Le opere di carità - Caritas Diocesana Vicentina

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Le opere di carità - Caritas Diocesana Vicentina
Le opere di carità:
Un decalogo per un rinnovamento
(Vicenza, 4 ottobre 2008)
Don Giancarlo Perego
Resp. Centro Documentazione Caritas Italiana-Migrantes
Premessa
Il tema delle opere in generale e delle opere di carità in particolare è strettamente collegato
nell’esperienza cristiana al tema della fede. La fede suppone le opere, in questo senso la netta
separazione tra fede e opere, nella dottrina della giustificazione, è ormai stata superata con
l’affermazione di una stretta relazione tra fede e opere1. La fede si qualifica, pertanto, come azione,
come testimonianza; e l’evangelizzazione è anche promozione dell’uomo, è storia e storia di gesti
(cfr. L.G. 8, 41)2. Il nostro agire non è indifferente di fronte a Dio. Cade la contrapposizione tra
culto ed etica (cfr. Benedetto XVI, Deus caritas est, 14).
La Parola
I testi del Nuovo Testamento che collegano strettamente tra loro fede e opere sono diversi. Ne
ricordiamo alcuni, legati a particolare comunità: Gc 2,22; Rm 3,28, 51; Gl 3,24.
In particolare, la storia della Chiesa, che nasce dalla comunione con la carità del Crocifisso, dalla
Pasqua e dalla Pentecoste, porta a considerare le opere di carità come frutto della relazione nuova
con il Cristo e con lo Spirito: Gv 15,5; 2Cor 5,14. In questo senso si parla anche di Dio come del
protagonista di ogni opera del cristiano, il quale sente di essere nella sua ‘nullità’ (Madre Teresa),
nella sua ‘piccolezza’ (Charles de Foucoult) uno strumento nelle mani di Dio, uno strumento della
tenerezza di Dio (Don Gnocchi).
Le opere di carità nel cammino della Chiesa
Nel corso del cammino della vita della Chiesa le opere di carità hanno assunto un senso diverso:
-
nella comunità apostolica sono segno di fraternità, di comunione, di attenzione ai poveri;
nella chiesa post-costantiniana diventano segno di una identità ritrovata;
nel monachesimo l’opera diventa segno della trasformazione del mondo, ma anche della
condivisione fraterna (foresteria, decima…);
nel medioevo l’opera di carità diventa gesto con un fine (le opere di misericordia o carità);
con la Riforma cattolica, in particolare, dopo il Concilio di Trento (1543-1565), l’opera di
carità diventa istituzione, ‘opera pia’ , che nasce spesso nelle nuove Congregazioni religiose
(Camilliani, Barnabiti, Filippini…) ed è sostenuta dalla ‘Congregazione della carità’;
nell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento, con le numerose nuove Congregazioni
religiose (Salesiani, Cottolengo, Canossiane, Dorotee…), la nascita del Movimento sociale
cattolico che prepara e accompagna un ricco magistero sociale della Chiesa iniziato con la
rerum Novarum di Leone XIII (1891), la crescita della distinzione tra opere statali e opere
1
Cfr. Dichiarazione congiunta della Federazione luterana mondiale e della Chiesa cattolica sulla dottrina della
giustificazione, 31.10.1999.
2
“Ognuno secondo i propri doni e uffici, deve senza indugi avanzare per la via della fede viva, la quale accende la
speranza e opera per mezzo della carità” (Concilio Vaticano II, Lumen Gentium, 41).
cattoliche, l’opera di carità diventa un’istituzione che caratterizza fortemente l’identità e
l’apostolato. Tra le due guerre dell’900, l’azione dei laici soprattutto nel grande mondo
dell’associazionismo cattolico – in primis dell’Azione Cattolica con quasi 4 milioni di
iscritti – ma anche l’azione sociale della Chiesa organizzata (POA e ODA, scuole sociali…)
crescerà, fino a diventare un vero e proprio ‘Stato sociale’ parallelo che a partire dagli anni
’60 inizierà a mostrare i suoi limiti.
