Passaggio generazionale e protezione del patrimonio

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Passaggio generazionale e protezione del patrimonio
Associazione di Pavia
Passaggio
generazionale
e protezione
del patrimonio
Relazione del Notaio Paolo Tonalini
Pavia, 22 novembre 2016
NOTAIO PAOLO TONALIN I
STRADELLA (PV) – Via Dallagiovanna 16 – Tel. 0385 48564
PAVIA – Viale Cesare Battisti 17 – Tel. 0382 530207
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Indice sommario
Indice sommario
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Il passaggio generazionale
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Pianificare la successione
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Il possibile aumento delle imposte di successione
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L’aumento delle rendite catastali
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Successione e donazione
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Famiglia e persona
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I rapporti di convivenza
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Le operazioni societarie
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La donazione
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La forma della donazione
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La riserva di usufrutto vitalizio
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Il valore dell’usufrutto
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I trasferimenti gratuiti di denaro o titoli
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I controlli fiscali
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I problemi della donazione
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La donazione indiretta
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La compravendita
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La remissione del debito
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Il patto di famiglia
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Il passaggio generazionale nell'impresa
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Contenuto e oggetto del patto di famiglia
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La forma del patto di famiglia
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I partecipanti al patto di famiglia
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Il trasferimento dell'azienda e delle partecipazioni sociali
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La liquidazione dei legittimari
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Le imposte sul patto di famiglia
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L'impugnazione del patto di famiglia
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I legittimari sopravvenuti
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Lo scioglimento del patto di famiglia
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L’eredità e il testamento
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La successione per legge
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Gli eredi legittimi
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Perché fare testamento
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La forma del testamento
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Gli eredi necessari
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Le imposte
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Imposte su eredità e donazioni
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Aliquote e franchigie
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Agevolazioni per la prima casa
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Esenzione per i titoli di Stato
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Esenzione per i veicoli
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Esenzione per le aziende e partecipazioni sociali
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Le polizze sulla vita
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Le agevolazioni per i disabili gravi
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La protezione del patrimonio
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Le esigenze di protezione
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Una tutela preventiva
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Le società con limitazione di responsabilità
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L’intestazione fiduciaria
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Il vincolo di destinazione
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La fondazione
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Il trust
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Il fondo patrimoniale
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Come funziona il fondo patrimoniale
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Lo scioglimento del fondo patrimoniale
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La protezione del patrimonio finanziario
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Le polizze assicurative
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L’assicurazione sulla vita
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Impignorabilità e insequestrabilità
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Estraneità alla successione
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Le polizze linked
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Il passaggio generazionale
Pianificare la successione
Nei prossimi anni sono attesi alcuni cambiamenti importanti nelle regole che disciplinano le imposte sulle
successioni.
Anzitutto è considerato probabile un aumento delle imposte di successione, sotto forma di riduzione delle attuali
franchigie (cioè delle soglie di esenzione) e di aumento delle aliquote.
Nel contempo entrerà in vigore anche la riforma del catasto, già avviata, che si propone di avvicinare le rendite
catastali ai reali valori di mercato degli immobili. Poiché le imposte sulla successione si applicano, per quanto
riguarda i beni immobili, ai valori catastali, il loro aumento comporterà un corrispondente incremento
dell’imposizione fiscale sulle successioni.
La combinazione di questi due elementi fa temere un consistente aumento delle imposte applicate alle
successioni, che può essere evitato grazie a un’attenta pianificazione del passaggio generazionale.
Il possibile aumento delle imposte di successione
L’imposta di successione, reintrodotta nel nostro ordinamento a partire dal 2006 (dopo che era stata abrogata nel
2001), prevede una franchigia piuttosto elevata per le successioni a favore del coniuge, dei figli o comunque dei
discendenti in linea retta del defunto. La franchigia, cioè la soglia entro la quale non si applica l’imposta di
successione, è attualmente di un milione di euro per ciascun erede. Dobbiamo inoltre considerare che nell’ambito
della successione i beni immobili sono valutati al valore catastale (cioè al valore che risulta moltiplicando la
rendita catastale per un determinato coefficiente, differente per le diverse categorie di immobili), che attualmente
rappresenta, nella maggior parte dei casi, solo una piccola frazione del valore reale degli immobili. Ciò significa che
la franchigia consente di non applicare l’imposta alla maggior parte delle successioni. La soglia di esenzione si alza
considerevolmente quando gli eredi sono più di uno. Se, per esempio, il defunto lascia il coniuge e due figli, la
soglia di esenzione arriva a tre milioni di euro.
