Una nuova etica per la guerra cibernetica

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Una nuova etica per la guerra cibernetica
Una nuova etica per la guerra
cibernetica
“Cyber Attacks” (photo taken from the Norse Attack Map), di Christiaan Colen,
CC BY – SA 2.0, www.flickr.com
Introduzione -La spersonalizzazione nella guerra
Non ne siamo coscienti, se non grazie a documenti storici, ma l’avvento delle
armi da fuoco ha rivoluzionato drammaticamente il concetto di guerra. La
possibilità di evitare lo scontro fisico, di ricaricare più velocemente, di
avere maggiore capacità di penetrazione e di colpire da lontano hanno
sconvolto la civiltà. In alcune culture, come quella giapponese,
l’allontanamento dallo scontro fisico è ancora oggi considerato deteriore,
tanto che il codice penale condanna con maggiore severità i ferimenti e gli
omicidi a mezzo di armi da fuoco.
Quello che avvenne, soprattutto leggendo documenti e sentendo testimonianze
di cecchini e piloti, fu la spersonalizzazione nello scontro. Basta un
grilletto ed un mirino. Non c’è contatto con il dolore della vittima, il suo
rancore, della sua paura, la sua personalità. Nel caso di aerei e droni
addirittura non si coglie quasi la figura umana, spesso un punto o una forma
colorata che scompare.
Una ripresa dell’identità umana era stata, secondo me, avviata nella guerra
del Vietnam, in cui i giornalisti documentavano il disagio dei soldati, il
dolore delle vittime, la devastazione dei bombardamenti. Le macchine da presa
e fotografica avevano in qualche riavvicinato l’uomo all’uomo anche nel
momento in cui l’umanità è più distante. Dopo quell’esperimento però il
servizio di informazione è stato via via ostacolato fino ad oggi dove i
documenti della Siria sono di parte più che riproposizioni fedeli di ciò che
sta accadendo, frammenti di verità che vengono dirette secondo una regia ben
studiata.
Con l’avvento di Internet e dei computer, alla spersonalizzazione si viene ad
affiancare la dematerializzazione della persona, che in ambito bellico è
ancora più incisiva.
Nel cyberspazio l’uomo si trasforma in informazioni, per lo più numeri.
Luciano Floridi potrebbe dire che attraverso quelle informazioni è possibile
conoscere la vera natura di uomo, una personalità senza finzioni, ma allo
stesso tempo si è soliti vedere solo un insieme di dati.
Spesso, l’obiettivo di un attacco cyber non è una persona singola ma qualcosa
di più ampio che porta a non fare distinzione tra combattenti e non
combattenti. Penetrare il sistema di una banca mette in pericolo tutti,
sabotare una transazione tra due Paesi sovrani può travolgere una economia o
colpire la centrale elettrica di una città renderà inefficienti gli ospedali
oltre che obiettivi militari.
In tutti questi esempi, storici, non ci sono obiettivi umani, ma la
ripercussione sulle persone è di una fisicità palpabile.
La cultura del diritto
Il diritto tende a catalogare e formalizzare ogni aspetto umano, addivenendo
a volte a conclusioni paradossali, cavillando su alcune parole e virgole. Con
cultura del diritto intendo allontanarmi dallo stretto dettato normativo,
cercando di focalizzare l’attenzione su macro problematiche inerenti allo ius
ad bellum e lo ius in bello ossia il sistema di regole relative all’entrata
in guerra e al modo in cui la si deve gestire.
La guerra è, idealmente, uno scontro armato da parte di uno Stato nei
confronti di un altro Stato attraverso uno o più organi propri, in genere
l’esercito, formati da persone. Ci si è anche domandati, come nel caso
Nicaragua, se è un atto di guerra agire contro uno stato attraverso soggetti
non propri ma comunque diretti da un organo statale.
Secondo la Carta delle Nazioni Unite è possibile entrare in guerra,
legalmente, solo attraverso una decisione del Consiglio di Sicurezza e
comunque per legittima difesa, ossia in caso di intervento militare in corso.
Nel caso dell’uso dei droni già il dibattito si fa complesso, poiché non vi è
alcun organo che agisce direttamente su un altro territorio. E soprattutto
non è responsabile, ai sensi dello ius in bello. Semmai il paese sarà
responsabile politicamente.