La svolta del Concilio Vaticano II (1963-1965)
Con il Concilio Vaticano II, se permane da una parte l’idea dell’opera di carità come realtà
identitaria, in particolare che qualifica l’impegno apostolico dei laici (decreto Apostolicam
Actuositatem ), dall’altra, la nuova visione ecclesiologica della Lumen Gentium e della Gaudium et
spes spingono a vedere nelle opere di carità il ‘segno’, il luogo di un amore preferenziale per i
poveri che caratterizza la natura della Chiesa (Lercaro, Pellegrino, Congar, Suenens, Liger…) e la
sua azione. In questa linea in Italia inizierà un rinnovamento conciliare che vedrà la nascita nel
1971 – non senza fatica - di un nuovo organismo pastorale della carità, la Caritas Italiana, con una
‘prevalente funzione pedagogica’ dei cristiani e delle comunità. Un organismo nuovo che, da
organismo della CEI diventerà nelle Chiese locali – in maniera molto differenziata – Caritas
diocesana.L’enciclica Deus caritas est di Benedetto XVI riprende, a partire da un’antropologia
originale che ridà valore al corpo e alla storia, questa duplice dimensione di una carità impegno e di
una carità ‘segno’, che va oltre.
Le opere di carità e la Caritas Italiana
Lo statuto di Caritas Italiana nel 1971 raccoglie – anche se non chiarisce – la considerazione delle
opere di carità come ‘segno’ della comunità cristiana, sottolineandone anche la duplice relatività: in
relazione alla non gestione, in riferimento alla carità di tutti.
Si ritorna all’opera di carità considerata non come fine apostolico, ma come mezzo per una nuova
comunicazione della fede. In questo senso, tutti i piani pastorali della Chiesa Italiana dopo il
Concilio (Evangelizzazione e promozione umana, comunione e comunità, evangelizzazione e
testimonianza della carità) fino ad arrivare al documento di questo decennio ‘Comunicare il
Vangelo in un mondo che cambia’, hanno sottolineato la necessità delle opere di carità per dire la
fede ed essere comunità cristiana, ma passando da una sottolineature delle opere di carità in se
stesse (ogni comunità abbia un segno della carità, anni ’80-2000), a una sottolineatura della carità
delle opere, cioè della testimonianza (cfr. il Convegno di Verona e la presentazione in apertura di un
testimone di ogni diocesi italiana).
Perché questo passaggio? La proliferazione delle opere di carità in Italia (da 4.000 negli anni ’70 a
oltre 10.000 negli anni ’90)3 e in Europa (il 55% delle opere sanitarie-assistenziali è gestita dalle
diverse confessioni cristiane), la crescita delle associazioni di volontariato anche di ispirazione
cristiana (da 10.000 negli anni ’70 a oltre 35.000 nel 2005) mostrano il rischio di ‘ambiguità’ delle
opere anche ispirate cristianamente rispetto all’efficacia della comunicazione e della professione
della fede, che negli stessi anni è calata tra il 6 e il 10% il Italia e in Europa è arrivata anche a un
calo del 20%. Nello stesso tempo, è cresciuta una presenza operativa sul piano internazionale,
dentro una ‘globalizzazione’ che interessa anche la solidarietà4.
3
Cfr. le tre indagini della Consulta delle opere socioassistenziali finora pubblicate: CARITAS ITALIANA, Chiesa ed
emarginazione in Italia. Censimento delle istituzioni assistenziali collegate con la chiesa e indagine pilota su forme
innovative d’intervento, Dehoniane, Bologna, 1979, pp. 254; CONSULTA NAZIONALE OPERE CARITATIVE
ASSISTENZIALI, Chiesa ed emarginazione in Italia - Rapporto n. 2 , Elle Di Ci, Leumann, 1990-91, 2voll.;
CONSULTA ECCLESIALE ORGANISMI SOCIO-ASSISTENZIALI,Chiesa e solidarietà sociale. Terza indagine sui
servizi socio-assistenziali collegati con la Chiesa cattolica in Italia, Elle Di Ci, Leumann (TO), 2002, pp. 270.
Il valore delle opere di carità
La sfida delle opere di carità oggi è nella ripresa conciliare del ‘segno’ in riferimento all’opera
stessa, che abbia un valore relativo da una parte e un più profondo valore simbolico dall’altra: cioè
legato alla liturgia, alla conversione, alla comunione-fraternità, più alla debolezza e semplicità che
all’affermazione e all’ identità. In altre parole si tratta – come già ricordava il beato Orione – di
“passare dalle opere di carità alla carità delle opere”. In questo senso forse è necessario insieme
costruire una ‘verifica’ delle nostre opere, dei nostri progetti, del nostro stile di vita, dell’uso delle
risorse, del bene comune, dentro il quadro dell’evangelica e magisteriale scelta preferenziale dei
poveri.
Un decalogo per il discernimento
Alla luce della tradizione, del Magistero conciliare, del Papa Benedetto XVI e dei vescovi italiani è
possibile costruire una sorta di ‘decalogo’ per il discernimento delle opere di carità.
