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ALLA RICERCA DI SE STESSI COME ARTE DEL VIVERE Un serio percorso di vita spirituale dovrebbe conoscere essenzialmente due momenti distinti, ma al contempo intimamente compenetrati: un cammino di conoscenza di sé che consiste essenzialmente in una discesa verso il “basso”, la parte più nascosta di sé, o per usare le parole di santa Teresa la Grande una discesa verso l’alto, e la risposta alla fondamentale domanda: «Dove abita Dio?». Il perché questi due momenti siano e debbano essere intimamente uniti, cerchiamo di spiegarlo qui di seguito. «Il Regno di Dio è in mezzo a voi», afferma Gesù nel vangelo di Luca (17,21); ora, essendo il verbo originariamente usato in questo versetto “entòs”, ossia “dentro”, occorrerebbe tradurre così: «Il Regno di Dio è dentro di voi». Sì, Dio abita in noi; il mio cielo è inabitato dal cielo di Dio. Sant’Agostino ricorda che «Dio è più intimo a me di me stesso», e attingendo al Corano una sura recita: «Dio è più prossimo all’uomo della sua vena giugulare». Ma basterebbero queste parole dell’illuminato �losofo russo Pavel Florenskij a de�nire con chiarezza quanto intendiamo affermare: Il Regno dei cieli è la parte divina dell’anima umana. Trovarla in se stessi e negli altri, convincersi con i propri occhi della santità della creatura di Dio, della bontà e dell’amore delle persone, in questo sta l’eterna beatitudine e la vita eterna. Chi 3 l’ha gustata una volta è pronto a scambiare con essa tutti i beni personali: «Il Regno dei cieli è simile ad un mercante alla ricerca di perle preziose che, trovatane una, andò, vendette tutto ciò che possedeva e la comprò» (Mt 13,45-46). La perla che il mercante cerca non è lontana, l’uomo la porta con sé ovunque, solo che non lo sa. E ognuno di noi va angosciato per il mondo, pur avendo un tesoro dentro di sé e molto spesso crede che una simile perla sia in qualche posto lontano. Beato colui che vede il suo tesoro! Ma chi è in grado di vederlo? Chi vede la sua perla? [...] Basta solo che puri�chino il loro cuore! Ed ecco, portatori di Cristo, non appena il cuore si illumina solo un poco, all’interno, rischiarata dal lume divino, inizia a brillare e a splendere come l’oro l’immagine di Dio (Pavel Florenskij, Il cuore cherubico). Dio è realmente mia carne, mio sangue, mio spirito, mia anima, mio tutto. Dio mi abita, m’inabita. Ora, se si desidera intraprendere una sincera esperienza dell’essere cristiano che consista nel lasciarsi raggiungere da Dio e lasciarsi a lui unire, è fondamentale cominciare proprio da se stessi o, se vogliamo, ritornare a se stessi. Infatti, non si dà altro luogo per l’incontro con Dio, se non il proprio mondo interiore. Nel rapporto con Dio, nella nostra avventura cristiana, è sempre sottesa una perniciosa tentazione ovvero quella di disertare-saltare noi stessi nella speranza di giungere immediatamente a tuffarci nell’immenso mondo di Dio. S’intenta questo “salto” abissale servendosi degli atti religiosi, tesi appunti a legare (religio) il mondo umano con quello divino; per questo si moltiplicano atti, di per sé anche “santi”, ma destinati inesorabilmente al fallimento: «Non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che ha misericordia» (Rm 9,16). Non è una parte di noi destinata all’incontro con Dio; non è la parte “spirituale” intesa come scevra dalla componente corporea a legarsi al divino... Questo modo di pensare è segnato da un 4 errore che continuiamo a perpetrare a causa d’una interpretazione antropologica errata di stampo greco che considerava l’uomo diviso essenzialmente in anima e corpo. L’uomo che desidera entrare in relazione con Dio è l’uomo nella sua uni-totalità, quell’insieme