della nazione.
“Vuoi dunque rimanere somaro come Apuleio?” avrebbero detto, più tardi, gli asini ai figli svogliati
ed il mio esempio sarebbe servito a stimolarli. Fu così che, nonostante le mie cognizioni di uomo, fui
considerato l’unico somaro di Utopa perché tale, come ho detto, avevo voluto restare.
‘‘‘
Condiscendendo alle preghiere della moglie, che diceva di provare una gran pena per la mia
situazione particolare, l’amico Causticchio fece costruire, vicino alla villa, una magnifica stalla con
poste e pavimenti di marmo. Lì andai ad abitare, spostandomi da una posta all’altra ed usandole a mo’
di camere: una come sala da pranzo, una come bagno e così via. Tutte le notti Lucilla veniva nella mia
posta da letto e li ci congiungevamo in adulterini amori. Mi sembrava, come ho detto, che la donna
avesse una vera passione per me così come anch’io, che avevo aspetto di somaro ma gusti da uomo,
l’avevo per lei.
La mattina veniva Fiammetta a portarmi cibo, da uomini naturalmente, ché, nonostante il mio
aspetto, avevo trovato difficile abituare il palato al gusto dei somari. Fatta una buona ed abbondante
colazione, privo come sempre di qualunque finimento, uscivo nel grande parco che si estendeva dietro la
villa: un prato ricco di ombre e solcato da un piccolo ruscello che andava a formare un grazioso laghetto
col suo bel ponticello romantico. Il tutto era recintato da una bassa siepe di bosso, oltre la quale si
vedeva un bosco piacevolmente curato. Io gironzolavo qua e là, brucando, qualche volta, più per
curiosità che per fame, mentuccia, basilico ed altre erbe aromatiche. Quando ero stanco di trotterellare,
amavo sdraiarmi in riva al laghetto ad osservare la vita interessante che vi si svolgeva: dalle rane alle
falene.
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Poiché come asino avevo il privilegio di comprendere anche la lingua degli animali, mi ero abituato
a scambiare qualche idea con Saltinpozza, un vecchio ranocchio bigotto, membro del parlamento
ranocchide. Era un po’ noioso, perché sapeva solo criticare, ma, in compenso, bestiola di spirito, mi
narrava, con arguzia, di quanto avveniva nel suo liquido mondo. E vi dirò che ben presto si era formata
tra noi una salda amicizia. Giunta l’ora, rientravo per i pasti e la sera attendevo Lucilla con ansia umana
e foia asinina (roba da matti, vi dico).
Naturalmente mi mancavano molte cose che le consuetudini della vita ci rendono indispensabili, ma
soprattutto sentivo, con dolore, l’impossibilità di leggere, perché lo zoccolo m’impediva di sfogliare i
libri.
Non potendo più nemmeno svagarmi in quel modo, avevo pregato Fiammetta di venirmi a leggere
qualche pagina, soprattutto le poesie che mi hanno sempre affascinato. Tra l’altro, la ragazza aveva una
voce dolce e suadente ed il suo recitativo era d’ottima qualità. Ma ‘galeotto fu il libro e chi lo scrisse’ e
ben presto facemmo la sciocchezza di abbandonarci all’amore. Guai per noi: quando Lucilla ci sorprese,
tramutò Fiammetta in una ranocchia e mi bastonò crudelmente.
Senza la cameriera, la mia vita divenne più triste. Non che Lucilla m’avesse abbandonato;
continuava ad unirsi con me, spinta dalla sua foia animalesca, ma i nostri rapporti erano peggiorati,
spesso mi bastonava e se non l’avesse trattenuta il timore di vedermi indebolire e divenire tale da non
soddisfarla più, penso che mi avrebbe fatto patire anche la fame e la sete.
Di giorno, come ho detto, trascorrevo il mio tempo fuori della stalla, approfittando del clima mite e,
in riva al lago, trovavo spesso Saltinpozza e Fiammetta con i quali passavo il tempo chiacchierando.
Una volta mi venne fatto di compiangere la povera ragazza che la strega aveva trasformato in rana per
gelosia, ma, arrossendo dalla rabbia, per quel tanto che può arrossire un ranocchio verde, Saltinpozza mi
fece osservare che non era il caso di coprirsi il capo di cenere per la disgrazia di Fiammetta.
“In fin dei conti, si tratta soltanto di una serva; cosa dovrei dire io, allora, che ero un
metalmeccanico!”
“Come mai ti sei trasformato in ranocchio!”
“Non lo so, hanno fatto tutto i sindacati.”
E se ne andò seccato.
Un’altra volta li avevo trovati che disputavano animatamente (essendo lui, come ho detto, un
vecchio ranocchio bigotto e lei una giovane rana femminista) e naturalmente mi ero unito alle loro
discussioni. Ricco delle esperienze fatte nel mio paese dove, sulle battaglie femminili, avevo sentito
un’infinità d’inutili discorsi, specie da parte di vecchi rincitrullititi come Saltinpozza, mi ero schierato
con Fiammetta, sapendo come il femminismo aveva rinsaldato l’unità familiare e creato una società più
morale, tranquilla e sicura nell’esaltazione dei più alti valori. Anche in quella occasione il vecchio
ranocchio, forse un po’ permaloso, si era seccato moltissimo ed era rimasto qualche giorno senza
rivolgermi la parola.
Nonostante questi sporadici battibecchi, però, la vita sarebbe trascorsa, di nuovo, stupida e
felicemente serena, se Lucilla, colpita da un rinascente guizzo d’amore per me, non avesse fatto le bizze
col marito.
Non si poteva lasciarmi sempre solo: ora che Fiammetta era scomparsa bisognava trovare qualcuno
che mi accudisse. I continui rimbrotti della moglie proseguirono tenaci e noiosi sino a quando il marito
si decise ad assumere uno stalliere. Era un biondastro sciocco ed analfabeta, ma erculeo e vigoroso e la
mia amante, che intendeva l’amore solo come passione fisica, se ne invaghì rapidamente e, abbandonato
me ed il marito, andò a convivere con lui nella attesa del divorzio. La cosa non suscitò nessuno
scalpore, perché in Utopa simili casi erano molto frequenti: le donne si sposavano con un uomo ricco e
poi l’abbandonavano per il primo spiantato che si ritrovavano tra i piedi. Si diceva:
“E’ mai possibile che nessuna moglie di un povero scappi con un ricco? Si tratta davvero di una
grossa ingiustizia sociale nei riguardi di questi ultimi che, oltre a sopportare il peso del denaro, devono
sopportare anche quello dell’abbandono.”
Fatto sta che il povero marito, per consolarsi, iniziò una relazione con una sua serva bruttarella e non
essendoci più né Fiammetta, né Lucilla, né lo stalliere, io mi trovai in balia di me stesso, costretto a
nutrirmi dell’erbaccia nel parco.
L’unico passatempo, oltre il discorrere la notte con Fiammetta e l’amico ranocchio, divenne quello
di ascoltare i discorsi degli animali e spesso mi accadde di conoscere cose interessanti e voglio narrarvi
di uno strano caso che mi portò a riflettere.
Tutte le mattine, dopo una misera colazione, fatta brucando qualche ciuffo d’erba, mi sdraiavo
all’ombra d’una fronzuta quercia; ogni giorno vedevo passare un'oca (colta, così diceva lei) che, dopo
avere ben bene lisciate le piume bianche, faceva la sua passeggiata salutare respirando l’aria fresca e
balsamica, nel verde. Procedeva sempre tronfia ed impettita, perché sosteneva di essere una discendente
di quelle progenitrici che, nei tempi andati, avevano salvato il Campidoglio. Quel giorno stava
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passando con un’ochetta sua nipote, venuta a farle visita. Mentre lei avanzava ondeggiante, come un
vecchio bastimento a vapore del Mississippi, la piccola aveva posato gli occhi su di una beffarda
maschera da commedia dell'arte, mezza nascosta in un cespuglio, tanto che nessuno l’aveva mai notata.
Agli urletti stupiti della nipotina, la vecchia si era ricordata di una breve favola che le avevano
raccontato tempo addietro (quando le scuole per oche erano molto più serie), nella quale era successo un
fatto analogo ad un’astuta volpe:
"Una testa magnifica, ma senza cervello!"
Aveva sentenziato, per fare sfoggio di saggezza, usando le stesse parole pronunciate dall'arguto
animale della favola, ma, proprio in quel momento, era sgusciata fuori da un occhio della maschera
un'anziana formica:
"Cara la mia oca, quello che tu dici è vero, ma questa maschera ha il buon senso di tacere, mentre vi
sono in tanti, senza cervello come lei, che, mettendosi in bocca i pensieri degli altri, vanno facendo quaqua tutto il giorno."
Non so se il fatto potesse avere un particolare significato, forse riferito, oltre che all’oca, anche ai
politici, ai critici od ai filosofi, ma tutto questo non m’interessa, infatti, mi sono prefisso di raccontare
il fatto, non di fare della filosofia da “Bar del Commercio.”
Alla sera ne parlai col ranocchio e ed egli osservò che difficilmente si poteva stabilire a chi si fosse
riferita la formica, il campo era molto vasto ed esemplificò nominando psicologi e pedagoghi. A quel
punto, poi, pensammo bene di passare ad altro.
Col tempo, però, mi stancai di quella vita meschina: mangiare sempre l’erba e bere l’acqua melmosa
del laghetto, avere come unico amico un ranocchio, ascoltare quotidianamente le chiacchiere di merli
idioti o di grilli presuntuosi; Fiammetta, poi, sempre più gracidante, era divenuta insopportabile con un
modo di fare grintoso ed aggressivo, quasi illusa d’essere divenuta intelligente. Il dolore di vederla così
trasformata ed il ricordo delle sue tenerezze, delle passate effusioni, delle letture spesso scollacciate ed
invitanti, erano causa, per me, di una tristezza invincibile.
Ero giunto a credere che la vita per l’uomo (scusate, per il somaro) avesse solo il significato di
perpetuare se stessa.
Ad un certo punto pensai addirittura al suicidio, ma come avrei potuto realizzarlo? Impossibile
uccidersi senza le mani e, per annegarsi, il laghetto era poco profondo. Una volta provai persino a
prendere la rincorsa ed avventarmi, con rabbia, contro il tronco di una quercia; duro era il tronco, ma
ancor più duro il mio cranio. Che mal di testa per quell’inutile tentativo, unica consolazione, la sera, le
sagge ragioni di Saltinpozza:
“Amico mio, la vita è come un guanto, bisogna infilarsi dentro tranquilli avendo coscienza che un
dito di stoffa può sempre assottigliarsi in qualche punto, ma, finche è possibile, conviene fare un
rammendo e tirare avanti. Il mal di testa passa sempre e la vita continua.”
Allora m’irritò il suo ragionare, ma ora, maturo ed anziano, riconosco la saggezza di quelle parole.
Come rimpiango le lunghe, elevata? discussioni che noi chiamavamo ‘Dei massimi sistemi’!
Naturalmente il bernoccolo se n’andò, ma non la disperazione dovuta all’inedia d’una vita sciocca e
sempre uguale. In preda ai più foschi pensieri, presi il coraggio che serviva per affrontare l’ignoto,
saltando la siepe che mi separava da ‘L’infinito’ misterioso e m’eclissai, insalutato ospite, in cerca di
maggior fortuna.
‘‘‘
Di là dalla siepe v’erano ancora i resti del basamento in mattoni a vista il quale aveva retto, un
tempo, la robusta cancellata e, poi, il bosco che si estendeva a perdita d’occhio, folto d’alberi e ricco di
verdi radure. In una di queste, resa più grande abbattendo le piante, si poteva vedere un enorme palazzo;
dico palazzo per le dimensioni, ma in realtà si trattava di un enorme casamento mal tenuto: il
manicomio.
Saltare la siepe, per me, fu oltremodo facile, e, dopo aver guardato attorno con fare circospetto, mi
avviai verso l’edificio. Davanti all’ingresso, seduto su di una vecchia poltrona sfonda, vidi un signore; a
prima vista, pensai che fosse il guardiano del manicomio, anche se il vestito bizzarro, formato di
losanghe multicolori, faceva pensare a tutt’altro.
Naturalmente io, vedendolo, mi fermai timoroso, quasi in un tentativo di fuga, ma egli mi fece un
gesto invitante con la mano ed allora, preso coraggio, m’avvicinai proferendo un cortese saluto. Pensavo
che si sarebbe stupito a vedere un somaro parlare, ma egli, oh maraviglia, non si scompose; poi, in un
veneziano dolce ed armonioso, ma leggermente largo per essere compreso:
“Accovacciati dunque - disse, - se vuoi fare due chiacchiere in amicizia. – Poi dopo un attimo, innanzi tutto dimmi chi sei.”
Dopo essermi presentato, gli parlai della mia disgrazia: divenire somaro da uomo qual ero. Quando
ebbi finito di raccontare succintamente le mie traversie, egli, senza nessun commento o commiserazione,
come se ritenesse quegli sfortunati accidenti un fatto d’ordinaria amministrazione, si presentò dicendo
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d’essere Arlecchino, l’unico, vero, autentico Arlechin Batocio da Bergamo; poi mi mise in guardia dalle
imitazioni, perché, in Utopa, v’erano molte persone, scrittori, artisti, politici e soprattutto giornalisti
che si vestivano dei suoi panni.
