1 6. Il bilancio d`esercizio secondo la scuola del Ferrero. 6.1

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1 6. Il bilancio d`esercizio secondo la scuola del Ferrero. 6.1
6. Il bilancio d’esercizio secondo la scuola del Ferrero.
6.1 Il capitale di bilancio.
La “teorica” del bilancio fu affrontata dal Ferrero in studi diversi con riferimento al concetto di
valore economico del capitale ed alla significatività delle valutazioni a costo storico in tempi di
inflazione.
L’aspetto del valore economico del capitale portò il Ferrero ad individuare il concetto di capitale
economico dell’impresa a cui devono tendere sia il valore del capitale di bilancio (o di gestione),
valutato periodicamente per la determinazione del risultato d’esercizio distribuibile, sia il valore del
capitale dell’azienda che forma oggetto di cessione.
In ogni caso il valore del capitale economico d’impresa si forma in “relazione al congiunto
divenire della gestione e del patrimonio 1 e dovrebbe “concettualmente riflettere il mobile atteggiarsi
delle future condizioni di redditività della gestione d’impresa”.
Il capitale di bilancio, o di gestione, o di funzionamento, ancorato alla “…formazione
dell’ordinario bilancio d’esercizio è sempre comunque una nozione essenzialmente quantitativa che
adduce ad un particolare concetto di capitale-valore. Infatti, il momento fondamentale del processo
di formazione di questo bilancio – ossia il momento per il quale si pone l’accento sull’ “aspetto
sostanziale” di tale processo – è in ogni caso quello in cui si pongono e si risolvono i complessi
problemi di valutazione finalizzati alla determinazione del reddito d’esercizio e del correlato
capitale di gestione, entrambi “quantificati” oltre che nei rispettivi “ valori netti”, anche nei loro
componenti positivi e negativi. Per altro, una nozione di capitale, sebbene “essenzialmente”
quantitativa, non esclude appropriate ponderazione di aspetti qualitativi riguardanti gli elementi
patrimoniali osservati nei loro attributi e nelle loro “relazioni funzionali” col procedere della
gestione. La ponderazione di tali “aspetti qualitativi” è dunque necessaria per poter affrontare
consapevolmente – agli effetti dell’accennata “quantificazione” il contributo del capitale di
gestione allo svolgimento della gestione medesima, la cui “qualificazione” in termini economici
dipende dal livello e dal segno algebrico del reddito d’esercizio che ne misura i “risultati di
periodo”. 2
Il processo di quantificazione su cui si fondano le valutazioni di bilancio implica sia
determinazioni di quantità fisiche, connesse con la rilevazione inventariale dell’ “esistente” al
termine dell’esercizio, sia di quantità monetarie, in rapporto alla “valorizzazione” delle
“esistenze” inventariate. E poiché l’ “inventariazione” è finalizzata alla “valutazione”, possiamo
dire che l’essenza della “quantificazione” ancorata al bilancio d’esercizio è sostanzialmente di
“natura monetaria”, ossia protesa alla determinazione di valori attribuibili al capitale di gestione
e ai suoi componenti, solitamente definiti, in generale, “elementi patrimoniali”.
Il riferimento a questi “elementi” induce al richiamo della non insolita abitudine di indicare,
col termine “capitale”, il “patrimonio” dell’impresa. Così, parallelamente al concetto di capitale
di gestione inteso nel senso più sopra precisato, si accoglie, con identità di significato,
l’espressione “patrimonio di funzionamento” o anche quella di “patrimonio di bilancio”. 3
Esso costituisce “…la naturale base di giudizio per una prudenziale valutazione del capitale di
gestione, al cui calcolo economico si ricollegano la determanizione periodica del reddito, da un
lato, ed i variabili limiti di rimunerazione del “capitale proprio”, dall’altro,…in rapporto
1
G. Ferrero, La valutazione economica del capitale d’impresa, Milano, Giuffrè, 1966, pag. 6.
“I caratteri fisico-tecnici degli impianti e dei macchinari, i rendimenti produttivi degli stessi, la loro modernità
rispetto al moderno stato della tecnica, il maggiore o minore rischio di obsolescenza ad essi relativo, la composizione
armonica o disarmonica delle scorte di magazzino per quanto riguarda gli assortimenti richiesti dalla produzione e
dalle vendite: queste ed altre condizioni esprimono aspetti qualitativi del capitale utilmente conoscibili per la stessa
interpretazione dei valori” che risultano dall’ordinario bilancio d’esercizio, per il quale il capitale di funzionamento
diviene il complesso oggetto della valutazione finalizzata alla determinazione del reddito dell’esercizio medesimo (P.
