LEZIONE 1 Dove si discute la “questione dimensionale
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LEZIONE 1 Dove si discute la “questione dimensionale
LEZIONE 1 Dove si discute la “questione dimensionale”; inquadrandola nella prospettiva dei cambiamenti di lungo periodo dell’organizzazione della produzione e degli scambi che hanno investito il sistema industriale a livello mondiale; e che sono legati ai mutamenti del contesto macroeconomico e istituzionale. * La struttura produttiva dei paesi industriali è stata investita intorno ai primi anni 70 da un cambiamento imponente, che ha visto ridimensionarsi il predominio – fino a quel momento indiscusso – della grande impresa verticalmente integrata e il “riemergere” della produzione di piccola scala (massimamente in Italia). Questo fenomeno coincide temporalmente con l’esaurirsi della c.d. Golden Age, e con l’avvento di un contesto macroeconomico strutturalmente diverso. La coincidenza temporale riflette una relazione forte tra i due fenomeni, e in particolare una catena causale che va dal secondo al primo. Lo studio di questa relazione consente di inquadrare la “questione dimensionale” nella prospettiva dell’alternativa tra “mercato” e “gerarchia” nella soluzione del “problema produttivo”. * * * Noi siamo interessati in questa lezione a discutere il cambiamento di lungo periodo che caratterizza la struttura dimensionale (che non è un fenomeno statico); per comprenderne le ragioni è necessario partire da un inquadramento preliminare delle caratteristiche di fondo della GA. 1 1) Ascesa e declino della Golden Age § Glyn A., Hughes A., Lipietz A., Singh A. (1990) * Prima di tutto alcuni fatti stilizzati, che permettono di confrontare i connotati di fondo della GA con quelli della fase che si apre a seguire la sua crisi, e che qui definiremo “fase della de-regolazione”: GA [dal dopoguerra ai primi 70] De – regolazione [fino a fine secolo] crescita forte e stabile crescita bassa ed erratica accelerazione della π slowdown della π crescente industrializzazione de-industrializzazione bassa inflazione e disoccupazione alta inflazione e disoccupazione basso grado di integrazione intern.le crescente integrazione e globalizz. stabilità finanziaria (assicurata dal regime di Bretton Woods) instabilità finanziaria forte regolazione (sia sui mercati finanziari che su quelli reali – lavoro incluso) graduale de-regolazione in tutti i mercati 2 La GA è una “historical aberration” (Singh); è un vero e proprio regime, e non semplicemente l’esito di una “coincidenza temporale” di eventi favorevoli allo sviluppo. La sua logica di funzionamento è fondata su un complesso di interdipendenze definite tra le principali variabili macroeconomiche. E’ una eccezione nella storia dello sviluppo economico dei paesi industriali, non c’era mai stata prima e non c’è stata più dopo. In questo mondo “not only were they [le economie sviluppate] subject to international capital controls under the Bretton Woods regime, [but] they also had a plethora of controls, regulations, and other restrictive practices in the domestic product, capital and labour markets” (Singh, ??). Dal lato reale, la GA è “primarily domestically based”; ovvero il commercio estero svolge un ruolo rilevante ma non ancora decisivo (il grado di apertura delle economie industriali tende a crescere, ma ancora nei 60 è modesto). Un alimento ulteriore alla crescita è nella prima fase assicurato dalle esigenze della ricostruzione post-bellica (sia in Europa che in Giappone), agevolata anche dagli aiuti ERP. Più in generale, la GA è anche la storia del catching up delle economie europeee nei confronti degli USA. Va sottolineato in particolare il ruolo esercitato dalla straordinaria espansione della domanda relativa ai consumi (prevalentemente interni) di beni industriali, che, per tutto il primo ventennio del dopoguerra, caratterizza come forse non mai nella loro storia precedente le economie dei paesi sviluppati [in termini della c.d. legge di Engel, questo significa che l’elasticità della domanda di beni manufatti è in questa fase dello sviluppo elevata e crescente]. L’effetto della crescita dei consumi non è soltanto quello di mantenere sostenuta la domanda aggregata, ma ha anche – e forse soprattutto – a che vedere con “the assurance it gave to those taking investment decisions of a steadily growing market”, così da alimentare “a general encouragement to capacity-expanding investment” (Glyn et al., 1990). 3 §Traù (1998) schema logico (“modellino”) che definisce le relazioni causali alla base del circolo virtuoso L’ampiezza, la durata e la stabilità della crescita osservabili nel periodo in questione vengono in questo quadro attribuite all’operare di un circolo virtuoso che coniuga un’elevata dinamica del prodotto e dell’occupazione a bassi tassi di inflazione (il pieno impiego è ancora lontano e i prezzi dell’energia non sono un problema), attraverso una crescita della produttività talmente elevata da consentire sia un aumento “non inflazionistico” dei salari reali che il livello di profittabilità necessario a garantire un tasso di accumulazione eccezionalmente alto W π R C Y I In particolare la relazione che va da Y a π può essere letta alla luce di quella che va sotto il nome di 2a legge di Kaldor [1966] (Verdoorn [1949]), [che però si riferisce propriamente all’industria manifatturiera] Rendimenti crescenti di tipo dinamico: * I rendimenti crescenti a cui ci si riferisce sono un fenomeno osservabile esclusivamente a livello aggregato. La questione era del tutto chiara già a Young, che a proposito delle “principal economies which manifest themselves in increasing returns …” osserva come “we may miss them if we try to make of large-scale production … as contrasted with large production, any