A. Cinque regole sul valore dell’opera
1 Anzitutto la libertà della persona : “il benessere morale del mondo non può mai essere garantito
semplicemente mediante strutture, per quanto valide esse siano. Tali strutture sono non solo
importanti, ma necessarie; esse tuttavia non possono e non devono mettere fuori gioco la libertà
dell’uomo” (n.24).
2.Le motivazioni, l’intenzione della comunità che realizza la struttura. E’ ancora il Papa a
segnalarlo nella recente enciclica ‘Spe salvi’: “ Anche le strutture migliori funzionano soltanto se in
una comunità sono vive delle convinzioni che siano in grado di motivare gli uomini ad una libera
adesione all’ordinamento comunitari. La libertà necessita di una convinzione; una convinzione non
esiste da sé, ma deve essere sempre di nuovo riconquistata comunitariamente.”(n.24). Senza le
motivazioni e l’intenzione l’opera rischia di essere pura ‘apparenza’, e pertanto senza significato.
3.La riforma permanente delle strutture. Sempre il Papa nella Spe salvi ricorda che “La libertà
deve sempre di nuovo essere conquistata per il bene. La libera adesione al bene non esiste mai
semplicemente da sé. Se ci fossero strutture che fissassero in modo irrevocabile una determinata –
buona – condizione del mondo, sarebbe negata la libertà dell’uomo, e per questo motivo non
sarebbero, in definitiva, per nulla strutture buone”(n.24). Ancora il Papa sottolinea che ogni
generazione deve fare propria un’opera:”Ogni generazione deve recare il proprio contributo per
stabilire convincenti ordinamenti di libertà e di bene, che aiutino la generazione successiva come
orientamento per l’uso retto della libertà umana e diano così, sempre nei limiti umani, una certa
garanzia per il futuro. In altre parole: le buone strutture aiutano, ma da sole non bastano. L’uomo
non può mai essere redento semplicemente dall’esterno” (n.25).
4. Il valore e la priorità dell’amore sull’opera: “L’uomo viene redento mediante l’amore” (n.26).
“L’amore del prossimo radicato nell’amore di Dio – ricordava Benedetto XVI nell’enciclica Deus
caritas est – è anzitutto un compito per ogni fedele, ma è anche un compito per l’intera comunità
ecclesiale, e questo a tutti i suoi livelli: dalla comunità locale alla Chiesa particolare fino alla
Chiesa universale. Anche la Chiesa in quanto comunità deve praticare l’amore. Conseguenza di ciò
è che l’amore ha bisogno anche di organizzazione quale presupposto per un servizio comunitario
ordinato” (n.20).
4
Una nota di Cor Unum, a margine del viaggio nel febbraio 2008 del presidente – card. Cordes - in India per incontrare
l’episcopato, ricorda come “I cristiani in India ( che sono il 2% della popolazione di un miliardo e duecento milioni di
persone, cioè 25 milioni circa) gestiscono già il 20% delle scuole elementari, il 25% delle strutture di sostegno per
vedove e orfani, e il 30% di quelle per diversamente abili, lebbrosi e malati di AIDS”.
5. La necessaria responsabilità dell’altro, la corresponsabilità. Dentro la considerazione di un
mondo che è famiglia e che ogni uomo è mio fratello nasce la necessità di scelte che si aprano agli
altri, anche in termini strutturali. Il tema della fraternità in senso cristiano dice il valore inclusivo e
universalistico dell’opera di carità.
B. Cinque regole sull’organizzazione dell’opera
1.L’opera è segno, cioè ha un valore istituzionale, di identità. Questo valore identitario delle opere
è stato forte in alcuni momenti storici in cui la prevaricazione e l’esclusione rischiavano di non
considerare ‘fatto’, ‘esperienza’ la Chiesa, per ridurla ad essere adesione individuale a verità. Non
possiamo dimenticare che dopo il Concilio e in particolare negli anni ’80 e ’90 il tema
dell’evangelizzazione ha ripreso questa valenza identitaria (il tema della ‘presenza’), portando con
sé anche la nascita di numerose opere.
