Qianlong. Grandiosità cosmica
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Qianlong. Grandiosità cosmica
Qianlong. Grandiosità cosmica di Gian Carlo Calza 1 Noi imperatore, per grazia del Cielo, incarichiamo il re d’Inghilterra di prender nota di quanto segue: Benché il tuo paese, o Re, sia situato nelle più lontane contrade d’oltremare, pure, mosso dal desiderio di partecipare dei benefici della civiltà, hai inviato un ambasciatore per presentare rispettosamente un messaggio di stato. Il tuo ambasciatore ha attraversato il mare e ci ha reso omaggio a corte, in occasione del nostro genetliaco. Inoltre, per mostrare la tua devozione, hai mandato, come offerte, alcuni prodotti del tuo paese. Abbiamo letto il testo del tuo messaggio: lo stile in cui esso è stato redatto rivela zelo, rispettosa modestia e spirito d’obbedienza, che abbiamo molto apprezzato. (…) La nostra dinastia, che estende i suoi domini in ogni parte del mondo, si preoccupa soltanto di amministrare correttamente gli affari dello stato e non si interessa ad oggetti rari e preziosi. Tu, o Re, hai offerto numerosi doni al trono e noi abbiamo dato ordine all’ufficio competente di accettarli in considerazione della tua buona intenzione di mandare tributi da tanto lontano. In verità la potenza della nostra dinastia è nota dovunque. Re di tutte le nazioni sono venuti a prestarci omaggio; oggetti preziosi di ogni tipo sono stati qui raccolti, come il tuo ambasciatore e il suo seguito hanno potuto osservare. Tuttavia noi non abbiamo mai apprezzato oggetti strani e curiosi e non abbiamo alcun bisogno dei prodotti del tuo paese. Di conseguenza, o Re, la tua richiesta di inviare qualcuno nella nostra capitale è non soltanto contraria ai regolamenti del Celeste Impero, ma anche inutile per il tuo paese. Ti abbiamo esposto dettagliatamente il nostro pensiero e abbiamo dato ordine ai tuoi inviati-portatori di tributo di partire e di fare ritorno in patria. Tocca ora a te, o Re, di rispettare il nostro desiderio e di mostrarti sempre più devoto e fedele, cosicché, mantenendoti in perpetuo sottomesso al nostro trono, tu potrai assicurare al tuo paese i benefici della pace. (…) e cogliendo l’occasione del loro ritorno in patria, a te, o Re, mandiamo doni di valore (…). Che il Re li riceva con rispetto e apprezzi la nostra benevolenza nei suoi riguardi. Questo è un editto speciale!” Così Qianlong (1711-1799), uno dei più grandi imperatori della storia cinese, rispondeva all’ambasceria di Lord Macartney inviata (1792-1793) da Giorgio III d’Inghilterra rispondendogli, si badi bene, non con una lettera, bensì con un editto. Che le parole grondassero poi di confuciana benevolenza per questo sovrano di un oscuro regno “situato nelle più lontane contrade d’oltremare”, non faceva che sottolineare più gravemente la posizione subordinata di quel re in realtà assai potente 1 Curatore della mostra - Professore ordinario di Storia dell’arte dell’Asia orientale, Università Ca’ Foscari, Venezia e dal carattere intollerante, come lo scatenamento della guerra stessa d’indipendenza delle colonie americane poteva testimoniare. Certo il testo rivela mancanza di conoscenza e di interesse per la situazione politica in Occidente; ignoranza pari solo a quella britannica per l’impero della Cina e la sua etichetta di corte. L’editto è però anche un documento chiarissimo sul ruolo di imperatore universale di cui il sovrano della Cina si sentiva investito. La Cina fu governata da una serie di dinastie reali che si succedettero per circa due millenni prima di arrivare alla formazione dell’impero nel secondo secolo avanti l’era attuale. Già dalle origini il sovrano accentrava su sé ogni potere, anche quello religioso di cui era la massima autorità come garante del rapporto con il mondo celeste e del culto degli antenati. Tale enorme potestà, religiosa, politica, giurisdizionale e militare, gli conferiva sì