Strasburgo transessuale

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Strasburgo transessuale
LA CEDU, L’UNIONE EUROPEA E IL MATRIMONIO OMOSESSUALE.
INFONDATEZZA DELLA QUESTIONE DI LEGITTIMITÀ EX ART. 117,I COST. DELLA DISCIPLINA
CODICISTICA SUL MATRIMONIO.
di Luca Andretto*
Tra i parametri costituzionali invocati nell’ordinanza di rimessione del Tribunale di Venezia1, figura
l’art. 117, I Cost. siccome integrato dagli artt. 8, 12 e 14 CEDU (nell’interpretazione della Corte di Strasburgo), dagli artt. 7, 9 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nonché da numerose raccomandazioni e risoluzioni sia dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, sia del Parlamento europeo. Nella sua recente giurisprudenza, la Corte costituzionale ha dimostrato una certa preferenza per l’invocazione e l’accoglimento delle questioni di legittimità riferite all’art. 117, I anche allorché l’utilizzo di altri parametri costituzionali sarebbe risultato plausibile e fondato; ciò che, come s’è
evidenziato in letteratura2, contribuisce ad inverare l’apertura internazionale del nostro ordinamento,
dimostrandone le specifiche virtualità integrative nell’ambito del nascente paradigma del “dialogo interordinamentale”. La circostanza giustifica che anche in sede scientifica si presti attenzione privilegiata a
questo parametro. Nel presente intervento, pertanto, mi propongo d’esaminare le norme e gli atti europei
richiamati dal giudice a quo, onde verificare se da essi effettivamente discendano vincoli comunitari od
obblighi internazionali aventi ad oggetto l’estensione alle coppie omosessuali dell’istituto matrimoniale.
Le norme del codice civile oggetto d’impugnazione risalgono in parte al 1942, in parte alla L.
151/75 di riforma del diritto di famiglia. Rispetto ad esse, i richiamati parametri interposti sono in parte
antecedenti (la CEDU, sottoscritta nel 1950 e recepita con L. 848/55), per lo più successivi; ma, ciò che
più conta, l’attuale formulazione dell’art. 117, I si deve alla L.Cost. 3/01, sicché il parametro costituzionale risulta di gran lunga posteriore a ciascuna delle disposizioni codicistiche impugnate. Orbene, se si
definisce – come pare invero preferibile – l’art. 117, I quale metanorma sulla produzione giuridica3, anziché norma primaria di produzione giuridica4, esso risulta per definizione incapace d’incidere sui processi nomopoietici sviluppatisi in tempo anteriore alla sua vigenza5. Nondimeno, la Corte costituzionale
ha mostrato d’ignorare il canone tempus regis actum, dichiarando l’incostituzionalità ex art. 117, I di
leggi approvate prima del 2001 e persino anteriori al recepimento del trattato internazionale assunto a
parametro interposto6.
In realtà, in ciascuno di questi casi, il parametro evocato era la CEDU o uno dei suoi Protocolli; ed il
sistema CEDU presenta una norma – l’art. 46, I – che impone agli Stati parti del giudizio di conformarsi
alle sentenze definitive della Corte di Strasburgo. L’obbligo in questione, come più volte ribadito dalla
giurisprudenza europea7, non s’esaurisce nel pagamento agli interessati delle somme liquidate a titolo di
*
Dottorando di ricerca in Diritto costituzionale, Università di Verona.
Trib. Venezia, ord. 04.02.09 (2197/08), che solleva questione di legittimità degli artt. 93, 96, 98, 107, 108, 143,
143-bis e 156-bis c.c. «nella parte in cui, sistematicamente interpretati, non consentono che le persone di orientamento
omosessuale possano contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso», per contrasto con gli artt. 2, 3, 29 e 117, I
Cost.
2
A. SCHILLACI, La Corte torna sui “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”: scelta del parametro, interposizione normativa e processo di integrazione tra ordinamenti, in Giur. Cost., 2007, p. 2669.
