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Dionisio Morlacco
Industria laterizia a Lucera
di Dionisio Morlacco
Al limite settentrionale dell’aprico e vasto Tavoliere, non lontano dagli ultimi contrafforti dell’Appennino, la città di Lucera si distende sull’ampio declivio
dei suoi tre colli (Monte Albano, Monte Belvedere, Monte Santo), che si presentano
scoscesi a nord e a ovest, in dolce pendio a est e a sud. La sua altitudine è assai
modesta (250 m), ma, per la bassura della campagna circostante, “domina per un
certo raggio sulla pianura”,1 che qui si eleva leggermente e si rastrema tra il Gargano
silvestre e l’azzurra cerchia dei Monti della Daunia.
“Vedetta”, “chiave delle Puglie”, “minacciosa sentinella”, fu definita Lucera
nei secoli scorsi, per la sua felice posizione naturale,2 considerata allora strategica,
per la quale in vari periodi della storia ebbe a svolgere una funzione considerevole
in più settori: militare, economico, civile.
Il suo primo villaggio sorse sul Monte Albano e visse di pastorizia e di agricoltura. Sviluppandosi contribuì alla nascita della civiltà indigena (apula e dauna); accolse e assimilò la cultura delle ondate migratorie (ellenica, greca) e quella sopravanzante
dell’Urbe.3 Divenne così città grande, libera e opulenta, capitale della Daunia, “forte
e potente nelle armi e fiorentissima nella pastorizia e nel commercio”.4
A questa prospera economia di certo non mancò l’apporto consistente di
1
“Il sito occupa una posizione strategica di prim’ordine, e sin dagli albori della storia delle popolazioni
d’Apulia si trova qui una cittadella di capitale importanza” (François LENORMANT, A travers l’Apulie et la
Lucanie. Notes de voyage, Paris, Lévig, 1883, in Viaggiatori francesi in Puglia nell’ottocento, a cura di Giovanni Dotoli e Fulvia Fiorino, Fasano, Ed. Schena, 1989, vol. IV, p.192). I colli di Lucera “dominano tutta la
spianata del Tavoliere” (Pietro EGIDI, La colonia saracena di Lucera e la sua distruzione, Napoli, St. Tip.
Pierro, 1912, p. 9; per la posizione di Lucera si veda ivi la nota 1). “Suggestiva città elevantesi su di una collina
come una vedetta sulla vasta e assolata distesa di campi” (Ernesto PONTIERI, I fatti lucerini del 1848, Foggia,
Studio Editoriale Dauno, 1940, p. 1).
2
“Lucera è di quelle città che per la loro posizione geografica sono destinate a compiere una determinata
funzione nella vita della loro regione” (P. EGIDI, La colonia saracena..., cit., p. 9). “L’importanza storica di
Lucera si deve in gran parte alla sua posizione eminentemente strategica” (Oreste DITO, Gli ordinamenti
municipali di Lucera del 1407, Trani, T. Vecchi, 1895, p. 5).
3
F. LENORMANT, A travers de L’Apulie..., cit., p. 204.
4
Giuseppe CATAPANO, Lucera nei secoli, Lucera, Ed. C. Catapano, 1972, p. 8. Non pochi scrittori e poeti
dell’antichità accennano alla grandezza di Lucera: Strabone la chiama “antica città dei Dauni”, Aristotele
“luogo notevole”, Orazio “nobile”, Diodoro Siculo “città molto illustre”, e l’Ughelli scrive “civitas adhuc
antiquitatem ostendit, et magis ampla est, quam populosa, siquidem moenia quinque milia passuum ambiunt”
(Ferdinando UGHELLI, Italia sacra, Venezia, apud Sebastianum Coleti, 1717-23, 10 voll., t. 8).
