Una nuova etica per la guerra cibernetica
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Una nuova etica per la guerra cibernetica
Una nuova etica per la guerra cibernetica “Cyber Attacks” (photo taken from the Norse Attack Map), di Christiaan Colen, CC BY – SA 2.0, www.flickr.com Introduzione -La spersonalizzazione nella guerra Non ne siamo coscienti, se non grazie a documenti storici, ma l’avvento delle armi da fuoco ha rivoluzionato drammaticamente il concetto di guerra. La possibilità di evitare lo scontro fisico, di ricaricare più velocemente, di avere maggiore capacità di penetrazione e di colpire da lontano hanno sconvolto la civiltà. In alcune culture, come quella giapponese, l’allontanamento dallo scontro fisico è ancora oggi considerato deteriore, tanto che il codice penale condanna con maggiore severità i ferimenti e gli omicidi a mezzo di armi da fuoco. Quello che avvenne, soprattutto leggendo documenti e sentendo testimonianze di cecchini e piloti, fu la spersonalizzazione nello scontro. Basta un grilletto ed un mirino. Non c’è contatto con il dolore della vittima, il suo rancore, della sua paura, la sua personalità. Nel caso di aerei e droni addirittura non si coglie quasi la figura umana, spesso un punto o una forma colorata che scompare. Una ripresa dell’identità umana era stata, secondo me, avviata nella guerra del Vietnam, in cui i giornalisti documentavano il disagio dei soldati, il dolore delle vittime, la devastazione dei bombardamenti. Le macchine da presa e fotografica avevano in qualche riavvicinato l’uomo all’uomo anche nel momento in cui l’umanità è più distante. Dopo quell’esperimento però il servizio di informazione è stato via via ostacolato fino ad oggi dove i documenti della Siria sono di parte più che riproposizioni fedeli di ciò che sta accadendo, frammenti di verità che vengono dirette secondo una regia ben studiata. Con l’avvento di Internet e dei computer, alla spersonalizzazione si viene ad affiancare la dematerializzazione della persona, che in ambito bellico è ancora più incisiva. Nel cyberspazio l’uomo si trasforma in informazioni, per lo più numeri. Luciano Floridi potrebbe dire che attraverso quelle informazioni è possibile conoscere la vera natura di uomo, una personalità senza finzioni, ma allo stesso tempo si è soliti vedere solo un insieme di dati. Spesso, l’obiettivo di un attacco cyber non è una persona singola ma qualcosa di più ampio che porta a non fare distinzione tra combattenti e non combattenti. Penetrare il sistema di una banca mette in pericolo tutti, sabotare una transazione tra due Paesi sovrani può travolgere una economia o colpire la centrale elettrica di una città renderà inefficienti gli ospedali oltre che obiettivi militari. In tutti questi esempi, storici, non ci sono obiettivi umani, ma la ripercussione sulle persone è di una fisicità palpabile. La cultura del diritto Il diritto tende a catalogare e formalizzare ogni aspetto umano, addivenendo a volte a conclusioni paradossali, cavillando su alcune parole e virgole. Con cultura del diritto intendo allontanarmi dallo stretto dettato normativo, cercando di focalizzare l’attenzione su macro problematiche inerenti allo ius ad bellum e lo ius in bello ossia il sistema di regole relative all’entrata in guerra e al modo in cui la si deve gestire. La guerra è, idealmente, uno scontro armato da parte di uno Stato nei confronti di un altro Stato attraverso uno o più organi propri, in genere l’esercito, formati da persone. Ci si è anche domandati, come nel caso Nicaragua, se è un atto di guerra agire contro uno stato attraverso soggetti non propri ma comunque diretti da un organo statale. Secondo la Carta delle Nazioni Unite è possibile entrare in guerra, legalmente, solo attraverso una decisione del Consiglio di Sicurezza e comunque per legittima difesa, ossia in caso di intervento militare in corso. Nel caso dell’uso dei droni già il dibattito si fa complesso, poiché non vi è alcun organo che agisce direttamente su un altro territorio. E soprattutto non è responsabile, ai sensi dello ius in bello. Semmai il paese sarà responsabile politicamente. Nel caso di un attacco di hacking il problema è ancora più oscuro. Nel caso di una bomba ci sono vittime direttamente