C`era una volta - Premio Letterario Santa Margherita

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C`era una volta - Premio Letterario Santa Margherita
C'era una volta ( E c'è, ancora)
di erika morgagni
C’era una volta ( E c’è, ancora.)
Ho conosciuto Molly una notte al mare. A dire il vero proprio notte non era. Albeggiava. Poi al mare
non vado mai. Di sicuro non ho mai pensato di viverci. Disteso nei prati verdi a far partorire all’erba
qualche fiore che si muove al vento come il collo delle belle donne, pronto i flettersi verso le orecchie
delle amiche per bisbigliare un segreto e poi tornare dritto con quelle due, tre vene eleganti in rilievo che
ti fanno vedere la vita scorrergli dentro. Ecco nelle colline vive tra le margherite mi ci immaginavo
spesso, al mare mai. Troppi vecchi con la crema solare scaduta sulle efelidi, gommoni a forma di animali
africani, castelli di sabbia deformati dalle onde. Troppo di tutto. E a me il troppo spaventa abbastanza.
Come quando fai una partita e peschi una matta ma il resto delle carte fa veramente schifo e senti nella
gola l’amaro da tesoro sprecato, da perla che non trova un filo decente dove infilarsi e finisce per
rotolare in un cassetto qualsiasi insieme all’anello di plastica dell’uovo di Pasqua e alla catenina della
cresima che in preda al primo moto indipendentista adolescenziale ti sei rifiutato di indossare. Per questo
quando ho conosciuto Molly ho pensato subito che era troppa. Lei. Tutta. E ho avuto una paura fottuta.
Stavo cercando un bidone per buttare la bottiglia di un pessimo Morellino di Scansano bevuto qualche
ora prima con una ragazza dal nome esotico trascinata in riva al mare per un epilogo erotico fin troppo
prevedibile. Le nostre lingue non erano pronte ad incontrarsi selvaggiamente ma solo a ruzzolare l’una
sull’altra, come bambini sulle ripide scale di una casa che non conoscono, tradite dall’acida asprezza di
quel vino comprato il giorno prima in offerta speciale al supermercato.
“Non la buttare, colleziono le bottiglie per il mio locale”. C’era in quella voce straniera qualcosa di
alcolico che finiva per farti ubriacare il cervello, incantarlo come fanno le fiabe.Oppure i vini buoni.
Perché i vini buoni sono fiabe liquide. Non starò a dirvi che la sua pelle scura di messicana si nutriva di
quella poetica lotta con il grembiule bianchissimo, che tra le sue dita la sigaretta accesa sembrava un
faro mobile pronto a cercare il morbido di due labbra perfettamente modellate, disegnate sul volto con
l’insolita astuzia di un sarto che si porta il miracolo della fantasia sulle mani.
“Vieni ti preparo la merenda visto che tanto non hai dormito”. Afferrò rapidamente la bottiglia con la
naturalezza di chi coglie un fiore e dilata la narice anticipandone l’odore.
“Albana dolce con ciambella della nonna da inzuppare”, mi disse facendo dondolare tra le sue dita sottili
un bicchiere pieno di liquido giallo, dalle sfumature ambrate che conferivano all’altalena del suo gesto
una grazia prepotente. Il suo sorriso esplose con la meravigliosa avventatezza che solo lo spettacolo
della bellezza può mettere in scena. Guardai dall’alto il bicchiere e pensai che sembrava contenere oro
fuso, qualcosa di prezioso che aveva per destino il sapore, la fiaba odorosa che racconta alla narice di
miele e albicocca. Lo portai alle labbra con lento riguardo, timoroso di guastare l’orlo di quell’aroma
solo bevuto con lo sguardo. Sorseggiai la favola liquida, gettandomi tra le braccia delle mandorle e delle
pesche, lasciai che la gola curiosa si facesse bisbigliare un bianco segreto, che diventasse bambina.
Schiacciai la ciambella appena tra le dita sudate prima di veder nuotare qualche briciola nel bicchiere
dorato, vittima ignara di un desiderio che diventava storia fluida. Varcai la soglia dell’appetito
provocato dalla morbidezza del burro e dalla finezza della zucchero, pronto a sfidare i denti con il suono
di uno scricchiolio garbato. Se il vino era fiaba liquida, la ciambella era il panorama del gusto. Quello
che vedi fuori dal finestrino quando percorri tutte le vie di campagna che non sapevi di avere dentro.
“Ottimo” dissi portando la mano alla bocca, nel goffo tentativo di proteggere quella mescolanza di fiabe
e panorami, di proteggerli dall’oblio del palato.
“ L’albana lo produciamo non lontano dal mare. Ha bisogno di vento e sole. La ciambella invece è
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merito dell’impasto della nonna”. Strinse un occhio solo Molly. Allora non sapevo che lei lo fa spesso.
Che gli occhi sono lo specchio dell’anima e lei ama chiudere metà della sua con la spontaneità di chi
oscura per un attimo una parte di sé per scoprirla più tersa un istante più tardi. Pensai che il mare e
Molly in fondo potevano farmi meno paura. Che la forza del gusto era proprio questa: farti entrare il
troppo della vita dentro con il candore del sapore. Che con la fiabe liquide del vino e i paesaggi
appetitosi del cibo scopri che esistere è un mistero che puoi sopportare, un segreto che ti puoi far
bisbigliare dalle labbra della bontà.
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