Una franchigia di 100 mila euro è inoltre prevista per la successione a favore di ciascuno dei fratelli e delle sorelle
del defunto.
Se il valore del patrimonio ereditario supera la franchigia, l’imposta di successione si applica attualmente con le
aliquote del 4% (per il coniuge, i figli e i discendenti in linea retta), 6% (per i parenti fino al 4° grado, gli affini in
linea retta e gli affini in linea collaterale fino al 3° grado) e 8% (per tutti gli altri soggetti).
Negli altri Stati dell’Unione Europea le imposte di successione sono applicate con aliquote più alte (in media
superiori al 40%), e con franchigie più basse. Si tratta, probabilmente, dell’unico caso in cui le imposte italiane sono
notevolmente inferiori a quelle degli altri paesi europei. Per questa ragione si è ipotizzato un adeguamento delle
nostre imposte alla media europea, che si tradurrebbe inevitabilmente in un aumento delle aliquote e una
riduzione della franchigia per coniuge e figli (si parla di ridurla da un milione di euro a 100 mila euro).
L’aumento delle rendite catastali
Il procedimento per la riforma del catasto è già stato avviato, e si tratta solo di attenderne l’attuazione pratica,
che richiederà qualche anno, data la sua complessità.
L’obiettivo del legislatore è quello di avvicinare il più possibile i valori catastali (utilizzati per l’applicazione di
molte imposte, tra cui quelle sulla successione e donazione) ai valori di mercato degli immobili. Oggi i valori
catastali sono spesso notevolmente inferiori a quelli reali, e presentano comunque molte disparità da una zona
all’altra. Gli edifici di vecchia costruzione, se non sono state oggetto di modifiche dichiarate in catasto, hanno
normalmente rendite catastali molto basse, che con l’applicazione dei coefficienti determinano un valore catastale
corrispondente a un terzo, un quarto, o anche un decimo del loro valore di mercato. Differenze significative si
rilevano comunque anche sugli edifici di nuova costruzione, poiché il procedimento per l’attribuzione della rendita
catastale è ancora legato a criteri avulsi dai valori di mercato.
L’imposta di successione, per quanto riguarda gli immobili, si applica sul valore catastale (cioè al valore che
risulta moltiplicando la rendita catastale per un determinato coefficiente, differente per le diverse categorie di
immobili). L’aumento dei valori catastali comporterà pertanto un automatico incremento della tassazione, se non
sarà accompagnato da una corrispondente riduzione delle aliquote, oggi ritenuta piuttosto improbabile.
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Successione e donazione
La donazione è considerata un anticipo della futura successione, quindi le imposte applicate alla donazione sono le
stesse previste per la successione. Stesse aliquote e stesse franchigie.
Il passaggio generazionale attuato mediante una donazione fatta in vita è soggetto immediatamente all’imposta di
donazione, e non è più tassato al momento della successione. Se le regole fiscali rimanessero ferme, il costo della
successione e della donazione sarebbe dunque lo stesso.
In un momento storico in cui ci si aspetta un sostanziale incremento del carico fiscale per le successione, appare
invece conveniente anticipare il passaggio generazionale, almeno per alcuni beni, al fine di approfittare delle
norme fiscali attualmente ancora favorevoli.
Ecco perché, già da alcuni mesi, molte famiglie hanno iniziato ad attuare un passaggio generazionale anticipato, che
grazie alle attuali soglie di esenzione piuttosto elevate può spesso avvenire con un costo minimo, e comunque,
anche per i patrimoni più consistenti, che superano la soglia di esenzione, può beneficiare delle aliquote attuali.
Nel caso delle aziende e delle partecipazioni sociali, inoltre, è ancora possibile beneficare dell’esenzione totale
dalle imposte prevista, in determinati casi, per i trasferimenti a favore dei discendenti.
Un’esenzione totale può essere ottenuta, in certe situazioni, anche grazie al meccanismo della donazione indiretta,
in occasione dell’acquisto di un’immobile o di un’azienda.
La donazione indiretta può inoltre essere utilizzata per regolarizzare, anche dal punto di vista fiscale, quelle
situazioni in cui il trasferimento di beni o titoli è avvenuto senza una legittima giustificazione, e senza adottare
la forma della donazione vera e propria (che richiede l’atto pubblico notarile).