ONIDA, Economia d’azienda, pag. 715).
3
G. Ferrero, La valutazione del capitale di bilancio, Milano, Giuffrè, 1988, pagg. 4-5.
2
1
all’imprescindibile esigenza di “trattenere (e di “ attrarre”) il capitale stesso come fattore
produttivo che conviene vincolare durevolmente allo svolgimento dell’azienda di cui venga
continuato l’esercizio”. 4
Ancora più chiaramente il Ferrero individua la finalità della valutazione del capitale di bilancio
“…nella ricorrente necessità di determinare il reddito d’esercizio, inteso come astratto valore-base
su cui si fonda la periodica rimunerazione del “capitale proprio” e di altri fattori produttivi
totalmente o parzialmente “compensati” in funzione del “risultato economico” della gestione. 5
La valutazione degli elementi attivi e passivi che compongono il capitale di funzionamento
dovrebbe “… tener conto delle presunte condizioni di futuro compimento delle “operazioni in
corso…”.
Ed affinché la distribuzione del reddito d’esercizio non si traduca, di fatto, in una distrazione di
mezzi produttivi vincolati all’impresa, tali valori debbono determinarsi ponderando attentamente il
futuro esito delle “operazioni in corso” prese in esame. Evidente è pertanto, la necessità di fondare
la valutazione del capitale di funzionamento su indagini di previsione tendenti a consentire giudizi
intorno alle prospettive economiche della gestione futura6 .
Si possono così individuare i valori limite da attribuire alle attività e alle passività.
Per le attività il limite superiore è quello di presunto realizzo diretto o indiretto.
Per le passività il limite inferiore è quello della presumibile estinzione.
“Nei termini qui precisati, i valori correttamente attribuibili alle attività non potrebbero superare i
corrispondenti valori presunti di futuro realizzo diretto o indiretto, ma dovrebbero, di regola,
risultarne inferiori, in modo da consentire, ai successivi esercizi, un margine di copertura per i
costi speciali o generali di realizzo e per la rimunerazione del capitale investito fino all’epoca del
realizzo medesimo, specialmente quando dovesse trascorrere, dal momento della valutazione fino a
quest’epoca, un non breve lasso di tempo. Parallelamente, i valori attribuibili secondo logica alle
passività dovrebbero determinarsi in modo che non risultassero inferiori a quelli di presumibile
estinzione futura delle passività medesime7 .
Entro i limiti qui precisati, una valutazione secondo i cosiddetti “criteri di comodo” non
potrebbe scartarsi “a priori”: in ogni caso sarebbe per altro necessario controllare che questi
criteri fossero compatibili con quelli rispondenti all’esaminata logica di valutazione, per la quale –
date le premesse che la reggono – i valori attivi e passivi, comunque determinati, dovrebbero
4
G. Ferrero, La valutazione economica del capitale d’impresa, Milano, Giuffrè, 1966, pag. 7.
G. Ferrero, La valutazione economica del capitale d’impresa, Milano, Giuffrè, 1966, pag. 28.
6
G. Ferrero, La valutazione economica del capitale d’impresa, Milano, Giuffrè, 1966, pag. 47 – 48.
7
In merito, per ogni dettaglio, v.: ONIDA, Bilancio, parte I; le indagini di previsione, delle quali si fa anche cenno nel
testo, sono diffusamente trattate nella II parte della pubblicazione qui citata. Le difficoltà che s’incontrano nel
determinare i presunti valori di realizzo diretto sono poche; esse, inoltre, si moltiplicano allorché trattasi di orientare
le ricerche verso l’esame delle condizioni di realizzo indiretto delle attività destinate all’uso, specialmente per quanto
riguarda le ingenti immobilizzazioni tecniche e le altre attività immobilizzate in lungo tempo. In queste circostanze le
previsioni hanno per oggetto lo studio prospettico delle possibilità di economica utilizzazione, in seno all’impresa, delle
dette attività, tenuto conto delle condizioni d’ambiente, della variabilità, dell’intensità e senso di loro variazione nel
lungo andare. Questo esame può lasciar percepire – sia pure con previsioni variamente attendibili – quale potrà
essere, in futuro, la presunta capacità media di ammortamento dei diversi esercizi, compatibile con una congrua
remunerazione del capitale investito.