more than an incident in the general process by which increasing returns are secured” (1928, p. 531, corsivi originali); e dunque, anche se “much has been said about industrial integration as a concomitant … of an increasing industrial output, … the opposed process, industrial differentiation, has been and remains the type 4 of change characteristically associated with the growth of production” (p. 537, corsivo aggiunto). Riprendendo Young, lo stesso Kaldor osserva che “increasing returns is a macro-phenomenon – just because so much of the economies of scale emerge as a result of increased differentiation, the emergence of new processes and new subsidiary industries, they cannot be discerned adequately by observing the effects of variations in the size of an individual firm or of a particular industry’ ” (1966, p. 288)1. * Sullo stesso piano si muove un’altra fonte di rendimenti crescenti di tipo dinamico, che è data dal learning by doing: Il learning-by-doing, in base al quale “si fa sempre meglio quello che si fa in quantità crescente”, implica che il processo di arricchimento della conoscenza vada di pari passo con l’espansione nel tempo dell’output dell’industria. Il carattere dinamico del fenomeno si esprime nel fatto che l’abbattimento dei costi non è osservabile lungo una stessa curva dei costi unitari di lungo periodo (ossia non è semplicemente quello che corrisponde al passaggio da una determinata scala ad una più ampia), ma comporta un suo abbassamento per ciascun livello della quantità prodotta. Emerge così una relazione, descritta dalle c.d. curve di apprendimento, per cui i costi unitari delle singole imprese diminuiscono, nel corso della “storia”, al crescere cumulativo dell’output del settore a cui esse appartengono. Il fenomeno può essere inquadrato, sul piano teorico, nell’ambito della prospettiva smithiana della divisione del lavoro, e in particolare in termini dell’ “increase of dexterity” conseguente all’aumento della specializzazione2. Ma nell’analisi di Smith la divisione del 1 La questione – come lo stesso Kaldor ricorda – è la stessa posta in evidenza da Verdoorn (1949). 2 Cfr. Smith (1776, Book 1, Ch. 1). Secondo Smith, all’ambito delle economie che originano dalla divisione del lavoro appartengono com’è noto anche gli effetti dovuti ai “risparmi di tempo” che si ottengono impiegando soggetti diversi per svolgere attività (fasi) produttive diverse, e quelli legati alla possibilità di impiegare per ciascuna lavorazione “[the] proper machinery” (che si ritrovano 5 lavoro è, ancora, del tutto compatibile con la “gerarchia”, ovvero può benissimo avere luogo all’interno di una grande impresa verticalmente integrata, senza necessariamente dare luogo a scambi di mercato tra imprese specializzate3. E, d’altra parte, la stessa questione delle curve di apprendimento sopra evocata trae notoriamente origine dai risultati osservati all’interno dell’industria aeronautica, di per sé dominata dalla presenza di grandi imprese verticalmente integrate. Dal lato finanziario, il ruolo svolto dalle istituzioni sorte con gli accordi di B.W. (nel 1944) è decisivo: a) le istituzioni nate dagli accordi svolgono – tra gli altri – il compito di contenere al minimo il possibile ruolo della speculazione, contribuendo per questa via a mantenere bassi i “costi di raccolta” dell’informazione esterna all’impresa [nel senso suggerito ad es. da Richardson 1960, secondo cui le imprese operano in condizioni di informazione incompleta per tutto quello che accade al di fuori dei loro confini]; b) e comunque ragionevolmente prevedibili i rendimenti attesi (anche grazie al livello comunque contenuto dei tassi di interesse reali, legato a sua volta alla sostanziale assenza di rischi inflazionistici). Dal punto di vista dell’andamento dei cambi, “under the Bretton Woods system, foreign exchange risk was borne by the public sector. With that system’s collapse, foreign exchange risk was privatized” (Eatwell 1995). sostanzialmente invariati nelle “economies of specialized machinery” evocate da Marshall – cfr. par. precedente). 3 Smith si limita a fare riferimento al fatto che “in those great manufactures, … which are destined to supply the great wants of the great body of the people, every different branch of the work employs so great a number of workmen, that it is impossible to collect them into the same workhouse” (1976 [1776], p. 14). Ma questo sembra piuttosto un riferimento a un problema di ordine organizzativo. 6 2) L’evoluzione del pattern dimensionale fino all’inizio dei 70 * Questo contesto macroeconomico è il contesto ideale all’interno del quale un’organizzazione possa svilupparsi (crescere): in queste condizioni infatti il problema principale per l’impresa è quello di stabilizzare non la domanda finale – che è già stabile di per sé –, ma semmai l’offerta [i costi fissi non sono un problema], che può essere condizionata negativamente da un “eccesso” di dipendenza dai mercati intermedi. La minimizzazione del rischio, in questo contesto, consiste nel garantire che l’accesso ai canali di approvvigionamento e di vendita (alle attività a monte e a valle) non venga perturbato da occasionali interruzioni dovute ad eventi “di mercato”; ovvero, richiede che l’impresa integri tutte le attività che la sua capacità di gestione consente di governare all’interno di un'unica unità organizzativa. [per Chandler e Hikino (1997), in quel contesto "potential cost advantages of plant size ... could not be fully realized unless a steady flow of materials through the plant and factory was attained"; così che "where essential supplies of raw and intermediate materials were not readily available, firms had to integrate backward into such industries and activities”] Lo sviluppo industriale passa così