Il viaggio di Abramo e quello di Ulisse

Transcript

Il viaggio di Abramo e quello di Ulisse
© BIBBIA E SCUOLA
www.bes.biblia.org
Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia
Ufficio X – Bergamo
Corso di aggiornamento e conoscenza della Bibbia
IL VIAGGIO DI ABRAMO E QUELLO DI ULISSE:
DUE CULTURE A CONFRONTO
13 aprile 2011
Gian Gabriele Vertova
Il seguente percorso didattico potrebbe essere utile o nel biennio di una scuola Media Superiore o
anche nel primo anno del triennio, introducendo il discorso relativo alla complessità dell’identità
culturale dell’Europa. È importante, per diminuire il rischio della retorica delle radici e mettere in
evidenza complessità e pluralità, sottolineare come all’origine della cultura europea hanno
contribuito, in un processo storico di continua trasformazione e interazione, diverse culture, in
particolare quella che chiamo, per semplicità, biblica e quella classica greca e romana, entrambe a
loro volta sintesi complessa di ricche e variegate tradizioni culturali.
Piero Boitani, docente di Letterature comparate, ha immaginato1 il racconto dell’incontro fra
Abramo e Ulisse, entrambi protagonisti di viaggi densi di conseguenze per la storia della cultura
dell’umanità, paradigmi della cultura ebraica e di quella greca. Il racconto termina con la reciproca
incomprensione, con il mancato incontro. Se vogliamo mantenere un corretto approccio storico e
letterario non possiamo che constatare l’incolmabile distanza fra i due personaggi, le loro culture, i
testi che ce li propongono. Testo poetico quello di Omero, che narra di un viaggio lunghissimo e
travagliato per migliaia di versi; testo in prosa quello biblico, poche pagine di straordinaria sintesi di
diverse tradizioni orali. Per entrambi si può dire quello che Bernard Andreae ha detto di Ulisse:
rappresentano «l’archeologia» dell’immagine europea dell’uomo2, ma mentre Ulisse è «simbolo
della civiltà fondata sul mare» e ritorna alla sua isola come all’approdo agognato, Abramo, padre
dei credenti, è un nomade che attraversa vasti territori senza conoscere il mare, inseguendo la terra
promessa e una discendenza infinita come i granelli della sabbia del deserto.
L’incontro fantasticato da Boitani sarebbe possibile solo in una prospettiva sincretistica, che separi i
personaggi dal loro contesto culturale. Non presso le Querce di Mamre potrebbe arrivare ed essere
accolto Ulisse, ma ad esempio lo potrei immaginare al festino della Coena Cypriani, sintesi
straordinaria e carnevalesca di tutte le immagini di festa sparse nella Bibbia ebraica e cristiana,
anche se l’anonimo autore, che viene collocato fra V e VIII secolo dell’era volgare, non ci poteva
pensare: Ulisse, magari con il suo remo come attributo perenne impostogli da Tiresia nella profezia
1
2
P. Boitani, «Due erranti», in Sulle orme di Ulisse, Il Mulino, Bologna 1998, p. 77ss.
B. Andreae, L’immagine di Ulisse. Mito e archeologia, Einaudi, Torino 1983.
1
© BIBBIA E SCUOLA
www.bes.biblia.org
dell’ultimo viaggio, potrebbe stare a fianco di Eva sulla foglia di vite, di Caino sull’aratro, di Noè
sulla sua arca, di Mosé con le tavole della legge, di Abramo con il montone del sacrificio…3
Qualcuno potrebbe avanzare una pregiudiziale escludente il confronto (non è difficile immaginarlo,
la centralità esclusiva della cultura classica grecoromana è stata una bandiera del pensiero
anticlericale), osservando che Abramo è sempre stato pensato dai credenti come una figura storica,
progenitore da imitare e da seguire, mentre Ulisse appartiene al mito e alla leggenda popolare: i
piani su cui si muovono i due personaggi sarebbero molto diversi. Se in realtà anche Abramo è stato
letto da molteplici punti di vista, interpretato e “riusato” come i personaggi più importanti del mito,
il “riuso” nella tradizione delle religioni abramitiche è stato per necessità un po’ meno libero di
quello possibile con Ulisse nella tradizione classica, perché l’artista, il filosofo, il poeta sapevano di
avere a che fare non con un semplice testo, ma con il testo, per sua natura non manipolabile perché
pensato come “parola di Dio”: lo spazio delle possibili interpretazioni resta vastissimo, ma non è
concesso un “riuso” tale da modificare nella sostanza la vicenda personale e la storia di fede come è
raccontata nella Genesi.