coinvolte, un oggetto guidato ha attraversato il confine con l’intento di arrecare danno. Ma una violazione di un server di una banca estone è un tema molto più gravoso da essere discusso, poiché in Internet non ci sono frontiere chiare. I punti geografici e politici che usa il diritto si moltiplicano in ISP, server, IP, terminali, proxy, domini internet e ognuno di questi può essere dislocato in diversi paesi. Altro problema è definire il soggetto che pone in essere la condotta. Un drone, guidato da un pilota dell’aeronautica militare può essere visto come l’estensione dell’esercito e quindi è costretto a rispettare lo ius ad bellum. Spesso gli hacker non sono ufficialmente nelle file di un organo statale, l’Intelligence preferisce adoperare soggetti esterni. Nel caso dell’attacco alla banca estone un gruppo iniziale di hacker ha contattato su un forum altri hacker che non necessariamente erano a conoscenza dell’effettivo obiettivo. Sono quindi organi dello Stato? O devono sottostare alle norme che si applicano per i crimini internazionali ma non di guerra? Nonostante l’input sia dato da un Paese sono considerati sotto la direzione costante del servizio di Intelligence? Alla fine, per quanto aberrante possa sembrare, sono assunti come liberi professionisti, con un obiettivo ma totale libertà di mezzi. Non vi è un controllo e una direzione come quelle richieste nel caso Nicaragua. Siamo allora di fronte ad un attacco terroristico, ma culturalmente il terrorismo ha una matrice politica o religiosa, qui invece sarebbe solo economica. E’ allora una vicenda criminale. Più ci abbassiamo, più la tutela giudiziaria si allenta, con il risultato di gestire fattispecie identiche in maniera diversa, senza peraltro effettivamente colpire tutti i colpevoli. Un altro problema nella definizione dei soggetti che operano nel mondo digitale è quello di saper discernere tra cyber spionaggio e cyber attivismo. In tutti e due i casi si agisce per entrare in possesso di informazioni riservate. Non è assurdo pensare che un’azione di cyber spionaggio avvenga a fine di gettare discredito su un soggetto attraverso la rivelazione di importanti documenti, agendo sostanzialmente come un hacktivista, ma con una ideologia completamente diversa. Gli obiettivi degli attacchi di cyberwar non sono quasi mai obiettivi mirati, come ad esempio un carro armato o un aereo o un drone. Sono spesso obiettivi generalizzati, come una banca, una centrale elettrica, e che quindi hanno pesanti ripercussioni civili andando contro lo ius in bello che tutela la popolazione civile dagli atti militari. Un altra particolarità del cyberwar è che per sua stessa costituzione non è palese, ma avviene di nascosto. Non ci sono esplosioni, bambini senza un tetto che vagano senza meta o relitti fumanti lungo una strada. I risultati visibili possono essere un improvviso black out, il traffico impazzito, il declino finanziario oppure la pubblicazione su qualche giornale di informazioni riservate. Claus-Gerd Giesen mette in evidenza anche un altro connotato anomalo della guerra virtuale, cioè la velocità. Un intero conflitto può durare una notte, e una dichiarazione di guerra, sempre che vi sia, potrebbe benissimo arrivare dopo l’inizio dello scontro. ” Macbook Pro”, di Warren R. M Stuart, CC BY – NC – ND 2.0, www.flickr.com Un’etica nuova prima di un nuovo diritto Dire che il diritto internazionale non è pronto sulla problematica della cyber war non è risolutivo. Il diritto è la formalizzazione di un codice etico che nasce dalla cultura relazionale di più soggetti. Il tema che qui si deve prendere in considerazione è che non esiste un’etica sul mondo cibernetico. Partendo dall’esempio dell’indignazione per gli odierni teenager che condividono on line i loro momenti più intimi si può capire come non siamo pronti a concepire l’evoluzione sociale, ancora prima di quella tecnica. Esattamente come spesso bolliamo di mala educazione o educazione assente questa pratica in ascesa invece di di interrogarci se la sessualità stia cambiando, dobbiamo iniziare a creare una nuova filosofia etica per venire incontro alle problematiche della guerra cibernetica. Ho trovato interessante l’esempio di Giesen in cui cerca di sussumere le regole kantiane alla realtà