inseparabile di carne, spirito ed anima che lo costituisce, e che noi abbiamo imparato a chiamare corpo. Ecco nella vita spirituale cosa s’intende anzitutto con il termine biblico di conversione (teshuvah): un ritorno alla verità di sé, un viaggio al centro di noi stessi al �ne di gettare una luce in quella parte più profonda di noi, nella quale abbiamo timore anche solo di affacciarci, e che quindi spesso teniamo relegata nell’abisso. Ma se riusciamo a giungere sino in fondo, vi scopriremo l’inabitazione di Dio. Dunque comprendiamo come la via che conduce a Dio abbia il suo inizio con la conoscenza di se stessi. Sono io, con tutto quello che mi porto dentro, ad essere chiamato all’unione. Non si può percorrere la strada di Dio senza aver prima percorso la difficile strada della conoscenza di sé, dell’incontro con le proprie zone d’ombra. Saremmo come Icaro che con ali di cera si libra nel cielo, precipitando rovinosamente a terra, perché avvicinatosi troppo al sole. Non ci si può sbarazzare della propria umanità, fatta di sessualità, aggressività, angoscia, cattiveria utilizzando la meditazione, i “bei pensieri spirituali”... Altra tentazione è quella di considerare la vita spirituale come la parte di noi relegata fuori dal corpo, dai tetti in su... Ma se così fosse, saremmo dei disincarnati, meri sogni, ma mai veramente noi stessi. Nella vita spirituale si “sale a Dio” nella misura in cui si discende nel proprio inferno interiore. E questa discesa, che conduce alla verità di sé, nella tradizione spirituale di sempre si chiama umiltà. San Benedetto intende proprio in questo modo 5 la parola di Gesù: «Chi si umilia sarà innalzato» (Mt 23,12). Solo con la discesa nella nostra interiorità noi entreremo in contatto col cielo, saremo innalzati al Dio di Gesù Cristo che desidera unirci a lui. Chi intraprende questo umile viaggio giungerà �nalmente alla verità di sé, e quindi alla libertà perché «la verità vi farà liberi» (Gv 8,32). Solo accettando tutto il mondo interiore che c’inabita, quando impareremo a guardarlo in faccia e questo non ci farà più paura, saremo �nalmente liberi di essere quello che siamo oggettivamente; cesseremo di mostrarci agli uomini che ci circondano e a Dio medesimo come pensiamo vogliono vederci, non avendo più bisogno di recitare parti che non ci competono per essere amati e accettati da Dio e dagli altri. La verità di se stessi, per quanto segnata dal male, basta a superare il male che ci inabita, il male che abbiamo commesso. Gesù desiderava persone vere di fronte a sé, uomini e donne che smettessero di recitare per rimanere a galla nel teatro dell’esistere; persone che smettessero di angosciarsi per il male compiuto, persone che potessero �nalmente togliersi il peso del male semplicemente riconoscendolo. Perché riconoscere il male compiuto è già l’inizio della risurrezione. Perché il male portato a galla e posto di fronte alla misericordia è la conditio sine qua non perché lui, la misericordia del Padre, possa perdonare, possa guarire e sanare. Mi chiedi in quale modo io sia divenuto folle. Accadde così: un giorno, assai prima che molti dèi fossero generati, mi svegliai da un sonno profondo e mi accorsi che erano state rubate tutte le mie maschere – le sette maschere che in sette vite avevo forgiato e indossato –, e senza maschera corsi per le vie affollate gridando: «Ladri, ladri, maledetti ladri». Ridevano di me uomini e donne, e alcuni si precipitarono alle loro case, per paura di me. E quando giunsi nella piazza del mercato, un giovane dal tetto di una casa gridò: «È un folle». Volsi gli occhi 6 in alto per guardarlo; per la prima volta il sole mi baciò il volto, il mio volto nudo. Il sole baciava per la prima