Nella prospettiva culturale però che ha ispirato il protocollo d’intesa da cui è nato questo breve
corso di aggiornamento mi pare che sia corretto parlare di classici: e non è possibile studiare i
classici senza fare i conti con la contemporaneità, che mette legittimamente ogni volta alla prova il
testo antico. La cultura greca e romana e quella giudaico e cristiana infatti sono “classiche” non
perché paradigmatiche, ma perché per noi hanno ancora un valore preminente. Possiamo sentire
“classici” alcuni libri soltanto in una dimensione di “durata”. Quello che dice Lévinas della
Scrittura, che ha una parola diversa per ciascuno di noi, per cui se una persona non nasce, o non
legge, un significato non si manifesta, vale forse per ogni libro che definiamo “classico”: ogni testo
letterario e artistico è una forma conclusa in sé e ha per il suo autore, e per il pubblico immaginato
dall’autore, un suo significato preciso che noi cerchiamo di affrontare consapevoli della sua
“distanza” di spazio e di tempo per evitare fraintendimenti o catture scorrette e strumentali, tuttavia
per vivere ha bisogno di essere letto nel modo possibile al lettore di ogni tempo. Scriptura crescit
cum legente, ripeteva come motto Gregorio Magno. I maestri dell’Ebraismo in questo senso
dicevano che erano possibili persino 70 letture, cioè infinite quanti sono i popoli della terra e i
potenziali lettori. «La nuova ermeneutica sostituisce alla centralità del testo quella del lettore
facendo dell’interpretazione il momento decisivo dell’atto critico» (R. Luperini).
In questi ultimi 30 anni questo nuovo indirizzo è subentrato alla crisi dello storicismo, ma anche
dello strutturalismo con la sua enfasi sul “laboratorio del testo” e le sue pretese di definire
ortodossie scientifiche e linguaggi relativi, e legittima una circolarità virtuosa dal presente al
passato, ma anche dal passato al presente. Il giovane si abitua alla responsabilità del cercare, ad
accettare la necessaria parzialità del suo punto di vista, senza indulgere con questo ad una
qualunquistica svalutazione di ogni sforzo di scelta. Credo che l’abitudine all’interpretazione possa
aiutare lo studente a diventare il cittadino critico e responsabile, capace di comprensione autonoma
e di decodificazione dei messaggi, rispettoso degli altri, come dei testi e delle storie di cui sono
autori o protagonisti, ma pronto a battersi per la sua idea. Se oggi la società sembra richiedere solo
tecnici specializzati e informatori/intrattenitori per i “media”, secondo il comando di economia e
tecnologia, insegnare i Classici come la Bibbia significa proporre idee e valori, difendere
l’autonomia della cultura e della funzione intellettuale.
3
Cfr. M. Bachtin, L’oeuvre de François Rabelais et la culture populaire au Moyen Age et sous la Renaissance,
Gallimard, Paris 1970, pp.286-288.
2
© BIBBIA E SCUOLA
www.bes.biblia.org
La storia dei patriarchi è raccontata nella Bibbia in Genesi 12-50. Si tratta di ricordi e tradizioni di
vita familiare e di clan dei Patriarchi ebrei, raccolti e rielaborati in seguito dalle grandi correnti
teologiche che ispirano la redazione del Pentateuco. Anche se le scoperte archeologiche del secolo
scorso hanno conferito «un sapore di probabilità»4 alle vicende che vengono raccontate in Genesi,
resta molto difficile stabilire, sia pure con qualche approssimazione, quando visse Abramo. Perfino
sulla base delle datazioni del testo biblico sarebbe possibile fare ipotesi diverse5. Quando furono
messe per iscritto, le tradizioni patriarcali subirono un evidente processo di attualizzazione.
Sappiamo che i Semiti hanno un modo proprio e particolare di fare la storia: sfruttano le fonti, non
citano gli autori, le aggiungono l’una all’altra, riempiono le lacune. Leggendo si ha l’impressione
superficiale di un racconto steso da un unico autore, mentre in realtà si tratta di più fonti originali,
ritrascritte senza mutar parola, ma collegate con semplici legature redazionali. Gli Ebrei si
distinguono per antichità dei documenti e per lo sforzo di fedeltà nel narrare, ma fanno storia come
gli altri semiti. «Tuttavia si può affermare che i nomi propri contenuti in Genesi, la supposta
geografia, i costumi praticati, la storia posteriore delle tribù inducono a situare i patriarchi fra il sec.