E’ quindi opportuno prendere in considerazione queste possibilità, e utilizzare lo strumento della donazione per
ottenere un legittimo risparmio di imposta, tanto più consistente quanto più è elevato il valore del patrimonio
della famiglia.
Ricordiamo anche che il meccanismo della riserva di usufrutto vitalizio consente di posticipare, di fatto, l’effetto
della donazione, e comporta anche un ulteriore risparmio fiscale.
La donazione, diretta o indiretta, può essere utilizzata per qualsiasi bene, mobile o immobile, per il denaro e per
gli investimenti finanziari. Per questi ultimi, inoltre, sono disponibili anche altri strumenti che consentono di
ridurre, se non di azzerare, il carico fiscale al momento del passaggio generazionale, soprattutto grazie all’utilizzo
di polizze assicurative sulla vita.
La consulenza del notaio, insieme ai consigli di un buon consulente finanziario, può consentire di individuare gli
obiettivi e pianificare correttamente il passaggio generazionale per i beni della famiglia e dell’impresa.
Famiglia e persona
Un aspetto importante da considerare nella pianificazione del passaggio generazionale, è che le norme di legge che
disciplinano la successione, sia sotto il profilo sostanziale sia sotto quello fiscale, considerano sempre la posizione
della singola persona, e non della famiglia nel suo complesso.
Anche se spesso siamo portati a ragionare della successione dei genitori in modo congiunto, magari attribuendo a
uno dei figli un bene di proprietà del padre, e all’altro un bene di proprietà della madre, ciò non corrisponde
all’impostazione data dalla legge al fenomeno successorio. Fino a che c’è un accordo totale tra tutti i componenti
della famiglia, tutto va bene, ma in caso di contrasti la mancata conoscenza delle regole può creare molti problemi.
Per verificare il rispetto delle quote riservate per legge agli eredi necessari non possiamo ragionare su base
famigliare, ma dobbiamo considerare i beni trasferiti da ciascun genitore ai figli, per donazione, per testamento
o per successione legittima.
Anche le norme fiscali considerano esclusivamente i trasferimenti che avvengono da ciascuno dei genitori ai figli, e
ciò può essere un vantaggio nell’ambito dell’applicazione delle franchigie. Consideriamo, per esempio, una
famiglia con due figli, con un patrimonio del valore di 4 milioni di euro in comproprietà tra i due genitori, in parti
uguali. Se i genitori intendono donare questo patrimonio ai due figli, ciascuno di essi dona un valore di un milione
di euro a ciascuno dei figli, e ciò consente di rimanere entro la franchigia prevista dalla legge per l’imposta di
successione (attualmente un milione di euro per ogni figlio).
I rapporti di convivenza
La pianificazione della successione risulta particolarmente importante nell’ambito dei rapporti di convivenza. Chi
convive, anche se da molto tempo, non ha alcun diritto sull’eredità del partner, ma può essere nominato erede, o
ricevere un lascito, nell’ambito di un testamento. Ciò può essere opportuno, soprattutto in relazione alla proprietà
della casa di abitazione principale e all’eventuale conto corrente cointestato.
Nel dettare la disciplina della convivenza, la legge ha stabilito che in caso di morte del proprietario della casa di
comune residenza, il convivente superstite ha diritto di continuare ad abitarvi per due anni, o per un periodo pari
alla convivenza se superiore a due anni, ma comunque non oltre i cinque anni (a meno che cessi di abitarvi
stabilmente, o inizi un’altra convivenza o contragga matrimonio). Se nella stessa casa coabitano figli minori o figli
disabili del convivente superstite, questo ha diritto di continuare ad abitarvi per un periodo non inferiore a tre anni. Il
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diritto di abitazione viene meno se il convivente superstite cessa di abitare stabilmente nella casa di comune
residenza, o in caso di matrimonio, di unione civile o di nuova convivenza di fatto.
Una diversa regolamentazione può essere però prevista dal testamento.
La legge dispone anche che in caso di morte del conduttore, o di recesso dal contratto di locazione della casa di
comune residenza, il convivente ha diritto di succedergli nel contratto.
Altri problemi possono sorgere se l’abitazione è cointestata ai due conviventi, soprattutto in presenza di un
mutuo. In questo caso, infatti, il rapporto di comproprietà che si instaura con gli eredi legittimi del defunto può
causare notevoli difficoltà al convivente superstite. Anche in questo caso è consigliabile la redazione di un
testamento.