3
Riprendendo il lessico di N. BOBBIO, Contributi ad un dizionario giuridico, Torino, Giappichelli, 1994, p. 204
ss., ritengo corretto qualificare la prima parte della disposizione costituzionale («La potestà legislativa è esercitata dallo
Stato e dalle Regioni…») come norma di seconda istanza, di riconoscimento dei soggetti dotati del potere legislativo; la
seconda parte («…nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali») come norma iterata, che pone limiti materiali alla produzione normativa dei medesimi soggetti.
4
F. SORRENTINO, Nuovi profili costituzionali dei rapporti tra diritto interno e diritto internazionale e comunitario, in DPCE, 2002, p. 1360, parla di «norma sulla produzione»; A. PACE, Problematica delle libertà costituzionali.
Parte generale. Introduzione allo studio dei diritti costituzionali, Cedam, Padova, 2003, p. 29, parla di «norma di produzione giuridica». Tuttavia, qualificando l’art. 117, I come norma primaria di produzione giuridica, non s’intenderebbe
perché la Consulta abbia escluso dal rango costituzionale le norme d’origine internazionale pattizia, per riferirsi piuttosto al fenomeno dell’interposizione normativa (Corte cost., sent. 348/07, Cid 4.5, e sent. 349/07, Cid 6.2).
5
P. CARNEVALE, Osservazioni sparse in tema di norme sulla normazione e su talune caratteristiche del loro regime giuridico, in Dir. Rom. Att., 2003, 9, p. 148.
6
Corte cost., sent. 39/08, Cid 5.
7
Da ultimo, Corte EDU, sent. VgT c. Svizzera (32772/02), §§ 85 e 88.
1
compensazione, ma s’estende all’adozione delle misure individuali e generali tese a porre fine alla violazione riscontrata, che talvolta la stessa Corte scende ad indicare con precisione nei dettagli. Un obbligo del tutto analogo esiste anche in ambito comunitario, in forza dell’art. 4.3, II TUE (già 10.1 TCE) che
impone agli Stati membri di adottare «ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare
l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione».
È pur vero che l’art. 117, I incide unicamente sulla legislazione ad esso successiva; ma il suo modus
operandi si articola variamente in dipendenza del mutevole contenuto dei tre ordini di limiti che esso
prende in considerazione. Le norme costituzionali, comunitarie ed internazionali, infatti, pongono di
massima obblighi di risultato, che lasciano liberi i titolari delle potestà normative di scegliere le misure
concrete con cui prestarvi adempimento: non necessariamente deve trattarsi di misure legislative, ma
l’obbligo risulterà adempiuto in quanto la fonte prescelta sia in grado di produrre gli effetti normativi
perseguiti. In generale, è perciò consentito alla fonte legislativa dettare qualsiasi prescrizione compatibile con il conseguimento dei medesimi effetti, mentre le è vietato dettare prescrizioni ad essi disfunzionali. Solo eccezionalmente s’impone invece al legislatore l’obbligo positivo di adottare norme dotate di
specifici contenuti, nei rari casi in cui la fonte interposta imponga l’emanazione di misure legislative determinate senza neppure lasciar campo a fonti di rango secondario. Esclusivamente in queste ipotesi assume rilievo rispetto all’art. 117, I l’eventuale inattività del legislatore, che può essere adeguatamente
censurata dalla Corte costituzionale con pronunce di tipo manipolativo additivo8. Se così è, le disposizioni codicistiche impugnate nel caso di specie potranno reputarsi illegittime solo in presenza di una
sentenza della Corte di Strasburgo che specificamente imponga all’Italia d’estendere alle coppie omosessuali le norme di legge disciplinanti l’istituto matrimoniale, ovvero di un identico obbligo derivante
dagli atti delle istituzioni dell’Unione europea fra cui, in special modo, le sentenze della Corte di Giustizia.
In ambito CEDU, non solo mancano condanne di questo tipo nei confronti dell’Italia, ma anzi nessuna pronuncia è dato riscontrare che ricavi dalle norme convenzionali un generale diritto ad unirsi in matrimonio con persona dello stesso sesso. Neppure la pronuncia espressamente richiamata dal giudice a
quo – peraltro emessa nei confronti del Regno Unito9 – ha chiaramente rinnegato i precedenti di Strasburgo, secondo i quali l’art. 12 CEDU riserva alle sole persone di sesso opposto il diritto di sposarsi10.