dominio assoluto,ma non incondizionato per via della stirpe di appartenenza. Piuttosto la sua funzione regnante era subordinata a un Mandato ricevuto dal Cielo (tianming). Questo Mandato gli poteva essere tolto qualora egli, e la sua dinastia con lui, avesse perduto la Virtù che costituiva la condizione essenziale del suo potere. Potrebbe sembrare un approccio di fantapolitica, ma per la tradizione cinese esistono segni precisi e obiettivi – e sulla cui validità varrebbe la pena di riflettere anche noi e anche a tale distanza politica, storica, geografica e culturale – del venir meno della benevolenza del Cielo nei confronti di chi detiene tale smisurato potere. Una cattiva amministrazione centrale indebolisce la dedizione dei funzionari locali e periferici che diventano corrotti o comunque trascurano i loro doveri. Questo fa sì, per esempio, che il controllo delle acque e la manutenzione degli argini dei fiumi Giallo e Azzurro non siano più eseguiti con la cura e la prevenzione necessarie: i fiumi straripano inondando le campagne, distruggendo i raccolti, uccidendo e gettando i sudditi nella miseria. Oppure può avvenire che le guarnigioni di confine non siano più costantemente controllate dal potere centrale attraverso i funzionari locali ormai corrotti. Anch’esse perciò prendono a pensare più agli interessi propri che a quelli della cosa pubblica o a rischiare la vita per difendere il territorio nazionale. Così i barbari, che da sempre premono ai confini, riescono a fare scorrerie, saccheggiano e distruggono. Sono questi, e ovviamente molti altri simili, i segni che il Cielo ha tolto il Mandato al sovrano. Un eroe valente e dotato della Virtù indispensabile insorge allora per ristabilire l’ordine turbato, celeste e terrestre. Raduna un esercito e rovescia l’imperatore, ormai divenuto illegittimo perché ha perso il Mandato del Cielo, e la sua corte corrotta: è lui il nuovo detentore del Mandato, è lui il nuovo, legittimo, sovrano, legittima la sua nuova dinastia. Questo sistema era basato su una capillare burocrazia meritocratica e umanistica secondo principi elaborati dagli insegnamenti di Confucio e dei suoi seguaci e molto simile a come anche Platone auspicava lo stato dovesse essere guidato. Esso sorresse il complesso sistema politico culturale del “Paese nel Centro” (questa è la traduzione letterale di Zhongguo, nome cinese della Cina,) dalla dinastia Han alla fine dell’impero (1911). Di conseguenza la Cina si è sempre considerata al centro del mondo, di “tutto ciò che sta sotto il Cielo” (tianxia) e su cui essa spande i benefici della propria civiltà. Quanto più un paese è vicino a questo centro irradiante cultura, tanto più è civile; quanto più è lontano, tanto più è barbaro. Da tutto questo deriva il tono di condiscendenza con cui Qianlong, il “sovrano universale”, si rivolse a Giorgio III, più remoto persino dei ‘barbari’ con cui egli aveva solitamente a che fare. Qianlong fu il quarto imperatore dacché la nuova dinastia dei Qing (puro) nel 1644 si insediò a Pechino nella Città Proibita, la più grande reggia del mondo con i suoi novemila tra saloni e sale. I Qing in realtà provenivano dalla Manciuria e, condotti dalla stirpe regnante degli Aisin Gioro, avevano conquistato la Cina dell’ormai corrotta e decaduta dinastia nazionale dei Ming, il cui terzo imperatore Yongle (r. 1403-1424) aveva riedificato la Capitale Settentrionale (Pechino) e la relativa Città Proibita come reggia tra il 1406 e il 1421. A differenza di altre popolazioni ‘barbariche’, che a varie riprese avevano occupato in tutto o in parte la Cina, i Mancesi, abitanti le regioni a nord di Pechino e confinanti con la Corea, erano stati per almeno un paio di secoli in stretto contatto con la Cina e ne avevano profondamente assorbito la struttura sociale e culturale. Durante e dopo la conquista del paese lo sforzo dei primi sovrani fu quello sia di neutralizzare il