Le “ineguali difficoltà” che caratterizzano la determinazione dei valori di stima giustificano la non costante
applicazione del valore di presunto realizzo come punto di riferimento nelle stime d’inventario ordinate dalla
formazione del bilancio. Infatti, mentre viene normalmente praticata la valutazione in funzione delle presumibili
condizioni di realizzo per i crediti, per le merci, per i prodotti, per i titoli destinati alla vendita e, in genere, per tutte le
attività realizzabili a non lungo andare, si parla, invece, di “valutazione al costo” per le materie prime, per le
partecipazioni azionarie o altre attività di non prossimo realizzo e più ancora per le immobilizzazioni tecniche. Se, non
di rado, come si vede, “è necessario accogliere valutazioni nominali a costo passato o a costo attuale di fine esercizio,
nell’impossibilità di effettuare consapevoli previsioni, non per questo si può negare che le stime in esame abbiano
logico fondamento nelle previsioni; ne queste si possono negligere quando riescano possibili, specialmente se portino a
valutazioni sensibilmente inferiori ai costi” (ONIDA, Bilancio, pag. 60).
5
2
essere sempre tali da non menomare – per quanto dipende dalla valutazione medesima – le
possibilità di una congrua rimunerazione, stabilizzata nel tempo, del “capitale proprio”.
Ciò significa che la valutazione del capitale di funzionamento deve essere configurata tenendo
presenti la politica di stabilizzatarimunerazione del “capitale proprio”, da un lato, ed il “carattere
prudenziale” della valutazione stessa, dall’altro.
Tale politica – la quale, negli aspetti definiti dall’ammessa semplificazione teorica, riflette la più
complessa politica economico-finanziaria della gestione – si traduce in un coordinato insieme di
provvedimenti per i quali l’impresa – anche per quanto può dipendere dalla valutazione del
capitale di funzionamento – tende ad ad acquisire una stabilizzata attitudine a rimunerare
congruamente il “capitale proprio”: attitudine che deve giudicarsi considerando, oltre tutto, anche
la necessità di coordinare, fra di loro e nel tempo, le assegnazioni ed i prelevamenti di utili nelle
diverse forme che può assumere la variabilerimunerazione del “capitale proprio”………… più o
meno immediato o differito”.8
La valutazione prudenziale “…deve risultare consapevolmente configurata in relazione ai rischi
connessi al prelevamento di “utili non realizzati”.9
6.2 ”Il capitale di gestione rivalutato. Rivalutazione e valutazione periodica del capitale di
funzionamento: relazioni e riferimento al comune “principio di prudenza amministrativa”. 10
Il Ferrero esamina anche l’aspetto del “capitale di gestione rivalutato” come concorso delle
“rivalutazioni” alla determinazione del netto patrimoniale di gestione.
Com’è noto, con la “rivalutazione” è possibile far concorrere, alla determinazione del netto
patrimoniale di gestione, anche le “variazioni di capitale” che si sono supposte “costanti” ai fini
della “valutazione sistematica” del capitale di funzionamento esistente a fine esercizio. Trattasi di
“variazioni” comuni a più esercizi, determinabili rivalutando quegli elementi patrimoniali che la
periodica valutazione sistematica non sempre contempla, almeno in concreto, come oggetto di
assidua “rettifica” dei corrispondenti valori supposti “costanti”, malgrado l’influsso delle diverse
e mutevoli condizioni di variabilità. Basti pensare agli elementi patrimoniali che sogliono definirsi
“immobilizzazioni tecniche”, la cui discontinua rettifica di valutazione di fatto conferisce carattere
straordinario ai corrispondenti processi di rivalutazione.
