Immanuel Kant

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Immanuel Kant
a.s. 2016/2017 - Prof. Monti - Immanuel Kant
Immanuel Kant
1724 – 1804
13. LA CRITICA DEL GIUDIZIO
Come si è visto, dalla Critica della ragion pura emergeva una visione della realtà in termini
meccanicistici e deterministici: la natura dal punto di vista fenomenico è una struttura causale
e necessaria, entro la quale non trova posto la libertà umana. Dalla Critica della ragion
pratica invece emergeva una visione della realtà in termini parzialmente finalistici, in quanto
si postulavano la libertà dell’uomo e l’esistenza di Dio. Da un lato campeggiava un mondo
fenomenico e deterministico, quello conosciuto dalla scienza, dall’altro un mondo noumenico
e finalistico postulato dall’etica.
Nella Critica del Giudizio, Kant studia il sentimento così come nelle altre due critiche
aveva analizzato la conoscenza e la morale. Mentre i filosofi antichi non riconoscevano
dignità che alla conoscenza e all’azione, con Kant il sentimento diviene una “terza facoltà” e
un campo di attività autonomo. Il sentimento di cui egli parla, però, va tecnicamente inteso
come quella peculiare facoltà, mediante la quale l’uomo fa esperienza di quella finalità
del reale che la prima Critica escludeva sul piano fenomenico e la seconda postulava a livello
di noumeno. Sebbene il sentimento tenda a configurarsi il mondo fisico in termini di
libertà e finalità, esso rappresenta solo, secondo Kant, un’esigenza umana, che, come
tale, non ha valore conoscitivo. Per Kant i giudizi sentimentali costituiscono il campo dei
cosiddetti giudizi riflettenti, in contrapposizione al campo dei giudizi determinanti. I
giudizi riflettenti si limitano appunto a riflettere su di una natura già costituita mediante i
giudizi determinanti e ad apprenderla attraverso le nostre esigenze di finalità e di armonia.
Mentre i giudizi determinanti sono oggettivi e scientificamente validi, almeno per ciò che
concerne il fenomeno, quelli riflettenti esprimono solo “bisogni” di ordine umano. La
Critica del giudizio è un’analisi dei giudizi riflettenti. I due tipi fondamentali di giudizio
riflettente sono quello estetico, che verte sulla bellezza, e quello teleologico, che riguarda
il discorso sugli scopi della natura.
Nel giudizio estetico sentiamo intuitivamente la finalità della natura (un bel paesaggio
pare rispondere alla nostra esigenza di armonia estetica), mentre in quello teleologico la
sentiamo concettualmente (riflettendo su uno scheletro diciamo che esso è stato prodotto al
fine di sorreggere un corpo). Nel primo caso Kant parla di finalità “soggettiva” e nel secondo
di finalità “oggettiva”. Questa terminologia non deve però ingannare: anche il giudizio
teleologico esprime solo una esigenza umana, ossia un bisogno soggettivo della nostra mente.
Nella Critica del giudizio il termine estetica assume nuovamente il significato di “dottrina
della bellezza”. Kant si propone di chiarire la natura specifica del giudizio estetico.
Dividendolo secondo la tavola delle categorie, Kant dà quattro definizioni di bellezza. 1)
Secondo la qualità il bello è “l’oggetto di un piacere senza interesse”. Io contemplo una
cosa, senza interessarmi se esista e quanto valga, quanto possa essere utile, ma solo per la sua
bellezza, per il piacere che la sua rappresentazione fa sorgere in me. 2) Secondo la quantità il
bello è “ciò che piace universalmente, senza concetto”. Per Kant il giudizio estetico si
presenta con una tipica pretesa di universalità, in quanto esige che il sentimento di piacere
provocato da una cosa bella sia da tutti condiviso, senza che il bello sia sottomesso a qualche
concetto. Le cose che giudichiamo belle sono tali perché vissute spontaneamente come belle e
non perché giudicate tali attraverso un ragionamento o una serie di concetti. 3) Secondo la
relazione, la bellezza è “la forma della finalità di un oggetto, in quanto questa vi è
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percepita senza la rappresentazione di uno scopo” L’armonia degli oggetti belli, pur
esprimendo un accordo fra le parti, quindi una finalità, non soggiace ad uno scopo
determinato, concettualmente esprimibile. 4) Secondo la modalità il bello è “ciò che, senza
concetto, è riconosciuto come oggetto di un piacere necessario”. È un altro modo per
ribadire che il giudizio estetico è qualcosa su cui tutti debbono essere d’accordo, sebbene tale
consonanza non sia esprimibile tramite concetti e regole logiche, ossia tramite giudizi
scientifici (determinanti). Quando si dice che “un rosso tramonto sulle nevi è bello” si
presuppone che tutti debbano essere d’accordo, senza poter esprimere o giustificare tale
emozione intellettualmente. Per Kant l’educazione alla bellezza non può essere fatta con un
“manuale tecnico”, ma solo con la ripetuta contemplazione delle cose belle.