attraverso un processo di crescente verticalizzazione produttiva, e dunque di aumento della dimensione, che risponde all’esigenza di accrescere il controllo diretto dell’impresa sull'arco più ampio possibile di attività funzionalmente legate a quella principale. ma un contesto “ambientale” stabile rende anche possibile pianificare le attività nel quadro di strategie di lungo periodo, [“secondo un processo di scelte concatenate collegate in un quadro sequenziale di ampio orizzonte temporale” (Momigliano 1975)], che è ciò di cui ha bisogno una grande organizzazione per svilupparsi. Ovvero, un contesto che sia caratterizzato da una sostanziale prevedibilità degli eventi (da qualcosa che assomiglia a una “standardizzazione dei possibili shock”), perché è solo a queste condizioni che l’organizzazione può adottare una logica di tipo “procedurale” (tutti i manager in charge di quella funzione si comportano nel medesimo modo), come si richiede 7 quando la scala raggiunta renda impossibile all’imprenditore gestire l’organizzazione direttamente, e si richieda la delega a un management esterno. Gli effetti congiunti dell'integrazione in senso verticale e orizzontale hanno dunque anche conseguenze sul piano organizzativo: poiché lo span of control (il numero massimo di persone che possono essere controllate direttamente da qualsiasi livello della gerarchia) è comunque limitato, la crescita dimensionale impone che l'impresa adotti soluzioni diverse dalla semplice addizione sequenziale di nuove unità produttive, tutte collocate sotto il medesimo “tetto” amministrativo. E’ cioè necessario costruire un’architettura amministrativa (una gerarchia). E’ questa la premessa del passaggio della grande impresa a un’organizzazione di tipo multidivisionale (M-form), che all’inizio degli anni Settanta risulta estesa ormai anche a paesi che hanno conseguito la loro maturità industriale in ritardo rispetto a quelli (in primo luogo gli Stati Uniti) nei quali essa si era già da tempo sviluppata. D’altro canto, in un contesto “ambientale” caratterizzato da eventi relativamente ripetitivi (la cui frequenza può essere agevolmente calcolata) la forma più ovvia di riduzione del rischio diventa la diversificazione delle attività: così che in questa stessa prospettiva possono essere inquadrati anche gli sviluppi di quella che è invece, più propriamente, un’estensione dell'impresa in senso “conglomerale”, ovvero l’ingresso in campi di attività del tutto indipendenti da quello che costituisce il “core business”, e che a sua volta contribuisce ad accentuare ancora di più la tendenza verso un aumento delle dimensioni medie di impresa [“During the first few decades of the post-war period, firms tended to diversify in order to reduce their exposure risk. This was the golden era of conglomerates” (Carlsson 1996). 8 Così, sul finire dei 60 J.K.Galbraith (1967) apriva la sua analisi del funzionamento del “New Industrial State” affermando senza giri di parole che “the part of the economy...of which the most conspicuous manifestation is the modern large corporation ... is the part ... we identify with the modern industrial society. (...) To understand the rest of the economy ... is to understand very little”. Questa visione rifletteva allora, sul piano empirico, l’apparente assenza di forze economiche che potessero contrastare l’ascesa della grande impresa come soggetto dominante all’interno del sistema produttivo: la tendenza dell'attività produttiva a concentrarsi all’interno di unità sempre più grandi e complesse appariva semplicemente come una delle “leggi” immanenti dello sviluppo industriale. Al punto che la crescente dimensione (e influenza) delle large corporation all’interno dei paesi sviluppati aveva già da tempo attivato più di un tentativo di fornire un’interpretazione del fenomeno anche sul piano teorico; così che l’inizio del decennio Sessanta coincide, da questo punto di vista, con una fioritura straordinaria di modelli esplicativi del funzionamento della grande impresa. * [Qualche presupposto di ordine teorico (l’impresa come coalizione di soggetti)] Se l’enfasi sulla questione della concentrazione in quanto tale rinvia comunque a Marx, il riferimento cruciale sul quale si fonda l’insieme delle costruzioni teoriche che si affacciano in questi anni è senza ombra di dubbio quello di Berle e Means (1932): l’asse principale sul quale i diversi contributi si incardinano è infatti quello della progressiva "managerializzazione" della grande organizzazione produttiva, innescata dalla tendenziale separazione della proprietà dal controllo direttivo. Ma un ruolo fondamentale – e in un certo senso preliminare – svolgono in questo contesto anche gli sviluppi della teoria dell'organizzazione, che fin dai primi anni del dopoguerra offre una sponda rilevante all'analisi del sistema decisionale (e in particolare del comportamento discrezionale) all'interno di sistemi burocratici complessi. 