“Infatti, ne ho visti tanti; pensavo che il carnevale, qui ad Utopa, durasse molto a lungo.”
Allora, sorridendo, mi spiegò che non dipendeva dal carnevale, ma dalla natura dei cittadini: si
trattava solamente di arlecchini per convenienza o per interesse, ma non avevano né l’acume, né la
salacità, né la sua bella parlata veneziana. Tutto il loro sale in zucca s’esauriva nel vestito e, in genere,
mostravano il massimo del sapere intercalando, nell’eloquio scorretto, qualche parola in inglese, spesso
errata nel significato (il caso di handicappato per disabile era il più buffo) e magari, i più colti, usando
la pronuncia inglese anche per il latino ed il greco.
Mi diceva cose che ben sapevo, avendo passato tanto tempo davanti al televisore, ma poi, venuti più
in confidenza, io gli riassunsi, in dettaglio, di Socrate, di Panfila, di Lucilla e di tutte le strane cose che
m’erano accadute dopo il mio arrivo ad Utopa. Poi fu lui a parlare e mi affermò che la mia
trasformazione dipendeva sicuramente dalla maledizione della strega, la quale aveva utilizzato il perfido
mezzo televisivo per i suoi scopi immondi.
Naturalmente, anch’io ero curioso di sapere qualcosa delle sue disgrazie e, avendogli chiesto di
raccontarmele, non si fece pregare.
Iniziò col dire che quella specie di enorme casermone era un manicomio divenuto inutile quando il
parlamento di Utopa, da un giorno all’altro, aveva abolito la pazzia con una legge. Chiesi allora ad
Arlecchino per quale grave motivo il governo avesse deciso di riaprire quell’edificio divenuto inutile
Mi spiegò che erano intervenuti i sindacati con uno sciopero generale, perché i politici avevano
deciso senza tener conto dell’enorme numero d’infermieri che avrebbero perso il posto. Essendo Utopa
la democrazia del luogo comune ideologico, si era deciso, a malicuore, che, purtroppo, la malattia
esisteva ancora ed era rappresentata dallo sparuto gruppo degli anticonformisti.
“Faccio alcuni esempi – aveva proseguito Arlecchino – vi era un tizio il quale sosteneva che dopo i
cento anni gli esseri umani divenivano vecchi, un altro, addirittura, chiamava concubini i conviventi;
pensa che quest’ultimi si era giustificato dicendo d’avere convissuto a lungo con sua madre sesa andarci
a letto.”
Bisognava, quindi, dare la caccia a questo nuovo genere di pazzi che, però, erano in numero
inferriore a quello degli ospedali psichiatrici: qualcuno bisognava abatterlo.
“Gli operai, addetti alla demolizione, avevano già iniziato i lavori per questo manicomio, quando io
affermai, pubblicamente, d’essere matto; di conseguenza, con decreto legge, s'interruppero i lavori
nell’attesa di appurare la veridicità della mia auto accusa.
Ti rendi conto che colpo giornalistico clamoroso! Un tipo come me, un servo ossequiente, quale ero
io, osava prendere l’iniziativa anticonformista di dichiararsi pazzo. Le mie interviste andavano a ruba;
stampa e televisione iniziarono subito ad accusarmi di neo nazismo, perché, dicevano, volevo oppormi
alla civilissima legge sull’abolizione della pazzia per avere qualche mentecatto da sterilizzare o, peggio
ancora, da uccidere. Per fortuna, alcuni moderati sostennero che ero solo un miserabile sovversivo.”
Allora lo interruppi stupito.
“Credevo che i sovversivi vi fossero solamente sotto le dittature. In democrazia ognuno dovrebbe
poter esprimere liberamente il suo pensiero.”
Arlecchino sorrise.
“Tu credi? Qui, appena apri la bocca, scatta un processo per diffamazione; figurati, vi è gente che
vive di queste cose. Poi, come ti ho detto, bisogna che tu ti mantenga nell’ambito dei luoghi comuni
vigenti. Prova a sostenere, qui in Utopa, la pena di morte! Eppure se uno s’è preso dieci ergastoli può
tranquillamente continuare ad uccidere: mal che vada, si prenderà l’undicesimo.”
“Sovversivo!”
Sorrise di nuovo, compiaciuto questa volta.
“Per fortuna, in questo caso, i più moderati sostennero che avevo un minimo di diritto ad esprimere
le mie ragioni. Detto fatto, mi fecero comparire in una di quelle trasmissioni televisive così simpatiche,
dove un presentatore porta avanti il programma sin da quando era in fasce e sempre con grande successo.
Per venire incontro all’ansia degli spettatori affermai subito che mi consideravo pazzo perché sostenevo
la centralità della terra nell’universo.”
Gli feci osservare che mi sembrava una tesi superata da secoli e, avendo percepito il clima che si
respirava in quel libero paese, piuttosto pericolosa. Infatti, era stata la goccia che aveva fatto traboccare
il vaso ed i più saggi andavano dicendo che, di fronte ad un reato così mostruoso, si sarebbe dovuta
ripristinare, per lui, la pena di morte ed eseguirla senza processo. Era un grave strappo alla regola, ma
quando ci vuole, ci vuole.
Il caso era talmente clamoroso da interessare la Corte Suprema e quest’ultima aveva decretato il
diritto di Arlecchino alla difesa in base alla ‘par condicio’ (‘come dicono gli inglesi' avevano
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commentato concordi i giornali) che, a proposito o a sproposito, in Utopa saltava sempre fuori. Allora
era stato trascinato in tribunale per un processo memorabile ed aveva dimostrato facilmente, come due e
due fanno quattro (cosi, almeno, diceva lui) che la sua tesi era esatta.
“Iniziai la mia difesa sostenendo che il nostro è l’unico pianeta sul quale esiste una vita intelligente
superiore, suffragando la mia asserzione col fatto che non vi sono due impronte digitali, ma che dico,
due granelli di sabbia, e sono miliardi e miliardi, uguali tra loro; figurarsi due pianeti.”
Obiettai che ne potrebbero esistere due talmente simili da giustificare l’ipotesi contraria.
“Proprio un ragionamento da somaro, caro Apuleio, è sufficiente una minima differenza all’inizio.
Se tu volessi costruire un’alta torre, basterebbe inclinarla di un nonnulla alla base, perché, crescendo,
crollasse rapidamente; modifica di un nonnulla, all’origine, la forza che ha sollevato le montagne e non
potrebbe servirtene nemmeno per un montacarichi. Tra l’altro, se non vi fosse stato quel meteorite che
distrusse i sauri, l’uomo non sarebbe mai comparso sulla faccia della terra. E ti pare un particolare da
poco?”
Poi aveva fatto osservare, con acume, che il centro dell’uomo non sta nell’ombelico, ma nel cervello
e che la terra è il cervello dell’universo. A questo punto si doveva rivedere tutto su l’esistenza di Dio,
tanto più che l’universo sarebbe stata l’unica cosa materiale che si era fatta da sola.
“Che spettacolo ragazzi, nonostante l’abolizione della pazzia, urlavano tutti come matti, con un
Rancidino in testa che squittiva come un topo da fogna. Figurati, fui dichiarato eretico dai laici. Roba
da rischiare il rogo!”
A questo punto si fermò un attimo, non so se per riprendere fiato o per lasciare tempo al mio
divertimento; ma io, più che altro, ero stupito: infatti, quando pensiamo ad Arlecchino, ce lo
rappresentiamo come un essere stravagante, sì, ma lavativo, rozzo e petulante, più furbastro che altro e
mi ero meravigliato a sentirlo sostenere, con tanto acume e tanta logica, delle tesi bizzarre. Più tardi
glielo feci osservare ed egli mi rispose che quel mostrarsi così, come lo si conosce, gli serviva per
difendersi dalla stupidità del suo prossimo.
Ma Arlecchino tacque giusto il tempo d’un pensiero, poi riprese a narrare:
“Per fortuna, il giudice era un vecchio barbogio, bigotto e reazionario che, per favorirmi, a processo
quasi terminato, aveva ammesso un nuovo testimone a difesa. Si trattava di una vecchietta, mia vicina
di casa la quale sapeva di me vita, morte e miracoli; sosteneva che io ero una persona così onesta, da
essere l’unico utopico a pagare le tasse, in base al mio reddito, sino all’ultimo centesimo.
A questo punto si formarono due correnti di pensiero: da parte di alcuni giornali si sosteneva che,
essendo onesto, avevo ragione a definirmi pazzo, da parte di altri, invece, che ero evidentemente il più
gran cretino del paese. Per fortuna, il giudice, che simpatizzava per me, aveva sposato la prima tesi: fui
assolto dal reato d’essere un sovversivo, perché incapace di intendere e di volere.”
Era stato inviato in quell’ospedale psichiatrico quale unico pazzo ed aveva salvato il posto ai
numerosi infermiere, ai cento medici ed ai novecentosettantaquattro primari che lavoravano in questo
manicomio. La legge, in tal senso, era precisa, esisteva un rapporto fisso tra il numero delle camere e
quello del personale, indipendente dalla quantità dei pazienti.
Per meglio utilizzare lo spazio, il primo piano era stato riservato alla casa di cura, il pianterreno,
invece, grazie una intelligente ristrutturazione, l’avevano trasformato in un museo del progresso. A tale
scopo si era assunto altro personale, perché, la nuova funzione del complesso non rientrava nella
competenza dei sanitari. Nasconditi!"
Saltai rapidamente dietro un cespuglio di notevoli proporzioni, appena in tempo per non farmi
vedere da una infermiera che stava portando enorme pranzo ad Arlecchino..
Era una donna d’aspetto orribile e goffa nel muoversi; non appena se ne fu andata, dopo essere
riemerso con un balzo, chiesi spiegazione al mio amico.
“Innanzi tutto scusami se ti ho fatto nascondere, ma, per il momento, è meglio che non ti vedano. In
quanto all’infermiera, è brutta e stupida; tutti ne approfittano per farle fare i mestieri più umili.
Poverina, si tratta del frutto di un’operazione medica idiota”
“Che operazione? ”
Chiesi io che pensavo ad interventi di chirurgia estetica; ne avevo viste più d’una, dopo qualche
esperienza del genere, finire così!
“Ma cosa ti viene in mente! Si tratta di fecondazione artificiale eterologa.”
Lo guardai stupito.
‘Doveva essere ben brutta la madre; ed anche idiota: farsi fecondare dallo sperma di un uomo
scifoso!”
Arlecchino, scuotendo la testa, si mise a ridere.
“La madre era bellissima e lo sperma quello di un premio Nobel per la fisica.”
“Donna bella e toro selezionato! – esclamai. - Non prendermi in giro.”
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“La madre della signora ingravidata era un esemplare superbo, ma sciocco; la madre dello scienziata
intelligentissima, ma molto brutta. Scherzi dei geni: ha preso il peggio dalle nonne.”
Ci faceva pena, povera donna, ma non potemmo fare a meno di metterci a ridere pensando che,
questa volta, un intervento laico aveva giocato un vero scherzo da prete.
Così, trovato in Arlecchino un compagno simpatico, saggio ed arguto, decisi di fermarmi con lui
per qualche tempo.
‘‘‘
In quel parco, insieme al mio amico, v’erano anche due animali, Lupo Ferino e Volpe Modesta, che
preferivano stare nascosti; io li avevo visti sempre di sfuggita a tal punto da non riuscire mai ad
avvicinarli, perché anche la mia sola presenza sembrava che li spaventasse. Mi erano parsi molto tristi e,
tra l’altro, con stupore, li avevo osservati, ogni tanto, mangiare dell’erbetta fresca. Naturalmente la cosa
mi era sembrata bizzarra, trattandosi di due animali carnivori, ed incuriosito, per saperne di più, venuto
ormai in confidenza, mi ero rivolto ad Arlecchino chiedendo di parlarmene.
“Vedi come sono ridotti, si allenano con timore, perché paventano tempi peggiori. Qui se la passano
bene, perché, come ai visto, mi vengono serviti dei pasti che potrebbero servire per dieci persone: roba
dello stato, capisci, Ora li trovi in queste miserabili condizioni: nascosti e mantenuti, vigliacchi e
spaventati, ma un tempo vivevano in modo del tutto normale, quale si conviene a rispettabili animali
selvatici.”
“Come mai sono caduti in questo stato avvilente?”
Arlecchino, allora, ebbe un riso compassionevole, poi iniziò a spiegare:
“Il lupo, ai suoi tempi d’oro, ricopriva un ruolo importante nell’organizzazione sociale. Figurati: era
riuscito ad organizzare un sindacato di pecore.”
“Davvero incredibile.”
“Quando firmò questo patto col capo del gregge, viveva in una tana miserabile, tanto da suscitare
qualche dubbio nell’ovino. Dopo qualche tempo, però, poiché gli iscritti al sindacato tendevano a
diminuire, il capo del gregge, fatta la conta delle pecore, lo andò a trovare.