Come si può notare, la tesi più vistosa e qualificante dell’estetica kantiana è
l’universalità del bello. Tale dottrina può apparire, soprattutto alla mentalità odierna, così
abituata alla varietà dei gusti, paradossale. Val dunque la pena fermarsi sulla questione. Kant
intende asserire che nel giudizio estetico la bellezza è vissuta come qualcosa che deve
venir condivisa da tutti. “Chi dichiara bella una cosa, pretende che ognuno dia
l’approvazione all’oggetto presente e debba dichiararlo bello allo stesso modo”.
Bisogna tener presente che Kant distingue nettamente fra il campo del piacevole, che è
ciò che piace ai sensi nella sensazione, e il campo del piacere estetico, che è il sentimento
provocato dall’immagine o “forma” della cosa che diciamo bella. Il piacere è legato alle
inclinazioni individuali e quindi non ha universalità e per esso vale la massima “de gustibus
non est disputandum”. Infatti quando la bellezza è prevalentemente o esclusivamente un fatto
di attrazione fisica, che mette in moto più i sensi che lo spirito, come capita ad esempio con le
persone dell’altro sesso, il giudizio è inquinato nella sua purezza e quindi è soggettivo. Il
piacere estetico invece è qualcosa di puro, che si concretizza nei giudizi estetici puri,
scaturenti dalla sola contemplazione della “forma” di un oggetto. Solo questo tipo di giudizio
ha la pretesa dell’universalità, non essendo soggetto a condizionamenti fisiologici o sensuali.
Un esempio può essere quello riguardante alcuni fenomeni naturali (l’arcobaleno, il cielo
stellato…), fenomeni che tutti riconoscono belli. Per ciò che riguarda il piacere, ognuno
riconosce la sua soggettività, ma quando si dichiara una cosa bella, si pretende che essa lo sia
per tutti, si parla della bellezza come se fosse una qualità della cosa.
In effetti i giudizi estetici puri sono davvero pochi.
Appurata l’universalità del bello, Kant si trova di fronte, per usare le sue stesse parole, al
problema della “deduzione” dei giudizi estetici puri, cioè alla “legittimazione della pretesa
dei giudizi di gusto alla validità universale”. Egli risolve questo problema della sua estetica
sulla base della comune struttura della mente umana. Kant afferma che il giudizio
estetico nasce da un “libero gioco”, ossia da uno spontaneo rapporto, tra
l’immaginazione e l’intelletto, in virtù del quale l’immagine della cosa appare
rispondente alle esigenze dell’intelletto, generando un senso di armonia. E poiché tale
meccanismo è identico in tutti gli individui, ecco spiegato come mai certe esperienze di
bellezza sono a tutti comuni. La bellezza dunque non sarebbe una proprietà oggettiva
delle cose, ma il frutto di un incontro del nostro spirito con le cose. Kant dice che “se le
belle forme sono in natura la bellezza è nell’uomo”, infatti perché queste forme si traducano
in bellezza è indispensabile la mediazione della mente.
E proprio per sottolineare come la bellezza esista solo in virtù dello spirito, Kant afferma
significativamente che essa non è un “favore” che la natura fa a noi, bensì un “favore” che
noi facciamo ad essa, innalzandola al livello della nostra umanità. Se la bellezza risiedesse
negli oggetti, perderebbe la propria universalità e non sarebbe più libera, perché ci
verrebbe imposta dagli oggetti. L’eteronomia estetica distruggerebbe l’universalità e la
libertà del giudizio di gusto, esattamente come eteronomia etica distruggerebbe l’universalità
e la libertà della legge morale. La bellezza, scrive Kant, è un “simbolo” della morale e dei
suoi attributi.
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Dopo aver trattato del bello, Kant passa all’analisi del sublime che era stato oggetto di
particolare attenzione da parte del pensiero settecentesco. Per sublime si intende, in generale,
un valore estetico che, in tutte le varie sottospecie (tragico, orrido, terribile, solenne) è
prodotto dalla percezione di qualcosa di smisurato o di incommensurabile.
Kant distingue il sublime matematico da quello dinamico. Il primo nasce in presenza di
qualcosa di smisuratamente grande, le montagne, il diametro terrestre, la via lattea… Di
fronte a queste cose nasce in noi uno stato d’animo ambivalente, da una parte dispiacere
perché la nostra immaginazione non ne abbraccia le grandezze, dall’altra piacere perché la
nostra ragione sa concepire l’infinito al cui confronto le maggiori grandezze naturali sono
piccole. Qualcosa di smisurato, ma di finito, ha il potere di risvegliare in noi l’idea
dell’infinito. Scoprendoci potatori di tale idea, che attesta la nostra essenza di esseri superiori
alla natura, ne proviamo una commozione profonda, che trasforma l’iniziale senso della
nostra piccolezza fisica in una coscienza della nostra grandezza spirituale. Ci accorgiamo che
il vero sublime non risiede tanto nell’oggetto che ci sta di fronte, quanto in noi stessi.