Nei termini qui precisati, possiamo dire che i tipici casi in cui la “rivalutazione” si rende
necessaria si hanno: a) quando si giudichi che gli ammortamenti imputati ai trascorsi esercizi
siano troppo elevati o, al contrario, insufficienti; b) quando, in connessione a generali variazioni
delle condizioni d’ambiente e di mercato, o anche indipendentemente da queste variazioni, la
situazione economica dell’impresa abbia subito dei profondi mutamenti; c) quando, a prescindere
da questi mutamenti di situazione economica, possa giudicarsi che le attività esprimenti costi
rinviati al futuro siano stati originariamente “sopravvalutati” o “svalutati” rispetto alla durata
della loro presunta utilizzazione economica ed alle presumibili condizioni di redditività
dell’impresa alla quale sono stati e sono tutt’ora destinati; d) quando siano intervenute profonde
variazioni nel valore economico della moneta nella quale trovasi quantitativamente espresso il
capitale di gestione. 11
Così concepita, la “rivalutazione” non è altro che una condizione, ovviamente imprescindibile, per
la quale la stessa valutazione periodica del capitale di funzionamento tende ad acquisire, a parità
di altre condizioni, le necessarie caratteristiche di attendibilità.
8
G. Ferrero, La valutazione economica del capitale d’impresa, Milano, Giuffrè, 1966, pagg. 49 – 50.
G. Ferrero, La valutazione economica del capitale d’impresa, Milano, Giuffrè, 1966, pag. 55.
10
G. Ferrero, La valutazione economica del capitale d’impresa, Milano, Giuffrè, 1966, pag. 53 e seguenti.
11
ONIDA, Bilancio, pag. 381.
Intorno al contenuto ed alle finalità della “rivalutazione”, v.: MASINI, Dinamica, pagg. 424 – 425.
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3
Codesta attendibilità, tuttavia, se da un lato dipende da un complesso di circostanze variamente
componibili, dall’altro non può neanche formare oggetto di apprezzamento, ove si prescinda dal
principio di prudenza amministrativa in cui trovano fondamento – dati gli scopi che suscitano la
determinazione del capitale di gestione nell’impresa in funzionamento – i congiunti processi di
valutazione periodica e di rivalutazione del capitale medesimo”.
La prudenza amministrativa viene configurata rispetto all’esigenza di non prelevare “utili non
realizzati” sia per remunerare il capitale proprio, sia altri fattori produttivi a remunerazione ancorata
al risultato della gestione e sia al prelievo di imposte sul reddito.
6.3 Il bilancio destinato a pubblicazione schema di compromesso di interessi contrastanti
Il Ferrero individua i soggetti che, rispetto all’informativa di bilancio, hanno contrapposti interessi
in vista di accordi o di decisioni.
“Il bilancio destinato a pubblicazione… di fatto si traduce, proprio in rapporto all’unicità di
configurazione che lo caratterizza in uno “schema di compromesso”, sul quale soggetti aventi
interessi contrastanti adagiano le loro discussioni, per giungere ad un accordo, o le loro
osservazioni conoscitive, per appoggiare eventuali decisioni.
Codesto “schema di compromesso” – la cui funzione strumentale lo presenta come mezzo atto a
conciliare il “conflitto d’interessi” emergente dalla contrapposizione di economie diverse –
dovrebbe essere inteso in senso così ampio da contemplare qualsiasi circostanza capace di
condizionarne la conveniente strutturazione. Fra gli “interessati” al bilancio destinato a
pubblicazione dovrebbero comprendersi – oltre ai “soggetti” che costituiscono il gruppo
dirigente” dell’impresa e le minoranze azionarie o che rappresentano l’Amministrazione
finanziaria dello Stato – anche le banche e, in generale, tutti i creditori attuali o potenziali, coloro
che – sollecitati dalla percepita convenienza o dai suggerimenti ricevuti – potrebbero divenire
“futuri” azionisti od obbligazionisti, i concorrenti, i dipendenti e le loro organizzazioni sindacali e,
infine, lo Stato inteso come collettività giuridicamente organizzata che direttamente o
indirettamente condiziona e regola la vita economico-sociale del Paese, ad essa partecipando non
soltanto attraverso la propria Amministrazione finanziaria. 12
6.4 La nozione di complesso patrimoniale nella valutazione del capitale di bilancio
Secondo Ferrero il capitale di bilancio presenta una struttura complessa sebbene la “sua
rappresentazione contabile nello Stato Patrimoniale… ne lasci “formalmente” emergere la sola
“struttura semplice”13 che logicamente caratterizza un “aggregato” di valori.