digitale. Il nostro diritto internazionale ma anche nazionale deve moltissimo all’etica kantiana e avvicinare il digitale alle tesi di Per una pace perpetua è stato come mettere le basi della nostra architettura giuridica con la nuove dinamiche informatiche e ha mostrato tutta la sua arretratezza. L’idea che la guerra digitale possa essere mossa per mantenere o raggiungere un più alto livello di pace è quanto minimo raffazzonata, visto che è uno strumento di instabilità. Una guerra digitale non verrà mai dichiarata da un ambasciatore dato che è una forma di conflitto segreto, che nessuna delle due parti ha interesse a rivelare. Gli attaccanti perché non vogliono essere responsabili delle conseguenze e gli attaccati perché non vogliono mostrare le proprie debolezze al mondo. L’auto difesa anche subisce qualche incrinatura: nel momento in cui è difficile determinare chi effettivamente stia attaccando o abbia attaccato la scelta dell’obiettivo è più probabilistica che certa, con tutte le conseguenti responsabilità per l’uso della forza contro un innocente. Altro tema critico è l’uso proporzionato della forza. Le cyberweapons sono dotate di una altissima precisione, basti pensare ad un malwere che espone sono determinate informazioni o aspetti dell’architettura del bersaglio. Dunque sarebbero delle armi incredibilmente “civili”. Ma un attacco, come un contrattacco si svolge su vari livelli, coinvolgendo una vastità di “spazio virtuale”. Inoltre più un Paese è informatizzato e dipendente da un servizio digitale ( come la domotica ad esempio) e più risentirà sproporzionatamente di un attacco o di un contro attacco. In sostanza il diritto non è pronto per la cyber war non perché il legislatore sia inerte, ma perché, a mio avviso, manca della sensibilità per affrontare il problema. Si concretizza la necessità di trovare nuove regole etiche su nuovi problemi, smettendo di cercare continuamente un equivalenza tra il mondo “fisico” e quello dematerializzato, poiché, seppure tangenti, non sono la stessa cosa, seguono logiche differenti. Ancora, è necessario che si radichi la consapevolezza che il mondo fisico e quello digitale non sono divisi da una solida barriera ma si stanno compenetrando sempre di più, così che le regole che valevano per il mondo fisico non sono sempre più valide. GABRIELE MUROTTO Bibliografia Claus-Gerd Giesen – Justice in cyberwar, www.academia.edu. Ashlee Buoncompagno – Is Warfare?,www.academia.edu. Intenational Society prepared for Cyber “Pace: periodo durante il quale c'è una guerra da qualche altra parte.” “War and Peace”, Foto di Jayel Aheram, Licenza CC BY, www.flickr.com. Spesso l’uomo, per una tendenza naturale, è spinto a ironizzare su quelle realtà che considera troppo negative per poterne parlare con tono serio e non è da meno François Rabelais, scrittore francese, nel dichiararsi “sul punto di credere che la guerra sia in latino chiamata bellum […] semplicemente per la ragione che nella guerra risalta ogni qualità di bene e di bellezza!” (Gargantua e Pantagruel). Rabelais è vissuto nella prima metà del Cinquecento, senza sapere che a partire dal secolo successivo e per i tre seguenti ogni nuovo inizio di secolo avrebbe significato un nuovo conflitto di dimensioni sostanzialmente “mondiali”: questo è avvenuto con la Guerra dei Trent’Anni (1618-1648), poi è stata la volta della Guerra di Successione spagnola, terminata nel 1713; seguono le Guerre napoleoniche e il Congresso di Vienna (1814-1815), fino ad arrivare ai due conflitti mondiali per eccellenza, tra il 1915 e il 1945, con il ventennio dei totalitarismi a fare da ponte. Secondo molti politologi, questa scansione temporale delle guerre, sostanzialmente una ogni cento anni, potrebbe confermarsi con l’inizio del nuovo millennio e, senza cedere a previsioni alla Nostradamus, bisogna ammettere che i segnali non mancano. La guerra accompagna la Storia dell’uomo da tempo immemore, anche se sono cambiate le modalità di combattimento, le dimensioni del conflitto, i fini dello stesso. La tecnologia svolge un ruolo decisamente rilevante nel determinare le sorti di un combattimento, tanto che oggi l’ipotesi dello scoppio di un conflitto mondiale apre prospettive terrificanti: la disponibilità di armi nucleari