XIX e XIV del II millennio a.C.»6.
È abbastanza condivisa l’ipotesi che forse la redazione scritta del testo sia recente, nata nell’epoca
dell’esilio babilonese e con redazione definitiva del V secolo.
Abramo, in conclusione, in prospettiva storico-critica, è come altri personaggi della preistoria dei
popoli: il racconto della sua vicenda, messa per iscritto molti secoli dopo, è un impasto di storia,
leggenda, teologia. Abramo è sicuramente più antico di Ulisse, ma la redazione definitiva del testo
che lo riguarda è più recente di quello dell’Odissea.
Il viaggio di Abramo è molto più semplice e storicamente definibile di quello di Ulisse: secondo il
racconto della Genesi, Abramo, insieme al padre Terach, parte dalla semitica Ur dei Caldei
(Mesopotamia del sud, oggi Iraq), si muove verso nord-ovest seguendo più o meno l’Eufrate, arriva
fino al centro carovaniero di Harran, in Siria. Poi su ordine di Dio, con la bella ma sterile moglie
Sara, il nipote Lot e tutte le greggi e i pastori, prosegue per la terra di Canaan (che nel testo sembra
una terra quasi vuota, a parte lo scontro bellico del cap.14 con la retroguardia di un gruppo di re
orientali), secondo un itinerario che non è descritto. Passa per Sichem, un sobborgo orientale
dell’attuale Nablus, in piena regione samaritana, e a Betel, in Giudea, dove erige altari (si tratta di
santuari probabilmente cananei) fino a Mamre (presso Hebron, dove ancora oggi viene indicata la
quercia dell’incontro). A causa di una carestia, prosegue per l’Egitto. Fa passare Sara per “sorella”,
ma il faraone che l’ha presa con sé gliela restituisce volentieri dopo che Dio l’ha punito con piaghe
dolorose. Ritorna a Betel con ricchi doni e si separa da Lot, che però deve liberare con un’audace
azione militare dopo che era stato catturato da quattro re dell’Oriente. Dopo una visione notturna
4
Cfr. E. Testa, Genesi, S. Paolo, Cinisello Balsamo 1999, p. 149.
Ibidem, p.159.
6
In alcuni testi di Mari si parla di gruppi di seminomadi che si muovono intorno a questa città-stato. I Patriarchi biblici
però praticavano anche l’agricoltura e stavano alla larga dalle città (l’unico a risiedervi è Lot, a Sodoma…). Abramo poi
più che un nomade, è un emigrante, parte da un posto per andare a stare in un altro. Inoltre nel racconto biblico sono
rintracciabili molti anacronismi: Abramo possedeva cammelli (che in quel tempo non erano stati ancora addomesticati)
e che incontra i Filistei che arrivarono in Palestina solo nel XII sec. È vero che l’itinerario di Abramo da sud-est fino a
nord-ovest, da ovest ad est , da nord a sud era l’itinerario normale, che hanno seguito anche le truppe assire e babilonesi
quando volevano andare in Siria e in Palestina. (cfr. A. Soggin, «Abramo fra storia e mito», in Abramo padre di una
moltitudine di uomini, Biblia, Firenze 1989 e anche S. Virgulin, s.v. «Abramo», in Nuovo Dizionario di teologia
Biblica, Paoline, Milano 1988).
5
3
© BIBBIA E SCUOLA
www.bes.biblia.org
nella quale gli viene promessa una discendenza numerosa come le stelle, Abramo, su consiglio di
Sara, prende Agar come concubina e ha il figlio Ismaele. In seguito a una nuova apparizione in cui
gli viene ribadita la promessa di una discendenza numerosa e il possesso del paese di Canaan,
cambia il nome «Abram» (che in ebraico significa “padre eccelso”) in «Abraham» (“padre di
moltitudini”) e stipula con il suo Dio un patto eterno, di cui la circoncisione è segno esterno.
Durante la visita di tre uomini misteriosi alla sua tenda gli viene di nuovo profetizzata la nascita di
un figlio da Sara. Dopo l’incontro e il reciproco patto a Bersabea con il re dei Filistei Abimelech,
nasce finalmente il figlio Isacco, il secondo Patriarca.