Oh sorpresa! La tana di Ferino era divenuta un palazzo e lo spelacchiato animale aveva ammucchiato
un folto e lucido pelo da lupo ben pasciuto
Vedendo lo stupore del povero agnello:
‘Grullo, - gli aveva detto – credi, dunque, che io non soffra a mangiar tante pecore? Pensa ai bruciori
di stomaco ed alla cattiva digestione. Ma questo è il solo modo di tener alto il decoro per poterti
rappresentare con dignità.’
Vedi, - concluse, saggiamente, Arlecchino – vi è un’intelligenza scolastica ed una di vita. La prima
serve solo a dare spettacolo per gli sciocchi, la seconda ad aprirti la strada del successo e Lupo Ferino
non era mai stato il primo della classe.”
“Come mai, ora è caduto così in basso?”
“Colpa della legge sul carattere sociale dei lupi. Il capo del governo ha convinto i deputati che a
calunniare i lupi erano stati, sin dai secoli dei secoli, uomini malvagi i quali volevano avere una scusa
plausibile per utilizzarne la pelliccia (Esopo per primo, che ne aveva una decina nel suo guardaroba).
“Tu vuoi dire che un intero Parlamento se l’è bevuta?”
“Il primo ministro aveva l’appoggio dell’ideologia e l’ideologia è uno degli aspetti più consistenti
della stupidità umana; così fu approvata la legge sul carattere sociale dei lupi”
Allora Arlecchino mi chiese se conoscessi la favola di Cappuccetto Rosso, come si raccontava ai
bambini di Utopa.
“Tu pensi che alla mia età mi preoccupi di cose del genere? Forse quando sarò nonno, se mai lo
sarò.”
Ma egli non fece caso alla mia osservazione e, dopo avermi zittito con un gesto imperioso della
mano, iniziò col dire che vi era una volta una bambina chiamata Lucia, ma soprannominata Cappuccetto
Giallognolo.
"Ma non portava il cappuccetto rosso?" Chiesi, interrompendo.
“Quella era un'altra bambina, ma tu taci ed ascolta.”
Poi dopo aver ripreso fiato ed ormai convinto di non essere più interrotto, continuò narrando:
“Senz’altro, conosci la famosa storiella del cestello pieno di cibo e del brutto incontro, nel bosco,
col lupo cattivo che corre avanti a mangiare la vecchia. Quando Cappuccetto Giallognolo giunge alla
casa di nonna Camilla, sente degli strani rumori: ululati e grida. Allora, corre da un cacciatore che
stranamente (vedi caso) si trova lì vicino ed insieme sfondano la porta ed entrano nella casa. Una cupa
scena li attende: la nonna Camilla sta spolpando l’ultimo osso del lupo ed allora il cacciatore la uccide e
poi le taglia la pancia. Oh divino miracolo! Di lì salta fuori vivo e vegeto l’animale (senza quell'ultimo
osso che la nonna stava ancora spolpando), che, data una clamorosa leccata in faccia al cacciatore, fugge,
felice, nel bosco.”
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Gli feci osservare che quella favoletta mi sembrava cretina.
“É la versione attuale per i bambini. ”
“Povere nonne, però, accusate di mangiare i lupi e messe così in cattiva luce presso i nipoti!”
“Male passeggero: oggi le nonne rappresentano una razza in via d’estinzione perché di nipoti ne
nascono sempre meno. ”
Io ero incuriosito per la presenza del lupo in quel bosco e chiesi spiegazione ad Arlecchino.
In seguito alla legge sul carattere sociale dei lupi, un brutto giorno, alcuni uomini avevano
addormentato Ferino colpendolo con una freccia drogata, poi l’avevano rinchiuso in una grossa gabbia.
Da lì, ben nutrito e munito di un orribile collare per il controllo a distanza, l’avevano liberato in un
bosco a lui sconosciuto.
Molti e molti secoli prima, vi era stato un battibecco tra un suo antenato ed un cane per la questione
di un collare. Quel lupo, libero e felice, era magro per il lungo digiuno ed al cane ben pasciuto, il quale
lo derideva, aveva risposto con orgoglio che era meglio essere affamati ma liberi. Ora a Furino, con un
collare anche lui, era successo d’incontrare un maledetto cane a conoscenza di quella vecchia storia.
Allora, pieno di vergogna, era fuggito in quel bosco, ma gli è rimasto il complesso del cane, roba da
Freud e con i complessi non si scherza.
Arlecchino aveva cercato di consolarlo spiegandogli che si erano comportati così per il suo bene; allora
il muso di lupo Ferino si era arrossato dalla rabbia:
“Sin dalla più tenera età ho mangiato della carne resa puzzolente dai foraggi, ho bevuto l’acqua
inquinata dei ruscelli ed ora pensano di potermi trasformare in un agnello. Io non voglio diventare una
pecora vigliacca, io voglio continuare a mangiare morbidi bambini e nonne dure e schifosette. Ho una
mia dignità: piuttosto che diventare un agnello da mostra preferisco estinguermi.”
Mostrai molta comprensione nei riguardi del povero lupo e chiesi al mio nuovo amico quali fossero
i timori di Volpe Modesta.
Mi raccontò che ora stavano approvando una legge sul carattere sociale di questi animali e lei temeva
di fare la fine del lupo, ”
“Naturalmente avranno abolito la caccia alla volpe!”
“Certo. – Disse sorridendo. – Ora è di moda la caccia dei sanitari. Ogni fine settimana, medici,
infermieri e crocerossine, con i loro lindi camici bianchi, di mattina presto, si radunano per la battuta ai
fumatori. I cani sono educati a percepire l’odore del fumo.”
Lo guardai stupito.
“Del fumo?”
“Certamente, di qualunque tipo di tabacco: di sigaretta, di pipa e di sigaro; la sera, chi ha uccisi di
più fa bella mostra dei loro scalpi nei vari circoli.”
Sinceramente ero allibito.
“E’ criminale!”
“Adesso, però, si è creata una gran confusione, perché le volpi si sono messe a fumare la pipa ed i
fumatori a rubare le galline, inoltre, questi ultimi sono in via di estinzione e un reazionario ha tentato di
presentare una proposta di legge per aprire la caccia ai non fumatori.”
Naturalmente fui molto interessato dalle disgrazie del lupo e della volpe, due infelici animali, ma
non nascosi la mia meraviglia per il fatto che Arlecchino ne fosse a conoscenza e gli chiesi in che modo
potesse comprendere il loro linguaggio.
“Gli animali hanno abbastanza umiltà per capire gli uomini, questi, invece, sono troppo superbi per
comprendere gli animali.”
“Ma tu?”
“Io non sono un uomo, ma una maschera; nella mia umiltà li posso capire perfettamente, così come
li comprendi tu, ridotto all’umile stato di somaro.”
‘‘‘
Mi fermai ancora in quel parco qualche giorno; la compagnia era simpatica ed il vitto straripante:
dove portano il cibo per mille e una persona si mangia tranquillamente anche i mille e due (e diciamo
che anche lupo e volpe avevano di che arrangiarsi).
Il posto era magnifico: ricco di verde, d’ogni tipo di piante, dalle querce, ai faggi, ai castani e chi
più né ha più né metta; adorno di ruscelli con dolci cascatelle, laghi ricolmi di pesci e stagni romantici,
con canne variopinte. V’erano, inoltre, vaste radure verdi a volte trasformate in giardini, altre in frutteti.
Diciamo la verità, quel manicomio pareva essere il giardino dell’Eden; e ben infelici dovevano essere gli
ex matti che ora erano costretti a divertire i famigliari (e come si divertivano!) con le loro ex follie.
Tornando alle mie vicissitudini, voi sapete com’è, per quanto la fortuna lo secondi, l’uomo è sempre
scontento ed inquieto e viene il momento nel quale lo prende la smania di muoversi ed allora parte in
cerca delle fonti del Nilo. La stessa cosa deve essere successa a Cristoforo Colombo.
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Una sera, mentre eravamo sdraiati sull’erba fresca insieme al lupo e la volpe, che ormai si erano
abituati alla mia presenza, dissi che desideravo andarmene, naturalmente non dopo aver visitato il
museo del progresso, per poi tornare a Filona, dalla parte opposta della città; il più lontano possibile
dalla villa di Causticchio, perché, anche il solo vederla, mi avrebbe arrecato un gran dolore. Se fossimo
andati dalla parte opposta, invece, là dove continuava il grande bosco, considerato un’area ecologica
protetta, avremmo respirato aria pura e difficilmente ci avrebbero trovati. L’idea sedusse sia Arlecchino
che il lupo (forse sperava di trovare, lungo il cammino, qualche vecchio legnaiolo da mangiare), ma non
la volpe, sicché noi si decise di fuggire lasciandola sola.
“Se dovessimo mai incontrare degli uomini, non ragliare! - mi raccomandò Arlecchino. - Ti
catturerebbero subito e ti manderebbero a scuola.”
“Ma non troverebbero strano un asino che parla?”
“Posso giustificarmi dicendo che sei particolarmente intelligente e ti sto portando all’università.”
La notte, prima di fuggire dal manicomio, chiesi ad Arlecchino se avesse visto le previsioni del
tempo; mi rispose che non le guardava mai perché aveva l’impressione che gli rubassero il futuro. La
volpe non l’avrei rivista mai più, ma venni poi a sapere che aveva fatto una buona carriera politica; dopo
aver imparato a parlare la lingua, si era trasferita in Italia dove era giunta a ricoprire la carica di
sottosegretario all’agricoltura con delega agli allevamenti di polli.
Dite che non è possibile, per una volpe, diventare sottosegretario alle galline, nemmeno in Italia?
Ah, capisco, non credete che abbia imparato a parlare l’italiano!
La mattina, mentre stavamo per partire, il lupo fu fermato da alcune donne in divisa, tutte
stranamente prive di armi, che lo accusarono di tentare la fuga dalla zona dove doveva restare confinato.
Evidentemente qualcuno aveva fatto la spia: la volpe forse? Il nostro amico, prima d’essere catturato,
riuscì ad ucciderne una, poi venne trascinato via a viva forza. Restati noi due soli, chiesi ad Arlecchino
per quale motivo le forze dell’ordine non fossero armate. Egli mi spiegò che nei tempi andati, quando
Utopa era ancora barbara, i poliziotti, se attaccati, menavano le mani ed usavano i manganelli, in casi
disperati si difendevano anche con le armi, ma ora, per evitare guai ai cittadini, la leva veniva fatta tra le
figlie di Maria. Dovetti riconoscere che, anche in questo, ad Utopa erano più civili di noi.
Spaventato da quanto successo, chiesi ad Arlecchino se correva anche lui dei pericoli.
“Non preoccuparti,” mi tranquillizzò.
Se l’avessero preso, nel peggiore dei casi, l’avrebbero estradato verso l’Italia. Gli Utopici sarebbero
stati ben contenti di togliersi dai piedi un tipo ingombrante come lui ed egli pensava che, ora, in patria,
non si sarebbe trovato male.
“I tempi sono mutati. Ero emigrato, perché v’erano troppi partiti e questo m’aveva reso la vita
impossibile.
M’anno detto che, grazie a Dio, ora vi sono solo due blocchi politici e se tornassi si realizzerebbe il
mio sogno ideale: Arlecchino servo di due padroni.”
L’imponente complesso del manicomio costituiva una delle maggiori opere architettoniche di
Filona, come mole, se non altro.
Il frontone, che portava la scritta ‘libertà, uguaglianza e fratellanza’ dicitura consona a qualunque
manicomio, era sorretto da due enormi statue che rappresentavano il Lombroso e Freud, i due pilastri
sui quali si regge oggidì la civiltà occidentale.
Subito, appena entrati, vedemmo, sdraiato per terra, un Rancidino munito di occhiali particolari che
gli facevano vedere tutto come voleva lui. Era male in arnese; magro, pallido e smunto faceva fatica a
stare in piedi, nonostante si appoggiasse a due stampelle, perché le gambe non lo reggevano più. Gli
chiesi spiegazione di quel suo aspetto macilento ed egli mi disse che stava facendo uno sciopero della
fame.
“Per quale motivo ?”
“Non lo ricordo più, - mi rispose. – Ne ho fatti tanti!”
Gentile e logorroico come ogni suo simile, nonostante la debolezza, fu disposto a farci da guida
Appena entrati ti accoglieva subito una grossa sorpresa: a controllare che si fosse acquistato il
biglietto, v’erano il gatto e la volpe e la nostra guida fu costretta a vestirsi da Pinocchio, ché questa era
la consuetudine
Passati oltre, ci si trovava in un’ampia camera circolare, altissima, perché teneva primo e secondo
piano. Era fatta come un circo a tre piste; attorno all’ampia zona centrale un bellissimo colonnato
divideva lo spazio riservato agli artisti dalle panchine per il pubblico.
Lo spettacolo era in corso.
Nella prima pista si vedeva Voltaire, con una frusta in mano, il quale sferzava un cavolo affinché
potesse salvarsi da una donna ebrea in foia che lo stava inseguendo. Se fosse riuscita a raggiungerlo,
nonostante il ribrezzo dell’animale di razza superiore, lo avrebbe costretto ad un rapporto carnale. Sulla
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seconda pista si vedeva Carlo Marx che creava proletari accoppiandosi con le serve; la terza,
completamente vuota, era dedicata alla Vandea, mostrava quel che rimane di chi si oppone al progresso.
Chiesi a Rancidino se la storia della civiltà fosse iniziata con quegli avvenimenti.