Nel caso di un attacco di hacking il problema è ancora più oscuro. Nel caso
di una bomba ci sono vittime direttamente coinvolte, un oggetto guidato ha
attraversato il confine con l’intento di arrecare danno.
Ma una violazione di un server di una banca estone è un tema molto più
gravoso da essere discusso, poiché in Internet non ci sono frontiere chiare.
I punti geografici e politici che usa il diritto si moltiplicano in ISP,
server, IP, terminali, proxy, domini internet e ognuno di questi può essere
dislocato in diversi paesi.
Altro problema è definire il soggetto che pone in essere la condotta. Un
drone, guidato da un pilota dell’aeronautica militare può essere visto come
l’estensione dell’esercito e quindi è costretto a rispettare lo ius ad
bellum. Spesso gli hacker non sono ufficialmente nelle file di un organo
statale, l’Intelligence preferisce adoperare soggetti esterni. Nel caso
dell’attacco alla banca estone un gruppo iniziale di hacker ha contattato su
un forum altri hacker che non necessariamente erano a conoscenza
dell’effettivo obiettivo.
Sono quindi organi dello Stato? O devono sottostare alle norme che si
applicano per i crimini internazionali ma non di guerra? Nonostante l’input
sia dato da un Paese sono considerati sotto la direzione costante del
servizio di Intelligence? Alla fine, per quanto aberrante possa sembrare,
sono assunti come liberi professionisti, con un obiettivo ma totale libertà
di mezzi. Non vi è un controllo e una direzione come quelle richieste nel
caso Nicaragua.
Siamo allora di fronte ad un attacco terroristico, ma culturalmente il
terrorismo ha una matrice politica o religiosa, qui invece sarebbe solo
economica. E’ allora una vicenda criminale. Più ci abbassiamo, più la tutela
giudiziaria si allenta, con il risultato di gestire fattispecie identiche in
maniera diversa, senza peraltro effettivamente colpire tutti i colpevoli.
Un altro problema nella definizione dei soggetti che operano nel mondo
digitale è quello di saper discernere tra cyber spionaggio e cyber attivismo.
In tutti e due i casi si agisce per entrare in possesso di informazioni
riservate. Non è assurdo pensare che un’azione di cyber spionaggio avvenga a
fine di gettare discredito su un soggetto attraverso la rivelazione di
importanti documenti, agendo sostanzialmente come un hacktivista, ma con una
ideologia completamente diversa.
Gli obiettivi degli attacchi di cyberwar non sono quasi mai obiettivi mirati,
come ad esempio un carro armato o un aereo o un drone. Sono spesso obiettivi
generalizzati, come una banca, una centrale elettrica, e che quindi hanno
pesanti ripercussioni civili andando contro lo ius in bello che tutela la
popolazione civile dagli atti militari.
Un altra particolarità del cyberwar è che per sua stessa costituzione non è
palese, ma avviene di nascosto. Non ci sono esplosioni, bambini senza un
tetto che vagano senza meta o relitti fumanti lungo una strada. I risultati
visibili possono essere un improvviso black out, il traffico impazzito, il
declino finanziario oppure la pubblicazione su qualche giornale di
informazioni riservate.
Claus-Gerd Giesen mette in evidenza anche un altro connotato anomalo della
guerra virtuale, cioè la velocità. Un intero conflitto può durare una notte,
e una dichiarazione di guerra, sempre che vi sia, potrebbe benissimo arrivare
dopo l’inizio dello scontro.
” Macbook Pro”, di Warren R. M Stuart, CC BY – NC – ND 2.0, www.flickr.com
Un’etica nuova prima di un nuovo diritto
Dire che il diritto internazionale non è pronto sulla problematica della
cyber war non è risolutivo. Il diritto è la formalizzazione di un codice
etico che nasce dalla cultura relazionale di più soggetti. Il tema che qui si
deve prendere in considerazione è che non esiste un’etica sul mondo
cibernetico. Partendo dall’esempio dell’indignazione per gli odierni teenager
che condividono on line i loro momenti più intimi si può capire come non
siamo pronti a concepire l’evoluzione sociale, ancora prima di quella
tecnica. Esattamente come spesso bolliamo di mala educazione o educazione
assente questa pratica in ascesa invece di di interrogarci se la sessualità
stia cambiando, dobbiamo iniziare a creare una nuova filosofia etica per
venire incontro alle problematiche della guerra cibernetica.