Nell’ambito dei rapporti di convivenza è possibile utilizzare lo strumento della donazione, con o senza la riserva
dell’usufrutto vitalizio, per regolare in anticipo la successione, ma bisogna tenere conto che le norme fiscali
equiparano il convivente a un estraneo, che non gode di agevolazioni né di franchigie.
In alcuni casi potrebbe essere conveniente stipulare una polizza assicurativa sulla vita, indicando quale
beneficiario il convivente.
Le operazioni societarie
Quando una parte significativa del patrimonio è costituita da partecipazioni sociali, oltre che con la donazione
o il patto di famiglia, il passaggio generazionale può essere attuato o agevolato attraverso operazioni straordinarie
quali fusioni e scissioni, aumenti di capitale, modifiche statutarie, anche utilizzando le norme che consentono, per
esempio, l’attribuzione ai soci di diritti particolari relativi all’amministrazione della società o alla distribuzione
degli utili, l’assegnazione di partecipazioni non proporzionali al conferimento, l’emissione di azioni a voto
plurimo o azioni a voto limitato.
In funzione delle specifiche esigenze, possono essere utilizzati uno o più di questi strumenti.
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La donazione
La forma della donazione
La donazione è il contratto con cui una parte arricchisce l’altra trasferendogli un bene o un diritto senza
corrispettivo, per spirito di liberalità, cioè con l’intenzione altruistica di arrecargli un vantaggio. Si tratta,
insomma, di quello che nel linguaggio corrente viene chiamato un regalo.
Non basta, però, che il trasferimento avvenga senza corrispettivo, è necessaria anche l’intenzione di beneficiare il
destinatario della donazione. Ecco perché non sono considerati donazioni alcuni trasferimenti che avvengono a titolo
gratuito, cioè senza il pagamento di un prezzo, come i trasferimenti tra coniugi nell’ambito di procedimenti di
separazione personale, o le cessioni gratuite di aree al Comune in esecuzione di convenzioni edilizie o di
lottizzazione.
Il fatto che la donazione sia un regalo, cioè un trasferimento a titolo gratuito eseguito con spirito liberale, ha portato
il legislatore a prevedere alcune regole particolari.
Anzitutto la donazione richiede una forma particolare, l’atto pubblico notarile con la presenza necessaria di
due testimoni. Il particolare formalismo serve ad attirare l’attenzione di chi sta donando sull’importanza del suo
gesto, che lo priva di un bene o di un diritto senza ottenere nulla in cambio, e anche a consentire una verifica
imparziale, da parte del notaio e dei testimoni, sull’effettiva volontà del donante. Una donazione eseguita in un altro
modo non sarebbe valida. La legge, infatti, prevede questa forma a pena di nullità.
L’unica eccezione prevista dalla legge riguarda le donazioni di beni mobili di “modico valore”, che sono valide
anche in mancanza dell’atto pubblico, purché vi sia stata la consegna del bene. Sono così fatti salvi i regali che
si fanno abitualmente nei compleanni e nelle festività, ma anche in altre occasioni, purché si tratti di piccole somme
di denaro o di beni mobili di “modico valore”. Il concetto di “modico valore” è piuttosto elastico, e la
giurisprudenza ha precisato che deve essere valutato considerando le condizioni economiche del donante, quindi la
stessa somma di denaro potrebbe essere considerata di modico valore per una persona abbiente, e non esserlo per chi
si trova in una situazione di ristrettezza economica.
Attenzione, dunque, alle donazioni effettuate senza l’intervento del notaio, come a volte avviene quando si
tratta di denaro, titoli o fondi di investimento. Il trasferimento, o cambio di intestazione, eseguito con una
semplice firma fatta in banca, in realtà è invalido, e la sua nullità potrebbe essere fatta valere, oltre che dal
donante stesso, anche dai suoi eredi, che potrebbero chiedere la restituzione del denaro o dei titoli trasferiti in
questo modo, o dagli eventuali creditori. Fanno eccezione solo le donazioni di “modico valore”, che come abbiamo
visto possono essere eseguite senza particolari formalità. Ricordiamo inoltre che le donazioni eseguite senza
l’intervento del notaio potrebbero anche attirare l’attenzione del fisco, perché spesso comportano un’evasione
dell’imposta di donazione, e possono far sospettare anche altre irregolarità tributarie.