“Certo, - rispose con voce irosa. – Prima vi è stato solo un certo Cristo, gran rompiscatole.”
Arlecchino chiese se lo spettacolo veniva rappresentato nei fine settimana. Rancidino lo guardò
stupito:
“L’educazione del popolo deve essere continuativa, si va in scena due volte al giono.”
Arlecchino si mise a ridere:
“Ma allora quel Marx dev’essere un uomo eccezionalmente vigoroso!”
“Sempre arguto,” pensai, mentre Rancidino lo guardava con un’occhiata biliosa.
La camera successiva era destinata ad educare i giovani a distinguere chiaramente tra progresso e
bieco clericalismo. Da una parte, illumina dal sole dell’avvenire, potevi vedere una laica folla festante
cantare ed agitare bandiere multicolori, inneggiando al progresso nella pace; dall’altro lato, in quattro
gabbie separate, Napoleone, Stalin, Hitler e Mao. In alto, a lettere cubitali la dicitura:
“Quattro sporchi clericali papalini.”
Dico la verità, la loro orribile visione ci aveva commossi riempiendoci d’orrore e Rancidino
piangeva come una vite tagliata. Un tizio, di fianco a noi, il solito idiota, rideva come un matto.
Passammo nella camera successive dove vedemmo un grande gabbia con la porta aperte ed alcuni
vecchietti dalla barba bianca e la faccia da rimbambiti, che stavano frugando nella sabbi.
Questa volta fu Arlecchino a chiedere spiegazioni
Nella gabbia era rinchiuso l’Archeopterix, anello di congiunzione tra sauri ed uccelli, unica prova
dell’evoluzionismo. L’avevano sempre tenuto rinserrato in gabbia curandolo amorosamente, e
dicendogli che per lui era inutile uscire perché non erra in grado di volare; avrebbe potuto farsi male.
Purtroppo, un brutto giorno, e qui la voce di Rancidino da aspra come sempre era diventata quasi
gracchiante e cattiva, un cretino aveva lasciato aperto lo sportello della gabbia e l’Archeopterix, accortosi
d’essere solo un uccello, era volato via. Rimasti senza il loro anello giocattolo, i vecchi guardiani,
fedeli di Darwin, si era buttati a scavare nella sabbia, fuori della gabbia. in cerca di eventuali altri anelli
di congiunzione che non trovavano mai. Un bello spirito aveva cosparso il suolo di fedi nuziali e voi
potete capire la confusione
Chiesi a Rancidino che relazione vi fosse tra tutte quelle cose che avevamo visto e lui disse irritato:
“Ignorante! Dimentichi che questo è come un tempio. In questo luogo l’importante non è cercare la
verità, ma credere. Inoltre, qui si può trovare il pro e il contro d’ogni cosa, perché questo è il museo
della Ragione ed ognuno, ragionando, può giungere a qualunque tipo di conclusione.
Avviandoci verso l’uscita, passammo in una zona nella quale le camere da letto dei matti, munite di
salde inferriate, erano usate come celle. Da una di queste udimmo uscire un nitrito e trattandosi di un
mio simile, anche se più quotato nella scala sociale, espressi il desiderio di fargli visita e, gentilmente,
Rancidino soddisfece il nostro desiderio. Il povero prigioniero e poi prese a narrarci la sua triste
vicenda. Era stato condannato all’ergastolo per avere morso, con i labbroni, il sedere di una cavalla;
parlava e piangeva, misero lui:
“Se avessi ucciso il mio padrone, certamente i giudici mi avrebbero concesso le attenuanti generiche,
ma purtroppo il mio reato, ad Utopa, è considerato il più grave; e poi si lamentano perché nascono
pochi puledri. Valli a capire questi legulei.”
Poiché era ormai pomeriggio inoltrato, chiedemmo di uscire da quel casermone che non conteneva
più i pazzi, ma aveva tutta l’aria d’essere ancora solo un manicomio.
Poiché mostravamo, sia io che Arlecchino, di considerare poco interessante la visita ed altrettanto i
suoi ragionamenti, Rancidino, tutto rattristato, ci disse che non potevamo andarcene senza aver visto
quella che era considerata la maggiore attrazione del luogo: la grande piscina delle pulci acquatiche, lo
spettacolo delle quali serviva di svago sia ai grandi sia ai piccini.
Bisogna sapere che ad Utopa, in quella vasca, un tempo v’erano i delfini, ma, ad un certo punto, ci
si era accorti che le pulci acquatiche avevano un’intelligenza assai superiore a quella di quei mammiferi;
liberati, quindi, questi ultimi, incuranti del fatto che, in mare, istupiditi dalle cure umane, sarebbero
andati verso una sicura morte, si erano messe al loro posto le pulci. Questi animali, conosciuti
nell’antichità e da poco riscoperti, erano dotati di un’intelligenza talmente elevata che, da certe
espressioni dello sguardo, spesso sembravano giudicare gli uomini dei perfetti cretini.
Poiché, contrariamente ai delfini, era facile confonderle l’una con l’altra, le si teneva rinchiuse in una
gabbia con sopra scritto il nome, lasciandone andare in piscina, al massimo, due alla volta.
Un maestoso monumento, al centro del bacino, ricordava il famoso episodio del bambino greco
caduto in mare e salvato dalla pulce. Quel miscredente di Arlecchino sosteneva che non si trattasse tanto
della copia di un’antica statua, quanto di un antico falso, perché mai nessuna pulce aveva salvato
bambini dalle onde del mare; ma, tant’è, le leggende sono dure a morire.
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Purtroppo quel dì, essendo giornata di lutto per gli animaletti della foresta, la piscina era vuota,
perché tutte le pulci, rinchiuse nelle loro gabbiette, dovendo partecipare alle esequie d’una giovane
cicala, erano state caricate su di un piccolo carro, per dar loro la possibilità di seguire il funerale.
Appena usciti ci imbattemmo nel triste corteo: quattro grilli neri portavano una piccola cassa e,
dietro, seguivano tutti gli insetti e gli animaletti del sottobosco.
Lì, sul carro, vidi le famose pulci dentro le loro gabbiette e, avvicinatomi ad esse, ebbi modo di
ragionare con una di loro.
“Affermano che è crudele tenere prigioniera in un giardino zoologico una tigre, o farla saltare in un
cerchio di fuoco, e noi, che non possiamo fare alcun male, ci lasciano chiuse in una piscina ad avvilirci
in spettacoli da circo.”.
Ma in questo sembravano essere animali tutt’altro che intelligenti: avrebbero preferito vivere sulle
spalle di un povero cane correndo forti pericoli, perché, come tutti gli idioti, amavano soprattutto la
libertà.
Così stavo pensando quando io ed Arlecchino fummo distratti da una cornacchia, appollaiato su
d’un basso ramo, che ci volle dare notizie della defunta la cui morte aveva causato un sì gran clamore. Il
saggio uccello era stato coinvolto personalmente in quella tragedia.
Come tutte le cornacchie, anche questa era logorroica e quindi, dopo essersi appollaiata sulla spalla
di Arlecchino, non perse l’occasione propizia per aprire il becco il maggior tempo possibile e cominciò
a narrare.
Era il funerale della ‘Cicala dell’anno’, decorata dalla regina stessa, perché la più sfaticata di tutte e
si trattava di un avvenimento bizzarro non tanto per la morte, quanto per i fatti che l’avevano causata.
La storia riguardava una cicala ed una formica. In quanto alla cicala si doveva osservare che,
nonostante esistano varie razze di questi animali, esse appartengono tutti all’unica, grande famiglia degli
sfaticati; ma la formica? Rossa di sera per il troppo lavoro, diventava nera dalla rabbia durante il giorno,
quando vedeva le cicale cantare e non far nulla. Non essendoci documenti in proposito, restava il
dubbio: la formica era di razza rossa o di razza nera? Ma infine la cosa non aveva nessuna importanza
relativamente al luttuoso avvenimento.
Sfogata così la sua fatua voglia di parlare in questi inutili sproloqui preliminari, la cornacchia era
venuta al fatto.
La saggia formica lavorava durante la bella stagione, la cicala, invece, sfaticata e sprovveduta,
passava il tempo a cantare. D’altra parte, era fermamente convinta che il lavoro non fosse fatica, bastava
lasciarlo fare agli atri e quindi si asteneva. Durante tutto il periodo del lavoro, mentre cantando la cicala
osservava la formica faticare, quest’ultima saggiamente ammoniva, ma inutilmente; durante l’inverno la
cicala pativa la fame e ricompariva pelle e ossa all’inizio della primavera.
“Quell’anno, purtroppo – continuò a narrare la cornacchia - la formica, all’inizio dell’inverno, era
morta d’infarto per il troppo lavoro. Alla cicala, che piangeva lacrime sincere mentre vegliava la salma,
una volpe aveva fatto osservare che era strano vederla disperare per quella seccatrice; ma la cicala aveva
risposto che le pareva di aver perso la voce della coscienza e le dispiaceva molto di non poterle più
disobbedire.
Poiché la formica era morta senza aver fatto testamento e non essendosi trovato alcun parente, data la
gravità del caso, si era chiesto il mio parere, come all’animale più saggio della foresta ed io,
naturalmente, non mi ero fatta pregare. Con salomonica saggezza, avevo assegnato tutta l’eredità della
defunta alla cicala, unica che avesse un motivo per piangerla.
La decisione mi sembrò ottima, al momento, ma, ahimè, ebbe gravi conseguenze, ché la bestiola
canterina, abituata ad un severo digiuno invernale, quell’anno, avendo mangiato troppo, morì.”
Disse poi che il fatto era talmente clamoroso da dover essere commentato con elevate considerazioni
filosofiche: io osservai che, a volte, pensando di fare il bene, si genera il male. La cornacchia (e se ne
sentiva la mancanza) osservò che a volte succede anche il contrario.
“Qualunque decisione si prenda nella vita non se ne possono conoscere mai le conseguenze.”
Fu la nuova ed originale osservazione di Arlecchino.
“Meglio cantare a digiuno che morire a pancia piena.” Concluse la cornacchia che pensava di avere
una bella voce, poi volò via.
Nel frattempo eravamo giunti al cimitero che recava la scritta: ‘Oasi del giusto riposo prolungato.’
Non potei fare a meno di ridere.
- Non è proprio il caso, – obiettò Arlecchino con un tono falsamente serio. – Da prima chiamarono
il cimitero: ‘Casa di riposo degli anziani non viventi’, ma anche quella dicitura sembrò troppo cruda e
si sostituì non viventi con spenti, poi la casa divenne un’oasi. Ora , finalmente, si è giunti ad una
dicitura obiettiva visto che dopo una lunga vita di lavoro è giusto che si abbia un riposo prolungato in
un luogo consono alla situazione.”
‘‘‘
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Poiché eravamo stanchi e si avvicinava la sera, decidemmo di fermarci a dormire in quel bosco; nei
pressi di una grande quercia v’erano dei cespugli disposti in modo tale da formare quasi una piccola
stanza che ti nascondevano da tutto il resto e lì ci sdraiammo.
Verso la mezzanotte fui svegliato da strani rumori che ben presto si trasformarono in un vero
baccano. Acuendo lo sguardo, per vincere le tenebre, vidi strani oggetti volare nell’aria e poi planare
mentre fiamme infernali sembravano uscire, a tratti, dal terreno. A quelle luci distinsi uomini e donne,
ma soprattutto donne, che giungevano a stormi, volando a cavallo chi di una scopa, chi di uno
spazzettone, chi di un aspirapolvere e chi (le più giovani e sconsiderate) d’una lavapavimenti. Pensai
con tristezza che ogni tradizione abbandonata rappresenta un pezzo di civiltà che muore; ed ora ci si
mettevano anche le streghe. Arlecchino aveva appena aperto gli occhi quando, ad un tratto, su di un
carro di fuoco era sceso Satana stesso, brutto proprio come l’aveva descritto Socrate, accompagnato da
una specie di mummia avvolta in bianchi lini. Era venuto a celebrare la messa blasfema e sotto i suoi
piedi inaridiva il suolo. Tutte quelle presenze immonde s’erano zittite al suo comparire, ma, non appena
finito il rito, avevano preso a fornicare e le urla bestiali andavano mescolandosi a sospiri di piacere che
parevano accavallarsi, quasi a formare lo scroscio d’un fiume in piena. E, alla luce dei bagliori, si
vedevano questi esseri immondi accoppiarsi e dividersi e ricongiungersi continuamente, senza
distinzione di sesso, tra le urla di giubilo del demonio che partecipava con foga alle gioie della turpe
assemblea, mentre le streghe cantavano il loro inno.
Finito il tutto, ci accorgemmo che sulla quercia stava appollaiato vecchio un gufo che, desideriando
di parlare con noi, attaccò dicendo:
“Uomini e somari, perché vi stupite di questi fatti? Qui, su queste colline, si radunano le streghe
provenienti da ogni dove e, come avete visto, dopo aver celebrato la solita messa blasfema si
congiungono con i demoni in ripugnanti connubi.”
“Scusa – gli chiese allora Arlecchino, - ma questo dovrebbe avvenire la notte di Valpurga tra il trenta
aprile ed il primo maggio.”