Ho trovato interessante l’esempio di Giesen in cui cerca di sussumere le
regole kantiane alla realtà digitale. Il nostro diritto internazionale ma
anche nazionale deve moltissimo all’etica kantiana e avvicinare il digitale
alle tesi di Per una pace perpetua è stato come mettere le basi della nostra
architettura giuridica con la nuove dinamiche informatiche e ha mostrato
tutta la sua arretratezza.
L’idea che la guerra digitale possa essere mossa per mantenere o raggiungere
un più alto livello di pace è quanto minimo raffazzonata, visto che è uno
strumento di instabilità.
Una guerra digitale non verrà mai dichiarata da un ambasciatore dato che è
una forma di conflitto segreto, che nessuna delle due parti ha interesse a
rivelare. Gli attaccanti perché non vogliono essere responsabili delle
conseguenze e gli attaccati perché non vogliono mostrare le proprie debolezze
al mondo. L’auto difesa anche subisce qualche incrinatura: nel momento in cui
è difficile determinare chi effettivamente stia attaccando o abbia attaccato
la scelta dell’obiettivo è più probabilistica che certa, con tutte le
conseguenti responsabilità per l’uso della forza contro un innocente.
Altro tema critico è l’uso proporzionato della forza. Le cyberweapons sono
dotate di una altissima precisione, basti pensare ad un malwere che espone
sono determinate informazioni o aspetti dell’architettura del bersaglio.
Dunque sarebbero delle armi incredibilmente “civili”. Ma un attacco, come un
contrattacco si svolge su vari livelli, coinvolgendo una vastità di “spazio
virtuale”.
Inoltre più un Paese è informatizzato e dipendente da un servizio digitale (
come la domotica ad esempio) e più risentirà sproporzionatamente di un
attacco o di un contro attacco.
In sostanza il diritto non è pronto per la cyber war non perché il
legislatore sia inerte, ma perché, a mio avviso, manca della sensibilità per
affrontare il problema. Si concretizza la necessità di trovare nuove regole
etiche su nuovi problemi, smettendo di cercare continuamente un equivalenza
tra il mondo “fisico” e quello dematerializzato, poiché, seppure tangenti,
non sono la stessa cosa, seguono logiche differenti. Ancora, è necessario che
si radichi la consapevolezza che il mondo fisico e quello digitale non sono
divisi da una solida barriera ma si stanno compenetrando sempre di più, così
che le regole che valevano per il mondo fisico non sono sempre più valide.
GABRIELE MUROTTO
Bibliografia
Claus-Gerd Giesen – Justice in cyberwar, www.academia.edu.
Ashlee Buoncompagno – Is
Warfare?,www.academia.edu.
Intenational
Society
prepared
for
Cyber
“Pace: periodo durante il quale c'è
una guerra da qualche altra parte.”
“War and Peace”, Foto di Jayel Aheram, Licenza CC BY, www.flickr.com.
Spesso l’uomo, per una tendenza naturale, è spinto a ironizzare su quelle
realtà che considera troppo negative per poterne parlare con tono serio e non
è da meno François Rabelais, scrittore francese, nel dichiararsi “sul punto
di credere che la guerra sia in latino chiamata bellum […] semplicemente per
la ragione che nella guerra risalta ogni qualità di bene e di bellezza!”
(Gargantua e Pantagruel).
Rabelais è vissuto nella prima metà del Cinquecento, senza sapere che a
partire dal secolo successivo e per i tre seguenti ogni nuovo inizio di
secolo avrebbe significato un nuovo conflitto di dimensioni sostanzialmente
“mondiali”: questo è avvenuto con la Guerra dei Trent’Anni (1618-1648), poi è
stata la volta della Guerra di Successione spagnola, terminata nel 1713;
seguono le Guerre napoleoniche e il Congresso di Vienna (1814-1815), fino ad
arrivare ai due conflitti mondiali per eccellenza, tra il 1915 e il 1945, con
il ventennio dei totalitarismi a fare da ponte. Secondo molti politologi,
questa scansione temporale delle guerre, sostanzialmente una ogni cento anni,
potrebbe confermarsi con l’inizio del nuovo millennio e, senza cedere a
previsioni alla Nostradamus, bisogna ammettere che i segnali non mancano.