porterebbe alla distruzione dello stesso genere umano, con la discesa dell’ “inverno nucleare”. Di fronte a quella che sembra una tendenza connaturata all’animo umano, gli studi offrono opzioni contrastanti: da un punto di vista psicologico, Erich Fromm (Francoforte sul Meno, 23 marzo 1900 – Locarno, 18 marzo 1980), seguace di Sigmund Freud, nel suo tentativo di applicare la psicanalisi alle masse, rileva come dentro ognuno di noi esista una scintilla di aggressività. I suoi studi sono influenzati anche dalle teorie di Darwin, che, dall’ambito strettamente scientifico, hanno avuto una vasta eco sociologica: il progresso può avvenire solo attraverso lotte che sanciscano la sopravvivenza del più forte e il soccombere del meno adatto alla vita, garantendo l’evoluzione della specie. Bisogna rilevare come l’atteggiamento bellicoso in senso stretto sia tipico solo del genere umano, mentre negli animali questa caratteristica non è presente, se non in alcune specie che cacciano in gruppo (come i lupi), ma esclusivamente per rispondere a bisogni naturali, di sopravvivenza. La guerra si può qualificare come un bisogno naturale dell’uomo? Carl von Clausewitz, generale dell’esercito prussiano e autore del celebre trattato Della Guerra (1832), ritiene che la guerra non sia nient’altro che “la politica proseguita con altri mezzi”: politica e guerra sono due facce della stessa medaglia e non può esistere politica senza guerra, così come non esiste guerra senza politica. Gli individui e gli Stati che ne sono riflesso, d’altronde, agiscono in difesa dei loro interessi: nella guerra c’è sempre una componente giustificazionistica, di propaganda, tanto che possiamo parlare, a questo proposito, di vera e propria costruzione sociale, che ha risvolti non indifferenti sull’economia e sulla cultura. Di fronte a una situazione di conflitto, i cambiamenti non abbracciano solamente il mondo economico e culturale, ma anche le regole del gioco politico e delle relazioni internazionali cambiano e devono cambiare, tanto che possiamo dividere il Diritto internazionale in due categorie, quello di pace e quello bellico, o, per dirla in modo più tecnico, ius ad bellum e ius in bello. Nelle trattazioni più recenti si preferisce parlare di Diritto internazionale umanitario, comprendente sia il Diritto dell’Aja, sia il Diritto di Ginevra: il primo deriva dalle Convenzioni dell’Aja del 1899 e del 1907, il secondo dalla Convenzione di Ginevra del 1864 e dalle risistemazioni del 1906, 1929 e 1949, ma le due branche si sono praticamente fuse in un unico sistema di Diritto. Prima del Patto (Covenant) della Società delle Nazioni (1919-1920), gli Stati potevano ricorrere senza limiti al ius ad bellum, dunque dichiarare guerra alle altre Nazioni: non era nemmeno necessario un titolo giuridico, era sufficiente indicare la volontà di tutelare i propri interessi e, anzi, il conflitto era considerato il mezzo più semplice per risolvere le controversie internazionali. Il Patto stabiliva, invece, il dovere di risolvere le controversie ricorrendo a mezzi pacifici, sottoponendole a regolamento arbitrale o giudiziale o al Consiglio della Società delle Nazioni. Non era possibile ricorrere alle armi se non dopo tre mesi dalla decisione arbitrale o giudiziale, ma la guerra era comunque una soluzione attuabile e consentita, così come era permessa l’autotutela violenta con mezzi “alternativi”, come le rappresaglie armate. Un’ulteriore definizione di questa disciplina proviene dal Patto KelloggBriand del 27 agosto 1928 (detto anche Patto di Parigi): esso, in soli due articoli, declassa la guerra da strumento di politica internazionale e ne critica l’utilizzo come mezzo per risolvere le controversie, proponendo, invece, mezzi pacifici. Dopo gli orrori della seconda Guerra mondiale, l’Accordo di Londra (8 agosto 1945), con cui è stato creato il Tribunale di Norimberga, definisce, senza mezzi termini, la guerra di aggressione come un crimine internazionale, perché attenta alla pace: si tratta di un momento di passaggio nella Storia delle relazioni internazionali e del trattamento dei conflitti. Esiste comunque un diritto alla legittima difesa espresso all’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite: è un’eccezione prevista dal Diritto