9 Proprio questa seconda prospettiva offre la possibilità di cogliere in termini particolarmente chiari il senso della corporation come "scatola" all'interno della quale il processo di elaborazione delle informazioni e di formulazione delle decisioni costituisce il risultato dell'interazione di più soggetti, dalla cui forza relativa dipendono i comportamenti dell’impresa. Seguendo in particolare Cyert e March (1963), il modello di funzionamento della grande impresa può essere caratterizzato come l'esito dell'azione di una coalizione di soggetti, ciascuno dei quali è portatore di "different preference orderings" (ossia di obiettivi individuali). Questo significa che l'esistenza di conflitti interni costituisce la condizione "naturale" di operatività di un'organizzazione complessa (e le impone tra l'altro oneri di composizione dei conflitti stessi tali da determinare un sovradimensionamento dei costi unitari rispetto ad organizzazioni più semplici, che sono per loro natura prive di "divisioni" interne). La letteratura innescata dal contributo di Berle e Means pone in primo piano, a sua volta, il fatto che a queste caratteristiche – che sono comunque una funzione della scala organizzativa – si accompagna, nel corso dello sviluppo industriale, l'estendersi della joint stock company come forma tipica dell'assetto proprietario. Questo fenomeno implica a sua volta il consolidarsi del management come soggetto autonomo della funzione amministrativa (del controllo). Poiché la funzione di utilità dei nuovi amministratori non-proprietari risulta sensibile, più che ai profitti dell'impresa, ad altri parametri (a loro volta funzione, quale più quale meno, della scala produttiva alla quale l'impresa opera), la maggior parte dei modelli teorici si spinge a suggerire anche un sostanziale cambiamento degli stessi obiettivi dell'impresa "manageriale": quantomeno nei casi in cui il punto di vista dei manager prevalga su quello della proprietà, l'espansione dimensionale diventa uno degli scopi dell'impresa in quanto tale. 10 3. La GA si dissipa (l’inversione di tendenza del contesto) * C’è dunque una storia industriale (dell’Italia e degli altri grandi paesi sviluppati) che si dispiega per un lunghissimo tempo [di fatto, fin dalle origini dello sviluppo industriale, e poi sempre più decisamente nel corso della GA] attraverso una progressiva concentrazione delle attività all’interno di grandi strutture verticalmente integrate (ovvero attraverso un processo di continua inclusione di nuove attività all’interno dei confini dell’impresa: se per la realizzazione dell’output finale serve un pezzo, lo si produce). Questa modalità di organizzazione della produzione prevede che l’impresa sia sottoposta al coordinamento, di tipo “gerarchico” (che si realizza ex ante), garantito dal “principio di autorità”. * Ma a un certo punto di questa storia si consuma una frattura che – a partire grossomodo dall’ultimo quarto del secolo che abbiamo alle spalle e massimamente in Italia – vede delinearsi una discontinuità senza precedenti nella storia dello sviluppo industriale. * Questa discontinuità si rifletterà in una vera e propria inversione di tendenza del pattern di sviluppo dimensionale delle imprese, che vedrà il “ri-emergere” della small scale production [che documenteremo più avanti] Ma – così come GA e grande dimensione di impresa “si tengono” tra loro – analogamente il cambiamento strutturale riflette il dissiparsi della GA, e l’emergere di un nuovo quadro di riferimento per gli operatori a livello macroeconomico e istituzionale. Questo nuovo quadro spinge verso un cambiamento radicale delle forme attraverso cui si realizza la divisione del lavoro [che è un principio smithiano, ma che in Smith è totalmente svincolata dalle modalità organizzative attraverso cui si realizza]: e la “sposta” dalla gerarchia al mercato. In che modo? 11 Declino della GA La rigidità del regime della GA trovava la sua ragione d’essere (il suo margine di compatibilità con un tasso di crescita sostenuto) nelle caratteristiche stesse del processo di accumulazione: le attese di una crescita persistente legate alla stabilità (e soprattutto alla standardizzazione) della domanda garantivano infatti agli investitori un elevato grado di “calcolabilità” dei rendimenti attesi. Con i primi anni Settanta il contesto macroeconomico subisce alcune trasformazioni cruciali, in parte di origine esogena (conseguenti agli shock che colpiscono le economie industriali dal 1971 in poi) e in parte endogeni allo stesso “successo” del modello di sviluppo di cui si discute. Sul piano reale, il colpo più grave proviene nel 1973 e nel 1979 dai due shock petroliferi, che fanno repentinamente esplodere i prezzi degli input energetici, accelerando un processo inflazionistico già innescato dalla sopraggiunta rigidità salariale. I problemi più rilevanti emergono tuttavia, tra il 1971 e il 1973, sul piano finanziario, con l’abbandono del Sistema di Bretton Woods [dichiarazione di inconvertibiità del dollaro dopo l’accumulo di dollari nei portafogli dei paesi europei, a sua volta implicato dal finanziamento del deficit americano] e l’ingresso in una prolungata fase di turbolenza sul mercato dei cambi, che apre la strada a un periodo di forte instabilità finanziaria e alla speculazione (entrambe enfatizzate anche dal graduale abbattimento delle restrizioni alla mobilità dei capitali via via adottato da tutti i principali paesi industriali). A livello macroeconomico questo fenomeno implica un enorme aumento della volatilità dei cambi e dei tassi di interesse, oltre che un innalzamento strutturale dei tassi reali (innescato dalle politiche di controllo dell’inflazione), e dunque un forte rallentamento del processo di accumulazione. Al problema della stabilizzazione dell’ambiente economico (condizione preliminare della ricostruzione post-bellica) si sostituisce un problema di gestione dell’inflazione e della disoccupazione, entrambe endogene allo stesso conseguimento degli 12 obiettivi finali del “modello” (ovvero al raggiungimento di una condizione di pieno impiego). 