Le tappe di Abramo sono scandite da atti di culto religioso, in risposta alle epifanie divine: comuni
in ambiente cananeo-aramaico erano i sogni divinatori, specie in relazione alla discendenza. Nel
testo l’arameo errante fa proprio un santuario locale preesistente, rendendolo così ebraico.
Questa profonda religiosità, che condivide con molte popolazioni dell’area semitica, lo distingue dal
greco Ulisse. Nell’Odissea non incontriamo mai l’eroe preoccupato di atti di culto, di sacrifici,
offerte agli dei. Certo Ulisse è “religioso”, è antagonista dei Ciclopi che, senza legge, si oppongono
agli dei perché si sentono più forti (Odissea IX,275)7, ma quando prega è semplicemente per
chiedere aiuto ad Atena (Odissea VI,327: «fa’ ch’io arrivi gradito ai Feaci e che ispiri pietà»). Solo
nella profezia di Tiresia si parla di Ulisse chiamato ad un atto cultuale. Anche nella leggenda di
Ulisse ampi spazi vengono dedicati alle azioni e alle epifanie degli dei, soprattutto di Atena, ma
nelle risposte dell’eroe non troviamo mai atteggiamenti di ascolto e di preghiera. Né gli dei
sembrano richiedere fede e ubbidienza.
A differenza di molti protagonisti della Bibbia, rappresentati come appartenenti alla categoria dei
poveri e dei deboli, Abramo è descritto come una persona ricca, un possidente. È molto più
fortunato di Ulisse, è destinato a una progressiva prosperità, avendo il suo dio dalla sua parte e
nessun altro dio contro. Mi sembra esagerata la definizione di antieroe attribuitagli da A. Soggin, è
vero piuttosto che sa difendersi e guerreggiare, in solidarietà militare con i compagni (Genesi 14,816), è generoso e magnanimo come si capisce nell’episodio della divisione delle terre con Lot
(Genesi 13,1-14) e in quello dell’incontro con il re di Sodoma (Genesi 14,21-22), doti comuni ad
Ulisse (cfr. la magnanimità di Ulisse dopo la strage dei pretendenti: Odissea XXII, 374). Ma non è
un eroe senza macchia né senza paura, e sa ricorrere al calcolo e all’astuzia spregiudicata, come in
occasione del suo viaggio in Egitto quando, ricorrendo agli usi di Nuzu, raccomanda a Sara di
fingere di essere sua sorella (cioè una concubina adottata), per evitare rischi mortali e magari
ricevere invece compenso in argento e animali da parte di possibili pretendenti. Più che ad Ulisse la
sua astuzia rimanda a quella dei beduini o anche delle genti ebraiche nei millenni di persecuzioni. In
definitiva, e questo è molto ebraico, Abramo, come tutti Patriarchi, non è un eroe come Ulisse, è
solo un “patriarca”, non conta da solo, conta per la discendenza.
Ma Abramo è distante da Ulisse soprattutto perché il suo viaggio nasce dalla fede, all’origine del
viaggio c’è la chiamata. Anche il viaggio di Ulisse non è certo determinato e voluto dall’eroe, ma il
protagonista è lui, nel “patire”. Nel viaggio di Abramo il protagonista è Dio. Dio prende l’iniziativa,
parla, Abramo tace e ubbidisce. Decisivo a caratterizzarlo in questo senso è il passo di Genesi 12,19. Qui Abramo è già il primo dei credenti, “el-Chalìl”, “amico di Dio”, per eccellenza. La sua fede
gli è imputata a “giustizia” perché appare come l’atteggiamento giusto davanti a Dio. Crede in due
7
Seguo la traduzione einaudiana di Rosa Calzecchi Onesti.
4
© BIBBIA E SCUOLA
www.bes.biblia.org
promesse incredibili: la figliolanza e la terra. Nella sua condizione non sarebbe stato scandaloso non
credere, anzi forse sarebbe stato “responsabile”. È celebre la definizione di “salto nel buio”, è una
definizione un po’ troppo esistenzialista per la Bibbia, ma è vero che la fede qui è spiegata come il
fatto di dare credito anche al di là di ciò che si può sperimentare, come dice l’autore della lettera
agli Ebrei : «Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere
in eredità, e partì senza sapere dove andava» (Ebrei 11,8). Tuttavia questa fede non è un fenomeno
irrazionale, perché nel testo Dio parla e si manifesta: insomma l’esperienza di fede trascende, ma
non è inaccessibile. Inoltre se la richiesta è onerosa (lasciare il paese, il clan, la casa di suo padre),
la promessa sembra superare di molto l’onere.