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un’attività artigianale sempre più florida, produttrice innanzitutto di manufatti di
creta, della quale replicate conferme son venute dalle fonti storiche e archeologiche:
dovunque scavando, per pubbliche e private opere, il sottosuolo lucerino ha offerto
abbondanti resti in ceramica di vario genere e di diverse epoche, apula e romana
specialmente: vasi apuli e dauni, ceramiche di stile attico, terrecotte architettoniche,
lucerne, grandi anfore vinarie e ancora terme, mosaici, ecc.
I decretati scavi e quelli occasionali segnalarono non pochi siti per la maggiore presenza di oggetti modellati e realizzati in terracotta: all’interno della Fortezza
svevo-angioina sul Monte Albano, ove prima sorgeva una roccaforte (arx) romana;
sul Belvedere, dove fu rinvenuta la “stipe votiva del Salvatore” (1934), e nelle
adiacenze (nell’avvallamento tra il Belvedere e il Monte Albano, dov’era il deflusso
di un’antica sorgente, certamente doveva trovarsi una fabbrica di utensili e di exvoto di argilla): “c’è chi parla di una fornace, di un’officina, o più esattamente, di
una scuola esistente in quella località ricca di argilla”;5 nei pressi della Chiesa di S.
Maria della Spiga (sul Monte Santo), ecc; ma anche al di là del perimetro urbano,6
nelle campagne, dove erano sparse le ville romane.
La natura calcarea del territorio, del resto, ha sempre favorito questa precipua attività della creta in generale. Lucera, infatti, sorge su uno strato di materiale
argilloso,7 che discende dalle propaggini appenniniche e che si venne a formare attraverso lunghe fasi di riscaldamento e di raffreddamento degli strati superiori, protrattesi per tutta l’era terziaria fino alla quaternaria (oltre 70 milioni di anni fa). Le
colline lucerine perciò si formarono in seguito all’accumulo “dei materiali fluitati
dalla parte emersa del sollevamento, in comunicazione con l’Adriatico (...) e di quelli
argillosi che scendevano dalle propaggini appenniniche durante e dopo la colmata
dell’antico mare Dauno, corrispondente all’incirca all’odierno Tavoliere”.8 Esse, in
ogni tempo, rappresentarono una fonte di ricchezza per l’intero territorio, perché
favorirono una cospicua attività laterizia.
Ai menzionati utensili e manufatti di argilla bisogna poi aggiungere altri e
più abbondanti prodotti di laterizio, meno elaborati e più rozzi, ma di certo molto
utili e necessari per la costruzione delle abitazioni e per la realizzazione delle opere
pubbliche, civili e militari, come mattoni, quadri e mattonelle per pavimenti, tegole,
tegoloni, tubi, nella cui produzione Lucera vanta una ininterrotta tradizione, sostenuta dalla facile reperibilità della materia prima, la quale, senza dubbio, rappresen5
Giambattista GIFUNI, Lucera, Urbino, Ed. S.T.E.U., 1937, p. 41.
“Lo spazio di terreno che ai dì nostri occupa Lucera non è che una minima parte di quel vasto suolo su cui
un giorno sorgeva co’ suoi templi, colle sue terme, colle sue piazze, cogli anfiteatri romani, ed in tempo a noi
più vicini, colle sue turrite mura, col suo imponente castello, coi suoi palazzi reali” (da Le cento città d’Italia,
Supplemento al n. 10715 del «Secolo», 25.10.1895).
7
Il poeta latino Orazio, accennando a Lucera, scrive “hunc Lucerinae diem - signa dealbata lapillo” (Epistola), riferendosi appunto alla natura argillosa del suo territorio. Anche il termine “Albano”, col quale si
indica uno dei colli di Lucera, derivato dal latino albus (bianco), indica l’argilla su cui sorge la città, ciò che
ripetono Leandro Alberti, Benvenuto Colasanto ed altri storici.
8
Giorgio DE SANTIS, Le argille subappenniniche di Lucera, articolo del 1976. L’autore era perito capo
dell’Ufficio Minerario Regionale di Puglia.