volta il mio viso scoperto e la mia anima avvampava d’amore per il sole, e non rimpiangevo più le mie maschere. E come in trance gridai: «Benedetti, benedetti i ladri che hanno rubato le maschere». Fu così che divenni folle. E ho trovato nella follia la libertà e la salvezza: libertà dalla solitudine e salvezza dalla comprensione, perché quelli che ci comprendono asserviscono qualcosa in noi (Kahlil Gibran, Il folle). Ci piace pensare che Gesù ha avuto a cuore il compiere proprio questo: s�lare le sette maschere che coprono il volto dell’uomo, perché questi potesse rimanere nudo di fronte a lui, nella sua verità per quanto difficile da accettare. E la smettesse una volta per tutte di mutilarsi facendosi del male nel voler a tutti i costi distruggere la belva cattiva che lo inabita. Cristo Gesù è il fanciullo preconizzato da Isaia nel capitolo undecimo. È giunta l’epoca messianica in cui il lupo e l’agnello che ci portiamo dentro possono coesistere, a patto che il fanciullo Cristo li pascoli. La domanda non sarà più dunque: «Perché questo inferno interiore dentro di me?», piuttosto: «Cosa vorrà dirmi Dio attraverso questo mio mondo interiore così compromesso, attraverso la mia ira, questa mia spina nella carne che mi tormenta da così tanto tempo? Cosa ci sta dietro a questo mio modo di fare, a questa mia passione, a questo mio limite, a questa mia caduta?». Non potrà essere che questo limite, questa mia colpa reiterata, questo mio peccato possa divenire il “luogo” della manifestazione di Dio? Non potrà veri�carsi che questo mio dramma interiore tante volte combattuto, di cui ho desiderato disfarmi, si riveli luogo teofanico, luogo dell’appuntamento con Dio? «Là dove sta il mio più grande problema, lì c’è anche la più grande opportunità di salvezza» (Anselm Grün). Chissà che lo scopo della vita spirituale non sia proprio quello d’arrivare a 7 farsi amico il proprio mondo interiore, la propria interiorità così debole e oscura da far paura, per giungere alla �ne a vivere la bella de�nizione del libro del Siracide: «Chi trova un amico trova un tesoro» (Sir 6,14). È facile, nella vita spirituale, viaggiare in un mondo parallelo, costituito di immagini ideali: «Vorrei essere così, dovrei essere così, se fossi così, se dicessi così...». In questo modo non si darebbe mai inizio ad un serio lavoro su noi stessi e, cosa ancora peggiore, Dio non avrebbe mai il “materiale” esistenziale su cui compiere la sua opera di salvezza. La vita non è sogno. E Dio non opera nei sogni, ma nella realtà. La mia. «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati» (Mt 9,12). Se mi muovo sempre in un mondo irreale, e mi guardo in modo irreale, rendo vana l’opera di Cristo, rendo vana la croce di Cristo. Dio può istruirci attraverso il nostro stesso fallimento, mediante la nostra “caduta”. Dio permette che la spina nella nostra carne – che noi vorremmo a tutti i costi eliminare (cfr. 2Cor 12,7) – continui ad agire in noi affinché diventi memoria della propria �nitezza, della propria creaturalità, al �ne di comprendere sempre più che è lui il Signore della mia vita. Occorre prestare molta attenzione a non fare i cristiani onesti a tutti i costi, i “puliti”, per piacere a Dio e agli uomini, o peggio ancora pensando che questa sia la via meritoria verso l’unione. Purtroppo questa tentazione, nella quale è ravvisabile un’antica eresia chiamata pelagianesimo, è ancora carsicamente presente nel nostro cristianesimo, con tutti i danni che ne derivano. Le «persone oneste» non hanno difetti nella loro struttura. Non sono ferite. La pelle della loro morale, costantemente intatta, costruisce su di loro una corazza senza difetti. Non presentano l’apertura causata da un’orribile ferita, una sventura indimenti- 8 cabile, un rimorso invincibile, un punto di sutura eternamente mal cucito, un’inquietudine mortale, un’amarezza segreta, un cedimento sempre dissimulato, una cicatrice eternamente mal rimarginata. Non presentano la via di accesso alla grazia che è essenzialmente il peccato. Poiché non sono feriti, non sono vulnerabili. Poiché non mancano di nulla, non si porta loro nulla [...]