Ulteriore tappa della rivelazione è quando Abramo giunge nella terra di Canaan (Genesi 13,14-17):
il redattore del testo ci vuol far capire come l’esperienza di fede non sia legata a un attimo della
vita, al momento originario, ma apra un cammino, un viaggio, in cui si ha una progressiva
rivelazione di Dio e una progressiva comprensione del senso dell’esperienza umana
A differenza delle vicende di Mosè o di Geremia, il testo che racconta la chiamata non dice nulla
della reazione psicologica di Abramo. C’è solo la chiamata del Signore e il silenzio di Abramo con
la sua risposta nella vita. Forse l’autore ha l’intenzione di sottolineare che la fede di Abramo non è
solo adesione interiore, è soprattutto obbedienza esteriore, come è ovvio che sia la fede. Abramo
parte davvero, inizia l’avventura della fede ebraica, della Halakhà (la via, il cammino
dell’obbedienza alla legge). Abramo è per questo punto di riferimento comune alle tre grandi
confessioni monoteiste in quanto archetipo, modello primitivo e universale del credente: la fede non
è una convinzione intellettuale, la fede è mettersi in viaggio, giocare la propria vita sulla base della
Parola di Dio.
È di Emmanuel Lévinas la celebre frase: «Al mito di Ulisse che ritorna ad Itaca, vorremmo opporre
la storia di Abramo che lascia per sempre la patria per una terra ancora sconosciuta». Da questo
punto di vista il viaggio di Ulisse è più facile di quello di Abramo. Per Lévinas l’avventura ebraica
di Abramo è diversa e ben più dura di quella greco-classica di Ulisse. Rischi e difficoltà sono
enormi, ma Ulisse sa dove va, lo aspettano una casa, una patria, volti noti ed amati. Ogni dolore,
ogni sventura è più sopportabile quando si ha una precisa idea del loro superamento. Abramo invece
conosce solo quello che lascia, non sa come sarà la terra dove arriverà. I suoi ricordi rimandano a
immagini e cose che non vedrà più. Il suo futuro non è un ritorno, ma una continua partenza. Per
questo, secondo Filippo Gentiloni8, il nòstos, il viaggio di ritorno di Ulisse avrebbe preso il
sopravvento nella tradizione cristiana rispetto al viaggio di Abramo: alla speranza cristiana si sono
voluti attribuire oggetti certi e predefiniti; il Regno di Gesù ha avuto i contorni rassicuranti di
un’Itaca con i contenuti della propria vicenda umana, lasciando poco spazio all’incertezza
dell’azione dell’Altro. I cristiani hanno voluto darsi un’identità definita una volta per tutte, si sono
sedentarizzati nella contemplazione nostalgica delle proprie radici e chiusi all’avventura del viaggio
verso il futuro.
Il dio di Abramo è asimmetrico in quanto l’Altro. Secondo l’insegnamento di Lévinas il rapporto
con l’Altro è inevitabilmente asimmetrico, l’Altro è colui che ci apre e ci rinvia alla trascendenza,
facendoci evadere da noi stessi. L’intersoggettività asimmetrica è il luogo di una trascendenza in
cui il soggetto, pur conservando la sua struttura di soggetto, ha la possibilità di non ritornare
fatalmente su se stesso, di essere fecondo e di avere un figlio.
8
F. Gentiloni, Abramo contro Ulisse, Claudiana, Torino 1984.
5
© BIBBIA E SCUOLA
www.bes.biblia.org
Invece gli dei dell’Odissea intervengono attivamente come vendicatori , come Posidone con Ulisse
(Odissea V, 366) (o con i Feaci: Odissea 13, 129), o come protettori, come Atena molte volte (cfr.
Odissea, V, 382; 427; 436; 491; VI, 3; 14; 112; 140; VII, 15; 37; VIII, 8; 19; 190; XIII, 190; 220;
XV, 168; XVII, 192; XVIII, 192; 519; XIX, 34; XX, 285; XXII, 205; 298; XXIV, 543), ma sono
sullo stesso piano degli uomini, siano maligni o benigni, competitori (come Calipso che si vanta
superiore a Penelope e non capisce perché Ulisse la preferisca: Odissea V, 210) o attanti (come Ino,
la Dea bianca dalla bella caviglia che offre la zattera di salvataggio a Ulisse, Odissea V, 336 ss., o
Ermete, che dà l’erba benefica di antidoto contro le magie di Circe, Odissea X, 288).