L’overruling è semmai parziale, nel senso che a questi fini il sesso dei nubendi deve ora determinarsi
sulla base di criteri non esclusivamente biologici, ma anche psichici. È dunque tutelato il diritto del transessuale, successivamente alla trasformazione anatomica, di sposare una persona del proprio sesso biologico originario. Il Tribunale di Venezia opera un parallelo fra questa fattispecie e quella del matrimonio omosessuale. L’analogia non pare tuttavia condivisibile, nella misura in cui omosessualità e transessualismo restano fenomeni tra loro irrelati: il transessualismo consiste in una patologica divaricazione
tra caratteri genotipici e fenotipici di un determinato sesso e caratteri psichici e comportamentali del sesso opposto11; l’omosessualità, invece, non è un fenomeno patologico, non concerne divergenze fra i tratti sessuali biologici e psichici, ma si riferisce esclusivamente alle preferenze sessuali di un soggetto del
quale risulta chiara l’appartenenza al sesso maschile o femminile. D’altronde, anche il transessuale può
indifferentemente avere preferenze sessuali per persone del proprio sesso biologico originario o per persone del proprio sesso psichico, ma non per questo conserva – dopo l’operazione anatomica e la rettificazione anagrafica – il diritto di unirsi in matrimonio con quest’ultime. Quand’anche l’analogia fra le
due fattispecie si reputasse fondata, peraltro, essa sola non basterebbe ad originare un corrispondente
obbligo positivo per il legislatore, tenuto ex art. 46, I a conformarsi esclusivamente alle sentenze definitive della Corte di Strasburgo.
8
B. RANDAZZO, Caso Dorigo. La Cassazione “paralizza” il giudicato penale in applicazione diretta della CEsenza pregiudicare la rilevanza della quaestio sui limiti della revisione. Ora la parola alla Corte costituzionale, in
R. Bin, G. Brunelli, A. Pugiotto, P. Veronesi (a cura di), All’incrocio tra Costituzione e CEDU. Il rango delle norme della Convenzione e l’efficacia interna delle sentenze di Strasburgo, Giappichelli, Torino, 2007, p. 211.
9
Corte EDU, sent. Goodwin c. Regno Unito (28957/95), § 98 ss.
10
Corte EDU, sent. Rees c. Regno Unito (9532/81), § 49 s., e sent. Sheffield e Horsham c. Regno Unito (22885/93,
23390/94), § 66 s.
11
OMS, International Classification of Diseases and Related Health Problems, 2007, § F64.0; Corte cost., sent.
161/1985, § 3.
DU,
In ambito comunitario, la Carta dei diritti fondamentali ha acquisito valore giuridico con l’entrata in
vigore del Trattato di Lisbona, in data successiva all’ordinanza di rimessione; ciò che forse spiega perché il giudice a quo, a fianco dell’art. 117, I, non abbia altresì invocato il parametro di cui all’art. 11
Cost. L’art. 9 della Carta è invero redatto – contrariamente all’art. 12 CEDU – in modo da non escludere
il matrimonio omosessuale dal proprio ambito di tutela, benché il diritto di sposarsi resti comunque legato alle «leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio»; e l’art. 21 vieta qualsiasi forma di discriminazione fondata sulle «tendenze sessuali». Sennonché, la stessa Carta ed il Trattato che la recepisce escludono espressamente che le relative disposizioni possano ampliare lo spettro delle competenze comunitarie e specificano che le stesse vincolano gli Stati membri «esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione»12.