4. Come la dissipazione del regime della GA agisce sulla struttura dimensionale Dal lato reale: All’inizio della GA l’apertura commerciale è limitata, e lo sviluppo – per quanto quello italiano sia stato definito export led – è all’inizio trainato ancora in misura rilevante dalla domanda interna di beni industriali [il Trattato di Roma è del 57]). Con lo sviluppo industriale la pressione concorrenziale da integrazione internazionale (specie quella tra gli stessi paesi industriali) cresce però nel tempo, e implica che una quota crescente dei consumi non solo dipenda da un numero sempre maggiore di produttori, ma sia anche sempre più influenzata dall’andamento dei cambi e dei prezzi relativi. La domanda diventa più volatile sia per questa stessa ragione, sia perché man mano che le economie si sviluppano aumenta il suo grado di differenziazione (la struttura dei consumi evolve), così che si delinea per la prima volta un’incertezza “di mercato”: la domanda è meno prevedibile, la concorrenza tra i produttori aumenta (il mercato rilevante non è più quello nazionale), il rallentamento della crescita si riflette in consumi meno dinamici. L’ inasprimento della concorrenza ha tre effetti: 1) spinge vs. l'azzeramento dei margini di X-inefficiency ( < L) 2) comprime i margini di profitto (in presenza, nel frattempo, di rigidità salariale) 3) spinge vs. la concentrazione sul core business (tutto quello che può essere acquisito sul mercato a un costo minore lo si smette di produrre): ne deriva che si dismettono tutte le attività conglomerate (dis-integrazione “laterale”) 13 Dal lato finanziario: Fino ai primi 70 – Elevata regolazione internazionale (Bretton Woods contiene la speculazione internazionale), l'inflazione è bassa [lontananza dal pieno impiego + controllo dei prezzi energetici] e quindi pure i tassi di interesse sono bassi e oscillano poco; i mercati dei capitali non sono ancora liberalizzati. Dalla metà dei 70 – Cambia tutto (i cambi cominciano a ballare, l'inflazione esplode, i tassi nominali si alzano e sorge il problema di valutare le prospettive di quelli reali, i mercati dei capitali gradualmente si liberalizzano). Ovvero: si passa dal rischio all’incertezza, ossia da una fase a) in cui la bassa turbolenza mantiene agevolmente prevedibili i rendimenti attesi (sono possibili investimenti “di lungo periodo” – di grandi dimensioni e a rendimento differito) a una fase b) in cui l’orizzonte temporale su cui è possibile prevedere i ritorni si accorcia drasticamente, e l’ “option value of waiting” di investimenti grandi (con costi di uscita alti) aumenta. c) by the way, l’incertezza spinge anch’essa vs il core business, perché riduce l'efficacia della diversificazione come forma di riduzione del rischio. Il combinato disposto dell’incertezza “di mercato” (minore prevedibilità della domanda) e dell’incertezza “finanziaria” (il costo di raccolta dell’informazione esterna all’impresa si impenna) fa sì che gli investimenti di grandi dimensioni vengano scoraggiati, e che emerga un’ossessione da costi fissi: dove è possibile (dove le funzioni di costo sono separabili), il processo produttivo viene dis-integrato verticalmente (per fase). 14 L’esaurirsi della GA è accompagnato da alcuni altri fattori di cambiamento: La letteratura, al di fuori di questo quadro logico, ha attirato l’attenzione negli anni anche su altri fattori di cambiamento, che hanno per lo più invece agito direttamente sulla struttura dimensionale delle imprese. Questo tipo di analisi si si muove su un piano sostanzialmente “storico” (è andata così), ma le considerazioni che seguono possono comunque essere ricondotte quasi tutte all’interno del meccanismo di ascesa e declino della GA. shock esogeni: 1) oil effect (1973 e 1979) spinge vs produzioni meno energy intensive [in generale a alta intensità di scala]; 2) salto tecnologico abbassa la MES e riduce il vincolo "da indivisibilità" teorizzato da Steindl (1945). shock endogeni: 3) shock salariale [che viene dal pieno impiego] vincola i profitti “dal lato destro” dello schema visto in precedenza, e dunque scoraggia gli investimenti in generale; 4) conflittualità sindacale [che viene dal pieno impiego] spinge vs. unità meno sindacalizzate cioè + piccole; 5) affievolimento della loyalty (Simon 1945), che viene compromessa dalla standardizzazione (parcellizzazione) delle attività dentro l’impresa ed è ancora più radicale nei suoi effetti della stessa conflittualità di origine sindacale; sottrae all’impresa una delle sue forze centripete più potenti, che è quella che compensa l’incompletezza del contratto di lavoro; 6) frammentazione della domanda [esito di un reddito pro-capite crescente] finisce l’era della “mass production” e nasce quella della domanda differenziata, che è + small scale compatibile. 15 * Nei dati che misurano la performance aggregata delle economie “avanzate” del periodo, il dissiparsi delle condizioni “ambientali” che per oltre un ventennio avevano costituito i cardini della Golden Age può essere colto, a partire dai primi anni Settanta, nella contrazione del ritmo di crescita dell’output e nell’aumento del suo grado di variabilità intertemporale. Qualche dato (del periodo) § Traù (2001) [slide da 2 a 6] [dove si documentano le principali asserzioni di cui sopra] * La cifra più rilevante del cambiamento è però forse la “perdita” della relazione che va dal(la crescita del) prodotto a (quella de)lla produttività, e che è incardinata sul principio smithiano incorporato nella cd. “legge” di Kaldor-Verdoorn [2a legge di Kaldor]: Slide da 7 a 9 La crescita della produttività risulta, a partire dalla metà degli anni Settanta, regolarmente superiore a quella dell’output, mentre nella GA era inferiore. Si “spezza” la relazione strutturale che lega le variazioni della produttività a quelle dell’output in un’ottica di tipo Kaldor-Verdoorn. All’esaurirsi della Golden Age corrisponde dunque un cambiamento sostanziale del “modello” di industrializzazione dei paesi sviluppati. Il rapporto che lega le variazioni della produttività e del prodotto si inverte, determinando un capovolgimento strutturale del rapporto tra la dinamica del prodotto e quella della produttività. Ne deriva – in una prospettiva “regolazionista” – una netta contrazione, a fronte di una minore espansione dei volumi, del livello dell’occupazione manifatturiera in termini assoluti. Mentre l’incertezza scoraggia la crescita, l’aumento della pressione competitiva “brucia” gradualmente quella parte del settore industriale che in precedenza era cresciuta all'ombra di una situazione di mercato del tutto straordinaria. 