. La stessa carità di Dio non cura per nulla chi non ha ferite. Il Samaritano si chinò sull’uomo ferito perché questo era a terra. Veronica asciugò il volto di Gesù perché era sporco. Ma chi non è caduto non sarà rialzato; e chi non è sporco non sarà pulito (Charles Péguy, Œuvres en prose II). Ecco perché è importante far venire a galla, chiamare per nome il buio che c’inabita, le ferite, i drammi che ci portiamo dentro chissà da quando, perché, se mostrati a Cristo medico, la misericordia vi può entrare proprio grazie a questi. Il peccato stesso è la �nestra attraverso cui Dio può entrare e compiere la sua visita in me... Sintomatica a questo proposito rimane la tragedia di Edipo Re , raccontataci da Sofocle e interpretata in chiave �loso�ca da Paul Ricœur che, per primo, rompe con un’interpretazione a senso unico di tipo psicoanalitica offertaci da Freud. 1 Nella storia di Edipo, ciò in cui consiste veramente il tragico non è di aver ucciso il proprio padre e sposato la propria 1 Edipo regna su Tebe quando infuria la peste, in�itta, così si pensa, dagli dèi come castigo per la morte del precedente re, Laio, ucciso a tradimento da uno sconosciuto. Laio aveva abbandonato il �glio, Edipo appunto, affidandolo ad un pastore, perché era venuto a sapere del terribile destino che riguardava Edipo stesso: uccidere il padre e sposare la madre. Con il procedere delle indagini Edipo si rende conto che si tratta proprio della sua situazione: in uno scontro casuale aveva ucciso uno sconosciuto, che si rivela essere suo padre, e la donna che ha sposato, la regina Giocasta, è in realtà sua madre. Per la vergogna si acceca e abbandona la città. 9 madre, senza averlo voluto; ciò ha avuto luogo un tempo, è il suo destino passato; il tragico attuale è che l’uomo che egli ha maledetto per questo delitto è lui stesso, e che bisogna riconoscerlo. La saggezza consisterebbe nel riconoscersi e nel cessare di maledirsi (Paul Ricœur, La psicanalisi e il movimento della cultura contemporanea). Accanto all’Edipo di Sofocle occorrerebbe citare anche il capolavoro di Dostoevskij, Delitto e castigo, in cui Raskolnikov, il protagonista, commette un omicidio che lo porterà pian piano alla pazzia ed egli comincerà a risollevarsi, a risorgere solo nel momento in cui, grazie all’amore di Sonja, confesserà la sua colpa e accetterà di scontare la propria pena in un campo di lavoro in Siberia. L’ammissione della colpa commessa – il delitto – e l’accettazione del castigo – bagnato dalle lacrime amorevoli di Sonja – permettono a Raskolnikov di divenire più umile, più capace di ascoltare la sua Parola (nel caso speci�co la pagina della Risurrezione di Lazzaro del vangelo di Giovanni) e di amare. La cosa grave non sarà perciò aver commesso il male, ma negare di averlo fatto, non denunciarlo, non affermarlo. La possibilità di pagare la colpa per il male commesso è l’inizio della resurrezione. Non basta rimuovere la colpa, non parlarne perché il male, le bestie maligne, non siano più dentro di noi; recuperarle e confessarle (non ancora in senso sacramentale): in questo modo la colpa si apre ad una possibilità di espiazione e riconciliazione che, al contrario della colpa negata, costituiscono autentiche modalità di ritorno alla vita: La vera punizione è quella che rende felici, ristabilendo l’ordine; la vera punizione ha come risultato la felicità; è il senso del vero paradosso del Gorgia [di Platone]: «Sfuggire al castigo è peggio che subirlo» (Paul Ricœur, Finitudine e colpa). 