La guerra accompagna la Storia dell’uomo da tempo immemore, anche se sono
cambiate le modalità di combattimento, le dimensioni del conflitto, i fini
dello stesso. La tecnologia svolge un ruolo decisamente rilevante nel
determinare le sorti di un combattimento, tanto che oggi l’ipotesi dello
scoppio di un conflitto mondiale apre prospettive terrificanti: la
disponibilità di armi nucleari porterebbe alla distruzione dello stesso
genere umano, con la discesa dell’ “inverno nucleare”.
Di fronte a quella che sembra una tendenza connaturata all’animo umano, gli
studi offrono opzioni contrastanti: da un punto di vista psicologico, Erich
Fromm (Francoforte sul Meno, 23 marzo 1900 – Locarno, 18 marzo 1980), seguace
di Sigmund Freud, nel suo tentativo di applicare la psicanalisi alle masse,
rileva come dentro ognuno di noi esista una scintilla di aggressività. I suoi
studi sono influenzati anche dalle teorie di Darwin, che, dall’ambito
strettamente scientifico, hanno avuto una vasta eco sociologica: il progresso
può avvenire solo attraverso lotte che sanciscano la sopravvivenza del più
forte e il soccombere del meno adatto alla vita, garantendo l’evoluzione
della specie. Bisogna rilevare come l’atteggiamento bellicoso in senso
stretto sia tipico solo del genere umano, mentre negli animali questa
caratteristica non è presente, se non in alcune specie che cacciano in gruppo
(come i lupi), ma esclusivamente per rispondere a bisogni naturali, di
sopravvivenza.
La guerra si può qualificare come un bisogno naturale dell’uomo? Carl von
Clausewitz, generale dell’esercito prussiano e autore del celebre trattato
Della Guerra (1832), ritiene che la guerra non sia nient’altro che “la
politica proseguita con altri mezzi”: politica e guerra sono due facce della
stessa medaglia e non può esistere politica senza guerra, così come non
esiste guerra senza politica. Gli individui e gli Stati che ne sono riflesso,
d’altronde, agiscono in difesa dei loro interessi: nella guerra c’è sempre
una componente giustificazionistica, di propaganda, tanto che possiamo
parlare, a questo proposito, di vera e propria costruzione sociale, che ha
risvolti non indifferenti sull’economia e sulla cultura.
Di fronte a una situazione di conflitto, i cambiamenti non abbracciano
solamente il mondo economico e culturale, ma anche le regole del gioco
politico e delle relazioni internazionali cambiano e devono cambiare, tanto
che possiamo dividere il Diritto internazionale in due categorie, quello di
pace e quello bellico, o, per dirla in modo più tecnico, ius ad bellum e ius
in bello. Nelle trattazioni più recenti si preferisce parlare di Diritto
internazionale umanitario, comprendente sia il Diritto dell’Aja, sia il
Diritto di Ginevra: il primo
deriva dalle Convenzioni dell’Aja del 1899 e del 1907, il secondo dalla
Convenzione di Ginevra del 1864 e dalle risistemazioni del 1906, 1929 e 1949,
ma le due branche si sono praticamente fuse in un unico sistema di Diritto.
Prima del Patto (Covenant) della Società delle Nazioni (1919-1920), gli Stati
potevano ricorrere senza limiti al ius ad bellum, dunque dichiarare guerra
alle altre Nazioni: non era nemmeno necessario un titolo giuridico, era
sufficiente indicare la volontà di tutelare i propri interessi e, anzi, il
conflitto era considerato il mezzo più semplice per risolvere le controversie
internazionali. Il Patto stabiliva, invece, il dovere di risolvere le
controversie ricorrendo a mezzi pacifici, sottoponendole a regolamento
arbitrale o giudiziale o al Consiglio della Società delle Nazioni. Non era
possibile ricorrere alle armi se non dopo tre mesi dalla decisione arbitrale
o giudiziale, ma la guerra era comunque una soluzione attuabile e consentita,
così come era permessa l’autotutela violenta con mezzi “alternativi”, come le
rappresaglie armate.
Un’ulteriore definizione di questa disciplina proviene dal Patto KelloggBriand del 27 agosto 1928 (detto anche Patto di Parigi): esso, in soli due
articoli, declassa la guerra da strumento di politica internazionale e ne
critica l’utilizzo come mezzo per risolvere le controversie, proponendo,
invece, mezzi pacifici. Dopo gli orrori della seconda Guerra mondiale,
l’Accordo di Londra (8 agosto 1945), con cui è stato creato il Tribunale di
Norimberga, definisce, senza mezzi termini, la guerra di aggressione come un
crimine internazionale, perché attenta alla pace: si tratta di un momento di
passaggio nella Storia delle relazioni internazionali e del trattamento dei
conflitti.