È pur vero che la Carta dei diritti fondamentali presenta carattere ricognitivo di principi comuni agli
ordinamenti europei, come tali collocati tra i principi supremi del diritto comunitario; sicché sfuma la
rilevanza del momento in cui essa ha conseguito formale valore giuridico. Sennonché, la Corte di Giustizia è costante nel ritenere che tali principi vincolano gli Stati membri nei limiti in cui adottino normative di attuazione del diritto comunitario13, o invochino deroghe all’applicazione del medesimo giustificate dalla tutela di un diritto fondamentale14 o di altra esigenza imperativa d’interesse generale15. Orbene, il Trattato di Lisbona ha introdotto una competenza dell’Unione in materia di famiglia, tuttavia ristretta agli aspetti «aventi implicazioni transnazionali»: la procedura legislativa speciale contempla
l’unanimità in seno al Consiglio e un potere meramente consultivo del Parlamento europeo, mentre a
ciascun Parlamento nazionale è attribuito un potere di veto esercitabile entro sei mesi dalla proposta legislativa16. Il Consiglio non ha ad oggi adottato alcuna disciplina in questa materia, sicché la corrispondente potestà normativa degli Stati membri deve tuttora ritenersi libera da alcuna limitazione derivante
dal diritto comunitario.
Nondimeno, questioni relative allo ius nubendi si sono talvolta intrecciate con altre concernenti materie pienamente ricadenti nella sfera di competenza dell’Unione. È questo il caso del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di ambo i sessi, che la Corte di Giustizia ha ritenuto incompatibile con
una normativa nazionale la quale, in violazione della CEDU, precluda il matrimonio del transessuale con
persona di eguale sesso biologico originario e, per ciò stesso, gl’impedisca di beneficiare della pensione
di reversibilità del partner17. È interessante notare come le pronunce della Corte di Strasburgo, per il tramite della giurisprudenza comunitaria, possano superare il limite soggettivo d’efficacia posto dall’art.
46, I CEDU, che si rivolge ai soli Stati parti del giudizio; nondimeno, debbono qui replicarsi i dubbi sopra esposti circa la prospettabilità di un’analogia tra il matrimonio del transessuale e il matrimonio omosessuale. Non pone problemi di analogia, invece, la direttiva 2000/78, la quale mira specificamente a
contrastare la discriminazione fondata sull’orientamento sessuale nell’occupazione e nelle condizioni di
lavoro: la Corte di Giustizia ha ritenuto con essa incompatibile una normativa nazionale che, avendo riconosciuto le unioni civili omosessuali su un piano di parità rispetto al matrimonio tradizionale, tratti
poi in modo diseguale i coniugi supersiti dell’uno e dell’altro tipo di unione in relazione al diritto alla
pensione di reversibilità del partner18. Quest’ultima pronuncia, peraltro, non impone agli Stati membri
di registrare legalmente le coppie omosessuali, né tanto meno d’estendere ad esse l’istituto matrimoniale: soltanto nel caso in cui uno Stato autonomamente decidesse di procedere in tal senso, una successiva
discriminazione nell’esercizio di diritti ricadenti in ambiti di competenza dell’Unione risulterebbe lesiva
del principio comunitario di parità di trattamento19.
In futuro le istituzioni comunitarie potrebbero decidere, nel rispetto delle competenze e delle procedure normative previste dai Trattati, d’imporre agli Stati membri l’estensione dell’istituto matrimoniale
12
Art. 51 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e art. 6.1 TUE; Corte Giust., sent. Mariano (C217/08), § 29.
13
Corte Giust., sent. Cinéthèque (60-61/84), § 26, ribadita in tema di discriminazioni omofobe da sent. Grant (C249/96), §§ 45 e 47.
14
Corte Giust., sent. ERT (C-260/89), § 43.
15
Corte Giust., sent. Familiapress (C-368/95), §§ 24 e 26.
16
Art. 81.3 TFUE.
17
Corte Giust., sent. K.B. (C-117/01), § 30 ss.
18
Corte Giust., sent. Tadao Maruko (C-267/06), § 71 ss.
19
Commissione europea, proposta di direttiva del Consiglio COM(2008) 426, art. 3.