Sotto l’aspetto fiscale, infatti, le donazioni sono tassate in modo molto simile alle successioni, perché sono
considerate come un anticipo sulla futura eredità.
La riserva di usufrutto vitalizio
Quando il trasferimento della proprietà dei beni (nella forma di donazione o altra forma) viene posto in essere
nell’ambito di una strategia di passaggio generazionale, è spesso accompagnata da una clausola che prevede la
riserva del diritto di usufrutto vitalizio sui beni donati, da parte del donante.
L’oggetto della donazione risulta pertanto essere soltanto la nuda proprietà dei beni, e il donante, pur non
essendo più proprietario, mantiene il pieno controllo sulla loro gestione e il loro utilizzo. Egli, pertanto, è il solo
ad avere diritto di usare i beni, direttamente o indirettamente (quindi anche concedendoli in locazione o affitto, e
percependone i relativi canoni) per tutta la durata residua della propria vita. Il donatario entrerà in possesso dei
beni donati solo al momento della morte del donante.
Grazie alla clausola di riserva del diritto di usufrutto, il trasferimento della proprietà dei beni si verifica
immediatamente, ma l’effetto pratico è rinviato al momento della morte, con risultati molto simili alla successione.
Ciò è importante per quei beni di cui il donante intende mantenere una piena disponibilità finché è in vita, come
per esempio la propria casa di abitazione, una seconda casa utilizzata per la villeggiatura, oppure anche gli immobili
“messi a reddito” mediante contratti di locazione a terzi.
La riserva di usufrutto, però, può risultare utile per qualsiasi bene, perché sotto il profilo fiscale consente sempre di
conseguire un risparmio sulle imposte da pagare per l’operazione. L’imposta di donazione e le imposte ipotecarie
e catastali (come pure l’imposta di registro, in caso di compravendita), non vengono applicate sul valore pieno
dell’immobile, ma solo sul valore della nuda proprietà, che rappresenta una percentuale del totale, in quanto
da questo viene sottratto il valore del diritto di usufrutto vitalizio, determinato in base a una tabella che tiene conto
dell’età dell’usufruttuario e del tasso di interesse legale. La tabella, infatti, esprime il valore dell’usufrutto vitalizio e
della nuda proprietà, in un determinato momento, in funzione della probabilità statistica di vita residua
dell’usufruttuario.
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Il valore del bene viene dunque sottoposto a tassazione solo per una sua parte (una parte tanto minore quanto più
l’usufruttuario è giovane), e ciò consente di ridurre, in molti casi in modo significativo, le imposte da pagare, anche
perché è possibile che grazie a questa riduzione il valore della donazione rimanga al di sotto della soglia stabilita per
la franchigia.
Ricordiamo anche che al momento della morte dell’usufruttuario non è più dovuta alcuna imposta sui beni
trasferiti con riserva di usufrutto vitalizio, ed è sufficiente una semplice comunicazione al catasto per far risultare la
cosiddetta “riunione di usufrutto”.
Grazie alla riserva di usufrutto vitalizio, dunque, è oggi possibile trasferire un patrimonio di valore significativo
sostenendo un costo molto basso.
Il valore dell’usufrutto
USUFRUTTO VITALIZIO
(Tasso 0,2% dal 1° gennaio 2016)
Età dell'Usufruttuario
(anni compiuti)
Valore
Usufrutto
%
Valore
Nuda Proprietà
%
da 0 a 20
95
5
da 21 a 30
90
10
da 31 a 40
85
15
da 41 a 45
80
20
da 46 a 50
75
25
da 51 a 53
70
30
da 54 a 56
65
35
da 57 a 60
60
40
da 61 a 63
55
45
da 64 a 66
50
50
da 67 a 69
45
55
da 70 a 72
40
60
da 73 a 75
35
65
da 76 a 78
30
70
da 79 a 82
25
75
da 83 a 86
20
80
da 87 a 92
15
85
da 93 a 99
10
90
I trasferimenti gratuiti di denaro o titoli
I trasferimenti gratuiti di denaro o titoli sono soggetti a regole precise, sia sul piano fiscale sia su quello
sostanziale. Se sono eseguiti con l’intenzione di beneficiare il destinatario, si tratta infatti di vere e proprie
donazioni, che devono rispettare una forma precisa per consentirne la piena trasparenza sotto il profilo civilistico e
fiscale.