potere dei capi delle etnie mancesi con il rafforzamento di un sistema militare centralizzato detto delle Bandiere, sia di seguire il sistema tradizionale cinese di governo e amministrazione dello stato. I Mancesi erano una piccola minoranza nel grande impero ed erano ben consapevoli che avrebbero potuto conservarne il dominio solo diventando sovrani nelle modalità della plurimillenaria tradizione confuciana dell’Impero Celeste. Il principe Hongli degli Aisin Gioro – il suo nome personale divenne tabù dal momento dell’ascesa al trono il primo giorno dell’anno 1736, anche se la successione era avvenuta alla morte del padre il 18 ottobre 1735 – assunse, per tutta la durata del suo regno, il nome-motto di Qianlong, o Abkai Wehiyehe in mancese, ovvero “Grandiosità Cosmica”. Egli, a differenza del nonno Kangxi (1654- 1722) e del padre Yongzheng (1678-1735) i due grandi imperatori che consolidarono il dominio della dinastia Qing sulla Cina, si trovò sovrano di uno stato fortemente accentrato, coi principi mancesi un tempo semiautonomi e ora sottoposti al potere imperiale, con l’erario risanato e un’amministrazione equilibrata ed efficace e inoltre una corte non stremata dai contrasti di una successione che per il suo stesso padre era stata tanto controversa quanto sanguinosa. Qianlong che il nonno e il padre avevano prescelto come futuro imperatore anche se solo quarto tra i figli di Yongzheng, poté così dedicare tutte le sue energie e le sue indubbie,molte, capacità sia al potenziamento dell’impero sotto il controllo mancese, sia alla forgiatura della propria persona. Allo stesso tempo più d’ogni altro imperatore si dedicò alla rappresentazione di sé quale perfetto imperatore universale, Figlio del Cielo, di impronta cinese tradizionale e confuciana pur conservando caratteristiche e stilemi della tradizione mancese. Sotto il suo regno la Cina godette di un periodo di pace e stabilità interne nonostante le campagne militari e i viaggi d’ispezione e di controllo delle regioni più lontane. Tali campagne furono dieci ed è stato calcolato siano allora costate 151.000.000 di tael cioè l’equivalente di 4281 tonnellate d’argento (KAHN 1985: 293). La Cina si estese ai confini sino a diventare il secondo più vasto impero territoriale di ogni tempo con oltre 11.000.000 di chilometri quadrati, più grande dell’attuale Repubblica Popolare, nonché il più popoloso passando dai 150.000.000 di abitanti verso la metà del Settecento ai 300.000.000 alla morte di Qianlong nel 1799. L’impero contava anche la più vasta e capillare burocrazia centrale e periferica del mondo di quei tempi. Fin dall’età infantile il futuro Qianlong aveva dimostrato grandi capacità intellettuali e una memoria prodigiosa e, grazie anche alle dure discipline di insegnamento per i principi imperiali, aveva studiato a fondo i testi classici cinesi, ma anche le lingue mancese e mongola. Allo studio la mattina si accompagnavano nel pomeriggio attività di formazione al governo e fisiche tra cui il tiro con l’arco, a piedi o a cavallo, una pratica indispensabile per un mancese e una passione che gli rimase fino a età avanzata. L’imperatore godeva di ottima salute, era di struttura asciutta e piccola, poco più di un metro e sessanta centimetri. Le sue giornate, quand’era in residenza, erano lunghe e intense: si alzava alle sei e si ritirava a mezzanotte. Assai parco nel cibo, non beveva vino, ma gradiva molto il tè e prendeva solo due pasti che duravano circa un quarto d’ora ciascuno (HUMMEL 1943). Amava gli esercizi all’aperto e la caccia a cavallo. Questo fatto faceva sì che tendesse a restare poco nella Città Proibita e che, oltre ai lunghi viaggi attraverso l’impero, amasse trascorrere periodi nelle regge distaccate e nelle grandi tenute di caccia soprattutto in Manciuria a Muran e Rehe. Gli aspetti pubblico e privato dell’esistenza si dovevano fondere in lui come tradizione vuole che sia