2. L’opera da sola non significa nulla in termini di evangelizzazione, ma dice solo un potere, un
possesso, una proprietà se non ha un’anima, se non ha un cuore. La seconda dimensione dell’opera
è il cuore, cioè la capacità di condurre ad amare e di far incontrare l’amore. Senza ‘il giudizio del
cuore’ l’opera diventa una minaccia per l’uomo e per il mondo (cfr. Spe salvi nn. 22-23). Per questo
l’opera deve essere accompagnata dalla ‘preghiera del cuore’ che, come dicevano i santi (Vincenzo
de Paoli, Madre Teresa) rende capaci di ogni cosa
3. L’opera è chiamata ad educare. La comunità deve ritrovare ogni giorno, sul territorio dove
abita (parrocchia) non solo persone che amano, ma un luogo dove imparare ad amare e dove
tradurre le esperienze d’amore (gratuità, volontariato). In questo senso l’opera non può essere
un’isola nella comunità (come lo erano e lo sono ad esempio anche importanti opere sociali
d’ispirazione cristiana), ma il cuore della comunità.
4. L’opera diventa per la comunità un laboratorio per sperimentare aspetti autentici della fede
e della morale cristiana, aiuta a fare ordine nella mente e nel cuore: l’attenzione agli ultimi, ai
piccoli, il perdono, la condivisione dei doni, la cura e preghiera per i sofferenti, il dialogo
interreligioso, l’ospitalità allo straniero, la non violenza e l’amore ai nemici, il recupero della
libertà, l’accompagnamento alla crescita…Non è un caso che il documento della Chiesa Italiana
dopo Verona ricorda che occorre impegnarsi in un “cantiere di rinnovamento pastorale”, ritornando
ancora una vol,ta sulla necessità della ‘riforma’ (Concilio Vaticano II), della ‘conversione sociale’
(Convegno di Loreto), della ‘conversione pastorale’ (Convegno di Palermo) .
5. L’opera indica oltre a una preferenza – quella per i poveri – anche un ordine da cui partire e a
cui arrivare nella cura pastorale, con un metodo.Non esiste una buona organizzazione della
comunità senza un’opera di carità.
Opere e Chiesa della speranza
La Chiesa della speranza, di cui ci parla il capitolo quarto del documento della Chiesa Italiana Dopo
Verona, è una Chiesa che non solo si preoccupa di avere le opere di carità, ma che esse siano
sempre attuali, cioè abbiano sempre un valore simbolico in ordine alla fede, alla speranza e alla
carità dei singoli fedeli e della comunità. In questo senso come l’attenzione della evangelizzazione
oggi dal modello identitario si sposta sul modello relazionale, così dell’opera si dovrà curare
particolarmente l’esperienza relazionale: la capacità di verità, cioè di inserirsi in un cammino di
fede e di Chiesa (tradizione); la capacità di guidare gli affetti, le scelte; la capacità di accompagnare
i deboli; la capacità di aiutare l’uomo in due bisogni essenziali: nel lavoro e nella festa; la capacità
della persona di avere interessi, di partecipare (cittadinanza). “La cura della persona in maniera
integrale” (n.22) e “la cura delle relazioni interpersonali attente ad ogni persona”, “impegnata a
non sacrificare la qualità del rapporto personale all’efficienza dei programmi” (n.23) dovranno
essere una preoccupazione costante. Così pure nell’attenzione alla persone e alle persone cresce il
confronto, la partecipazione, il dialogo, l’integrazione dei percorsi, fino anche la valorizzazione del
limite.
E in questa Chiesa aperta alle relazioni, nel mondo, cresce il ruolo dei laici, di laici protagonisti
delle opere di carità. E’ chiaro. In una Chiesa che riparte dalle relazioni per costruire la comunità
emerge il ruolo fondamentale dei luoghi- in altre parole della storia e del mondo – ma anche il
protagonismo dei laici. Un protagonismo già evidente nei duemila anni di storia della carità e che
anche nella stagione contemporanea ha caratterizzato fortemente l’impegno sociale e le opere
caritative. E’ su questo protagonismo libero, originale, ‘fantasioso’ sul piano caritativo, che è
emersa dopo il Concilio la necessità di una guida (recupero del ruolo vocazionale e presidenziale
anche nella carità), di un coordinamento e di una frequentazione o consultazione, di un ordine che
sia efficace in termini anche di nuova evangelizzazione, di un nuovo cammino di Chiesa.:
prospettive queste risottolineate dal documento della CEI dopo Verona (nn.26-27), se non si vuole
di scadere in una “comunità chiusa in se stessa e sulle proprie iniziative, non interessata al dialogo
con il contesto di cui è parte” e che “non ha bisogno di vocazioni laicali, ma solo di collaboratori
generici per realizzare le proprie iniziative”5
5
P. BIGNARDI, Esiste ancora il laicato?Una riflessione a 40 anni dal Concilio, Roma, AVE, 2006, p.96.