La donazione richiede un atto notarile alla presenza di due testimoni. Il particolare formalismo serve ad attirare
l’attenzione di chi sta donando sull’importanza del suo gesto, che lo priva di un bene o di un diritto senza ottenere
nulla in cambio, e anche a consentire una verifica imparziale, da parte del notaio e dei testimoni, sull’effettiva
volontà del donante. Una donazione eseguita in un altro modo non sarebbe valida.
Fanno eccezione solo le donazioni di beni mobili di “modico valore”, che sono valide anche in mancanza dell’atto
pubblico, purché vi sia stata la consegna del bene. Sono così fatti salvi i regali che si fanno abitualmente nei
compleanni e nelle festività, purché si tratti di piccole somme di denaro o di beni mobili di valore limitato. Il
concetto di “modico valore” è piuttosto elastico, e la giurisprudenza ha precisato che deve essere valutato
considerando le condizioni economiche del donante, quindi la stessa somma di denaro potrebbe essere
considerata di modico valore per una persona abbiente, e non esserlo per chi si trova in una situazione di ristrettezza
economica.
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Attenzione, dunque, ai trasferimenti gratuiti effettuati senza l’intervento del notaio, con un semplice bonifico
bancario o una modifica nell’intestazione del conto titoli o di fondi di investimento. Questo trasferimento, o
cambio di intestazione, eseguito con una firma fatta in banca, in realtà non è valido se eseguito con l’intento di
beneficiare il destinatario, e la sua nullità potrebbe essere fatta valere, oltre che dal donante stesso, anche dai suoi
eredi, che potrebbero chiedere la restituzione del denaro o dei titoli trasferiti in questo modo, o dagli eventuali
creditori.
Inoltre, le donazioni eseguite senza l’intervento del notaio attireranno anche l’attenzione del fisco, perché
possono nascondere un tentativo di evasione dell’imposta di donazione.
I controlli fiscali
Le nuove norme che prevedono la comunicazione all’agenzia delle entrate, da parte delle banche e degli
intermediari finanziari, di tutti i movimenti dei conti correnti, rendono più facili i controlli da parte del fisco, e
portano a sconsigliare tutte quelle operazioni che risultano prive di una valida giustificazione sotto il profilo
giuridico.
Anche all’interno della famiglia, i trasferimenti di denaro, o di qualsiasi forma di investimento finanziario, devono
avere una motivazione, che sia essa l’intento beneficiare il destinatario (spirito di liberalità), il pagamento di un
corrispettivo o anche un semplice prestito. In ogni caso, dunque, occorre rispettare le modalità previste dalla legge,
sia sotto il profilo sostanziale sia per quanto riguarda i risvolti fiscali, per evitare sanzioni che possono risultare
molto pesanti.
I problemi della donazione
La donazione è lo strumento previsto dalla legge per trasferire beni o diritti a titolo gratuito, con l’intento di
beneficiare il destinatario, e può godere di un regime fiscale agevolato, soprattutto se si tratta di una donazione tra
genitori e figli, o comunque discendenti in linea retta. Dobbiamo però fare attenzione a come viene utilizzata, perché
potrebbe avere anche conseguenze spiacevoli, soprattutto quando si tratta di beni immobili.
La donazione non comporta un acquisto definitivo della proprietà. Proprio perché si tratta di un regalo, il
legislatore considera la donazione come qualcosa di provvisorio, che può essere rimesso in discussione fino alla
morte del donante, e anche oltre, nell’ambito della successione. In particolare, per quanto riguarda i beni immobili,
la donazione è molto diversa dalla vendita, nella quale il pagamento del prezzo rende il trasferimento definitivo e
inoppugnabile, fatti salvi alcuni casi particolari.
La donazione, anzitutto, può essere revocata dal donante per ingratitudine, oppure in caso di sopravvenienza di
figli.
La prima ipotesi è piuttosto rara, dato che è ammessa solo quando il donatario si è reso colpevole, verso il donante,
di calunnia, di ingiuria grave o di un grave danno al suo patrimonio, gli ha rifiutato gli alimenti o addirittura ha
ucciso o tentato di uccidere il donante oppure un suo ascendente o discendente.