Dopo le valutazioni analitico-distinte occorre, nella fase conclusiva della valutazione, considerare le
relazioni di complementarietà delle varie poste di bilancio attraverso un “processo di
aggiustamento” che “… adduce ad una valutazione di sintesi atta a correggere l’errore concettuale
insito nella preliminare “valutazione atomistica”…
… In tal modo il bilancio risulta formato, in definitiva, come sistema di valori, sul fondamento di
una valutazione analitico-sistematica delle attività e delle passività individuate, con riferimento
alla “gestione in corso”, come rimanenze d’esercizio.
Il ragionamento economico su cui si fonda tale “processo di aggiustamento” mette a fuoco
l’imprescindibile esigenza di far sì che il risultante capitale netto di bilancio trovi, nel
corrispondente valore economico di funzionamento – correttamente assunto come concettuale
valore-guida del ragionamento medesimo – il punto di riferimento logico-estimativo per
individuare il “limite economico”prudenzialmente attendibile in base al quale poter giudicare e
12
13
G. Ferrero, La valutazione economica del capitale d’impresa, Milano, Giuffrè, 1966, pagg. 36 – 37.
G. Ferrero, La valutazione del capitale di bilancio, Milano, Giuffrè, 1988, pag. 97 e seguenti.
4
rendere possibile una ragionevole compatibilità del netto patrimoniale rispetto alle presunte
condizioni di redditività della gestione futura: precisamente, della gestione stessa proiettata nel
periodo di tempo futuro che delimita il ciclo di compimento della “gestione in corso” emergente
nel momento della valutazione”.
Il “processo di aggiustamento” potrebbe essere limitato alle sole operazioni in corso maggiormente
impegnative come, ad esempio, quelle relative agli investimenti durevoli ed ai collegati processi
d’ammortamento.
Al riguardo potrebbe tornare opportuno rivedere più attentamente i “processi di ammortamento” per
accelerarli, o decelerarli, maggiormente con riferimento alla presunta utilizzazione economica nel
tempo futuro dei fattori produttivi pluriennali.
6.5 Esigenza di tutelare l’integrità economico-patrimoniale dell’impresa: il bilancio a valori
correnti 14
Il Ferrero esamina anche il richiamo della IV direttiva CEE che, in alternativa al costo, prevede la
possibilità di utilizzare metodi diversi di valutazione atti a tener conto dell’inflazione.
In particolare, esamina il particolare “correttivo contabile integrale” proteso a formare un bilancio a
“valori correnti”… modello C.C.A. ossia del Current Cost Accounting”.
Si realizza un diverso sistema di valutazione per il quale “…il capitale netto potrà giudicarsi
conservato nella sua integrità economica soltanto se il valore che lo esprime consentirà di
ricostituire, con la sostituzione dei fattori utilizzati le medesime condizioni di economica
disponibilità dei fattori stessi normalmente impegnati da una produzione d’impresa ancorata a
prospettive di redditività futura. E’ questa la posizione concettuale di fondo su cui si adagia il
modello di contabilità in oggetto.
Il principio in cui trova fondamento quest o “metodo” di valutazione è, pertanto, quello secondo il
quale il valore che al capitale può attribuirsi come valore per l’impresa (traduzione di: “value to
business”) deve determinarsi tenendo conto della funzione economica che i fattori produttivi
esplicano all’interno dello svolgimento aziendale. In altri termini, si tratta del valore d’uso (detto
anche valore di funzionamento) che, per l’impresa, assume il capitale in quanto “serbatoio di
servizi” forniti dai fattori produttivi. Per esso, il valore di ciascun fattore dipende sia dal grado con
cui il fattore medesimo si rende necessario rispetto alle esigenze della produzione, sia dalla
funzione conseguentemente esplicata nell’ambito del composito processo produttivo, attraverso il
quale si realizza e si rinnova l’operare dell’impresa stessa. L’accennato valore d’uso (o di
funzionamento) scaturisce da una comparazione tra i diversi valori che possono assegnarsi a
ciascun fattore produttivo nell’intento di determinare la “massima perdita” che l’impresa
subirebbe qualora fosse “privata” del fattore medesimo: donde l’equivalente espressione “deprival
value”.
Sulla base dell’indicato “principio”, i possibili “valori correnti” sono dunque:
1) il valore di sostituzione o, come anche si dice, di rimpiazzo (current replacement cost);
2) i valori-limite alternativi del costo di sostituzione:
2.1) il valore netto di liquidazione (net realizable value) per i “fattori non sostituibili”;
2.2) il valore economico, ossia il “valore di rendimento” che direttamente o indirettamente si
riconnette con la redditività della gestione e, quindi, con le condizioni di presumibile esito
futuro della gestione stessa, “in corso” all’epoca del bilancio (economic value).