Il sublime dinamico, invece, nasce in presenza di strapotenti forze naturali, come le nuvole di
temporale che si ammassano fra lampi e tuoni, un uragano, un terremoto… Anche in queste
situazioni (se siamo al riparo dal pericolo, diversamente saremmo terrorizzati) avvertiamo in
principio un senso di piccolezza materiale nei confronti della natura, in seguito avvertiamo,
pascalianamente, un vivo sentimento della nostra grandezza ideale, dovuta alla dignità di
esseri umani pensanti e portatori della legge morale. Dunque l’angoscia trapassa in
entusiasmo. Entrambi i tipi di sublime sono caratterizzati dalla stessa dialettica dispiacerepiacere. Mentre il bello, sgorgando dalla consonanza di immaginazione e intelletto, ci
procura calma e serenità, il sublime nasce dalla rappresentazione dell’informe e si nutre
del contrasto tra immaginazione sensibile e ragione, provocando fremito e commozione.
Entrambe le cose sono però accomunate dal presupporre, come loro condizione, il soggetto e
la mente, che si configura dunque come il trascendentale dell’esperienza estetica, cioè come la
sua possibilità e il suo fondamento.
Il bello di cui Kant ha parlato sin qui è sostanzialmente il bello di natura. Distinto da
questo è il bello artistico, che ha la medesima definizione del primo, ma non viene appreso
nelle cose mediante il giudizio del gusto ma è prodotto dal “genio”, che è ragione che opera
come natura, ossia spontaneamente e creativamente. Per Kant nella scienza vi sono
“ingegni”, ma i “geni” ci sono solo nell’arte. Questo apre le porte alla celebrazione romantica
del genio. Fra i due belli esiste anche profonda affinità: la natura è bella quando
considerata esteticamente come opera d’arte, e questa è bella quando ha la spontaneità
della bellezza naturale.
- Come abbiamo visto la finalità del reale, oltre che essere percepita immediatamente nel
giudizio estetico, può anche essere pensata mediante il giudizio teleologico, in virtù del
concetto di “fine”.
Secondo Kant l’unica visione scientifica del mondo è quella meccanicistica, basata sulla
categoria di causa-effetto e sui giudizi determinanti. Egli però afferma che in noi vi è una
tendenza irresistibile a pensare finalisticamente. Di fronte ad un organismo vivente non
riusciamo a non pensare che vi sia uno scopo per cui le varie parti sono subordinate al tutto,
come, ad esempio, la funzione dei vari organi in vista della conservazione dell’individuo. Di
fronte all’ordine generale della natura non riusciamo a non pensare che esso sia frutto di una
mente superiore.
Il meccanicismo, pur essendo scientificamente funzionale, non annulla la necessità umana di
pensare le cose come effetto di un progetto razionale, concepito come realizzazione di un
disegno divino. In sede etica, analogamente, avvertiamo l’interiore esigenza di credere che la
natura sia organizzata in modo tale da rendere possibile la libertà e la moralità, e sia tutta
finalisticamente predisposta alla nostra specie, poiché senza l’uomo, essere ragionevole, la
creazione sarebbe un inutile deserto. In Kant, consapevole del fatto che non è lecito
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trasformare i bisogni in realtà, il giudizio teleologico è comunque privo di valore
dimostrativo, in quanto il suo assunto di partenza, la finalità, non è un dato verificabile, ma
solo un nostro modo di vedere il reale. Noi non possiamo mai fare a meno di incontrarci
con la considerazione teleologica, in quanto il meccanicismo, secondo Kant, non è in
grado di offrire una spiegazione soddisfacente e totale dei fenomeni naturali, in
particolare degli organismi. Egli arriva addirittura a scrivere che “non c’è nessuna ragione
umana […] che possa sperare di comprendere secondo cause meccaniche la produzione sia
pure di un solo filo d’erba”.
Il finalismo, concretamente, opera come un “promemoria” che da un lato ci ricorda i limiti
della visuale meccanicistica e dall’altro ci rammenta l’intrascendibilità dell’ordine
fenomenico e scientifico. Infatti, sebbene Kant lasci intendere che il finalismo, escluso nel
fenomeno, possa essere valido nella cosa in sé, si rifiuta, anche nella terza critica, di procedere
oltre la scienza ed il fenomeno.
Saranno invece i romantici che, pur muovendo da Kant, andranno oltre lui, con la pretesa di
rompere le dighe del Criticismo e di fare irruzione nel mondo della cosa in sé, trasformando i
“postulati” della morale, le “esigenze” del sentimento in altrettante realtà.
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