Tuttavia una contrapposizione troppo radicale fra “Atene e Gerusalemme” rischia di apparire come
un aprioristico confronto fra “categorie ideali” mortificando diversità e complessità storiche9, ma è
utile per la discussione. È certo schematico indicare come totalmente opposti, come fa S.Averincev,
in termini perentori e netti, l’olam biblico (il tutto del tempo) al cosmo greco. Forse invece si può
sostenere che la caratteristica principale degli eroi della Bibbia, a partire da Abramo, è la fede nel
futuro. Il Dio ebraico è quello della storia, il viaggio di Abramo è sempre diretto al futuro. Quello di
Ulisse è di ritornare al passato, ricostruendo l’ordine interrotto entro confini già conosciuti.
Possiamo sostenere che i momenti salienti del viaggio di Abramo non sono quelli dell’avventura,
come in Ulisse, ma quelli dell’esperienza di fede: la chiamata con la promessa, l’alleanza, la prova.
In tutte queste tappe il Signore di Abramo si presenta al tempo stesso come un Tu e come l’Altro.
La chiamata di Dio rappresenta il comando di un vero e proprio esodo («lascia la tua terra, la tua
tribù…»). Nel contesto della Genesi si spiega come un intervento che riapre la storia della salvezza.
Secondo la Bibbia l’uomo, come Adamo, proseguiva nella logica dell’onnipotenza. L’ultimo
esempio è stato quello della torre di Babele. La conseguenza è la decadenza e la crisi della vita: le
generazioni diminuiscono sempre di più la durata della loro esistenza ed alla fine del cap. 11 siamo
di fronte al primo caso di sterilità. L’energia vitale dell’umanità sembra esaurirsi. Ma Dio riprende
la sua iniziativa nella storia: si noti che il Signore non dice ad Abramo: «va’ verso il paese che ti
indicherò e ivi sii fecondo e moltiplicati», ma dice che sarà Lui a dare la fecondità. Nell’elezione
del popolo di Israele Dio si riprende ogni decisione nella generazione che non può più essere una
cosa “naturale”. Ma la gestazione di questa promessa sarà laboriosa…
La chiamata si accompagna con la Promessa e la Benedizione. Nei vv. 2-3 del capitolo 12 si
insiste su questo concetto: Dio benedice; Abramo diventa fonte di benedizione; i popoli della terra
sono benedetti in Abramo. La benedizione si presenta come dono e rivelazione, è una iniziativa
unilaterale di Dio: non c’è nulla che la esiga, non si dice se Abramo conosceva prima questo Dio,
ma è Dio che si fa avanti. Al tempo stesso, la benedizione implica la responsabilità. Infatti Abramo
diviene uomo di benedizione perché ubbidisce, ricerca la pace, accoglie nella sua casa, intercede per
gente diversa, e avversa, presso Dio. Se la scelta di Abramo da parte di Dio appare come un gesto
totalmente gratuito e una elezione privilegiata e del tutto personale (perché proprio lui?), la finalità
ha caratteristiche universali.
L’episodio della distruzione di Sodoma e dell’intercessione di Abramo (Genesi 18,17-33) permette
di far notare come sia comune alle culture di Abramo e di Ulisse l’esaltazione del valore
dell’ospitalità e la convinzione che gli dei ne siano i gelosi custodi: come dice Nausicaa chiamando
le ancelle: «vengono tutti da Zeus gli ospiti e i poveri» (Odissea” VI, 207; vedi anche VII, 32; 167;
9
Sergej S. Averincev, Atene e Gerusalemme, Donzelli, Roma 1994.
6
© BIBBIA E SCUOLA
www.bes.biblia.org
182; VIII, 546; IX, 273; ecc…). La grave colpa degli abitanti di Sodoma è la violazione
dell’ospitalità.
Ma il tema più importante dell’episodio è quello squisitamente ebraico della giustizia. Il Dio di
Israele è il garante della giustizia del mondo. Israele crede che l’uomo retto e timorato di Dio è
benedetto dal Signore e avrà la prosperità, il malvagio andrà in rovina. Ma cosa succede ai gruppi
sociali, ai popoli, nei quali, come verifichiamo quotidianamente, si mescolano giusti e malvagi?