10 Introduzione ai sette vizi capitali Perché questa lunga premessa nell’introdurci ai vizi capitali, tema centrale del nostro lavoro? Perché i cosiddetti vizi non sono altro che questo male che ci inabita. I sette peccati capitali sono la declinazione esteriorizzata del male che ci portiamo dentro. S’è detto sopra che è necessario riuscire a portare a galla questo male perché il Dio di Gesù Cristo lo possa guarire e recuperare, ma per poterlo fare occorre ri-conoscerlo, chiamarlo per nome. Non si può prendere se non ciò che si conosce. Per questo è necessario divenire sempre più esperti della vita spirituale, e questo signi�ca conoscere questo mondo interiore, scendere nel proprio abisso interiore, chiamare il male e scoprirvi insieme Cristo che già ci ha preceduti in questo nostro inferno e lì ci attende per salvarci. Evagrio Pontico (IV secolo), uomo straordinario nel quadro della spiritualità dei primi secoli, è uno specialista del rapporto con queste dimensioni del cuore. L’insegnamento di Evagrio – e della successiva tradizione orientale – recita così: Otto sono in tutto i pensieri generici che comprendono tutti i pensieri: il primo è quello della golosità, poi quello della fornicazione, il terzo quello dell’avarizia, il quarto quello della tristezza, il quinto quello della collera, il sesto quello dell’accidia, il settimo quello della vanagloria, l’ottavo quello dell’orgoglio. Evagrio sostiene che le tre tentazioni di Gesù nel deserto sarebbero state, nell’ordine, quelle della gola, dell’avarizia e della vanagloria. Questi tre logismoi (“pensieri”, in greco) costituirebbero dunque lo schema base della lista e tutti gli altri ne discenderebbero. In Occidente, la lista entra grazie a Cassiano e in seguito a san Gregorio Magno, che riprende Cassiano, il quale isolò la 11 superbia come sorgente di tutti i mali, uni�cò tristezza e accidia e introdusse l’invidia. Ridusse così la lista a sette termini. Cambiò anche l’ordine, ispirandosi alla versione della Vulgata di Sir 10,15: «Initium omnis peccati est superbia» («Principio della superbia infatti è il peccato»). Più tardi vanagloria e orgoglio verranno fusi e si costituirà così la classi�cazione de�nitiva dei sette peccati capitali che, a partire dal XIII secolo, si è imposta in Occidente: Superbia, Avarizia, Lussuria, Ira, Gola, Invidia, Pigrizia, detta anche Accidia. In questo ordine vengono raccolti i sette peccati capitali nel Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 1866. «Il vizio e la virtù sono parenti, come il carbone e i diamanti» (Karl Kraus). Queste due fondamentali realtà umane si rivelano connesse fra loro da una base comune, ma nello stesso tempo sono antitetiche come lo sono appunto il carbone e il diamante. La base antropologica comune per virtù e vizi, oltre alla libertà, è la «passione» che di per sé è neutra: questa – moto della sensibilità – non è né buona né cattiva in se stessa. È buona quando contribuisce a un’azione buona, cattiva in caso contrario. Essa può essere assunta nella virtù o pervertita in vizio. È infatti una passione che regge ad esempio la tensione verso il cibo, realtà indispensabile per la sussistenza, o verso la relazione sessuale. Se governata dalla virtù della temperanza, questa passione è corretta, onesta e preziosa; se degenera nell’eccesso della gola o della lussuria, si cade nella corruzione viziosa. Al centro permane sempre la libertà che tiene la barra verso l’una o l’altra delle direttrici. Si può dunque affermare: Il vizio, quando