Il costo di sostituzione di un fattore produttivo è il complesso degli oneri che l’impresa
dovrebbe sostenere, in condizioni di “normale” approvvigionamento, per acquisire il fattore
stesso dotato delle medesime – o, almeno, equivalenti – caratteristiche di “idoneità funzionale”.
14
G. Ferrero, La valutazione del capitale di bilancio, Milano, Giuffrè, 1988, pagg. 187 – 208.
5
Il valore netto di liquidazione è rappresentato dal presunto ricavo di vendita del fattore
produttivo al netto dei corrispondenti costi di rimozione e di realizzo, e si riferisce ai processi
di riconversione che, anche gradualmente, si effettuano, più o meno estensivamente,
nell’impresa in funzionamento. Il concetto del “valore di liquidazione” è estensibile,
ovviamente, ai semilavorati ed ai prodotti finiti, oltre che ai crediti ed ai debiti da “rimuovere”
(per questi ultimi, si parla, rispettivamente, di presunto valore d’incasso o di estinzione, “per
liquidazione”, che normalmente non coincide col corrispondente valore nominale).
Il valore economico, in quanto valore-limite economicamente prudenziale per i “fattori
sostituibili”, è dato dal valore attuale del presunto “net cash flow” (flusso netto di realizzo)
futuro attribuibile a elementi patrimoniali attivi oppure, per estensione concettuale, dal
parallelo presunto costo di futura estinzione in corrispondenza ad elementi patrimoniali
passivi. In definitiva, questo duplice valore economico si riconnette ai valori-limite, massimo e
minimo, rispettivamente delle attività a realizzo (di funzionamento) diretto o indiretto, da un
lato, e delle passività connesse con impegni finanziari in essere, dall’altro.
Individuati così i possibili valori correnti che possono correttamente attribuirsi agli elementi
del capitale, l’accennato “valore d’uso” (o “di funzionamento”), in quanto “valore per
l’impresa”, si determina attraverso un ragionamento economico che trova fondamento nella
comparazione tra valori di sostituzione, da un lato, e valori netti di liquidazione o valori
economici, dall’altro.
Ciò precisato, possiamo dire che il risultante “bilancio a valori correnti” è fondato
sull’accennato “deprival value”, orientativamente determinabile sulla base dei “costi correnti
di sostituzione”,sempre che questi esistano e non siano incompatibili rispetto a corrispondenti
corrette misure o del “valore netto di liquidazione” o del “valore economico” che
diversamente debbono sostituirli.
Il che significa tener conto di un particolare principio di perseguimento o di mantenimento
dell’integrità economica del capitale d’impresa: integrità economica considerata non tanto in
termini di “potere d’acquisto corrente” (ossia di “valore economico” della moneta nella quale
trovasi espresso il netto patrimoniale), quanto invece in termini di continuità dell’impresa alle
condizioni di “variabilità dei prezzi correnti”, ossia di valore economicamente attribuibile al
capitale netto di funzionamento, tenuto conto delle varie condizioni – comprese quelle afferenti
alla variabilità dei prezzi di mercato – che possono influire sulla funzionalità dell’impresa e
quindi sull’attitudine della medesima a produrre redditi”.
Per il Ferrero la contabilità a costi di rimpiazzo dovrebbe, “nelle imprese più evolute e più
esigenti sul piano dell’informazione, affiancare la “contabilità tradizionale” a valori storici,
sia come “contabilità industriale” sia come strumento contabile preparatorio, quanto meno, di
un “conto economico a valori correnti”.
Ferrero però sottolinea che anche con i valori di rimpiazzo il bilancio non è sufficientemente
permeato del principio di integrità economico-patrimoniale ed osserva quanto segue:
α. le “riserve di rivalutazione” derivano dai plusvalori che emergono ricomponendo, a
deprival value”, lo stato patrimoniale iniziale: esse si ritrovano, ovviamente, nel
corrispondente stato patrimoniale finale;
β. gli “ammortamenti a deprival value” sono calcolati sul valore da ammortizzare,
desumibile dalla rivalutazione del dato iniziale e di quello esprimente flussi patrimoniali
dell’esercizio;
γ. la “rettifica del costo del venduto”, mentre richiede un computo diverso, presenta invece
una analoga origine (rimanenze iniziali di magazzino e corrispondenti rimanze finali desunte
dalla rivalutazione “deprival value”)
- δ. il “fondo integrazione economica del capitale” figura, per chiusura del relativo conto
nello stato patrimoniale finale.