Se Ulisse è il vendicatore, Abramo è l’intercessore. Si noti che la cultura di Sodoma e Gomorra non
è solo diversa, ma opposta a quella di Abramo (sono cittadini, negatori dell’ospitalità, idolatri…). È
un racconto in cui c’è poca azione, ma un monologo e un dialogo drammatico e in effetti all’autore
importa proporre un problema di giustizia: quale rapporto degli individui, o di piccoli gruppi, con la
comunità? Devono soffrire anche i giusti per colpa dei peccatori? È un problema che è posto
frequentemente nella Bibbia: il pio ebreo doveva sentire molto il tema, Abramo vive in mezzo ai
Cananei giudicati corrotti, Lot fra i Sodomiti, i Giudei della diaspora in mezzo ai pagani. Il
racconto è stilizzato in modo antropomorfico, come un processo giudiziario: il Giudice divino, di
fronte ad una accusa, vuole accertare i fatti10. Ma prima della sentenza deve ascoltare l’avvocato
difensore, Abramo, che fa appello alla giustizia. È Dio stesso che provoca il dialogo, ha un impegno
con Abramo, si sente obbligato a discutere la cosa con lui. Abramo non solo fa presente a Dio il
rischio di ingiustizia (annientare i giusti con i peccatori), ma pone il dilemma nell’alternativa secca
“o tutti dannati o tutti salvati”, senza accennare a una terza ipotesi, del tutto corretta, quella di
distinguere, che infatti si imporrà, perché non gli conviene. È un oratore che difende una causa
compromessa e sa contrattare. Alla fine Dio se ne va. Sodoma sarà distrutta, ma i giusti si salvano.
Abramo intercessore ha assunto fino in fondo il compito derivante dalla benedizione del suo Dio: «e
in te si diranno benedette tutte le nazioni della terra». In un orizzonte culturale che dà per logico che
il malvagio muoia e il giusto viva, il problema di Abramo è ben diverso da quello di Giobbe, che si
interroga sulla sofferenza del giusto. Abramo si chiede invece se non sia possibile che anche il
malvagio viva grazie al giusto. «Qui non c’è posto per la simmetria. Rifiutando di accogliere la
prospettiva secondo cui l’integro può morire con il malvagio, si afferma infatti che è indegno di Dio
che il pio muoia assieme al peccatore, ma è degno del Signore che l’empio viva a causa del
giusto…»11. «La componente utopica della contesa di Abramo sta nello sperare di trasformare una
situazione in cui “i cattivi” vivono a spese dei “buoni” soffocandoli progressivamente nelle loro
spire, in una condizione in cui i giusti sono motivo di vita anche per i peccatori»12.
A questo problema nella Bibbia si danno risposte diverse13, ma, in ultima analisi, sembra che la
logica di Dio non sia quella dell’equidistanza: Dio salva 90 colpevoli per merito di 10 innocenti, ma
non fa il contrario, perché non c’è parità fra salvare e condannare (cfr. la storia di Giona). E nel
testo di Isaia un solo innocente paga per tutti e tutti riscatta (Isaia 53,9 ss.).
Anche nell’Odissea, a differenza dell’Iliade, affiora la fiducia in un tribunale divino nel quale gli
oppressi hanno bisogno di sperare: Eumeo e Laerte si fanno interpreti di questa esigenza di una
nuova religiosità (Odissea XXIV, 285; 351). Ma mi pare vi sia una differenza enorme con il
Pentateuco: qui vi sono degli uomini che esprimono una loro convinzione sulla natura e le opere
10
Cfr. Giove che scende sulla terra per verificare le infamie di Licaone nelle Metamorfosi di Ovidio, 1, 211-215.
P. Stefani, Dies irae, Il Mulino, Bologna 2001, p.78.
12
Ibidem pp. 83-84.
13
Cfr. Esodo 34,7; Deuteronomio 7,9 ss. e 24,16.
11
7
© BIBBIA E SCUOLA
www.bes.biblia.org
degli dei; nella Bibbia si osa scrivere che è Dio stesso che si propone con la sua parola come
Liberatore e giudice degli oppressi.