per un sovrano detentore ed espressione della Virtù. Così la cura di sé, fisica, intellettuale ed etica a impronta confuciana, doveva acquisire in lui una motivazione pubblica prima ancora che privata. Qianlong perciò divenne accuratissimo nella raffigurazione del potere, perché essa era la rappresentazione della sostanza vera del potere medesimo. Sappiamo che egli attendeva al massimo grado alla propria funzione di interprete del divino attraverso i riti verso il Cielo e la pietas verso gli antenati e grande fu il rispetto che portò costantemente alla madre e al nonno, il grande Kangxi, la cui durata di reame non volle superare abdicando allo scadere del proprio sessantesimo anno di regno. Ovviamente, quando si parla di rappresentazione del potere non si deve pensare a un’immagine pubblica come l’intendiamo noi oggi, era sempre una comunicazione riservata e solo raramente il ‘popolo’ vi poteva partecipare direttamente, come per esempio nei grandi viaggi d’ispezione attraverso le regioni dell’impero e anche in questo caso chi veniva in vista dell’imperatore e del suo entourage erano persone selezionate o guardie. Si trattava cioè di riti e loro rappresentazioni a cui prendeva parte solo un pubblico scelto a seconda delle tipologie. Comunque alle grandi funzioni assistevano sempre migliaia e migliaia di persone le quali contribuivano poi a incrementare l’idealizzazione della figura imperiale coi racconti. Anche i dipinti che raffiguravano questi eventi [Cat. 2] o la figura stessa dell’imperatore [Cat. 19] erano perlopiù per uso interno alle regge, sia che si trattasse di rotoli da appendere sia, e tanto più, che fossero rotoli orizzontali descriventi un episodio, l’uccisione di un cervo a caccia a cavallo [Cat. 12], o lo sviluppo di un evento, il primo viaggio d’ispezione al sud in dodici lunghi rotoli [Cat. 16]. Qianlong era tanto rispettoso delle procedure del rito quanto attento alla rappresentazione loro e della propria persona anche per quanto riguardava i particolari apparentemente i più marginali. Dagli abiti – che leggenda vuole non solo egli cambiasse almeno due volte al giorno,ma che non indossasse più in altre occasioni – all’esecuzione dei ritratti sia in posture da cerimonia sia nel privato o en plein air [Cat. 19, 81, 126]. Nelle raffigurazioni che lo ritraggono nella sua funzione imperiale e militare compare un elemento che diviene una costante nei diversi aspetti della sua esistenza, l’intercultura come si dice oggi. Così, attingendo alla cultura cinese ch’egli doveva comunque interpretare, seguendo le vie della tradizione mancese d’origine, sfruttando un’iconografia divinizzante di origine buddhista e tibetana, attingendo all’iconografia regale d’Occidente importata dai gesuiti che aveva a corte – e soprattutto dal pittore gesuita milanese Giuseppe Castiglione (1688-1766) che ne aveva servito anche il nonno e il padre – egli influenzò la formazione di uno stile ‘internazionale’ che ben rappresentasse la sua concezione del sovrano universale. La bellezza intesa come grandiosità,monumentalità, abbondanza, sontuosità, è un aspetto che caratterizzò i modi della manifestazione di molte dinastie e soprattutto dei Qing. Ma con Qianlong essa raggiunse un grado di enfatizzazione e penetrazione nei vari generi d’espressione quale mai prima. È l’idea imperiale d’uso della bellezza come strumento per diffondere in pubblico il senso del potere, qualcosa che oggi chiameremmo comunicazione. Anche se, come indicato più sopra, l’espressione pubblica dell’arte nel caso imperiale cinese non va assolutamente assimilata a diffusione ‘popolare’, e del resto non ce n’era bisogno. Qianlong sapeva benissimo che le miriadi di aristocratici e funzionari che partecipavano ai suoi riti, banchetti, festività, cerimonie, più di cinquanta l’anno col coinvolgimento di centinaia di migliaia di persone da ogni parte dell’impero, avrebbero poi diffuso la