Esiste comunque un diritto alla legittima difesa espresso all’art. 51 della
Carta delle Nazioni Unite: è un’eccezione prevista dal Diritto internazionale
consuetudinario, il cui contenuto non è del tutto chiaro. Come ogni altro
caso di uso lecito e consentito della forza, anche il diritto alla legittima
difesa è sottoposto alla condizione che sussistano i due criteri della
necessità e della proporzionalità, oltre a un terzo criterio, quello
dell’immediatezza, introdotto recentemente. Questi tre fattori, nella loro
indeterminatezza quantitativa e nella loro elasticità, dimostrano come, nella
pratica, la legittima difesa possa essere invocata anche senza poterne
verificare la effettiva necessità di ricorrervi, fornendo pretesti
scarsamente argomentati per attaccare.
Esistono numerose cause di esclusione del fatto illecito, tra cui lo stato di
necessità: non si commette fatto illecito se si invade un territorio altrui
per arginare un pericolo grave e imminente, nell’ottica di tutelare un
interesse essenziale dello Stato , benchè allo Stato invaso non possa essere
imputato alcun illecito. Altre ragioni che portano a parlare di fatto non
illecito sono la forza maggiore (un evento esterno induce a violare la norma
giuridica), il caso fortuito (un fattore non prevedibile non permette di
rendersi conto che la propria condotta non rispetta gli obblighi
internazionali) e il distress (estremo pericolo che spinge a violare una
norma giuridica per salvare se stessi o gli altri). Prima dell’entrata in
vigore della Carta delle Nazioni Unite era ritenuto lecito ricorrere alla
forza armata per proteggere i cittadini all’estero, anche nel caso in cui lo
Stato estero non volesse o non potesse provvedere alla loro tutela. Dopo
l’emanazione di tale documento, resta il dubbio sulla sopravvivenza di tale
principio: gli Stati occidentali ne affermano la validità, mentre i Paesi del
Terzo Mondo sono contrari.
Il “dovere” – si discute se possa essere definito tale- di intervenire per la
tutela di terzi emerge anche nel cosiddetto “intervento d’umanità”, di cui
tanto si è parlato e si parla a proposito delle recenti operazioni in Medio
Oriente: si tratta di un uso della forza finalizzato a proteggere i cittadini
dello Stato estero da trattamenti contrari alla loro dignità e umanità. In
realtà, si tratta di un tipo di intervento illecito già prima dell’entrata in
vigore della Carta delle Nazioni Unite, anche se spesso utilizzato per
difendere i Cristiani stanziati in terra ottomana, e anche la Corte
internazionale di giustizia, con la sentenza del 1986 sul caso Nicaragua-USA
(ICJ, Reports 1986, 134-135), ne ha ribadito l’illegittimità. Con il
cambiamento della politica internazionale in seguito alla caduta del Muro di
Berlino e allo scoppio di conflitti con nuove caratteristiche rispetto a
quelli del passato, si è sviluppato un “dovere di ingerenza umanitaria”
inteso come obbligo, spettante alla comunità internazionale, di intervenire
in territorio altrui per far fronte a gravi violazioni dei diritti umani.
Questo è successo in merito all’assistenza alle popolazioni curde e sciite in
Iraq dopo la Guerra del Golfo (1991) e a proposito dei territori della ex
Jugoslavia, allo scopo di evacuare le popolazioni coinvolte nel conflitto. Si
è detto di tale ingerenza che si tratta più di un “diritto” che di un
“dovere”, ma in realtà non esiste alcuna base giuridica nell’ordinamento che
la giustifichi: la prassi non è per nulla favorevole alla liceità di questo
intervento, che deve comunque essere fondato sulle cause di esclusione del
fatto illecito esaminate prima. Le uniche operazioni consentite a favore
della popolazione civile e che possono comprendere anche l’invio di materiale
sanitario o di mezzi di sussistenza devono comunque essere autorizzate dallo
Stato territoriale o da quello che controlla la popolazione beneficiaria
dell’intervento.