“Quella alla quale avete assistito è una festa fuori calendario. La strega più potente, la prediletta di
Satana è morta ed ha raggiunto il suo signore e padrone. Quella mummia che si accoppia con il diavolo
è Panfila.”
A quelle parole una grande speranza m’aveva quasi sconvolto la mente. Era forse possibile che fosse
giunto il momento della mia liberazione?
La maledizione di Panfila terminava con la sua morte; pensavo a Lucilla che un tempo m’aveva
amato, ora avrebbe potuto trasformarmi, nuovamente, in uomo.
Potete immaginare la mia gioia?
“Comprendo la tua felicità, – osservò il mio amico, – ma ora riprendiamo a dormire e domani
mattina partiremo alla volta di Filona in cerca di Lucilla.”
Vissi una notte terribile: in astinenza com’ero, le urla di piacere di quei maledetti demoni mi
avevano provocato orrore, ma anche una vera sofferenza dovuta al desiderio.
Poi, finalmente, discese su di me un sonno ristoratore che mi accompagnò sino al mattino.
‘‘‘
C’eravamo appena messi in cammino e stavamo uscendo dal bosco, quando vedemmo una
carreggiata formata da due filari d’alberi ben tenuti che pareva condurci verso la città. Non avevamo
percorso molta strada quando entrammo nel cortile di una vecchia fattoria la quale mi ricordò quelle
della campagna reggiana, viste spesso nella mia giovinezza.
Era una grossa casona dignitosa ed intonacata, su due piani; davanti aveva il suo bel portico basso
atto a riparare il volto dal sole del giorno e le spalle dall’umidità della notte. Di fronte vi era la stalla
con sopra un capiente fienile, dal quale, attraverso un’apertura quadrata, si poteva far cadere il cibo nella
mangiatoia per le vacche, ma ormai ve n’era rimasta una sola, magra e smunta ed il suo muggito pareva
l’ultimo sospiro di un’anima in pena che stava per emigrare verso il lido dell’oblio e, con lei, una scrofa
puzzolente e nera che sembrava uscita dall’inferno.
Sotto il portico, su d’una sedia impagliata, sedeva un uomo, un villano all’antica, che appariva
come un sopravissuto e, ai suoi piedi, giaceva un cane cadente dall’aria rimbecillita. Il contadino, un
vecchio di campagna, di quelli bianchi ‘per antico pelo’, tutti rugosi e con la testa dura, forse era
l’ultimo zuccone rimasto attaccato al suo fazzoletto di terra. Appariva magrissimo, spetrale, e la pelle
tirata del volto lasciava quasi intravedere lo scheletro, come se la carne si fosse già tutta consumata,
aveva, insomma, quell’età nella quale si hanno tanti pensieri che poi si riducono sempre ad uno solo: la
grande attesa.
Morta la moglie e partiti i figli, continuava cocciuto a lavorare la sua terra in compagnia d’un cane,
una mucca, una scrofa ed una Topolino che ormai, stanca anche lei, procedeva sbuffando in discesa ed
arrancando in salita. Ci salutò e ci fece accomodare. Sulla panca vi era un cesto pieno di buon pane
campagnolo, cotto al forno di legna, come Dio comanda, che sembrava anch’esso di tempi andati e,
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vedendo i nostri occhi vogliosi, il villico disse d’attendere che sarebbe andato in cantina a prendere una
di quelle bottiglie dell’anno prima, piene di vino dolce. Pane casalingo ed un nero frizzante: ecco una
colazione da re.
Con l’acquolina in bocca, per pura convenienza, Arlecchino lo pregò di non scomodarsi a fare una
scala faticosa. Allora divenne rosso in viso e trattenendo l’ira, disse che ‘il vecchierel canuto e stanco’
era roba da poesia:
“Oggi il vecchio non usa più. Siamo tutti anziani, perché quello che conta è il cuore, e, finché
quello e vivo la vecchia resta fuori dell’uscio. O forse m’avete preso per quel rimbambito del mio cane!”
Mentre si allontanava lentamente, per rientrare in casa, la pacifica bestiola, chiamata in causa, aprì
,un occhio, non tanto per ammiccare, quanto perché l’altro era paralizzato.
“Figurati! – mugolò. – Anziano lui. Tutte le mattine si alza brontolando per il mal di schiena che
l’ha tormentato la notte; in quanto al cuore, buono quello: soffre di tapiocardia, o come diavolo si
chiama, che lo fa soffrire e lui bestemmia, quell’imbecille! Non lo faccio neanch’io che sono senza
l’anima. Lui l’ha e può andare davanti al buon Dio da un giorno all’altro. Pensate un po’ come lo
riceveranno lassù.”
E poi, spossato dallo sforzo, il povero cane rinchiuse l’occhio.
Io non ebbi modo di rispondere, perché proprio in quel momento era ritornato il villano, che poi
sapemmo chiamarsi Ulisse, con la sua bottiglia fresca naturale, di cantina, e con tre bicchieri. Dio mio
che bellezza, all’ombra del portico, chiacchierare mentre Arlecchino mi ‘pocciava’ il pane fragrante nel
vino dolce! Naturalmente, tra le altre cose, gli chiedemmo quanti anni avesse:
“Cento, forse centoventi. – rispose. – non lo so con precisione, ma io ho sempre vissuto in questa
casa, da bambino, da ragazzo, poi con mia moglie ed i figli. Una vita dura, credetemi. Avevo il carattere
di un dittatore e mi comportavo di conseguenza con tutti i famigliari, ma, quando rientravo dal duro
lavoro, comandava lei, ‘la sdora’ la padrona, insomma. Io potevo urlare e strepitare; se li avessi
picchiati tutti, figli, nuore, nipoti e moglie, nessuno avrebbe battuto ciglio, ma solo fuori, in casa non
si poteva far diverso da quel che ordinava lei.
Io, però, le volevo anche bene; non come alle mie vacche che costano così care, ma quando è morta
ho anche pianto, di nascosto, ché gli uomini allora non dovevano piangere. Dopo qualche tempo, i mie
figli mi hanno abbandonato, colpa delle loro mogli. Dicevano che con me non si poteva vivere”
Io pensai bene d’intervenire, per solidarietà, dicendo che la donna, anche se brava, è sempre un gran
guaio:
“Sarebbe stato meglio se Dio avesse fatto la settimana corta”
Allora Arlecchino scosse la testa per intervenire, ma io lo bloccai subito;
“Cosa vuoi capire di donne tu che hai sempre avuto per innamorata la sola Colombina!”
Lui si mise a ridere.
“Ne ho avute tante altre, ma tu pensi che avrei dovuto raccontare i miei interessi a quel minchione di
Goldoni? Basterebbe che tu mettessi in fila certe mie padrone e potresti arrivare da qui a Filona. Caro il
mio somaro, infine le donne hanno qualche piacevole differenza.”
Ma il vecchio sembrava pensarla diversamente
“Se escludi mia madre, la buonanima di mia moglie e quella scema di mia figlia, le altre sono tutte
puttane.”
“Lo dicono tutti – convenne Arlecchino – ed allora con chi abbiamo scopato noi?”
Poi il vecchio iniziò a parlare dei tempi andati, poveri ma onesti, quando la domenica mattina si
ascoltava la messa chiacchierando fuori della porta della chiesa (salvo che all’elevazione, vé!) ed il
pomeriggio, all’osteria, si beveva un bicchiere, magari anche due o tre, si discuteva e qualche volta si
parlava male del prossimo e si giocava, ma non con le macchinette, come adesso, che rovinano tante
famiglie. A volte si faceva venir sera cantando; oggi non si canta più. Per i contratti bastava una stretta
di mano, i giovani rispettavano le leggi, le donne fingevano d’essere virtuose e via così, continuò a
ruota libera, sin quando, poco alla volta, giunse la notte, quasi senza che ce n’accorgessimo.
Venuta, l’ora di coricarci, quel rustico vecchiaccio volle che io dormissi nella stalla dicendo:
“M’infastidivano già le nuore, puoi capire se voglio per casa un somaro!”
Nella stalla, come ho detto, v’erano una mucca ed una scrofa, la Nerona (che così si chiamava per il
colore delle setole). Appena rinchiuso là dentro, per mettere le cose a posto e stabilire una certa
gerarchia, avevo parlato della mia disgrazia: essere io un uomo trasformato in somaro.
I due animali, che sul momento avevano mostrato una certa freddezza considerandomi quasi un
intruso, ascoltate le mie lamentele, si erano distese, sciogliendo la lingua, per giungere in breve tempo
sino alla confidenza, tanto più che per delle bestie infelici in quelle condizioni, nulla è meglio d’un
buon amico col quale sfogarsi.
Aveva cominciato la mucca: la Bionda, come la chiamava il padrone, anche se era un’olandese dal
manto bianco a grosse macchie nere.
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“Vedi come mi tratta questo vecchiaccio, - si era lamentata la povera bestia, - sempre fieno ed
erbaccia. Fuori di qui, negli allevamenti moderni, le mie colleghe le nutrono a carne e pesce; e vedessi
come le curano! antibiotici tutti i giorni.”
Allora era intervenuta la scrofa Nerona, senza darmi la possibilità di parlare.
“Caro il mio somaro, così vanno le cose del mondo. Purtroppo la Bionda non è l’unica. E’ tutta la
vita che mi chiamano troia, nonostante mi sia divertita ben poco ed abbia fatto tanti figli, quando fuori
di qui ve ne sono molte che si divertono e di figli non ne fanno mai. Ma questo sarebbe ancora nulla.
Come vedi dal colore dalle mie setole, sono a lutto per la morte di mio marito ed il modo, soprattutto,
mi angoscia.”
E mentre così parlava, piagnucolava e grugniva la grassa bestia, e la pancia le ballonzolava tutta
Allora mi ero commosso, ché anche i somari hanno un cuore, e, fatte le dovute condoglianze, avevo
chiesto notizie del defunto: com’era morto e da quanto.
“Da pochi giorni. Sapessi come mi sento triste così sola. E pensare che sono vedova per colpa di un
errore giudiziario. Giustiziato innocente!.”
“Che cosa orribile, ma com’è successo?
“Dicevano che mio marito era un gran porco, ma, appena ucciso, hanno riconosciuto tutti che non si
era mai visto un maiale così buono.”
La mattina dopo, mi consolarono, dalla levataccia, l’aurora, una buona tazza di latte ed un burro
delizioso, perché il vecchietto continuava a fabbricarlo in casa, come una volta, quando i commercianti
non comperavano un appartamento l’anno.
Ci fermammo per qualche giorno aiutando Ulisse nel lavoro dei campi: Arlecchino con le braccia ed
io con le gambe, perché, al massimo, potevo tirare un carretto.
Quando decidemmo di partire, il buon vecchietto volle venire con noi
“Se andate in città dovrete passare da San Felice; oggi è giorno di mercato ed io non ho mai
mancato una volta.
‘‘‘
Mentre tutto attorno si stendevano i campi abbandonati, pieni di cespugli ed erbacce, pian piano,
chiacchierando, si giunse al paesello. Quale non fu la nostra delusione quando vedemmo che si trattava
di un villaggio disabitato, morto, perché, purtroppo, muoiono anche i villaggi. I contadini avevano
lasciato i campi per correre verso le delizie della città.
Le case, da tempo abbandonate, davano il triste spettacolo delle cose in disuso. Alcuni serramenti
pendevano pericolosamente dalle finestre, altri erano già caduti; porte sgangherate lasciavano intravedere
oscuri corridoi disadorni e, sui muri, quando non erano miseramente crollati, intonaci scrostati
indicavano l’abbandono. Era il solito malinconico spettacolo generato dalla partenza dell’uomo che non
ritorna più e, allora, la natura tende a prendersi la rivincita sulla civiltà. Se ti succede di vedere queste
cose, ti senti la tristezza dentro: è l’anima del villaggio che non se ne va con la sua morte e si riaccende
al calore del tuo sguardo.
La piazza, dove un tempo giocavano i bambini, si trovavano a chiacchierare gli uomini e che si
riempiva di banchi nei festosi giorni di mercato, era oggi piena d’erbacce, ricettacolo di lucertole ed altri
piccoli animali selvatici.
Ma qui il buon Ulisse prese a correre da una parte e dall’altra, ora parlando con commercianti che
non v’erano, ora tirando sul prezzo, ora facendo considerazioni sulla merce: ché questo era caro e quello
non serviva. Invano gli facemmo osservare che andava parlando al vento, non volle intendere ragione.
“Sin da quando ho memoria della mia vita, sono sempre venuto e non intendo smettere, anche se
tutti questi sciocchi se ne sono andati, perché, fin quando qualcuno verrà al mercato, il paese non
morirà.”
Poi disse che voleva andare sulla tomba della moglie a pregare. La strada principale, sconnessa e
piena di buche, conduceva ad una piccola chiesa sconsacrata; una strana chiesetta, antica all’apparenza,
fatta di pinnacoli, a tal punto da sembrare più la dimora di un folletto che non la casa di Dio ed aveva
tutta l’aria d’essere, anch’essa, abbandonata come il villaggio.
Di fianco vi era un piccolo cimitero come, a volte, avevo visto anche in Italia. Le tombe erano tutte
semplici con una lastra sopra, le più ricche di marmo. A volte, oltre il nome portavano incise diciture
tipo: “Cittadino integerrimo” “Madre esemplare”, sicché ti restava l’impressione che tutti gli altri morti
fossero stati, in vita, cattivi soggetti.