16 5. Il cambiamento della struttura dimensionale [Slide da 10 a 21 L’evolversi della struttura industriale nella direzione indicata (l’emergere della small scale production) può essere interpretato come l’esito di un cambiamento radicale nella logica di organizzazione della produzione e degli scambi. Questo cambiamento si è realizzato, in tempi relativamente rapidi, attraverso un forte decentramento delle unità di governo, che ha determinato il passaggio da un’economia “manageriale” (in cui l’efficienza del sistema è garantita dalla coerenza dei comportamenti degli operatori all’interno di una medesima organizzazione) a un’economia “imprenditoriale” (in cui è il mercato a garantire la composizione efficiente di una pluralità di comportamenti individuali). Nel primo caso – che aveva raggiunto la sua configurazione più compiuta nel corso della Golden Age – il carattere in larga misura prevedibile degli eventi è compatibile con i criteri codificati di risposta propri dell’organizzazione gerarchica delle attività. Nel secondo – che emerge negli anni successivi al suo declino – prevale l’esigenza di assicurare l’istantaneità di risposta di fronte a eventi caratterizzati da incertezza; e dunque la velocità di reazione degli operatori agli shock è mediamente più alta (il tempo richiesto per processare le informazioni rilevanti è minore). 17 6. Qual è il modello di comportamento dell’impresa sotteso a questi cambiamenti? Dal punto di vista dell’impresa, qual è il presupposto di ordine logico per cui i cambiamenti di contesto più sopra stilizzati rendono l’organizzazione gerarchica delle attività “improvvisamente” inefficiente? Ovvero, per quale ragione interna alla logica del loro funzionamento le imprese decidono di ridurre lo spettro (e dunque la scala) delle attività di fronte ai mutamenti del “quadro ambientale”? Detto ancora in altri termini, quale modello di comportamento dell’impresa è in grado di spiegare perché, di fronte a quelle discontinuità macroeconomiche, il sistema produttivo si orienta verso questa specifica soluzione organizzativa? Un po’ di teoria A] La prima cosa da dire, nella prospettiva delineata, è che dal punto di vista della teoria economica non è affatto ovvio che esplosione dell’incertezza e inasprimento della concorrenza determinino, in quanto tali, l’adozione della soluzione organizzativa osservata. Ad esempio, secondo quello che può essere considerato uno degli approcci più in voga nell’ambito delle interpretazioni teoriche del comportamento di impresa, e cioè il c.d. paradigma CoaseWilliamson, gli eventi ricordati dovrebbero piuttosto spingere le imprese verso un grado di integrazione (verticale o orizzontale che sia) relativamente maggiore. Nello schema Coase-Williamson l’integrazione costituisce esattamente la soluzione che l’impresa adotta in risposta all’esigenza di neutralizzare sia l’inefficienza relativa del mercato (a sua volta determinata da razionalità limitata, specificità degli investimenti e opportunismo) che l’incertezza [cfr. per tutti Williamson 1993]. Poiché non è ovvio che nel periodo in questione la prima si riduca, mentre è certo che la seconda aumenta, la c.d. “predizione” implicita nel paradigma procede nella direzione opposta a quella dei fatti (ovvero non spiega il fenomeno più macroscopico dello sviluppo industriale degli ultimi trent’anni). 18 B] A partire dalle analisi di Richardson (1960), Malmgren (1961), e soprattutto Robinson (1935), è possibile definire uno schema del comportamento di impresa in grado di spiegare il downsizing delle imprese industriali che accompagna il dissiparsi della Golden Age. Lo schema si incardina sul presupposto secondo cui la difficoltà di organizzare una qualsiasi attività cresce più che proporzionalmente all'aumentare della sua scala. Il principio in questione, sintetizzato nella famosa metafora dell’esercito suggerita dallo stesso Robinson (“the problem of commanding an army is not simply the sum of the problems of commanding the platoons in it”, 1935, p. 45), assume che una dimensione maggiore implichi in quanto tale un aumento della complessità dei problemi che l'impresa deve affrontare. Il concetto di complessità, tuttavia, è tanto intuitivo quanto elusivo, e per essere analizzato richiede in primo luogo una definizione meno generica. Un modo per renderlo più trattabile è quello di definirlo in termini del numero delle variabili che possono essere considerate rilevanti per la gestione delle attività dell’impresa. Poiché un numero maggiore di variabili da “tenere sotto controllo” implica un numero più elevato di informazioni da processare, e dunque si traduce in costi di raccolta e di gestione dell’informazione più alti (in un maggiore fabbisogno di “risorse organizzative”), si può provare a esprimere la complessità in termini della somma di questi costi, che qui verranno chiamati costi di gestione dell’organizzazione (CGO), e che dunque rappresentano il versante opposto dei “costi di gestione del mercato”. E’ lecito immaginare che, mediamente, le imprese fossero arrivate al culmine della Golden Age con CGO già molto alti, semplicemente per effetto dell’elevato livello di integrazione raggiunto (e cioè in conseguenza del prevalere dell’“organizzazione” sull’opzione “di mercato”). Detto in altri termini, la complessità media delle organizzazioni aveva raggiunto in questa fase un livello “storicamente” elevato. In questo contesto, il combinato disposto rappresentato dall’esplodere