Da questa rapida analisi di nozioni fondamentali nel Diritto internazionale
dei conflitti armati, soprattutto alla luce degli ultimi eventi bellici che
sono quotidianamente sotto gli occhi della comunità internazionale, si
intuisce la necessità di un organismo che si preoccupi del mantenimento della
pace e della sicurezza. Tale competenza è affidata in via esclusiva al
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che può deliberare attraverso
raccomandazioni, di natura non vincolante, e decisioni, che sono invece
obbligatorie. Queste vengono adottate con il voto favorevole di nove dei
quindici membri del Consiglio (compresi i voti dei membri permanenti, ovvero
Cina, Federazione Russa, Francia, Regno Unito e Stati Uniti, gli stessi Paesi
che hanno potere di veto). Ciò che è importante mettere in evidenza è che
solo il Consiglio delle Nazioni Unite ha potere in merito e questo, in caso
di esercizio del diritto di veto da parte di uno dei membri permanenti,
rischia di paralizzare l’intera azione dell’organo. Il Capitolo VII della
Carta delle Nazioni Unite attribuisce i poteri di intervento al Consiglio
anche in caso di guerra civile o di situazioni che si svolgono all’interno di
un Paese, come il genocidio.
Sono tre i tipi di operazioni con cui il Consiglio di Sicurezza può agire,
dislocando truppe sui territori interessati. Il primo è l’intervento armato
da parte del Consiglio di sicurezza, strumento che, fortunatamente, non è mai
stato utilizzato, ma che prevede il dispiego di forze aeree, navali o
terrestri (operazioni di polizia internazionale). Le operazioni per il
mantenimento della pace (peace-keeping), invece, hanno conosciuto una
crescita esponenziale dopo la Guerra Fredda, operando tanto nell’ambito dei
conflitti internazionali (si vedano, ad esempio, UNDOF e UNIFIL, tuttora in
corso), quanto in quello dei conflitti interni (delle tante create, solo la
UNFICYP è oggi attiva). Occorrerebbe il consenso delle parti interessate, si
dovrebbe mantenere l’imparzialità e non ricorrere all’uso della forza, tranne
in legittima difesa, ma nella realtà delle relazioni internazionali spesso
risulta necessario affidare agli Stati e alla NATO azioni coercitive (peaceenforcement), come dimostrano il caso della Somalia (anni ’90) e dell’ex
Jugoslavia. Ultimo tipo di operazione è l’uso della forza autorizzato dal
Consiglio di sicurezza, che non sarebbe propriamente consentito se volessimo
seguire la lettera della Carta, ma che è possibile ottenendo il voto
all’unanimità in seno al Consiglio; talvolta l’intervento degli Stati membri
è consentito solo in vista della costituzione della forza di pace.
Questo quadro, tinteggiato nelle sue linee essenziali, dimostra la
complessità del funzionamento degli organismi nati con lo scopo di evitare lo
scoppio di conflitti e, insieme, la labilità del confine tra la ciò che è
stato sancito dai documenti e dagli accordi e quella che è la prassi, nonché
l’immobilismo di fronte a situazioni che dovrebbero essere considerate
illecite e andrebbero punite. Si sa, le guerre sono promosse e muovono
interessi economici che vanno al di là delle preoccupazioni umanitarie,
inglobando una spiccata
componente giustificazionistica. Non esiste Diritto più violato di quello
stabilito per i periodi di guerra, in modo sistematico e spesso nemmeno
troppo velato. Queste constatazioni valgono tanto per il passato quanto per
il presente. Come insegna il buon Tucidide, l’uomo agisce seguendo tre
istinti :Tὸ δέος, la paura, il desiderio di autoconservazione; Ἡ τιμή, il
desiderio di onore e di prestigio; ultimo ma non meno importante, anzi, forse
è l’istinto predominante, Ἡ ὠφελία, l’utilità, il proprio interesse
personale.
[Il titolo dell’articolo è una citazione di Gaston Durnez, giornalista e
scrittore fiammingo]
ELISA PETTITI
Bibliografia essenziale:
L. BONANATE, La guerra, Editori Laterza, 1998;
N. RONZITTI, Diritto internazionale dei conflitti armati, Giappichelli
Editore, Torino, 1998.