viene esplorato con interesse e intelligenza, evidenzia per contrapposizione proprio quel bene che stava perseguendo in modo sbagliato; inoltre la stessa constatazione di essere caduti, di avere mancato il bersaglio, è importante per 12 riprendere la strada della vita (Giovanni Cucci, Il fascino del male. I vizi capitali). Teniamo presente un aspetto importante: tutti i vizi sono peccati ma non tutti i peccati sono vizi. Quest’ultimi nascono all’interno della persona libera e cosciente attraverso un atto che, nel linguaggio morale, è de�nito peccato, colpa, trasgressione; per divenire vizio però questo atto deve trasformarsi in un’abitudine accolta e coltivata. È come una deriva dalla quale ci si lascia beatamente trasportare, senza più opporre resistenza. È un peccato “accettato”, anzi addirittura desiderato e coltivato. Non è corretto perciò identi�care il vizio col peccato in senso stretto: quest’ultimo è un atto cattivo singolo con le sue connotazione proprie; l’altro è un costume acquisito, una disposizione abituale che è generata dal peccato iniziale e a sua volta genera peccati in modo costante e continuo. Oggi non si parla più di vizi capitali, anche in ambito cristiano. Questo non perché non esistano più, ma semplicemente perché ne è mutato il nome. Nella cultura odierna queste passioni si preferisce de�nirle “virtù”. Al di là di una facile ironia, possiamo affermare che oggi è il punto di osservazione ad essere mutato. I sette vizi sono direttamente collegati ad una serie di problemi di cui si occupa la psicologia clinica e sociale. Bassa stima di sé, aggressione, animosità razziale, ansietà economica, stress, obesità, disfunzioni sessuali, depressioni e suicidi sono tra i principali problemi direttamente collegati ai sette vizi capitali. [...] Noi all’inizio possiamo non riconoscere la connessione tra un vizio capitale e i suoi indiretti effetti ma una più profonda indagine spesso lo rivelerà. L’anedonia, ad esempio, la disperazione di trovare signi�cato e scopo nella vita, è rintracciabile in parte nel materialismo proprio della gola, nella spirituale apatia dell’accidia, e nel narcisismo della superbia (Solomon Schimmel). 13 Per una ri�essione seria sul vizio/peccato capitale occorre tenere sempre presente che questi hanno a che fare, in ultima analisi, con la felicità. Il peccato nella Bibbia è de�nito come un mancare il bersaglio. Il bersaglio è appunto la felicità, la vita in pienezza. Il vizio/peccato allora sarà un tendere, un mirare con una passione alla felicità, ad un bene ritenuto tale, salvo ritrovarsi alla �ne frustrati e a terra proprio perché non si ha nulla in mano. Possiamo dire che il peccato, e in particolare il settenario dei vizi, è una sorta di sirena che grida grandi promesse, ma si rivela alla �ne menzognera perché non in grado di mantenere quanto promesso. Da qui l’infelicità, la sofferenza dell’uomo. Da qui la costante insoddisfazione del cuore, e la noia. Il vizio è la ricerca di qualcosa in sé buona ma condotta in modo disordinato, assegnando al bene ricercato un posto ed un’importanza superiore a quanto dovrebbe averne, a scapito di altri beni fondamentali per la vita umana. Caratteristica del vizioso è di aver fatto di un singolo elemento il centro della propria vita, il proprio idolo, consacrando ad esso tutte le proprie energie ed investimenti a livello �sico, affettivo e immagini�co. E la prima conseguenza immediata di tutto ciò è la perdita della libertà: nel vizio, al contrario della virtù, è molto facile iniziare ma diventa sempre più difficile staccarsene, pur non trovandovi più il piacere ed il fascino di un tempo, anzi avvertendo sempre maggior disgusto e insofferenza. [...] È importante