La “situazione monetaria netta” viceversa, non viene rivalutata; essa appare, quindi, a “valori
storici” nello stato patrimoniale iniziale e finale.
6
Il Ferrero propone di optare per un “…modello di “bilancio a valori correnti” implicante un
composito principio di integrità economico patrimoniale”.
Tale modello si “fonderebbe su un’appropiata combinazione tra “ valori a prezzi correnti”15 e “
valori a potere d’acquisto corrente”.
Il Ferrero indica una “soluzione composita implicante l’esigenza di tener conto”:
a. delle risultante minusvalenze “ reali”, in quanto limiti al compito ed alla distribuzione di
redditi inesistenti;
b. delle risultanti plusvalenze “reali”, nelle modalità di rilevazione e nei limiti alla loro
distribuzione con i redditi emergenti.
Per quanto attiene ad entrambi i punti qui indicati è necessario precisare che le accennate
minusvalenze e plusvalenze “reali” riguardano:
- la situazione monetaria netta , attiva e passiva, giacchè ad essa si connettono, come
variazioni di valore, perdite o utili di inflazioni;
- le immobilizzazioni e le scorte di magazzino,per le quali date minusvalenze o plusvalenze
“reali” emergono quando il “ deprival value” – determinato tenendo conto di “specifici“
prezzi correnti- differisce , nei confronti del “valore storico”, meno o più che
proporzionalmente rispetto al “livello generale dei prezzi” assunto come base di calcolo dei
corrispondenti ”valori in moneta a potere d’acquisto corrente: le risultanti differenze tra i
due diversi ordini di valori costituiscono appunto le minusvalenze o le plusvalenze in
oggetto;
- il capitale netto , per quanto attiene ai derivati influssi sulle riserve e sui redditi emergenti
siano essi positivi o negativi.
In merito all’indicato punto a), si osserva che il non rilevare, nel conto economico dell’esercizio le
esistenze minusvalenze “reali” significa determinare scorrette e dannose risultanze reddituali;
scorrette, perchè un’omissione in tal senso occulta delle perdite che vengono così rinviate al futuro
sotto “la forma contabile” di costi, anziché pesare sull’esercizio in cui esse si producono 16 ;
dannose , perché un eventuale distribuzione “ al buio” di utili per intero o in parte inesistenti
determina conseguenze negative sul “integrità economica” del capitale d‘impresa menomandone il
“principio del mantenimento”.
Sull’enunciato punto b) occorre… disciplinare l’uso delle riserve di rivalutazione, purchè siano
rispettati i seguenti vincoli:
α. sono accreditabili al conto economico soltanto le “plusvalenze effettivamente realizzate”
ß. le riserve di rivalutazione non possono essere distribuite neanche in parte né direttamente né
indirettamente, al di là dei limiti delle “plusvalenze effettivamente realizzate.
E poiché sul punto a) non emergono contrasti,… agli effetti dei vincoli indicati sub a) e ß), a
proposito del punto b), un orientamento inteso a privilegiare- come in altre circostanze- il
“principio della prudenza amministrativa” a scapito di un’altro principio contabile“. Quello
“dell’uniformità” che nella fattispecie verrebbe meno sotto il profilo della disparità di trattamento,
nelle imputazioni contabili, delle “minusvalenze” (ancorchè presunte), da un lato, e delle
“plusvalenze” (non realizzate), dall’altro.
Le plusvalenze “reali”- che così si qualificano al pari delle minusvalenze, in quanto si
contrappongo a quelle “nominali”, dette pure “fittizie” (ossia unicamente ancorate alle variazioni
del potere d’acquisto della moneta) – possono anche non essere “realizzate” in termini di “flussi
15
Contabilità a costi di sostituzione o “current cost accounting” (C.C.A.)