"L'Italia ripudia la guerra": il
significato giuridico di questa
poetica locuzione
“Somayeh, Iraq war tank”: foto di
Hamed Saber, licenza CCBY-SA,
Flickr.com
L’art. 11 della Costituzione dispone che “l’Italia ripudia la guerra come
strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di
risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di
parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un
ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e
favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Questo
principio è stato più volte al centro dell’attenzione in merito all’analisi
giuridica della politica estera italiana. E’ stato sottoposto a molte
tensioni riguardo all’adesione dell’Italia alla NATO, alla partecipazione
dell’Italia alla guerra del Golfo del 1991 e alle varie “missioni
internazionali” che si sono susseguite negli anni ’90 e 2000.
L’Assemblea Costituente volle scrivere questa norma in reazione all’orrore
della Seconda Guerra Mondiale, che aveva fatto in tutto il mondo circa 50
milioni di morti e dalla cui fine era nata la vicenda costituente italiana.
Furono solo due in Assemblea Costituente i deputati che si mostrarono
contrari a quella norma: l’On. Perez (Movimento dell’Uomo Qualunque) e l’On.
Nitti (Unione Democratica Nazionale). Per il resto, tutta l’Assemblea volle
l’inserimento di questa norma nella Legge Fondamentale. Peraltro, è da notare
come i costituenti non vollero fare dell’Italia un paese neutrale, come
dimostra la bocciatura dell’emendamento di Dossetti che recitava: “L’Italia
rinuncia per sempre alla guerra”. Ciò che i costituenti vollero era evitare
che l’Italia partecipasse a guerre aggressive, a guerre appunto rivolte
“all’offesa alla libertà degli altri popoli”; essi vollero anche fare in modo
che le controversie internazionali fossero risolte in modo pacifico anziché
bellicoso. Il fatto che l’Italia non sia legata indissolubilmente alla
neutralità è dimostrato dal fatto che non mancano in Costituzione le
disposizioni riguardanti la guerra: l’art. 78 che dispone che sia il
Parlamento a deliberare lo stato di guerra e a conferire al Governo i
poterei necessari; l’art.87 che dispone che sia il Presidente della
Repubblica a dichiarare lo stato di guerra deliberato dalle camere; e
soprattutto l’art.52, secondo il quale la difesa della patria è “sacro dovere
del cittadino”.
Dunque, la Costituzione vieta il ricorso alla guerra offensiva, ma è proprio
la nozione di guerra offensiva ad essere stata oggetto di interpretazioni nel
corso della storia. Secondo una rigorosa interpretazione, deve considerarsi
vietata ogni forma di uso della forza con finalità offensive su vasta scala,
anche se non necessariamente definibile guerra in senso tecnico; dunque, non
sarebbe possibile aggirare la disposizione costituzionale con nomenclature
alternative, quali “missione internazionale”, “peace enforcing” e altri
surrogati. Un altro problema interpretativo porta a chiedersi quale offesa
alla libertà degli altri popoli è vietata. Secondo recenti interpretazioni,
elaborate in particolare per giustificare partecipazioni a guerre come quella
del Kosovo, il divieto di muovere guerra sarebbe scriminato da una
consuetudine internazionale secondo la quale sarebbe lecita la guerra
umanitaria, ossia quella guerra fatta al fine di esportare i diritti umani.
Come noto, peraltro, la consuetudine internazionale assume la stessa forza
della Costituzione, in virtù dell’art. 10 primo comma Cost., che dispone che
“l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto
internazionale generalmente riconosciute”. Gli autori che contestano questa
teoria (Carlassarre 1999, Vari 1999) si fondano, in primo luogo,
sull’inesistenza di una simile consuetudine internazionale; in ogni caso,
essi ritengono che, anche se si dimostrasse questa consuetudine
internazionale come esistente, essa non sarebbe in grado di porre limite
all’applicabilità di un principio fondamentale della Costituzione, tanto
fondamentale da resistere alla modifica della Costituzione.