6
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tò una garanzia certa sia per la crescita della città, che per la sua rifondazione, dopo
la distruzione perpetrata dall’imperatore bizantino Costante II nel 663.9
Del largo uso del laterizio nel tessuto urbano lucerino, sin dall’età classica, si
trova ampia testimonianza nei resti dei superbi edifici della Luceria romana: acquedotto,10 tombe, terme, ponte Gallucci, anfiteatro augusteo, nei quali si constata appunto il predominante impiego di mattoni, mattoncini, quadroni di cotto, tegoloni,
insieme con blocchi di pietra dura (di Apricena soprattutto), squadrati e spesso
lavorati. In particolare tombe formate da tegoloni alla cappuccina furono scoperte
durante i lavori di ampliamento del cimitero (1920) sul Monte Santo, altre tombe a
grotticella (IV sec. a. C.), con chiusure costituite da tegole, vennero alla luce sul
Piano dei Puledri (1985);11 mattoncini, alti 4 cm, si notano nelle residue strutture
delle Terme a Piazza S. Matteo e nell’anfiteatro, dove “le due mura che lo circondavano si avevano lo spessore di palmi cinque tutti di mattoni”.12
Detti manufatti furono impiegati anche nelle epoche successive, soprattutto
quando la città, dopo i momenti di decadenza e di regresso economico e demografico,
tornava a vivere e si ampliava, come avvenne, ad esempio, sotto l’imperatore Federico II, che prescelse Lucera quale vedetta e caposaldo difensivo a settentrione del
suo regno.13 La città era allora poco abitata e in condizioni deplorevoli. Lo stupor
mundi et immutator mirabilis vi trapiantò dalla Sicilia (1223) la colonia militare dei
Saraceni, costituita da decine di migliaia di Arabi, abili nelle armi e nelle attività
agricola e artigianale: tra essi vi erano infatti numerosi bravi muratori, vasai, fornaciai,
che sapevano manipolare l’argilla per creare oggetti in ceramica artisticamente dipinta e per approntare il materiale laterizio necessario all’ampliamento del nucleo
urbano, che si realizzò secondo i canoni dell’urbanistica araba (moschee, regia dello Sceriffo saraceno, ecc.), in quel momento di grande fervore politico, militare e
socio-economico. E fu così che Lucera visse la sua seconda stagione d’oro, dopo il
remotissimo splendore del periodo imperiale romano.
Testimonianza di questa seconda primavera della città resta il fiero rudere del
Palatium federiciano (Cavalleria), poderoso esempio dell’arte e della tecnica militare sveva, che celebra il perfetto connubio tra il laterizio e la pietra dura, in un’opera che sorprende per l’efficacia difensiva e per quell’aura di mistero che scaturisce
9
Cfr. Paolo DIACONO, Historia Longobardorum, 5,7, e Flavio BIONDO, Historiarum ab inclinatione
Romanorum, I,9: “Graeci Luceriam viribus sunt potiti, quam civitatem tunc opulentissimam avidissime
spoliaverunt, et tamquam in solo barbarico non Italiae esset ferro igneque vastatam, solo aequarunt”.
10
“Nel momento in cui visitavo Lucera, era stata scoperta nel terreno tra la città e il castello una condotta
romana di bella costruzione, con volte fatte di mattoni, di cui per un tratto si poteva percorrere il tragitto”
(LENORMANT, op. cit., p. 205).
11
Cfr. Marina MAZZEI, Lucera. Piano dei Puledri: corredi funerari del IV sec. a. C., in «Rivista di Archeologia», VI (1986), 1-2.
12
Così lo storico locale Francesco da Paola Lombardi descrivendo i ruderi dell’anfiteatro nel 1788. Ma
ancora in Domenico LOMBARDI, Schediasma de columnis quibusdam novissima Luceriae detectis, Napoli,
1743, p.13: “amphitheatrum... vix lateritium fecit”.