Le fotografie mostravano volti seri, tranne quelle delle ragazze, scattate magari il giorno della sagra o
di qualche altra ricorrenza, ed allora ti veniva fatto di pensare che quello fosse stato un paese felice, con
giovinette sempre belle e contente o forse allegre per esser morte senza aver passato i guai di tutti quei
musoni tristi che le circondavano.
I bambini, invece, erano numerosi, ma tutti senza fotografia (costavano tanto all’ora), e poi che se ne
fa un bambino: egli vola in cielo senza aspettare e nessuno vorrà chiedergli com’era da vivo.
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Dopo aver pregato compuntamente, Ulisse ci salutò e ci baciò dicendo che difficilmente avremmo
avuto la possibilità di rivederci, anche se fossero passati altri cento anni.
Poiché minacciava brutto tempo decidemmo di fermarci; il portico davanti alla chiesa, infatti, poteva
servire da parapioggia e, in caso di freddo, avremmo potuto riparare all’interno.
Chiacchierando venne la sera e lì ci sdraiammo nell’erba, appoggiando la testa su due gibbosità del
terreno, ed iniziammo a parlare nell’attesa d’un sonno ristoratore.
Verso la mezzanotte, mentre Arlecchino stava già russando, mi comparve una strana figura: un
fantasma diafano e tutto agitato, ma la cosa non mi stupì. Questi esseri sono frequenti nei villaggi
morti, ove le anime dei trapassati, abbandonate da tutti, tornano spesso nelle loro case a ricordare con
malinconia.
Ma questo aveva tutta l’aria d’un fantasma diverso: il suo sguardo triste e cupo, il suo digrignare di
denti, ne faceva una di quelle anime dannate che una condanna allontana, a volte per lungo tempo, dai
luoghi dell’eterno riposo.
La cosa non m’impressionò, nonostante lui si desse da fare con alcune catene rumorose che si
trascinava dietro, perché, come vi ho detto, io credo nel sopranaturale e non lo temo.
Da prima il fantasma, forse irritato perché non avevo paura di lui, pareva fosse rimasto sulle sue, ma
poi, quando vide la mia disponibilità ad accoglierlo con simpatia, si sciolse e cominciò a narrare la sua
triste storia.
Era un'anima del purgatorio condannata a comparire lì ogni notte, e, se vogliamo, non era poi
nemmeno una gran pena, ma certamente una noia, tenendo conto che, per riuscire a scambiare quattro
chiacchiere, bisognava trovare, a quell'ora tarda, qualcuno il quale credesse nei fantasmi; e non è facile
in questi tempi materialisti.
Da spettro ben educato si presentò subito: era un oste, naturalmente defunto, e quella chiesetta
l'aveva fatta edificare lui, qualche secolo prima, a sue spese. In vita, infatti, era stato molto ricco,
l'uomo più ricco del paese. Allora era proprietario d'una buona osteria con un decoroso alloggio per i
cristiani e confortevoli posti per i cavalli.
“Chiamala locanda o stallo, come preferisci. Ma, ahimè, è difficile diventare così ricchi senza
compiere qualche marachella!”
Giunta l'età nella quale si comincia a pensare all'anima, un buon sacerdote lo aveva convinto ad
andare a Roma, in occasione del giubileo, per chiedere perdono; un difficile pellegrinaggio, in verità, a
quei tempi, lungo e pericoloso. Al ritorno aveva fatto costruire la chiesetta e, per espiare, si era dato alle
opere di bene, senza che ciò gli avesse impedito di continuare, col suo lavoro, a mettere da parte ‘per la
vecchiaia’, come diceva lui.
"Perché, allora, questa tua condanna al purgatorio?" Chiesi stupito, sapendo che Dio perdona sempre
chi si pente.
"Un viziaccio maledetto che, da buon oste, non sono mai riuscito a perdere, nemmeno verso la fine
della mia vita: quello di scimmiottare il Signore trasformando l'acqua in vino"
Avrebbe dovuto scontare la sua pena sino al giorno in cui avesse trovato qualcuno capace di
cambiare il vino in acqua.
“Temo che dovrai attendere a lungo con i tempi che corrono.”
‘‘‘
Sempre seguendo la via dei campi giungemmo alla periferia della città dove prendemmo un mezzo
per la piazza Capitan Tromboni.
Appena sceso vidi una donna che mi pareva di conoscere. La guardai attentamente mentre avanzava
nella mia direzione. Indossava una camicetta rosa tutta gualcita; due strappi a X, sul davanti, erano
tenuti insieme con spilloni da balia e nascondeva le gambe (ergo, bellissime) in pantaloni di jeans
tagliati, sfrangiati e stinti. Unico vezzo, mostrava, nudo, l’ombelico grazioso.
Ravvisai, sotto quegli stracci miserabili che la coprivano, la bella Lucilla. Anch’essa mi riconobbe e
mi corse incontro abbracciandomi. Che gioia fu la mia, rivivendo in un attimo, col pensiero, dolci
ricordi; e quale, credo, anche la sua, che forse anche in lei si stavano agitando eguali sentimenti.
Le presentai l’amico Arlecchino e poi, mentre camminavamo verso casa sua, si passò ai soliti
convenevoli, ragionamenti sulla salute e sciocchezze del genere.
Così, camminando lentamente e chiacchierando, giungemmo alla sua dimora, sempre che in quel
modo si potesse definire quel laido tugurio; però, come prescriveva la moda, era ‘open space’ sicché vi
si confondevano gli odori della cucina e del gabinetto (poiché poco si mangiava e di conseguenza meno
si passava, l’olezzo era quasi sopportabile)
Dopo entrati, ci aveva fatto sedere su due vecchie cassette da uva, di quelle che i contadini usavano
un tempo per la vendemmia. Io cercai di consolarla facendo finta di ammirarle come oggetti
d’antiquariato.
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Quando le chiesi se i suoi abiti rappresentassero l’ultima moda, disse di sì, ma i neri ed intensi
occhi di Lucilla si riempirono di lacrime e lei iniziò a narrarci la sua triste storia.
Di marito in marito, s’era sposata con uomini sempre più poveri ed ora era la moglie di un barbone
che viveva cercando il mangiare nei rifiuti della spazzatura. Odiava il marito, ma non poteva divorziare
senza creare scandalo, perché non riusciva a trovare nessuno più povero di lui.
Le feci osservare che, come strega, con le sue magie avrebbe potuto anche far sparire il marito,
magari uccidendolo o trasformandolo in un somaro com’era successo a me, ma Lucilla mi svelò, con
corruccio, il suo segreto: a differenza di Panfila, lei era solamente una strega di seconda classe, poteva
agire nel bene e nel male per gli altri, ma non per se stessa.”
“Solamente col suo aiuto sono riuscita a trasformare Fiammetta in una rana.”
“Davvero una punizione eccessiva per un tradimento!”
“Pazienza: una serva in meno ed una rana in più.”
Avrei voluto obiettare, ma com’è possibile far ragionare una strega secondo un metro normale?
“Ecco caro dolce amore come sono ridotta!” mi disse poi.
Allora intervenne Arlecchino che sino a quel momento si era mantenuto silenzioso:
“Secondo il mio modo di vedere, tu hai una sola possibilità: quella di trovarti un amante ricco”
Voi non potete immaginare il sorriso che illuminò il dolce volto della strega.
“Caro Arlecchino, contrariamente a quanto avviene negli sciocchi paesi moralisti del tuo occidente,
ad Utopa, avere l’amante è una consuetudine che dà decoro ed onorabilità ad una donna. Non giudicare
dall’apparenza. Questo laido tugurio è l’abituro di mio marito. Se non avessi già un ricco amante, come
potrei vestirmi con questi abiti preziosi e forse credi che potrei permettermi quei due splendidi sedili
d’antiquariato, così ammirati da Apuleio? Naturalmente a mio marito dico di averli trovati nei rifiuti
perché è geloso e non ammette i tradimenti ed allora, quando gli viene qualche dubbio, mi picchia e mi
chiude in casa costringendomi a lunghi digiuni. Per fortuna i demoni, nelle sere del sabba, prima di
congiungersi con me sotto forma di caproni, mi foraggiano abbondantemente per ottenere prestazioni
soddisfacenti.”
“Di cosa ti lamenti allora?” le chiesi.
“La mia convivenza con questo marito è impossibile: un degenerato che pretende fedeltà, amore e
rispetto, un uomo noioso il quale non sa parlare d’altro che d’arte e di letteratura; tra l’altro, è un
baciapile e mi mette in difficoltà nel mio ambiente.
Come rimpiango il mio rozzo Causticchio, pieno d’affetto e di rassegnazione!”
Giunto a questo punto pensai che fosse giusto chiederle di togliermi il malefizio.
Fu grande la nostra sorpresa, nel vedere la bella strega prorompere in un pianto dirotto.
“Caro Apuleio, se lo facessi mi verrei a trovare in una terribile situazione dopo la morte.”
Vedendola così angosciata le chiesi spiegazione di quelle oscure parole.
“Compiendo questa buona azione, rinnegherei tutta la mia vita guadagnandomi il Paradiso.”
“Tutto sommato un buon affare!” osservai.
Ed Arlecchino:
“Dove sta il difetto?”
“Là mi troverei sicuramente male: tutti mi snobberebbero, dati i miei precedenti.”
Naturalmente si cercò di consolarla, ma più parlavamo, più aumentava la sua disperazione per non
potermi aiutare. Quando la lasciammo tremava, piangendo per lo sconforto.
‘‘‘
Il mattino successivo mi resi conto che si trattava d’un giorno festivo; le strade erano piene di gente
rumorosa che invadeva i negozi e comprava regali e tutti sembravano felici.
“Caro Apuleio, - osservò Arlecchino – non vi è un dì nel quale tutti siano egualmente contenti.
Anche in questi giorni di festa si trova sempre qualcuno che soffre: l’avaro ad esempio, perché l’avaro è
come il prostatico: ha la vescica piena ma non riesce ad urinare e per lui ogni regalo è uno sforzo.”
Oh maschera salace!
Mentre guardavamo attorno stupiti, chiedendoci che festa fosse, passò, vicino a noi, un signore con
un cane al guinzaglio.
“Attento che c’è una cacchetta – stava dicendo il Levriero. – L’ha calpestata. Quando parla lui lo
capisco perfettamente; possibile che quando abbaio io lui non m’intenda mai? Proprio a me doveva
capitare un padrone così cretino.”
Da come si esprimeva doveva trattarsi d’un cane d’alto livello sociale; non così il padrone che,
mentre si puliva la suola nello spigolo di una casa, usciva in espressioni decisamente volgari, mentre il
cane scuoteva la testa.
Non vi è nulla che avvicini un uomo ad un altro quanto il mostrare una certa comprensione, nei suoi
confronti, in un momento difficile. Arlecchino, da fine psicologo, rivolgendosi a lui, da prima
cominciò a parlar male dei cani, per poi chiedere informazioni sulla festa di quel giorno. Ci spiegò che
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si trattava della ricorrenza dei bisnonni. Lo ringraziammo, poi, mentre riprendevamo il cammino, chiesi
al mio amico se sapesse qualcosa di quella strana festa.
“Caro Apuleio, questa è una ricorrenza a calendario variabile, ma è una di quelle più caratteristiche e
sentite di Utopa e giunge da lontano. La cosa è iniziata con la festa di San Valentino.”
“Il protettore degli innamorati.”
“Con la morale d’adesso, più che altro, sembra il protettore del ‘Paese dei campanelli’. Comunque la
festa ha avuto un grande successo ed allora sono seguite quelle del babbo e della mamma. A questo
punto i commercianti, sempre affamati e golosi di denaro, hanno fatto una massiccia campagna
pubblicitaria, in televisione, affermando che era ingiusto non festeggiare i figli. Di lì era stato facile
scivolare verso altre derive: la festa dello zio e della zia, del nonno e della nonna, dei bisnonni e quella
dei nipoti.
“Nipoti dei nonni, dei bisnonni o degli zii?” chiesi.
“Di tutti. Naturalmente si è creato un gran movimento di denaro, perché, in queste occasioni, si
comprano regali a non finire.
0biettai che mi sembrava inutile festeggiare e comprare regali per i bisnonni perché in genere sono
morti.
“Innanzi tutto si dà una giustificazione alla festa dei bisnipoti ed inoltre si comprano grandi quantità
di cibo e di dolci che sono deposti sulla tomba dei cari estinti ed in loro compagnia (per modo di dire)
si ride, si scherza e si fa bisboccia. La notte, scivolando pudicamente nell’ombra, giungono i pensionati
al minimo a finire i resti del banchetto”
Dissi ad Arlecchino che mi sembrava una festa sciocca.
“. Caro amico, quando si spende tanto denaro per nulla è sempre sciocca la gente, mai la festa. vi è
poi anche un risvolto positivo: il cimitero è su tre piani e, spesso, i pensionati scivolano per le scale e
si rompono il femore. “
“Ed allora?.”
“I vecchi non producono e costano molto alla società; spesso, in buona salute, s’incaponiscono a
vivere: in quelle condizioni è più facile convincerli all’eutanasia, con vantaggio per tutti.”