dell’incertezza e da un livello della concorrenza che “intanto” è diventato 19 molto più alto che nel passato determina un conflitto potenziale, all’interno dell’impresa, tra obiettivi divergenti. [Attenzione, in questo caso la divergenza NON riguarda l’esistenza di conflitti all’interno dell’impresa come coalizione di soggetti, ma semplicemente l’esistenza di due obiettivi contrastanti all’interno del medesimo soggetto decisionale] L’esplosione di quella che potremmo chiamare “incertezza finanziaria”, infatti, eleva strutturalmente, a partire dalla metà degli anni Settanta, il numero delle grandezze economiche da tenere sotto controllo, implicando un ulteriore forte incremento dei costi organizzativi richiesti per seguitare a “tenere insieme” la scala di attività già raggiunta (ceteris paribus i CGO per “unità di dimensione” si impennano). [Malmgren (1961) definisce l’informazione sottratta al mercato (internalizzata) “controlled information”; nel linguaggio di Richardson (1960) lo stesso concetto è definito come technical information; al contrario l’informazione relativa a quello che succede al di fuori dell’impresa è definita secondary information. Quanto più “stabile” questo tipo di informazione tanto maggiore la possibile scala dell’impresa]. Al tempo stesso, tuttavia, l’impresa deve fronteggiare anche altri due problemi: il primo è l’aumento della concorrenza (che richiede sia una riduzione del livello degli input per unità di output che un aumento della “qualità” dei beni prodotti); il secondo è l’aumento di quella che si può definire “incertezza di mercato”, che si esprime in una crescente volatilità della domanda (a sua volta legata all’elevato livello di diversificazione raggiunto). La concorrenza spinge verso una riduzione del grado di X-inefficiency interno all’impresa (ossia verso lo shedding out delle risorse meno efficienti) e verso la concentrazione sul core business, che implica un minore grado di integrazione “conglomerale” (si abbandonano le attività in cui si è meno competitivi). L’incertezza dal lato della domanda spinge verso il ridimensionamento della quota dei costi fissi sul totale, e dunque verso una selezione “in verticale” delle attività da mantenere all’interno dell’impresa (delegando la realizzazione delle 20 altre al mercato). Di fronte a questo doppio shock l’impresa non può permettersi di diventare “più costosa” (come richiesto dall’aumento della “domanda di coordinamento” che consegue ai maggiori CGO), e dunque deve ridimensionare la scala delle sue attività, riducendola almeno al livello che mantiene i CGO invariati. Il mantenimento della scala già raggiunta, in questo quadro, sarebbe infatti immaginabile soltanto a condizione che fosse possibile accrescere fortemente l’efficienza con cui l’impresa non soltanto processa le informazioni rilevanti (ciò che potrebbe essere forse consentito, almeno in parte, dai grandi sviluppi delle tecnologie dell’informazione nel frattempo intervenuti), ma soprattutto quella con cui riesce a farne uso. Ma questo non è possibile, e non lo è perché la risorsa gestionale è, nel breve periodo, esogenamente data. Dunque tutto quanto detto fin qui è compatibile esclusivamente con presupposti teorici definiti: perchè ci sia downsizing è necessario un “modello” di comportamento dell’impresa che assuma che la risorsa gestionale è scarsa. Solo in questo caso, infatti, [ovvero se essa matura solo internamente e lentamente à la Penrose (1959)], il doppio shock concorrenza-incertezza impone alle imprese di ridurre la scala delle attività (le imprese devono contemporaneamente ridurre le risorse interne e gestire molte più informazioni di prima; l’unica soluzione è quella di ridurre il loro stesso “grado di complessità”). E’ importante sottolineare che l’abbattimento dei costi di raccolta delle informazioni, conseguente allo sviluppo delle tecnologie informatiche, non è in questo quadro decisivo, perché non comporta in alcun modo anche una contestuale riduzione del tempo richiesto per valutarle e assumere decisioni coerenti con esse. Ciò comporta che l’impresa debba selezionare quali informazioni seguitare a “controllare” internamente, e quali invece “abbandonare” al mercato. Questo fenomeno mostra di essere risultato specialmente intenso nell’esperienza italiana 21 C] Ovvero in Italia la de-verticalizzazione e il downsizing sono stati molto più accentuati che altrove. Dunque, guardando da questa finestra si potrebbe essere tentati di dire che in Italia il vincolo manageriale sia stato più stringente che altrove. Qui le considerazioni sono due: a) sì, è probabilmente vero, perché l’Italia all'inizio dei '70s era un paese in ritardo di sviluppo rispetto alle altre economie industriali, e quindi (se si vuole à la Fuà) aveva in generale un deficit relativo di capacità di gestione di organizzazioni complesse [tant'è che Saraceno vorrà che nell'area in più forte ritardo le "crei" lo Stato]; b) l'Italia – ancora, in quanto paese in ritardo – aveva ancora una quota alta dell'occupazione concentrata in attività tradizionali [di per loro adattissime alla scomposizione verticale] e in imprese piccole quando non artigianali. Nello specifico contesto italiano, la concretizzazione del progetto di contenimento dei CGO e di deverticalizzazione delle attività è stata condizionata cioè in misura rilevante dalle caratteristiche strutturali del mercato dei beni intermedi, che il cambiamento nella divisione del lavoro tendeva ad interessare. Perchè il processo si realizzasse con la relativa rapidità e con l’estensione con cui si è effettivamente realizzato, era necessario che ciò che veniva abbandonato fosse “raccolto” da organizzazioni preesistenti in grado di produrlo in modo altrettanto efficiente e di valorizzare le economie di specializzazione