13
“Era Lucera il centro naturale ove facevano capo le strade dell’Apulia, de’ Frentani, dei Sanniti e la sua
posizione non poteva sfuggire all’oculatezza di Federico II” (O. DITO, Gli ordinamenti municipali..., cit., p. 6).
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dalla difficoltà di ritrovare o riconoscere la porta di accesso e dalla memoria di un
segreto passaggio sotterraneo (galleria), che univa la fortezza al centro della città,
andando a terminare nel cosiddetto Pozzo dell’Imperatore. Un’opera che assolse
validamente a “una duplice funzione: all’esterno, quella di un vero e proprio castello, minaccioso ed inaccessibile; all’interno, quella di una fantastica e lussuosa dimora imperiale”.14
Oltre a questo monumento e alla certezza di una fabbrica di vasi arabi nel
castello, in particolare di stoviglie verniciate in modo conforme agli antichi prototipi arabi,15 la presenza di “grotte” (serbatoi idrici scavati nel suolo) al Piano dei
Puledri, e tracce di un acquedotto medievale, realizzato con l’impiego di mattoni e
tegoloni, affiorate durante i sondaggi compiuti per cavare dei pozzi,16 attestano la
continuità della locale attività laterizia.
In quegli stessi scavi si constatò anche il contemporaneo reimpiego del materiale recuperato nelle vicinanze o sottratto alle antiche costruzioni romane ancora
presenti (templi, anfiteatro, ecc.).17
Passata la città (1269) sotto la dominazione angioina, Carlo I d’Angiò, ordinando la ricostruzione del perimetro murario, diede un nuovo impulso all’attività
delle locali fornaci. Il re, infatti, in un suo diploma18 decretava che, per il rifacimento delle mura cittadine, fosse tagliata la legna per cuocere la calce e i mattoni (tam
pro coquendi calcariis, quam mattoncellis necessariis dicto operi) nei boschi intorno
a Lucera e a Fiorentino, nei quali era già solito prendersi la legna sotto gli altri
signori (tempore aliorum dominorum), disposizione questa che conferma da un lato
la consuetudine di “lignare” nei boschi esistenti nel territorio lucerino, dall’altro la
continuità di scavare e lavorare l’argilla del posto.
Contemporaneamente l’Angioino, per rendere più sicuro il possesso della
città, fece costruire il grandioso Castello, con largo impiego di mattoni,19 la cui
produzione in loco e nelle vicinanze doveva essere certamente abbondante, considerato anche che in Lucera viveva una schiera numerosa di manovali, muratori (alcuni in condizione privilegiata),20 mattonai, soprattutto arabi, i quali, però, mal sop14
Nunzio TOMAIUOLI, La Fortezza di Lucera, a cura di Regione Puglia, Ass. P. I. Cultura, CRSEC FG/30
Lucera, Foggia, Ed. Gercap, 1990, p. 29.
15
LENORMANT, op. cit.
16
Giorgio DE VINCENTIS, Relazione sulle ricerche fatte per fornire di acqua potabile la Città di Lucera,
Roma, Tip. Botta, 1882; Vincenzo COLASANTO, Relazione del pubblico pozzo cavato al Piano dei Puledri e del
bacino in esso rinvenuto, Lucera, Tip. Scepi, 1884. Nel 1924, “nell’escavazione di un pozzo fuori Porta S.
Antonio Abate, fu rinvenuto un acquedotto in muratura, coperto di tegoloni messi a due spioventi” (Cfr. «Il
Nuovo Popolo di Capitanata», 1924, 38).
17
I Saraceni distrussero non poche chiese (come quella di S. Pietro in Bagno) per procurarsi materiale da
costruzione.
18
Il documento è inserito nel 3° Rgt. Angioino, f. 66, dell’Archivio di Stato di Napoli.