‘‘‘
Poiché la villa del mio amico Causticchio era abbastanza vicina ci avviammo a quella volta e
giungemmo appena a tempo, proprio mentre egli stava uscendo dal parco; era in abito scuro, la cravatta
appropriata, un cilindro in testa e le scarpe con le ghette; tutta roba presa in prestito, venimmo poi a
sapere. Cercammo di avviare un discorso con l’intenzione di esprimere qualche convenevole, ma
Causticchio sembrava non aver alcuna voglia di sciocche chiacchiere. Era molto agitato.
“Venite! – disse. – Devo recarmi ad una marcia dell’orgoglio eterosessuale.”
Io ed Arlecchino ci guardammo stupefatti, ma lui continuò seriamente:
“ Ormai siamo una minoranza discriminata e veniamo considerati dei diversi.”
Si svolgeva in una piazza dedicata alla madre; al centro troneggiava il monumento a Medea che,
come ben sapete, aveva ucciso i suoi figli. Essa stava ad indicare i tormenti di tutte quelle donne che,
stressate dal parto, non avendo avuto una sufficiente assistenza morale, gettavano i loro neonati nella
lavatrice o fuori della finestra.
Causticchio ci fece osservare l’iniquità:
“Non vi è giustizia. Sai quanti padri desidererebbero fare la stessa cosa con i loro figli, ma a loro
non è permesso.”
“Immagino.” Rispose Arlecchino.
La grande piazza, dove si stava esibendo un’orchestra sinfonica, era piena d’una folla d’ambo i sessi
e, come in genere avviene alle manifestazioni dei diversi, tutti erano vestiti in modo molto serio e un
po’ dissueto, quasi d’altri tempi.
L’unico che stonava nel mucchio era Arlecchino, tanto che fu scambiato per un giornalista e gli si
formò attorno un capannello di persone le quali volevano essere intervistate sperando di trovar posto in
un articolo, perché, come forse vi ho già detto, in Utopa ciò che conta veramente non è tanto essere
quanto figurare. Ed egli aveva un bel po’ da schermirsi, dicendo d’essere un semplice osservatore
straniero, nessuno gli credeva; fu giocoforza chiuderci dentro l’igresso d’un palazzo. Lì, al primo piano,
ci fece entrare in casa un signore gentile: un gay che stava ridendo di tutti quei buffoni.
“Avete visto con quali abiti ridicoli vanno vestiti. Per fortuna sono sempre meno e spero che
arriveranno a sparire presto!” affermò.
Ci fece poi strada verso le finestre che davano sulla piazza. Entrammo così nel soggiorno
elegantemente arredato con mobili del settecento veneziano. Alle pareti, numerosi cornici contenevano
diplomi di importanti premi letterari.
“Vinti da lei?” Chiesi, indicandoli.
“Noi gay siamo tutti dei geni: Leonardo, Michelangelo, Gengis Kan…”
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“Anche Gengis Kan?” interruppi.
Allora intervenne Arlecchino.
“Certamente, ignorante, anche Gengi Kan. Solamente su Cristo hanno ancora dei dubbi.”
Naturalmente tacqui vergognoso della mia ignoranza, mentre il gay aveva ripreso a parlare.
“D’altra parte la cosa è palese, basta guardare il mio caso; tutte le mattine, su di un foglietto,
compilavo la lista della spesa per il mio convivente Michele: ‘un chilo di formaggio’, e poi a capo ‘un
litro d'olio’ e poi a capo di nuovo ‘tre etti di prosciutto’ e cosi via.”
“Che relazione vi è con l’intelligenza?” domandai
“Senza saperlo, con quelle note per la spesa, avevo fatto della poesia. Genio puro, capisce? Michele
ha conservato i foglietti, li ha fatti stampare e mi hanno dato il premio Nobel come creatore della
‘Poesia Discaunt.’.”
“Oggidì tutto evolve rapidamente, anche i sentimenti e la poesia con loro.”
Pensai bene di commentare.
“ Ora faccio il paroliere con successo. Sono un vanto per il nostro sesso. ”
Come recitava bene la sua parte di modesto gran poeta; come tutti i finocchi, ché così li definiva
Catullo, faceva quelle mossette ed assumeva quegli atteggiamenti che fanno di ognuno di loro il centro
del palcoscenico. Era poeta lui ed anch’io mi ritrovai a pensare dei versi, all’antica però, con metro e
rima.
Ti pavoneggi in scena con mossette
Dimenando il culetto da finocchio,
Ma Dio ti fece, ahimè, senza le tette.
Se te lo trovi dietro tienlo d'occhio,
Che non ti sottometta a cose abbiette
Usando quel suo lurido batocchio.
Tu dici che ti prendo pel sedere?
Amico mio, t'ho fatto un gran piacere.
Comunque, l’argomento s’era esaurito e, non sapendo più cosa dire, ci avvicinammo alla finestra.
Finita la manifestazione, non ci fu difficile raggiungere Causticchio; egli, infatti, si era mantenuto
nei pressi della casa dalla quale avevamo assistito allo svolgersi del tutto e naturalmente, mentre ci
allontanavamo dalla piazza, parlammo di quanto avevamo visto. Siccome il nostro amico inveiva contro
finocchi e lesbiche, i quali discriminavano gli eterosessuali, Arlecchino gli fece osservare che, secondo
il suo modo di vedere, diversi non si è perché tali ci giudicano gli altri, ma perché così ci sentiamo noi.
Allora mi parve giusto intervenire:
“Tra l’altro, queste manifestazioni vi rendono ancor più diversi agli occhi degli uguali e, con la loro
serietà, infastidiscono la gente. Non vorrei che andasse al potere qualche razzista deciso a spazzarvi via
come pattume. Chi farebbe più i figli? I finocchi e le lesbiche? Sarebbe un bel guaio: di bambini ne
nascono così pochi anche adesso!”
Poi chiedemmo a Causticchio di come se la passasse ed allora il discorso divenne particolarmente
triste. Egli era completamente rovinato ed ora lavorava come uomo di fatica nella sua ex villa per pagare
i numerosi e pesanti debiti. Proprio pochi mesi prima era stato premiato come l’uomo più miserabile di
tutta Utopa. Per mangiare, doveva raccogliere gli scarti di chi rovistava nel pattume, tanto che gli
ecologisti lo indicavano come un modello per lo smaltimento dei rifiuti.
Naturalmente, com’era giunta la cattiva sorte, tutti l’avevano abbandonato: uomini sistemati da lui,
altri sostenuti nelle difficoltà; gente che quasi quotidianamente sedeva alla sua tavola e che era venuta
spesso a chiedere contributi elettorali; questo laido abbandono lo aveva distrutto, più che la fame e le
pezze nel sedere.
La sua situazione drammatica commosse sia me che l’amico Arlecchino, ma, dopo un attimo
d’angoscia, questi s’illuminò in un confortevole sorriso per un’idea che risultò, poi, geniale: chiese a
Causticchio se sapesse qualcosa di Lucilla ed egli si mise a piangere; l’amava ancora disperatamente.
Allora gli parlammo di lei, della miserabile vita che conduceva, del suo rimpianto per il loro
matrimonio e così fu facile convincerlo a venire con noi che lo portammo dove abitava l’amabile e bella
strega.
Per fortuna la trovammo in casa. Oh visione gioiosa; si buttarono, subito, l’una nelle braccia
dall’altro dicendo:
“Amore mio.”
Causticchio le chiese di sposarlo in quanto era l’uomo più miserabile di Utopa e nessuno avrebbe
avuto da ridire sul loro matrimonio. Lei gli rispose di sì, con entusiasmo. E vidi che Lucilla era felice,
come forse non era più stata da quando aveva smesso di accoppiarsi con me; o, almeno, così
m’illudevo.
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Poi si baciarono ed abbracciarono di nuovo, mentre io ed Arlecchino partecipavamo con calore alla
loro felicità.
“Chiedetemi qualunque cosa ed io, se posso, vi esaudirò.”
Disse poi Lucilla, staccandosi da Causticchio.
Io, allora con la voce rotta, rinnovai la mia preghiera di farmi ritornare uomo.
Lei tacque un attimo quasi pesando il pro ed il contro.
“Vi sono troppo grata, per non esaudire questo desiderio. Solo una cosa chiedo: d’unirmi con te,
caro Apuleio, per rinfrescare il ricordo dei nostri tempi felici.”
Compresi, allora, che era ritonata sé stessa. Col permesso di Causticchio, che in fondo era un
generoso, accondiscesi di buon grado e dopo il felice esito dell’operazione (a digiuno, com’ero, da tanto
tempo), l’adorabile Lucilla mantenne la sua parola ed io fui di nuovo un essere umano.
Allora, dopo esserci tutti baciati ed abbracciati, mentre la bella Lucilla piangeva di commozione, ci
separammo.
Subito mi venne fatto di pensare che le streghe non piangono e chiesi un parere ad Arlecchino.
“Temo che, causa la sua buona azione nei tuoi confronti, il demonio le abbia revocato la licenza.”
‘‘‘
Io sarei dovuto partire quel giorno, ma visto lo svolgersi degli avvenimenti, rimasi per partecipare al
matrimonio dei nostri due amici e la sera, per gli sposi, prepararono un alloggio nella stessa stalla dove
avevo dormito come somaro.
Il mattino successivo, io ed Arlecchino decidemmo di prendere una giornata di riposo e, dopo
colazione ci sedemmo nel giardino dell’albergo, all’ombra d’un maestoso pino e, parlando, ci venne
fatto di commentare quanto avevo visto in Utopa.
“Caro amico! – cominciai. – Ti ricordi ‘Tre uomini a zonzo’? Alla fine del suo viaggio in Germania,
Jerome fa alcune considerazioni sul popolo tedesco e, con raro acume, profetizza drammaticamente la
possibilità di un Hitler.”
“E tu vorresti fare il profeta su Utopa?”
“Data la particolare situazione, penso che non sia difficile. E’ un paese di grande ed antica civiltà,
ora al tramonto. Tu hai visto la mancanza di fede, la denatalità, l’aumento dei divorzi, della
prostituzione, dell’omosessualità, dell’aborto, la rottura d’ogni freno, la caduta d’autorità paterna e
statale; con i giovani che, pieni di droga, praticano abitualmente il teppismo ed hanno per unici ideali
sesso e denaro, quali speranze possono esservi?.
Causa la ripugnante tolleranza verso i delinquenti che opprimono i cittadini terrorizzati, si può
impunemente assalire un gendarme, fracassare le vetrine, rubare ad un commerciante, picchiare un
medico che non arriva, perché è al capezzale d’un moribondo; ma guai per gli onesti se, avviliti ed
offesi, osano difendersi! Cerca di racimolare i tuoi ricordi scolastici, tutto questo non ti fa pensare alla
caduta dell’Impero Romano?”
“Io non so nulla dell’Impero Romano! Per fortuna non sono mai andato a scuola, perché, come
diceva Pasolini, è meglio essere ignoranti che istruiti a metà.”
“Capisco, ma un paese dove l’arte si prostituisce in trasgressione, dove il corpo femminile diventa
usa e getta come un fazzoletto da naso di carta……”
“Anche se più gradevole al tatto!” interruppe maliziosamente Arlecchino.
“Certo – sorrisi, - ma sempre usa e getta.”
“Forse non tieni conto del fatto che Utopa è un paese particolare. Pensa che è l’unico al mondo con
quattro sessi: donne, omosessuali e quaquatraquà? Poi vi sono gli uomini, ma devi cercarli con la
lanterna, come faceva Diogene.”
Tutto questo fu detto per giungere, infine, a ragionare del saggio Ulisse che, in quella calda sera
estiva, aveva parlato con noi dei buoni tempi andati.
Mentre così si discorreva, non c’eravamo accorti che sul ramo d’un albero vicino, si erano posati due
vecchi merli che, dopo aver ascoltato per un po’ di tempo, avevano iniziato a discutere tra loro,
naturalmente in un linguaggio strano, tutto fatto di zufoli, che serve a quegli uccelli per spiegarsi le
cose l’un l’altro.
Allora, tralasciando i nostri discorsi di esaltazione dei vecchi tempi, incuriositi, ci mettemmo ad
ascoltare.
Il primo di quei due, dall’aspetto austero, era dell’antica famiglia dei merli da fiera e l’altro, invece,
più modesto e con la tosatura delle penne meno ricercata, apparteneva a quella più proletaria dei merli da
tetto; gli zoologi da lunga pezza discutono della loro stupidità e si azzuffano chi sostenendo che sono
più sciocchi i primi e chi i secondi. Il merlo da fiera è così detto, perché si può paragonare a colui che
gironzola per banchetti pagando cifre oscene clamorose patacche; l’altro invece è come quello che passa
tutto il tempo libero in pantofole e crede a tutto ciò che dicono i politici in televisione.
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Tornando al fatto, certamente i nostri uccelli avevano entrambi un bel becco giallo che li indicava
come appartenenti alla stessa intelligente famiglia di pennuti.
Proprio allora il primo stava dicendo che i tempi andati, i loro tempi insomma, erano belli ed
onesti; non come quelli di adesso, con questi giovani merli privi di ideali e mai contenti. L’altro,
mentre il primo parlava, andava confermando il tutto con la testa, ma poi, quando toccò a lui, osservò
che la stessa cosa diceva anche suo padre.