internazionale consuetudinario, il cui contenuto non è del tutto chiaro. Come ogni altro caso di uso lecito e consentito della forza, anche il diritto alla legittima difesa è sottoposto alla condizione che sussistano i due criteri della necessità e della proporzionalità, oltre a un terzo criterio, quello dell’immediatezza, introdotto recentemente. Questi tre fattori, nella loro indeterminatezza quantitativa e nella loro elasticità, dimostrano come, nella pratica, la legittima difesa possa essere invocata anche senza poterne verificare la effettiva necessità di ricorrervi, fornendo pretesti scarsamente argomentati per attaccare. Esistono numerose cause di esclusione del fatto illecito, tra cui lo stato di necessità: non si commette fatto illecito se si invade un territorio altrui per arginare un pericolo grave e imminente, nell’ottica di tutelare un interesse essenziale dello Stato , benchè allo Stato invaso non possa essere imputato alcun illecito. Altre ragioni che portano a parlare di fatto non illecito sono la forza maggiore (un evento esterno induce a violare la norma giuridica), il caso fortuito (un fattore non prevedibile non permette di rendersi conto che la propria condotta non rispetta gli obblighi internazionali) e il distress (estremo pericolo che spinge a violare una norma giuridica per salvare se stessi o gli altri). Prima dell’entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite era ritenuto lecito ricorrere alla forza armata per proteggere i cittadini all’estero, anche nel caso in cui lo Stato estero non volesse o non potesse provvedere alla loro tutela. Dopo l’emanazione di tale documento, resta il dubbio sulla sopravvivenza di tale principio: gli Stati occidentali ne affermano la validità, mentre i Paesi del Terzo Mondo sono contrari. Il “dovere” – si discute se possa essere definito tale- di intervenire per la tutela di terzi emerge anche nel cosiddetto “intervento d’umanità”, di cui tanto si è parlato e si parla a proposito delle recenti operazioni in Medio Oriente: si tratta di un uso della forza finalizzato a proteggere i cittadini dello Stato estero da trattamenti contrari alla loro dignità e umanità. In realtà, si tratta di un tipo di intervento illecito già prima dell’entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite, anche se spesso utilizzato per difendere i Cristiani stanziati in terra ottomana, e anche la Corte internazionale di giustizia, con la sentenza del 1986 sul caso Nicaragua-USA (ICJ, Reports 1986, 134-135), ne ha ribadito l’illegittimità. Con il cambiamento della politica internazionale in seguito alla caduta del Muro di Berlino e allo scoppio di conflitti con nuove caratteristiche rispetto a quelli del passato, si è sviluppato un “dovere di ingerenza umanitaria” inteso come obbligo, spettante alla comunità internazionale, di intervenire in territorio altrui per far fronte a gravi violazioni dei diritti umani. Questo è successo in merito all’assistenza alle popolazioni curde e sciite in Iraq dopo la Guerra del Golfo (1991) e a proposito dei territori della ex Jugoslavia, allo scopo di evacuare le popolazioni coinvolte nel conflitto. Si è detto di tale ingerenza che si tratta più di un “diritto” che di un “dovere”, ma in realtà non esiste alcuna base giuridica nell’ordinamento che la giustifichi: la prassi non è per nulla favorevole alla liceità di questo intervento, che deve comunque essere fondato sulle cause di esclusione del fatto illecito esaminate prima. Le uniche operazioni consentite a favore della popolazione civile e che possono comprendere anche l’invio di materiale sanitario o di mezzi di sussistenza devono comunque essere autorizzate dallo Stato territoriale o da quello che controlla la popolazione beneficiaria dell’intervento. Da questa rapida analisi di nozioni fondamentali nel Diritto internazionale dei conflitti armati, soprattutto alla luce degli ultimi eventi bellici che sono quotidianamente sotto gli occhi della comunità internazionale, si intuisce la necessità di un organismo che si preoccupi del mantenimento della pace e della sicurezza. Tale competenza è affidata in via esclusiva al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che può deliberare attraverso raccomandazioni, di natura non vincolante, e