19
Ma per il muro a scarpata del fossato ordinò di usare tufi a mattoni, perché fosse “pulchrius, honorabilius
et magis utile” (cfr. Arturo HASELOFF, Costruzioni degli Hohensteufen, Leipzig, 1920).
20
L’Haseloff cita il maestro Arditus, provisore della gran torre rotonda del Castello, e Pietro Blundellus,
occupato nei lavori del fossato dello stesso. Altri mastri muratori erano Simone, Roberto da Andria e Giovanni da Salpi.
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portavano l’autorità angioina e continuavano a mostrarsi irrequieti e disubbidienti:
il re, difatti, dovette rivolgersi al capitano saraceno perché obbligasse “alcuni mattonai
di Lucera che, avendo preso denari in conto di mattoni da fornire per la costruzione di una cisterna nel castello, poi si rifiutavano e a consegnare la merce e a restituirne il prezzo”.21
Pochi decenni dopo (1300) ancora il laterizio (mattoni, tegole, ecc.) costituiva il manufatto più usato nelle opere promosse da Carlo II d’Angiò, cioé nella costruzione di civili abitazioni, di conventi, di chiese, in un fervore edile che vitalizzò
la città, a prova del quale restano alcuni tra i più notevoli manufatti lucerini (Duomo, Chiesa di S. Francesco, ecc.); fervore che fu agevolato senz’altro dalla fiorente
attività artigianale e, quindi, dalla presenza di botteghe e di fornaci, alle quali accennano alcuni documenti angioini, come quello significativo del 1301, che enumera le
donazioni regie fatte a Giovanni Pipino di Barletta, resosi meritevole per aver liberato la città dai Saraceni: “Item in ruga Ayrata iuxta portam Casalis Novi, domus
quinque cum fornacibus tribus, in quibus fiebant imbrices” e “item domus due cum
fornace pro faciendis quartariis”. Si trattava di fabbricati, già appartenuti a funzionari arabi (all’Arcadio e a suo figlio), che comprendevano anche piccole fornaci,
forse a conduzione familiare, per la produzione di imbrices (tegole) e di quartarias
(anfore e brocche per gli ortolani e per i contadini). Altri documenti22 menzionano
figulinai, mattonai, piattai, fornaciai.
Le fornaci più grandi, per la produzione dei mattoni si trovavano ubicate in
luogo extraurbano, cioè nell’agro compreso tra Lucera e Fiorentino,23 poi nella
“flumaria Lucerie”, cioé presso il torrente Salsola.24
Per il trasporto dei mattoni si dovettero migliorare le strade e i ponti. Esso
avveniva per mezzo di carri tirati da uno o due bufali, chiamati rispettivamente
tumbarelli e tumbarelli magni.
Anche la calce veniva cotta in Lucera. La lavorazione dell’argilla richiedeva
naturalmente l’impiego dell’acqua, che in città veniva attinta dai pozzi e dalle cisterne, quest’ultime più numerose dei primi, mentre nei luoghi extraurbani veniva
prelevata dai torrenti. Ma l’acqua delle cisterne e dei torrenti pullulava di larve e di
batteri, per cui il duro lavoro dei fornaciai era insidiato dal grave pericolo delle
febbri malariche, triste fenomeno che incalzò come uno spettro questa attività ed
imperversò, per molti secoli, fino alla metà circa del XX sec.25
Altri cenni, benché scarsi, reperibili qua e là negli studi di storia patria, consentono di confermare la continuità dell’attività laterizia lucerina.
21
EGIDI, op. cit., p. 81; Eduard STHAMER, Dokumente zur Geschichte des Kastellbauten Kaiser Friedrichs II
Karle I von Anjou, Leipzig, Hiesermann, 1920, doc. 238 del 5.4.1278.
22
Pietro EGIDI, Codice diplomatico angioino, Napoli, 1912 (cfr. docc. 206 a, 227, 447, 456).
23
A. HASELOFF, Costruzioni degli Hohensteufen..., cit.
24
Ibid.
25
Ibid.
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