riconoscere il valore simbolico del vizio, perché è una ricerca malata di assoluto, e può essere vinto da ciò che davvero costituisce l’assoluto della vita: solo un cuore rassegnato e contento può trovare la forza di dire no al vizio (Giovanni Cucci, Il fascino del male. I vizi capitali). I peccati capitali promettono dunque molto: gli onori, il piacere, l’avere... Per questo si è disposti ad inchinarci dinanzi ad essi. Vivere in base a questi vizi è come adorare un idolo, ma l’idolo è una realtà �nita che si fa passare per in�nita. E noi 14 sappiamo che solo l’in�nito è in grado di compiere il cuore. L’uomo, in fondo, ha due chances per la felicità: adorare Dio o gli oggetti. Questo perché ogni atto di adorazione è un atto di amore, e l’uomo per sua natura non può non amare, e quindi non può non adorare. Ascoltiamo due importanti passaggi della grande pensatrice francese Simone Weil: Distogliersi con tutta l’anima da tutto ciò che è transitorio (Platone). Non tocca all’uomo cercare Dio e credere in lui: egli deve semplicemente ri�utarsi di amare quelle cose che non sono Dio. Un tale ri�uto non presuppone alcuna fede. Si basa semplicemente sulla costatazione di un fatto evidente: che tutti i beni della terra, passati, presenti e futuri, reali o immaginari, sono �niti e limitati, radicalmente incapaci di soddisfare quel desiderio di un bene in�nito e perfetto che brucia perpetuamente in noi. Questo ogni uomo lo sa, e molte volte nella vita, per un istante, ha dovuto riconoscerlo; ma subito dopo egli mente a se stesso perché avverte che se continuasse a sapere, non potrebbe più vivere. La sua sensazione è esatta: quella conoscenza uccide, ma in�igge una morte che ci dà la risurrezione (Simone Weil, L’amore di Dio). È possibile scegliere solo tra Dio e l’idolatria. Non vi sono altre possibilità. Infatti, la facoltà di adorazione è in noi ed è orientata in qualche direzione, in questo mondo o nell’altro. Se si crede in Dio, o adoriamo Dio, oppure adoriamo cose di questo mondo mascherate sotto questa etichetta. Se neghiamo Dio, o adoriamo Dio a nostra insaputa, o adoriamo cose di questo mondo che crediamo di considerare solamente come tali, ma a cui attribuiamo, benché a nostra insaputa, gli attributi della Divinità. [...] Solo Dio merita che c’interessiamo totalmente a Lui e a null’altro. Che cosa dobbiamo concludere relativamente alla miriade di cose interessanti che non parlano di Dio? Dobbiamo concludere che siano trucchi del demonio? No, no, no. Dobbiamo concludere che parlano di Dio. Oggi è urgente dimostrarlo (Simone Weil, Cahier III). 15 Per concludere questa breve introduzione vi è ancora un aspetto su cui merita soffermarsi con una certa attenzione, e che possiamo de�nire con una domanda: perché è più facile compiere il male che fare il bene? Una risposta credo non la si possa offrire così, semplicemente. Di certo è interessata grandemente – ancora una volta – la nostra libertà, e questa è sempre, comunque, una libertà ontologicamente “malata”. Si tratta della libertà di scegliere tra le due proverbiali vie indicate da tutte le grandi culture del tempo. La si trova nell’Israele biblico: «Io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, ma anche la morte e il male» (Dt 30,15), e ancora nel Discorso della montagna di Gesù: «Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione» (Mt 7,13). Desidero quindi concludere con alcune ammonizioni, partendo da Esiodo, IV secolo: Facile e agevole è scegliere il male, una via piana a noi molto vicina. Gli dei hanno imposto il sudore per la virtù: lunga e difficile è, infatti, la sua strada e, all’inizio, aspra. Quando però si raggiunge la vetta, diventa agevole ciò che prima era arduo. 16