È da notare, a riguardo , che mentre il “ deprival value” , sostituendosi al “valore storico”, no dipende dall’entità
del medesimo, l’eventuali “minusvalenze reali” dipendono invece da queste entità dal momento che ad esso si aggancia
attraverso apposito coefficiente rettificativo, il corrispondente valore in moneta ha potere d’acquisto corrente, e con
esso, il plusvalore che ne deriva per adeguamento monetario. Per tanto , scorrette “valutazione storiche “ protese ad
ingiustificate sopravvalutazioni, sono anche , oltre tutto , a parità di condizioni, cause del successivo emergere di “
minusvalenze reali”, come, allo stesso modo, eventuali svalutazioni possono essere foriere di “plusvalenze reali”
16
7
monetari”: e ciò accade quando si tratti di plusvalenze, ancorché “reali”, relative ai fattori “non
ancora utilizzati” al termine del “ciclo” considerato, come possono essere, ad es., gli investimenti
“in corso”, vale a dire in attesa di realizzo diretto o indiretto (connessi con le rimanenze di
magazzino o di capitale fisso) o anche, per la contrapposta assimilazione, ai crediti ed agli
impegni finanziari che, all’epoca del bilancio, sono parametri “in corso”ossia in attesa di
destinazione (es. rimborsi di debiti).
Circa le modalità di rilevazione delle qui indicate “plusvalenze non realizzate”, il riferimento ai
vincoli comunitari sopra richiamati sub a) e ß) implica che le riserve di rivalutazione –
determinate in base ai principi del “deprival value”- annullano la loro evidenza in relazione al
parallelo costituirsi di un “fondo” finalizzato al mantenimento del potere d’acquisto del capitale
(in termini monetari), oltre che di un “fondo” destinato a rilevare le plusvalenze non realizzate
(ancorché “reali” nel senso precisato); entrambi questi “fondi” coesistono con quello proteso al
mantenimento dell’integrità economica del capitale medesimo.
Dopo queste precisazioni, prima di concludere, sembra necessario fare ancora qualche
considerazione.
A. Con il vincolo a si tende, ad evitare che, in periodi di forti perturbazioni economichemonetarie, la contabilità per l’inflazione possa trasformarsi – come non di rado si rileva,
con riferimento ad avvenute sperimentazioni, in certi Paesi, di taluni “correttivi”- in uno
strumento articolabile per ridurre latenti perdite d’esercizio, che prescindendo dal computo
di “plusvalenze non realizzate” emergerebbero invece in tutta evidenza. In tal modo, si
perseguono intenti di informazione distorta, ovviamente alieni da preoccupazioni di ordine
tributario, mortificando le “attese” non speculative di chi partecipa al rischio d’impresa e
la “propensione” a parteciparvi ulteriormente.
B. Parallelamente, con il vincolo ß si tende a potenziare il “principio di integrità” del
capitale, evitando qualsiasi distribuzione di plusvalenze (allorché “reali”) non
“realizzate”: è lo stesso “principio di integrità economico-patrimoniale” cui si richiama
l’indicato punto a), sottolineando l’esigenza di computare, nel conto economico, le
emergenti minusvalenze “reali”, sebbene soltanto presunte, in quanto limiti alla
distribuzione di redditi che non siano “prudenzialmente” determinati.
C. Ne deriva che, per realizzare un “bilancio a valori correnti”…occorre inserire la
condizione del differente trattamento contabile delle risultanti “minusvalenze”, da un lato, e
delle contrapposte “plusvalenze”, dall’altro.
Il Ferrero, mentre delinea il nuovo modello di “bilancio a valori correnti” ne prevede un utilizzo
come complementare strumento di informazione subordinata al mantenimento della “contabilità
tradizionale” e, quindi, del connesso “bilancio a valori storici”.
Il diverso trattamento previsto per le plusvalenze e le minusvalenze che penalizza il “principio
contabile dell’uniformità” viene accolto dal Ferrero poiché “…quanto meno non mortifica i
complementari principi della “trasparenza” e della “prudenza amministrativa” .
Si può concludere, quindi, che il bilancio a valori correnti viene inteso dal Ferrero come affatto
proponibile, con l’accortezza, però di mantenere un distinto trattamento delle plusvalenze e delle
minusvalenze e di conseguenza non applicare il principio contabile “dell’uniformità” per esaltare
quelli della “trasparenza” e della “prudenza amministrativa” mentre, al contrario, i principi
contabili internazionali tendono a sacrificare i principi della “prudenza” e della “trasparenza” per
dare più spazio al principio “dell’uniformità”.
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