sua immagine di “sovrano universale” per ogni dove contribuendo a divulgare un’idea leggendaria dell’imperatore. Sapeva anche che i pittori di corte producevano spesso all’esterno della Città Proibita divulgando il ‘suo’ stile. Perciò riti religiosi, cerimonie per anniversari e visite da altri paesi, battute di caccia, parate militari, ispezioni territoriali, impianti urbanistici e strutture architettoniche, pittura, calligrafia, musica, scultura, arti applicate, ogni cosa e ogni disciplina, diventavano altrettante vie convergenti verso l’esaltazione del trono e della persona semi-divinizzata dell’imperatore. Il veicolo più appariscente ed efficace di tale estetica-politica fu, ed è ancor oggi, senza dubbio la città imperiale e al suo apice la reggia stessa, il Gugong. Qianlong ampliò e arricchì la Città Proibita, ricostruita e modificata più volte dalla fondazione anche a causa degli incendi, spendendovi oltre settantasette milioni di tael cioè circa 2183 tonnellate d’argento (KAHN 1985: 291), facendone la più ampia reggia della Terra con i suoi molti edifici e sale. Di fatto quasi tutto quello che se ne vede ancor oggi risale all’epoca di Qianlong (HOLZWARTH 2005: 41). Sempre nel campo dell’architettura e dell’urbanistica la tendenza alla monumentalità e all’ecumenismo si riflette anche fuori della Citta Proibita, per esempio nel rifacimento di alcuni palazzi e templi celebri, come il Potala di Lhasa, o il tempio Jinshan, all’interno della reggia distaccata di Rehe (l’attuale Chengde), oppure i padiglioni occidentali ispirati a Versailles nel parco dello Yuanmingyuan appena fuori Pechino. A questa grandiosità architettonica corrispondeva un’altrettanto ampia visione internazionalistica che s’era fondata si nell’estendere il controllo della dinastia dal Tibet al Turkestan, alla Mongolia e a parte dell’Indocina, ma anche a sviluppare una politica di ecumenismo nei confronti delle popolazioni diversissime che confluivano ormai nel più grande impero cinese della storia. A tale scopo Qianlong si servì accortamente delle religioni che protesse, come il buddhismo tibetano, che era diffuso anche fra le popolazioni mongole ch’egli controllava e con cui aveva dei patti, oltre, ovviamente, allo sciamanesimo mancese a cui si dedicava regolarmente. Farsi ritrarre in ruoli centrali di dipinti sacri [Cat. 131] riteneva equivalesse a estendere il suo potere su quelle genti facendosi simile, ancorché superiore, a loro e garante della loro sicurezza e religione da attacchi esterni come di fatto era anche avvenuto quando egli ricaccio i Gurkha che dal Nepal avevano invaso il Tibet. Al cristianesimo s’interessava in modo particolare per gli aspetti scientifici e tecnologici portatigli soprattutto dai gesuiti, ma era anche la religione di popoli che si stavano affacciando decisamente in territori limitrofi all’impero: Sudest asiatico, India, Filippine. L’islam era la religione di quegli stessi uiguri che lo avevano aiutato nella sottomissione della parte del Turkestan oggi compreso nella regione autonoma del Xinjiang. Una principessa uigura, Rong Fei, la cui figura si sovrappone alla leggendaria Consorte Profumata (Xiang Fei) [Cat. 11], divenne una delle sue quaranta consorti, oltre l’imperatrice (huanghou), ascendendo fino al quarto grado (fei). Qianlong le consentiva di conservare i propri costumi uiguri, assumere i propri cibi e osservare la fede islamica. Egli curava ovviamente in modo particolare le fedi più strettamente cinesi come il taoismo – esistono dipinti che lo raffigurano in abito taoista – e, soprattutto, il confucianesimo di cui era il massimo rappresentante. Il principio della monumentalità era da Qianlong applicato a tuttotondo sia nell’esercizio del potere, sia nell’aspetto più ‘privato’ delle sue attività che comunque erano sempre strumentali all’esercizio e alla rappresentazione della sua regalità. Un altro settore dove essa si