decisioni, che sono invece obbligatorie. Queste vengono adottate con il voto favorevole di nove dei quindici membri del Consiglio (compresi i voti dei membri permanenti, ovvero Cina, Federazione Russa, Francia, Regno Unito e Stati Uniti, gli stessi Paesi che hanno potere di veto). Ciò che è importante mettere in evidenza è che solo il Consiglio delle Nazioni Unite ha potere in merito e questo, in caso di esercizio del diritto di veto da parte di uno dei membri permanenti, rischia di paralizzare l’intera azione dell’organo. Il Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite attribuisce i poteri di intervento al Consiglio anche in caso di guerra civile o di situazioni che si svolgono all’interno di un Paese, come il genocidio. Sono tre i tipi di operazioni con cui il Consiglio di Sicurezza può agire, dislocando truppe sui territori interessati. Il primo è l’intervento armato da parte del Consiglio di sicurezza, strumento che, fortunatamente, non è mai stato utilizzato, ma che prevede il dispiego di forze aeree, navali o terrestri (operazioni di polizia internazionale). Le operazioni per il mantenimento della pace (peace-keeping), invece, hanno conosciuto una crescita esponenziale dopo la Guerra Fredda, operando tanto nell’ambito dei conflitti internazionali (si vedano, ad esempio, UNDOF e UNIFIL, tuttora in corso), quanto in quello dei conflitti interni (delle tante create, solo la UNFICYP è oggi attiva). Occorrerebbe il consenso delle parti interessate, si dovrebbe mantenere l’imparzialità e non ricorrere all’uso della forza, tranne in legittima difesa, ma nella realtà delle relazioni internazionali spesso risulta necessario affidare agli Stati e alla NATO azioni coercitive (peaceenforcement), come dimostrano il caso della Somalia (anni ’90) e dell’ex Jugoslavia. Ultimo tipo di operazione è l’uso della forza autorizzato dal Consiglio di sicurezza, che non sarebbe propriamente consentito se volessimo seguire la lettera della Carta, ma che è possibile ottenendo il voto all’unanimità in seno al Consiglio; talvolta l’intervento degli Stati membri è consentito solo in vista della costituzione della forza di pace. Questo quadro, tinteggiato nelle sue linee essenziali, dimostra la complessità del funzionamento degli organismi nati con lo scopo di evitare lo scoppio di conflitti e, insieme, la labilità del confine tra la ciò che è stato sancito dai documenti e dagli accordi e quella che è la prassi, nonché l’immobilismo di fronte a situazioni che dovrebbero essere considerate illecite e andrebbero punite. Si sa, le guerre sono promosse e muovono interessi economici che vanno al di là delle preoccupazioni umanitarie, inglobando una spiccata componente giustificazionistica. Non esiste Diritto più violato di quello stabilito per i periodi di guerra, in modo sistematico e spesso nemmeno troppo velato. Queste constatazioni valgono tanto per il passato quanto per il presente. Come insegna il buon Tucidide, l’uomo agisce seguendo tre istinti :Tὸ δέος, la paura, il desiderio di autoconservazione; Ἡ τιμή, il desiderio di onore e di prestigio; ultimo ma non meno importante, anzi, forse è l’istinto predominante, Ἡ ὠφελία, l’utilità, il proprio interesse personale. [Il titolo dell’articolo è una citazione di Gaston Durnez, giornalista e scrittore fiammingo] ELISA PETTITI Bibliografia essenziale: L. BONANATE, La guerra, Editori Laterza, 1998; N. RONZITTI, Diritto internazionale dei conflitti armati, Giappichelli Editore, Torino, 1998. "L'Italia ripudia la guerra": il significato giuridico di questa poetica locuzione “Somayeh, Iraq war tank”: foto di Hamed Saber, licenza CCBY-SA, Flickr.com L’art. 11 della Costituzione dispone che “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Questo principio è stato più volte al centro dell’attenzione in merito all’analisi giuridica della politica estera italiana. E’ stato sottoposto a molte tensioni riguardo all’adesione dell’Italia alla NATO, alla partecipazione dell’Italia alla guerra del Golfo del 1991 e alle varie “missioni internazionali” che si sono susseguite negli anni ’90 e 2000. L’Assemblea Costituente volle scrivere questa norma in reazione all’orrore della Seconda Guerra Mondiale, che aveva fatto in tutto il mondo circa 50 milioni