Si può concludere il percorso con il sacrificio di Isacco, a cui si potrebbe contrapporre quello di
Ifigenia, paradigma secondo Lucrezio della malvagità della religione14. Questa narrazione, secondo
Gerhard von Rad «la più perfetta nella forma e la più abissale delle storie dei patriarchi»15, ha un
concatenamento assai vago con ciò che la precede e doveva avere una esistenza propria prima di
essere inserita nella grande narrazione genesiaca.
Anche qui nessun accenno alla reazione psicologica di Abramo, che tace, obbedisce e si organizza.
Il racconto ha uno sviluppo rallentato, quasi a creare un’atmosfera da incubo. C’è un silenzio di
morte, interrotto solo dalla domanda presaga di Isacco. L’angelo che interviene non è che la forma
con cui la divinità si manifesta sensibilmente agli uomini. Nessun grido di gioia si fa sentire e
questo conferma il carattere arcaico e solenne dell’episodio, al quale è estraneo ogni aspetto
sentimentale.
In questo testo si è voluto leggere la protesta di Israele e di una umanità in evoluzione contro i
sacrifici dei bambini praticati dai popoli cananei circostanti. Vi appare chiaro che Dio non ama la
morte, ama la vita, non vuole il dolore dell’uomo, ma la benedizione.
È difficile però accettare che il racconto esaurisca il suo significato nella spiegazione
antropologica: bisogna lasciare al termine Dio tutto il suo peso e la sua collocazione enfatica. Se si
tratta di una tentazione, o di una “prova”, come nel caso di Giobbe, viene da Dio, come è stato
sottolineato in molti midrash della tradizione ebraica:
Un giorno i figli del Signore vennero a presentarsi al Lui, e fra loro c’era anche Satana, il quale,
quando Dio gli domandò: “Donde vieni?”, Gli rispose: “Dal girare per la terra e dal passeggiare per
essa” (Gb. 1,7). Dio gli chiese ancora: “Cosa hai da dire a proposito dei figli dell’uomo sulla
terra?”, e Satana rispose: “Ho visto tutti i figli dell’uomo sulla terra servirti e ricordarsi di Te nel
momento in cui hanno bisogno di qualcosa. Ma non appena Tu concedi loro ciò che essi Ti
chiedono, Ti dimenticano e non sanno più chi Tu sia. Guarda Abramo, il figlio di Tare: finché non
aveva figli, Ti prestava culto, costruiva altari sui quali Ti porgeva delle offerte e proclamava
instancabilmente il Tuo nome a tutti i figli dell’uomo. Ora che gli è nato il suo figlio Isacco, Ti ha
dimenticato… Allora il Signore disse a Satana: “Pensi di conoscere il Mio servo Abramo? Sappi
che non v’è nessuno come lui sulla terra, giusto e perfetto davanti a Me nel sacrificio, che teme
Iddio ed evita il male. So per certo che quand’anche gli dicessi: Prendi Isacco, tuo figlio, ed offrilo
a me, non Me lo rifiuterebbe … Satana replicò: “E allora, chiedi ad Abramo proprio quello che hai
detto, e vedremo se non verrà meno alle Tue parole”.16
Si tratta quindi di una verifica della fedeltà del rapporto fra Abramo e Dio. L’azione non si svolge
all’interno di un quadro sacrale o cultuale (dove poteva avvenire il “giudizio di Dio”), ma si gioca
tutta nella concretezza della storia. Si tratta di una prova radicale dell’obbedienza. Il Dio di Israele è
assolutamente libero di dare e di prendere. Isacco è il figlio della promessa: Dio gli chiede di
14
T. Lucrezio Caro, De rerum natura, I, 101: «Tantum religio potuit suadere malorum». Temo che ogni religione, non
solo quella pagana possa provocare atroci tragedie e opprimere donne e uomini quando si lascia strumentalizzare dalla
logica dell’interesse politico …
15
G. von Rad, Il sacrificio di Abramo, Morcelliana, Brescia 1977.
16
L. Ginzberg, Le leggende degli Ebrei, Adelphi, Milano 1997, p. 92.
8
© BIBBIA E SCUOLA
www.bes.biblia.org
restituire quello che gli ha donato. Non si tratta da parte di Dio di una rivendicazione giuridica,
quasi volesse riaffermare il suo diritto, ma di un chiarimento sul senso della fede: vuole vedere se
Abramo ha compreso che il dono della salvezza è davvero considerato come un dono puro e
semplice. E il popolo di Israele si identificava in Isacco, sapeva di esistere e di essere stato
reintegrato nella vita solo da Jahvé.
9