esercito fu quello della raccolta e pubblicazione dei grandi testi dell’impero la “Biblioteca completa dei quattro tesori” (Siku quanshu) che venne divisa in quattro sezioni: classici, storia, storia del pensiero e letteratura in genere. A partire dal 1773 un grande, apposito, ufficio venne incaricato di rintracciare le opere attraverso l’impero. Nei dodici anni successivi delle 10.230 opere esaminate 2.262 vennero distrutte o censurate, essendo ritenute dannose per la dinastia Qing, 3.462 furono selezionate e riprodotte a mano da 15.000 copisti in 36.000 volumi in sette copie e custodite ciascuna serie in una biblioteca appositamente costruita e situata in una regione diversa dell’impero (KHAN 1985: 295). In questo modo Qianlong si poneva come protettore, conservatore e diffusore della grande tradizione culturale cinese scritta e dei valori in essa contenuti sia per il presente sia per i secoli a venire, un sovrano cioè che fondava il proprio Mandato del Cielo sulla tradizione e continuità dei valori etici più antichi e più consolidati. Egli fu però anche uno dei piu prolifici scrittori della storia cinese; lasciò circa 42.000 componimenti poetici di varia lunghezza tra cinese e mancese. Inoltre sono stati anche catalogati 1.300 brani in prosa e tra il 1749 e il 1800, l’anno dopo la morte, i suoi scritti vennero pubblicati in dieci serie. Ma erano molte anche le sue calligrafie iscritte in vario modo oltre che su rotolo, su porcellane, arazzi [Cat. 130], legno, giade [Cat. 91]. Questa mostra contiene, un fatto del tutto eccezionale, due sue poesie in mancese inedite, traslitterate e tradotte qui per la prima volta in assoluto da Giovanni Stary [Cat. 7 e 8]. In questa sua funzione di imperatore cinese garante della tradizione rientra un’altra attività su grande scala di Qianlong, quella di collezionista. Il collezionismo soprattutto di certi manufatti antichi, come il vasellame bronzeo arcaico, e un sigillo importante di legittimazione al governo. Tali bronzi antichi erano lo strumento con cui, tramite i riti propiziatori, come vere comunioni con cibi e con vino, veniva mantenuto il rapporto con il Cielo e con gli antenati: una prerogativa di tipo sciamanico della casa regnante. La scoperta di bronzi arcaici nelle campagne e la loro conservazione nei secoli successivi divennero perciò per i sovrani segni di buon auspicio e una realtà ambita. Qianlong ne raccolse moltissimi, in gran parte legati, sia per il loro valore artistico e culturale, sia per quello simbolico al potere sovrano. Gli imperatori, le dinastie stesse, ricevevano, o si prendevano, dai predecessori le collezioni imperiali che, con alterna vicenda si erano accumulate nei secoli soprattutto con l’imperatore dei Song Huizong (r. 1101-1125). Cosi come Huizong aveva fatto copiare i bronzi arcaici per utilizzarli nelle offerte durante i riti religiosi, Qianlong riprese questa stessa pratica sviluppando un produzione in porcellana nelle fornaci imperiali e ispirata a tali modelli. Allo stesso tempo, e sempre su imitazione di Huizong, rinnovo la tradizione, da tempo trascurata della produzione di volumi che catalogassero le collezioni imperiali. Per le opere, dipinti e calligrafie a tema sia religioso sia secolare. Le sue collezioni di giade, erano vastissime ed egli contribuiva attivamente al loro ampliamento soprattutto con pezzi spettacolari e giganteschi, ma anche le sue porcellane erano famose e sotto il suo regno le fornaci imperiali sperimentarono nuove tipologie particolarmente ricche e vistose. Inoltre, mentre in Europa andavano di moda le cineserie e i palazzi dei potenti si riempivano di stanze decorate con porcellane cinesi,Qianlong collezionava a sua volta pezzi europei per lui esotici come la sua straordinaria collezione di orologi di cui oggi sono presenti un migliaio nel museo, ma di cui ai suoi tempi ne erano registrati almeno quattro volte tanti. Qianlong fin da