alle coppie omosessuali20. Difficilmente sarà all’uopo adottato un regolamento, più verosimile pare l’utilizzo di una direttiva. A questo punto, il mancato adeguamento della disciplina codicistica interna –
sempre che su di essa non sia già venuta ad incidere la giurisprudenza costituzionale – potrà condurre
alla sua disapplicazione da parte dello stesso giudice comune, a fronte di norme europee dettagliate e
particolareggiate, ossia chiare, sufficientemente precise ed incondizionate21 ovvero impositive di obblighi assoluti ed incondizionati di non facere22. In presenza di direttive che imponessero meri obblighi di
risultato, invece, spetterebbe alla Corte costituzionale sanzionare la violazione23 non già dell’art. 117, I
(che, come detto, è incapace d’incidere sulla validità della produzione giuridica antecedente la sua entrata in vigore, se non laddove la corrispondente norma interposta preveda un obbligo specifico di normazione positiva), bensì dell’art. 11, cui è riconosciuta una ben più forte funzione imperativa di adeguamento dell’ordinamento interno tramite il recepimento delle norme comunitarie non direttamente applicabili e l’adozione delle misure interne necessarie per la piena attuazione di tutti gli atti comunitari24.
Spetterà, in ogni caso, al giudice a quo verificare previamente, se del caso con l’ausilio della Corte di
Giustizia adita in via pregiudiziale, che la normativa comunitaria sia certamente priva d’efficacia diretta25.
L’ordinanza del Tribunale di Venezia richiama, infine, una serie di raccomandazioni e risoluzioni
sia dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, sia del Parlamento europeo. Entrambe le istituzioni invitano da tempo gli Stati europei al riconoscimento civile delle unioni omosessuali e alla loro
equiparazione al matrimonio tradizionale26. È ben vero che tali atti costituiscono una chiara «presa di
posizione a favore del riconoscimento del diritto al matrimonio, o comunque, in termini più generali, alla unificazione legislativa … della disciplina dettata per la famiglia legittima da estendersi alle unioni
omosessuali». Tuttavia, in quanto atti non vincolanti, risultano strutturalmente inidonei ad integrare il
disposto di cui all’art. 117, I che chiaramente impone il rispetto dei soli “vincoli” derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Sul piano prettamente giuridico, raccomandazioni e
risoluzioni possono al più rassicurare gli Stati membri circa la legittimità convenzionale e comunitaria
della legislazione ad esse conforme27, ma non sono viceversa in grado di determinare l’illegittimità di
una legislazione difforme.
Il giudice a quo non ha evocato altri possibili parametri interposti, quale ad esempio l’art. 16 della
Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, che peraltro presenta una formulazione assai simile a
quella dell’art. 12 CEDU e non sembra perciò in grado d’estendere in misura maggiore il proprio ambito
di tutela. Più in generale, questo ed altri strumenti di diritto internazionale restano privi di disposizioni
apparentabili agli artt. 46, I CEDU e 4.3, II TUE, sicché non paiono in grado d’imporre obblighi positivi
di normazione in capo al legislatore nazionale. Ne risulta, in definitiva, l’infondatezza della questione di
legittimità sollevata con riferimento all’art. 117, I Cost. L’analisi delle questioni fondate sugli ulteriori
parametri invocati esula dagli scopi del presente intervento, il quale si appaga della conclusione secondo
cui, allo stato, l’autonomia del legislatore italiano non soffre vincoli comunitari né obblighi internazionali aventi ad oggetto l’estensione alle coppie omosessuali dell’istituto matrimoniale.
20
In tale direzione spinge il Parlamento europeo, ris. 14.01.09 (2007/2145), § 76.
Corte Giust., sent. Ratti (148/78), § 22 s., e sent. Becker (8/81), § 25.
22
Corte Giust., sent. Van Duyn (41/74), § 12 s.
23
Corte cost., sent. 170/1984, Cid 5.
24
M. CARTABIA, L. CHIEFFI, Art. 11, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, I, Utet, Torino, 2006, p. 293.
25
Corte cost., ord. n. 536/1995, ribadita da sent. n. 284/07, Cid 3. In sent. n. 102/08, Cid 8.2.8.5, la Corte costituzionale s’è riconosciuta competente ad adire in via pregiudiziale la Corte di Giustizia nei soli giudizi di legittimità in via
principale, esclusi dunque quelli incidentali.
26
Da ultimo, Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, racc. 1474(2000), § 11,III,i); Parlamento europeo,
ris. 14.01.09 cit., §§ 75 e 77.
27
B. CONFORTI, Diritto internazionale, Esi, Napoli, 2006, p. 161 ss., parla di «effetto di liceità».
21