di morti e dalla cui fine era nata la vicenda costituente italiana. Furono solo due in Assemblea Costituente i deputati che si mostrarono contrari a quella norma: l’On. Perez (Movimento dell’Uomo Qualunque) e l’On. Nitti (Unione Democratica Nazionale). Per il resto, tutta l’Assemblea volle l’inserimento di questa norma nella Legge Fondamentale. Peraltro, è da notare come i costituenti non vollero fare dell’Italia un paese neutrale, come dimostra la bocciatura dell’emendamento di Dossetti che recitava: “L’Italia rinuncia per sempre alla guerra”. Ciò che i costituenti vollero era evitare che l’Italia partecipasse a guerre aggressive, a guerre appunto rivolte “all’offesa alla libertà degli altri popoli”; essi vollero anche fare in modo che le controversie internazionali fossero risolte in modo pacifico anziché bellicoso. Il fatto che l’Italia non sia legata indissolubilmente alla neutralità è dimostrato dal fatto che non mancano in Costituzione le disposizioni riguardanti la guerra: l’art. 78 che dispone che sia il Parlamento a deliberare lo stato di guerra e a conferire al Governo i poterei necessari; l’art.87 che dispone che sia il Presidente della Repubblica a dichiarare lo stato di guerra deliberato dalle camere; e soprattutto l’art.52, secondo il quale la difesa della patria è “sacro dovere del cittadino”. Dunque, la Costituzione vieta il ricorso alla guerra offensiva, ma è proprio la nozione di guerra offensiva ad essere stata oggetto di interpretazioni nel corso della storia. Secondo una rigorosa interpretazione, deve considerarsi vietata ogni forma di uso della forza con finalità offensive su vasta scala, anche se non necessariamente definibile guerra in senso tecnico; dunque, non sarebbe possibile aggirare la disposizione costituzionale con nomenclature alternative, quali “missione internazionale”, “peace enforcing” e altri surrogati. Un altro problema interpretativo porta a chiedersi quale offesa alla libertà degli altri popoli è vietata. Secondo recenti interpretazioni, elaborate in particolare per giustificare partecipazioni a guerre come quella del Kosovo, il divieto di muovere guerra sarebbe scriminato da una consuetudine internazionale secondo la quale sarebbe lecita la guerra umanitaria, ossia quella guerra fatta al fine di esportare i diritti umani. Come noto, peraltro, la consuetudine internazionale assume la stessa forza della Costituzione, in virtù dell’art. 10 primo comma Cost., che dispone che “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”. Gli autori che contestano questa teoria (Carlassarre 1999, Vari 1999) si fondano, in primo luogo, sull’inesistenza di una simile consuetudine internazionale; in ogni caso, essi ritengono che, anche se si dimostrasse questa consuetudine internazionale come esistente, essa non sarebbe in grado di porre limite all’applicabilità di un principio fondamentale della Costituzione, tanto fondamentale da resistere alla modifica della Costituzione. “art. 3: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge”: Foto di Andrea Medapapandreu, licenza CCBY-SA, Flickr.com La guerra difensiva è invece comunemente ritenuta ammessa. Anche qui si può notare un problema interpretativo, in quanto se sicuramente il diritto internazionale consuetudinario conosce il concetto di legittima difesa, non altrettanto chiari sono i suoi limiti, con particolare attenzione all’ammissibilità della guerra preventiva: se sicuramente il concetto di legittima difesa comprende in sé anche un intervento che avvenga prima dell’attacco nemico laddove la difesa non sarebbe possibile a posteriori, non chiaro è quanto preventivo questo attacco possa essere, ossia quanto prima della concretizzazione della minaccia possa porsi. Non manca chi fa notare come in ogni caso lo spirito della Costituzione è quello di procedimentalizzare anche la guerra difensiva. In primo luogo, è ammessa solo la guerra (difensiva) che sia tale in senso tecnico, la guerra klausewitziana, e non altre forme di belligeranza. In secondo luogo, vi è una procedura da seguire: deliberazione delle Camere e dichiarazione del Presidente della Repubblica, in mancanza della quale procedura non potrebbe essere ammesso il ricorso alla legge marziale. È generalmente ammesso che il Governo possa