bambino aveva ricevuto un intenso addestramento non solo nello studio dei classici, ma, nel modo dei grandi letterati, anche in pittura calligrafia e musica. Il che non implicava solo conoscere le opere del passato, possederne e conoscerne a fondo esempi importanti,ma essere in grado di produrne egli stesso. Anche se non fu mai un calligrafo raffinato come il padre, e non eccelse neppure come pittore, l’imperatore era comunque versato in queste arti e anche nella musica. E cosi, oltre a capire, come già il nonno Kangxi, il valore politico che l’arte poteva esprimere, si concentro sulla pittura lungo due direttrici. Nella prima egli incremento le collezioni imperiali acquisendo moltissimi dipinti antichi, assorbendo intere raccolte e pubblicandone i cataloghi. Qianlong era pero un collezionista attivo nel senso che s’interessava direttamente all’acquisizione delle opere e il suo primo sigillo su un dipinto “COLLEZIONE DI HONGLI” (HONGLI TUSHU) risale al 1729. Ancor più L’imperatore era divenuto un esperto della pittura e questo lo porto a iscrivere i dipinti delle collezioni imperiali sia sul valore intrinseco delle opere con commenti personali sul piacere ch’egli ricavava dalla loro visione sia sulla loro autenticità o meno. Celebre e il suo commento a una delle più importanti opere della pittura cinese La ninfa del fiume Luo di Gu Kaizhi, un dipinto perduto di cui esistono alcune importantissime copie o interpretazioni fatte in epoche successive e di cui tre nelle sue raccolte (HOLZWARTH 2005: 45-46). Con la seconda egli intensifico moltissimo la produzione pittorica di corte. Essa aveva innanzitutto la funzione di rappresentare l’imperatore come perfetto interprete dei valori della tradizione cinese. E mai sovrano fu tanto raffigurato e in ogni veste, condottiero [Cat. 3], accorto governante [Cat. 16], esperto cacciatore [Cat. 12], padre amorevole [Cat. 81], dotto confuciano, pittore, calligrafo,musicista, esperto d’arte, letterato [Cat. 100], saggio taoista, divinità buddhista [Cat.131]. Lo straordinario, grandioso, dipinto a cavallo, probabilmente realizzato all’epoca della sua ascesa al trono o in occasione della sua presentazione alle Otto Bandiere, e dovuto alla mano del Castiglione sembra essere il primo ‘ritratto equestre’ di un sovrano nella pittura cinese [Cat. 3]. Non che non fossero mai stati ritratti sovrani su o con i loro cavalli, ma non come in questo esempio, cioè quale mera esaltazione della funzione regale e per di più in modalità d’influsso spagnoleggiante. I viaggi d’ispezione dell’imperatore erano veri e propri affari di stato, movimentavano migliaia di personaggi, funzionari, dame di corte e richiedevano preparazioni di fatto impegnative come imprese belliche. Successivamente, essi venivano registrati visivamente in numerosi rotoli di pittura narrativa con spesso anni di lavoro per gli artisti di corte [Cat. 16]. Neppure la sfera privata sfuggiva a questa iconizzazione, come e dimostrato da alcuni dipinti assolutamente personali come la scena dell’imperatore con alcuni dei figli per la festività del capodanno [Cat. 81]. Oltre all’imperatrice [Cat. 20] (Qianlong ne ebbe due), in alcuni casi anche le varie consorti o le loro dame di compagnia venivano ritratte sia formalmente come e il caso dello straordinario dipinto a olio fatto da Castiglione di Huixian la consorte di terzo grado (guifei) [Cat. 31], sia in versione informale come per la figura femminile a caccia a cavallo con l’imperatore [Cat. 11] – che potrebbe essere la celebre principessa uigura Rong Fei (1734-1788), o la decima e prediletta figlia di Qianlong, Hexiao – o come anche la dama alla toletta [Cat. 32]. In ogni caso pero, cerimoniali o meno, si tratta sempre di opere la cui funzione e l’esaltazione della sovranità dell’imperatore nell’espressione di una delle sue mille virtù che contribuivano a farne un vero “Figlio del Cielo” degno del Mandato.