“art. 3: Tutti i cittadini hanno
pari dignità sociale e sono eguali
davanti alla legge”: Foto di Andrea
Medapapandreu, licenza CCBY-SA,
Flickr.com
La guerra difensiva è invece comunemente ritenuta ammessa. Anche qui si può
notare un problema interpretativo, in quanto se sicuramente il diritto
internazionale consuetudinario conosce il concetto di legittima difesa, non
altrettanto chiari sono i suoi limiti, con particolare attenzione
all’ammissibilità della guerra preventiva: se sicuramente il concetto di
legittima difesa comprende in sé anche un intervento che avvenga prima
dell’attacco nemico laddove la difesa non sarebbe possibile a posteriori, non
chiaro è quanto preventivo questo attacco possa essere, ossia quanto prima
della concretizzazione della minaccia possa porsi. Non manca chi fa notare
come in ogni caso lo spirito della Costituzione è quello di
procedimentalizzare anche la guerra difensiva. In primo luogo, è ammessa solo
la guerra (difensiva) che sia tale in senso tecnico, la guerra
klausewitziana, e non altre forme di belligeranza. In secondo luogo, vi è una
procedura da seguire: deliberazione delle Camere e dichiarazione del
Presidente della Repubblica, in mancanza della quale procedura non potrebbe
essere ammesso il ricorso alla legge marziale. È generalmente ammesso che il
Governo possa effettuare operazioni militari difensive d’urgenza anche prima
del completamento della procedura richiesta dalla Costituzione, ma deve
immediatamente informarne le Camere, scontando la possibilità di incorrere in
responsabilità ex art. 96 Cost. laddove il Parlamento non ritenga
l’intervento militare legittimo.
La descrizione finora effettuata attiene all’ambito della interpretazione del
primo periodo dell’art. 11 Cost. Un argomento non meno rilevante è quello
della “giustiziabilità” della violazione di questa disposizione, ossia se sia
possibile che un giudice, in modo particolare la Corte Costituzionale, possa
decidere delle violazioni di questa norma e con ciò rimuovere
dall’ordinamento eventuali leggi eventualmente illegittime. V’è chi ha
scritto (Cassese 1975) alcuni possibili spunti di giustiziabilità dell’art.
11, quali la possibilità di dichiarare costituzionalmente illegittima una
legge che autorizzi la ratifica di un trattato ad esso contrario, ossia che
obblighi l’Italia ad una guerra offensiva o l’incostituzionalità di
deliberazioni dello stato di guerra contrarie all’art. 11. Peraltro, è stato
anche notato (Grosso 2012) che il modo in cui si tutelano valori alti come il
ripudio della guerra non è l’azione della Corte Costituzionale, ma “la
partecipazione e l’esercizio quotidiano, da parte dei cittadini, della
propria quota “attiva” di sovranità”.
Seppur questo articolo sia concentrato sul primo periodo dell’art. 11, vale
la pena ricordare come un grande ruolo sul piano del diritto costituzionale
sia stato giocato dal secondo periodo di questo articolo, ossia quello che
consente al nostro Paese di cedere parte della propria sovranità, in parità
con gli altri stati, per creare un ordinamento che assicuri “la pace e la
giustizia fra le nazioni”. Pensato in origine per consentire l’adesione
dell’Italia all’ONU, questo periodo è stato il protagonista delle vicende che
hanno portato all’ingresso del diritto comunitario nel diritto interno.
Infatti, la Corte Costituzionale (sentenza 170/1984, meglio nota come
sentenza “Granital”) ha ritenuto che con l’adesione alla Comunità Europea
prima e all’Unione Europea poi l’Italia abbia effettuato quella cessione
della sovranità che l’art. 11 consente. Quindi, per l’ingresso del diritto
comunitario non è necessario un atto di recepimento, come per le normali
fonti del diritto internazionale, ma questo entra direttamente nel nostro
ordinamento, con una forza addirittura maggiore di quella della Costituzione.
Conseguenza di tutto ciò è che in caso di contrasto fra una norma interna e
una europea (purché direttamente applicabile) il giudice deve disapplicare la
norma interna al fine di applicare solo quella comunitaria, facendo finta che
quella interna non esista. È da notare, e qua possiamo ritrovare un altro
spunto di immediata precettività del primo periodo dell’art. 11, che la Corte
Costituzionale ha altresì affermato che questa limitazione di sovranità non
può andare contro i principi fondamentali della Costituzione e quindi,
seppure il diritto comunitario abbia una forza maggiore addirittura della
Costituzione, esso comunque cede di fronte ai principi fondamentali della
nostra Legge Fondamentale. Fra questi principi fondamentali, inderogabili
neppure dai trattati comunitari, sta proprio il primo periodo dell’art. 11.
ALBERTO PARMENTOLA
BIBLIOGRAFIA
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Dogliani, Sicardi, Diritti umani e uso della forza, Giappichelli,
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“crisi del Kosovo”, in (a cura di) Dogliani, Sicardi, Diritti umani e
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