effettuare operazioni militari difensive d’urgenza anche prima del completamento della procedura richiesta dalla Costituzione, ma deve immediatamente informarne le Camere, scontando la possibilità di incorrere in responsabilità ex art. 96 Cost. laddove il Parlamento non ritenga l’intervento militare legittimo. La descrizione finora effettuata attiene all’ambito della interpretazione del primo periodo dell’art. 11 Cost. Un argomento non meno rilevante è quello della “giustiziabilità” della violazione di questa disposizione, ossia se sia possibile che un giudice, in modo particolare la Corte Costituzionale, possa decidere delle violazioni di questa norma e con ciò rimuovere dall’ordinamento eventuali leggi eventualmente illegittime. V’è chi ha scritto (Cassese 1975) alcuni possibili spunti di giustiziabilità dell’art. 11, quali la possibilità di dichiarare costituzionalmente illegittima una legge che autorizzi la ratifica di un trattato ad esso contrario, ossia che obblighi l’Italia ad una guerra offensiva o l’incostituzionalità di deliberazioni dello stato di guerra contrarie all’art. 11. Peraltro, è stato anche notato (Grosso 2012) che il modo in cui si tutelano valori alti come il ripudio della guerra non è l’azione della Corte Costituzionale, ma “la partecipazione e l’esercizio quotidiano, da parte dei cittadini, della propria quota “attiva” di sovranità”. Seppur questo articolo sia concentrato sul primo periodo dell’art. 11, vale la pena ricordare come un grande ruolo sul piano del diritto costituzionale sia stato giocato dal secondo periodo di questo articolo, ossia quello che consente al nostro Paese di cedere parte della propria sovranità, in parità con gli altri stati, per creare un ordinamento che assicuri “la pace e la giustizia fra le nazioni”. Pensato in origine per consentire l’adesione dell’Italia all’ONU, questo periodo è stato il protagonista delle vicende che hanno portato all’ingresso del diritto comunitario nel diritto interno. Infatti, la Corte Costituzionale (sentenza 170/1984, meglio nota come sentenza “Granital”) ha ritenuto che con l’adesione alla Comunità Europea prima e all’Unione Europea poi l’Italia abbia effettuato quella cessione della sovranità che l’art. 11 consente. Quindi, per l’ingresso del diritto comunitario non è necessario un atto di recepimento, come per le normali fonti del diritto internazionale, ma questo entra direttamente nel nostro ordinamento, con una forza addirittura maggiore di quella della Costituzione. Conseguenza di tutto ciò è che in caso di contrasto fra una norma interna e una europea (purché direttamente applicabile) il giudice deve disapplicare la norma interna al fine di applicare solo quella comunitaria, facendo finta che quella interna non esista. È da notare, e qua possiamo ritrovare un altro spunto di immediata precettività del primo periodo dell’art. 11, che la Corte Costituzionale ha altresì affermato che questa limitazione di sovranità non può andare contro i principi fondamentali della Costituzione e quindi, seppure il diritto comunitario abbia una forza maggiore addirittura della Costituzione, esso comunque cede di fronte ai principi fondamentali della nostra Legge Fondamentale. Fra questi principi fondamentali, inderogabili neppure dai trattati comunitari, sta proprio il primo periodo dell’art. 11. ALBERTO PARMENTOLA BIBLIOGRAFIA Carlassare, Costituzione italiana e guerra “umanitaria”, in (a cura di) Dogliani, Sicardi, Diritti umani e uso della forza, Giappichelli, Torino, 1999 Cassese, Art. 11, in Commentario alla Costituzione, Zanichelli, Bologna, 1975 Fioravanti, L’intervento armato in Serbia e l’art. 11 della Costituzione, in (a cura di) Dogliani, Sicardi, Diritti umani e uso della forza, Giappichelli, Torino, 1999 Grosso, L’Italia ripudia la guerra? L’articolo 11 della Costituzione e il problema della pace nel nuovo ordine globale, “Quaderni savonesi”, …. Sicardi, I mille volti della guerra, la Costituzione e il diritto internazionale, in (a cura di) Dogliani, Sicardi, Diritti umani e uso della forza, Giappichelli, Torino, 1999 Vari, La “vecchia” Costituzione e la “nuova” guerra: breve analisi della “crisi del Kosovo”, in (a cura di) Dogliani, Sicardi, Diritti umani e uso della forza, Giappichelli, Torino, 1999