L’ipotesi della sopravvenienza di figli è invece più concreta, perché per sopravvenienza non si intende solo la
nascita di altri figli del donante, ma anche la presenza di figli concepiti prima della donazione, di cui il donante non
era a conoscenza, e riconosciuti nei due anni successivi. Grazie al progresso tecnico e scientifico, l’accertamento
della paternità è oggi molto più facile, dunque la sopravvenienza di figli è una possibilità di cui non si può fare a
meno di tenere conto. Inoltre, la Corte Costituzionale ha stabilito che la revocazione della donazione deve essere
consentita anche in caso di sopravvenienza di un figlio naturale, senza limiti di tempo (sentenza n. 250 del 3 luglio
2000).
Ma soprattutto la donazione, proprio per l’assenza di un corrispettivo, può essere rimessa in discussione
nell’ambito della futura successione. Gli eredi che dovessero risultare danneggiati dalla generosità del defunto
potranno impugnare la donazione entro dieci anni dalla morte. Il nostro ordinamento giuridico, infatti, prevede
che in seguito alla morte di una persona, al coniuge e ai figli del defunto sia in ogni caso riservata una certa quota
del suo patrimonio, indipendentemente dalla sua volontà e anche contro la sua volontà. In mancanza di figli, una
quota è riservata anche ai genitori del defunto, se sono ancora in vita. Esistono dunque alcuni soggetti, chiamati
legittimari o eredi necessari, a cui la legge vuole che vada almeno una parte dell’eredità. Per questo motivo, in
presenza di eredi necessari, molti ritengono superfluo fare testamento, quando non hanno esigenze particolari da
soddisfare.
Ma cosa succede se il defunto si è spogliato in tutto o in parte dei suoi beni prima della morte? Se ciò è avvenuto
con la vendita dei beni, la legge non se ne preoccupa, perché nel patrimonio del defunto sono usciti dei beni ma è
entrato del denaro, che teoricamente dovrebbe essere stato impiegato nell’acquisto di qualcos’altro, oppure essere
ancora presente al momento della successione. Resta salva, naturalmente, la possibilità di dimostrare che la vendita
dissimulava una donazione, perché il prezzo non era stato pagato.
Se invece il defunto ha disposto in vita dei propri beni mediante donazione, la legge predispone alcuni strumenti di
tutela per gli eredi necessari, che esercitando l’azione di riduzione possono riacquistare la proprietà dei beni
donati dal defunto, anche quando nel frattempo questi sono stati ulteriormente venduti a un terzo.
Chi riceve la donazione può accettare questo rischio, ma il problema sorge quando il donatario vuole rivendere
l'immobile ricevuto in donazione, oppure chiedere un mutuo garantito da ipoteca. La legge, infatti, prevede che
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anche i successivi acquirenti siano pregiudicati dall'eventuale riduzione della donazione, e naturalmente chi
paga per acquistare un immobile non è disposto a correre rischi. Lo stesso vale per la banca che concede il mutuo,
perché in seguito all'esercizio dell'azione di riduzione gli immobili sono restituiti liberi da ipoteche. L'immobile che
è stato oggetto di donazione potrebbe dunque rimanere "bloccato" fino a dieci anni dopo la morte del donante.
Dopo la morte del donante gli eredi possono rinunciare all'azione di riduzione, quindi se sono tutti d'accordo il
problema è risolto. Fino a che il donante è in vita, invece, la legge non ammette questa rinuncia. Se anche gli
eredi dovessero sottoscrivere una dichiarazione in tal senso sarebbe considerata nulla, e quindi priva di valore.
Una soluzione spesso utilizzata nella pratica è quella di risolvere la donazione, ritrasferendo l'immobile al donante
che potrebbe poi venderlo o ipotecarlo. L’Agenzia delle entrate ha riconosciuto che alla risoluzione delle donazione,
quando avviene senza corrispettivo, si applicano le imposte di registro, ipotecarie e catastali nella misura fissa di
200 euro ciascuna, anziché in misura proporzionale, come avveniva in precedenza (risoluzione n. 20/E del 14
febbraio 2014). Ciò rende sicuramente più agevole questa soluzione. Se invece per la risoluzione dell’atto di
donazione fosse previsto il pagamento di un corrispettivo, si applicherebbe l’imposta di registro proporzionale (art.
28, secondo comma, del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131).
Recentemente sono state introdotte sul mercato alcune polizze assicurative che garantiscono il terzo acquirente (e la
banca che gli concede il mutuo) contro il rischio dell’esercizio dell’azione di restituzione da parte di un legittimario.