“A dire la verità, - aggiunse il primo - anche mio nonno mi ha detto la stessa cosa, e sosteneva che
così avevano parlato anche il padre di suo padre ed il padre di suo nonno.
“Ecco allora – affermò il secondo - che se i tempi di prima sono sempre stati miglior di quelli di
poi, l’unico merlo veramente felice dev’essere stato il capostipite nel paradiso terreste.”
Ma naturalmente erano ragionamenti da merlo, i loro, ed Arlecchino si arrabbiò; disse che non
poteva tollerare di farsi fare la predica da due stupidi uccelli. Solo il futuro avrebbe deciso chi aveva
ragione.
“Ma ora sono stanco di tutte queste cose sciocche che ho visto e sentito qui fuori, tra gli uomini
liberi, e rimpiango la vita tranquilla del mio manicomio,” soggiunse.
Poi mi salutò affettuosamente e si mise ad urlare, a picchiare alcuni bambini ed a baciare qualunque
donna bella o brutta che gli venisse a tiro.
Naturalmente fu subito arrestato, ma contrariamente alla sua speranza, fu estradato con foglio di via,
in Itala, dove, penso, avrà ripreso a fare il servo di due padroni. Non lo posso affermare con certezza, ma
dato il tipo, mi sembra la cosa più probabile, tanto più che una volta, a Venezia in tempo di carnevale,
ebbi l’impressione di averlo rivisto con la sua finta aria da sciocca maschera ridanciana ed al teatro
Goldoni vidi uno spettacolo che parlava di lui.
Due giorni dopo il suo arresto, partii, con l’aereo, per tornare a casa.
‘‘‘
Giunto in America, iniziai subito a frequentare gli ippodromi. Poco alla volta, in quell’ambiente,
iniziarono a conoscere tutti, sicché, ben presto, ebbi libero accesso alle stalle dei cavalli. Da principio
questi si stupivano vedendo che li capivo e che potevo comunicare con loro ragliando, ma poi,
rassicurati, si intrattenevano volentieri con me. Mi raccontavano tutti i retroscena delle corse (cavalli
drogati, fantini corrotti) in modo da mettermi in condizione di scommettere a colpo sicuro nelle gare
truccate. Naturalmente questo mi aveva permesso di vivere senza faticare, anzi di depositare in banca un
bel gruzzoletto di biglietti verdognoli. Avevo così smesso la mia attività di mercante e m’ero dato a
frequentare il bel mondo e soprattutto le signore del bel mondo, perché, come ebbi modo di costatare,
con i soldi si aprono non solo tutte le porte.
Dal mio ritorno in America, erano così passati alcuni anni, quasi senza che me ne fossi accorto, ed
io, nonostante la strana abilità di parlare con gli equini, mi ero andato convincendo che la mia avventura
in Utopa fosse stata solo un sogno.
Avvenne, però, che un giorno giungesse in città un circo di quel paese, dove ancora fioriscono i
grandi circhi che lavorano contemporaneamente su più piste ed avvincono gli spettatori con giocolieri
cinesi, trapezisti e soprattutto con un numero illimitato di formidabili celebri pagliacci, ma niente
animali selvaggi. La pubblicità tendeva a mettere in mostra un lupo apparentemente feroce che,
dicevano, si cibasse esclusivamente di fieno e trifoglio. Giornalisti maligni sostenevano trattarsi un cane
truccato, ma, come costatai in seguito, avevano torto marcio.
La cosa, come potrete facilmente capire, mi suscitò una specie di strano fenomeno al cervello, quasi
il ricordo d’una scena già vissuta; come quando entri in un locale, sai di non esservi mai stato, ma ti
sembra di conoscerlo e ti viene fatto di pensare a qualche misteriosa vita anteriore.
Naturalmente comprai un biglietto di prima fila e la sera mi recai al circo.
Si trattava di uno spettacolo veramente valido, con numeri eccezionali, anche se quelli dei pagliacci
mi suscitarono, anch’essi, la vaga sensazione d’averli già visti, ma dove? E quando? Forse in un
parlamento? E quale?
Poi giunse il punto centrale dello spettacolo, preannunciato dal pagliaccio capo con sdilinquiti
salamelecchi ed allora fu introdotto in pista un lupo, ma libero, senza nessuna gabbia, si trattava di un
animale vegetariano, palese dimostrazione di quanto fossero stati calunniati i suoi simili in tutti i
tempi.
Appena lo vidi, con mia grande meraviglia, lo riconobbi subito per l’amico Ferino.
Povera bestia, il suo timore era stato quello di essere trasformato in pecora, mai più avrebbe pensato
di diventare un pagliaccio.
Mentre mangiava fieno e trifoglio, tre bambini, veri discoli scelti tra il pubblico, lo deridevano con
frasi sconvenienti per un lupo (giunsero sino a chiamarlo pecorone) e gli tiravano le orecchie e la coda.
Figuratevi come rideva quella sciocca gente!
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Il lupo pascolava con lo sguardo triste, ma poi, alzandolo, gli avvenne di scorgermi; io, allora, vidi
nei suoi occhi, ora sereni, un lampo presago di tristi avvenimenti, ed infatti subito, con fare baldanzoso,
si scagliò sui bambini sbranandoli ed allora vi fu chi, imbracciato un fucile, gli sparò
Io corsi per soccorrerlo, ma feci solo in tempo a vedere l’ultimo sguardo orgoglioso:
“Vedi, muoio da lupo,” pareva mi volesse dire.
In quel momento compresi chiaramente come tutto il mio sogno di Utopa fosse stato una cosa vera.
Decisi allora di scrivere queste mie memorie, perché fino ad una certa età vedi di fronte a te il futuro,
poi, poco alla volta, cominci a trovarti davanti solo il passato e nel riviverlo vivi. Così m’assalì l’ansia
del nuovo lavoro, perché alla mia età ti pare che il tempo corra più veloce; o va veramente più veloce?
Quando dici queste cose, gli sciocchi ridono, gli altri diventano pensierosi.
Si trattava, soprattutto di scegliere un posto ideale dove poter scrivere e vivere gli ultimi anni della
vita.
Sempre m’era rimasta la nostalgia della mia terra: delle nebbie misteriose che ti nascondono la via di
casa annunciando l’inverno, delle primavere tiepide e dei dolci autunni; ma soprattutto i tramonti delle
calde giornate estive, i quali ti fanno pensare ad una serena e tranquilla vecchiaia, col sole rosso che
nella pianura si allarga come un disco piatto, quasi volesse scoppiare, e tutto, attorno, s’infiamma, sino
che l’astro non scompare, quasi inghiottito dalla terra, per poi ritornare, vivifico, il giorno dopo.
In quel periodo d’acuta nostalgia inoltre, avendo avuto stretti rapporti, dato il mio commercio, con i
popoli del Medio Oriente, ero stato invitato in Italia, come relatore, ad un convegno intitolato ‘Dallo
stivale alla babbuccia’.
Grazie l’insipienza degli uomini politici del continente, infatti, essendo ormai in maggioranza, i
maomettani erano saliti legalmente al potere e, chiusa la pagina dei codici di derivazione romana,
avevano adottato il diritto coranico.
Di una cosa mi resi conto proprio in quell’occasione: l’Italia, era il luogo che si prestava
maggiormente alle mie esigenze, non solo perché rappresentava un ritorno ideale, ma anche per la pace
che vi regnava in quel momento. Nessuna donna desiderava più l’adulterio, nessun uomo il furto ed il
sentimento d’adorazione verso la divinità era divenuto un obbligo; v’erano, dunque, la calma e la
tranquillità che mi servivano e che sarebbero durate a lungo, in attesa di una nuova Regina Isabella.”
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MORALE.
Era la mattina di Domenica 16 che precedeva il natale. Faceva freddo, un freddo veramente invernale
che il sole si sforzava, quasi inutilmente, di ammorbidire. Si trattava, insomma, di una giornata male
iniziata, tormentata da un gelido vento proveniente dalla Russia. Lo chiamano Burano, quel vento,
come poi possa avere lo stesso nome del pittoresco paese nel quale si crea il pizzo più bello del mondo,
non ve lo saprei dire, ma forse si tratta solamente di una semplice assurda omonimia.
Nonostante la giornata non invitasse molto (le strade ed i marciapiedi erano ghiacciati e mettevano a
rischio le caviglie dei cittadini), la città era invasa da una folla festosa. Si vedeva l’allegria sui volti di
tutti: quelli che si fermavano a guardare le vetrine lucenti ed invitanti piene com’erano di cose belle e
buone, quelli che entravano nei negozi aperti a fare gli acquisti per il Natale che stava arrivando e quelli
che si divertivano a guardare gli uni e gli altri. Chi comperava i cibi, chi si dilungava nella scelta di un
abito o un paio di scarpe, chi cercava un regalo per un famigliare o, magari, per un amante; tutti,
insomma, si davano un gran da fare. Così, cosa che si ripeteva ormai, da tempo, ogni anno, ci si
preparava a festeggiare, con la gioia consueta, l’arrivo del Signore che sarebbe rinato, di lì a qualche
giorno, in una povera mangiatoia.
Quella mattina, verso le 10, il carabiniere di turno al 112 ricevette una strana telefonata. Si trattava
di una richiesta d’aiuto da parte del commerciante Maurizio Coratelli.
Questi era un omone grande e grosso che vendeva giocattoli. La corporatura, l’aspetto tutt’altro che
invitante ed il vocione cavernoso lo lasciavano immaginare poco adatto alla sua attività, invece piaceva
ai bambini che forse, nella loro mente fantasiosa, lo confondevano con il personaggio di una favola
(Mangiafuoco o Capitan Uncino o qualcosa del genere) e quindi, contro ogni logica apparente, entravano
volentieri nel suo negozio, sperando di trovarlo a chiacchierare con Pinocchio o Paperino.
Era stato proprio lui, Maurizio Coratelli, a chiamare il 112, ma, quella mattina, la sua voce era
belante e spaurita: parlava di un energumeno, un miserabile capellone che era entrato nel negozio e stava
fracassando tutti i giocattoli. Lui stesso, che non era di certo un buono a nulla, ed alcuni clienti
volonterosi, avevano cercato di trattenerlo, ma tutto era stato inutile, perché quell’uomo sembrava
dotato di un vigore e di una forza eccezionali.
Il carabiniere, dopo aver assicurato il commerciante garantendo un intervento tempestivo, aveva
appena terminato la conversazione, quando era giunta un’altra telefonata; si trattava, questa volta, d’un
orefice, un certo Michelotti, al quale il pazzo, che di un pazzo doveva sicuramente trattarsi, aveva
frantumato una vetrina (“Si, figuri che bestione!” aveva detto l’orefice: “Era di vetro antiproiettile.”) ed
ora stava buttando in strada, ai passanti, anelli, bracciali ed ogni altra cosa preziosa. In questo secondo
caso, la voce del negoziante sembrava cupa e quasi disperata da parte di un ometto che difficilmente
avrebbe potuto difendersi e per corporatura e per carattere.
Poi, subito dopo, Arlacchi (un giovane vigoroso che dava del tu a tutti ed ogni tre parole doveva
pulirsi la bocca con la carta igienica) il quale chiamava da un negozio d’articoli natalizi dove, quel
demonio, era entrato per acquisti; la voce di Arlacchi era terrorizzata, perché quel criminale stava
bruciando collane di carta colorate, nastri dorati e alberi natalizi artificiali (il giovane temeva che potesse
prendere fuoco il negozio).
E quindi un alimentarista, un fornaio, persino il direttore di un supermercato. Qui i clienti erano
tanti, avevano circondato ed afferrato quell’energumeno, ma egli sembrava essere viscido come
un’anguilla ed era scivolato via tra la rabbia e lo stupore di tutti.
Le telefonate si erano susseguite angosciate e tutte, a parte il tipo di merce che era trattato dal
commerciante e distrutto dal pazzo, erano simili: l’uomo doveva essere un delinquente (che così
solevano definirlo tutti quei poveri diavoli che chiamavano aiuto), un energumeno che nessuno riusciva
a fermare e che distruggeva ogni cosa con una caparbietà quasi sovrumana. Ed il danno era enorme,
strillavano gli infelici mercanti.
Già alla prima chiamata, sempre solleciti, erano subito intervenuti i carabinieri con una volante, ma,
stranamente, l’uomo sembrava non essere mai dove lo si cercava e così poteva continuare indisturbato la
sua opera criminale.
Inoltre, si era sparsa la voce di questi fatti tra la gente e la confusione era divenuta incredibile, perché
i bravi cittadini correvano di qua e di là cercando di collaborare con i carabinieri e tutto ciò rendeva più
difficile la loro opera:
“Eccolo, eccolo.” Urlava la gente, ma come giungevano le forze dell’ordine l’uomo sembrava
volatilizzarsi per ricomparire in un altro luogo.
Vi era chi si spaventava, chi gridava allo scandalo maledicendo i tempi e, chissà perché, gli
extracomunitari, chi si riempiva di rabbia impotente e chi, scherzando, (pochi incoscienti, per fortuna)
blaterava di un ritorno di Mandrake o di Fantomas.