collegate alla riorganizzazione del modello produttivo. Da questo punto di vista, il sistema industriale italiano sembrava fatto su misura: mercato nazionale limitato, diffusa permanenza di mercati locali, specializzazione in settori ad elevata variabilità della domanda, hanno infatti favorito il consolidamento di un ampio segmento di imprese di dimensioni minori inserite in architetture organizzative con marcate connotazioni “poliarchiche”. Cosa è una poliarchia? E’ un modello di architettura organizzativa suggerito da Sah e Stiglitz (1986 e 22 1988), in cui la poliarchia identifica un sistema decisionale e operativo con forti connotazioni decentrate, popolato da un numero molto elevato di agenti tendenzialmente individuali (microimprese) che attuano scelte (cosa e come produrre) in forma indipendente e in parallelo. La gerarchia, all’opposto, qualifica un sistema in cui pochi attori di natura collettiva (grandi imprese) si sono dotati di una autorità decisionale centralizzata e selezionano i propri corsi di azione attraverso procedure sequenziali. Gli agenti, nella poliarchia come nella gerarchia, operano in un contesto di informazione imperfetta e possono commettere errori: possono accogliere progetti che dovrebbero essere rifiutati (bad project) oppure possono rifiutare progetti che invece risulterebbe vantaggioso accogliere (good project). I due tipi di errore sono di numero e di natura diversa. Il numero dei progetti accolti, indipendentemente dal fatto che siano profittevoli o meno, è superiore nella poliarchia rispetto alla gerarchia. A parità di condizioni, infatti nella prima il carattere decentrato delle decisioni rende probabile che un progetto rifiutato da un agente (impresa) venga invece accolto da un altro. Nella gerarchia invece, poiché il processo decisionale è lungo e articolato (e le possibili valutazioni discordanti [qui può trovare spazio anche un’idea dell’impresa come coalizione di soggetti]), il numero dei rifiuti tende ad essere più elevato. Anche la natura degli errori è diversa. Nella gerarchia il carattere sequenziale del processo decisionale rende basso il rischio che un bad project venga accolto, mentre è l’inverso per la poliarchia. In sintesi, nella stessa unità di tempo la gerarchia seleziona pochi progetti ma profittevoli; la poliarchia, invece, accoglie un numero elevato di progetti ma tra questi un numero non piccolo può essere rappresentato da opportunità che era meglio rifiutare. Se i progetti sono piccoli e numerosi, la percentuale dei good project è sufficientemente elevata e i costi di uscita sono contenuti, un sistema decisionale decentrato evidenzia vantaggi superiori a quello accentrato. 23 Viceversa, quando la dimensione dei progetti è particolarmente elevata, il loro numero ridotto, la profittabilità contenuta e alta la probabilità che le opportunità si rivelino bad project, i benefici della gerarchia superano quelli della poliarchia. Negli anni che seguono l’esaurirsi della Golden Age le stesse variabili che hanno incentivato l’adozione di soluzioni di outsourcing hanno anche sostenuto la diffusione generalizzata del modello poliarchico. L’accentuazione della eterogeneità e variabilità della domanda, la riduzione della prevedibilità dei suoi andamenti nel tempo e l’aumento della tensione concorrenziale hanno favorito la frammentazione della domanda e la moltiplicazione numerica dei progetti. Ne è derivato un sensibile ampliamento delle opportunità di sperimentazione di organizzazioni produttive basate su costi irrecuperabili molto contenuti e su processi decisionali semplificati e in parallelo. Nell’esperienza italiana, la preesistenza di una consolidata “base” poliarchica in molti settori manifatturieri ha agevolato, e probabilmente accelerato, il ridisegno della divisione del lavoro tra le imprese e sostenuto i processi di deverticalizzazione produttiva. Ad una elevata incidenza della poliarchia è associata infatti, come si è detto, una rapida valorizzazione delle opportunità, un numero elevato di soggetti che concorrono per lo sfruttamento della singola opportunità e quindi una tendenziale completezza dei mercati dei beni intermedi. Il modello prevalente adottato dalle nuove imprese entranti appare caratterizzato dalla prevalenza dei costi variabili su quelli fissi, da serie di produzione limitata e da facilità (non onerosità) di uscita dal settore in caso di errore di selezione del progetto. Sotto questo profilo il “modello” poliarchico risulta del tutto coerente con lo schema interpretativo suggerito più sopra a partire da premesse teoriche “robinsoniane”, nella misura in cui spiega contemporaneamente il downsizing e le scelte correlate di deverticalizzazione da un lato e, dall’altro, l’espansione numerica delle imprese e la vistosa turbolenza demografica che ha accompagnato la prima fase del riassetto della divisione del lavoro nell’industria italiana. 24 le nuove condizioni di mercato sembrano fatte apposta per favorire una struttura dell’offerta così “pronta” per lo sviluppo di un mercato – allora incompleto – dei beni intermedi [e 20 anni di cambio accomodante mantengono loose il vincolo da concorrenza estera, specie una volta che il pieno impiego e gli shock hanno dissipato i vantaggi di costo degli anni del “miracolo”; per non parlare della sponda delle “istituzioni intermedie” nell'accezione A&S (o se si vuole del Multifibre)]. Il modello di sviluppo ind.le che ne deriva crescerà – dato il vincolo manageriale – “per addizione” di nuove unità, piuttosto che per il consolidamento dimensionale di quelle che già ci sono. * Ma alla discontinuità discussa fin qui se ne accompagna una ulteriore, che ha a che vedere con la specializzazione del sistema industriale nazionale, e che vedremo nella prossima lezione 25