L’assicurazione, infatti, tiene indenne il beneficiario, l'acquirente o la banca mutuante dal danno economico che
subirebbe a seguito di esito favorevole dell'azione di restituzione da parte di terzi legittimari che abbiano acquisito
un diritto sull'immobile. L’assicurazione può essere stipulata indifferentemente dal donante, dal donatario, dal
terzo acquirente o dalla banca mutuante, in qualsiasi momento, e ha durata fino alla prescrizione dell’azione di
restituzione. Questa formula consente di superare molti dei problemi legati alla rivendita di beni che sono stati
oggetto di donazione.
Da tempo si parla di modificare la legge, anche perché in tutti gli altri Stati europei il problema è già stato risolto, in
un modo o nell'altro. Recentemente il legislatore ha fatto un passo avanti (art. 2 del decreto legge 14 marzo 2005, n.
35, convertito con modificazioni dalla legge 14 maggio 2005, n. 80), e in linea di principio si tratta di una scelta
epocale, che ha fatto molto discutere. Sul piano pratico, però, le nuove regole non risolvono molti problemi.
La legge infatti ha introdotto soltanto un limite di vent'anni dalla donazione, trascorso il quale sono
definitivamente fatti salvi i diritti dei terzi acquirenti dei beni oggetto di donazione, e restano ferme le
ipoteche iscritte sugli stessi (art. 563 del codice civile). Rimane dunque la possibilità di impugnare la donazione, e
rimane il divieto dei patti successori, che vietano la rinuncia preventiva all'impugnazione, ma i terzi che acquistano
l'immobile o iscrivono l'ipoteca possono stare tranquilli quando sono passati vent'anni dalla donazione.
Dopo vent'anni, infatti, gli eredi legittimi possono rivolgersi solo a chi aveva ricevuto la donazione, che deve a
risarcirli in denaro. Vent'anni, però, sono tanti, e i problemi si presentano di solito con donazioni molto più recenti.
I vent'anni, inoltre, possono essere prorogati con un atto di opposizione alla donazione da parte del coniuge o dei
parenti in linea retta del donante, che in questo modo si riservano di agire contro tutti i successivi acquirenti dei beni
donati anche dopo il ventennio. Questo atto di opposizione deve essere notificato al donante e trascritto nei registri
immobiliari, e deve essere rinnovato ogni vent'anni. Gli aventi diritto possono rinunciare all'opposizione, ma
attenzione, perché questa rinuncia impedisce di prolungare il termine oltre i vent'anni, ma non può mai consentire di
ridurlo al di sotto di tale durata minima.
La donazione indiretta
Le donazioni indirette sono gli atti che producono gli effetti economici propri della donazione, pur non essendo
donazioni sotto l'aspetto tecnico giuridico. Per esempio, sono donazioni indirette (se fatte con spirito di liberalità) il
pagamento del debito altrui, il contratto a favore di terzo, l’accollo del debito altrui, la remissione del debito e la
vendita a prezzo irrisorio. Con questi atti si raggiunge il risultato di arricchire una persona senza stipulare un
vero e proprio atto di donazione. Non si applicano, dunque, le norme che regolano la forma della donazione (che
richiedono la stipula per atto pubblico alla presenza dei testimoni). Si applicano però alcune norme sostanziali, e in
particolare quelle sulla revocazione per ingratitudine o sopravvenienza di figli e sulla riduzione per lesione della
legittima.
L’esempio più frequente di donazione indiretta è sicuramente l’acquisto di un immobile a favore del figlio
utilizzando denaro dei genitori. Secondo la giurisprudenza l’intestazione in nome del figlio di un bene immobile
acquistato dai genitori configura una donazione indiretta dell’immobile, sia nel caso di acquisto da parte del figlio
con il denaro appositamente fornito dai genitori, sia nel caso di pagamento contestuale da parte dei genitori, sia nel
caso di conclusione del contratto da parte dei genitori a favore del figlio. In questo caso, avviene spesso che il figlio
non abbia un reddito sufficiente a giustificare l’investimento effettuato, quindi è meglio far risultare
espressamente, di fronte al fisco, che i soldi vengono dai genitori. Menzionare la provenienza del denaro può essere
opportuno anche sotto il profilo successorio, per evitare di creare tra i figli disparità non desiderate (a meno che
il beneficiario non sia figlio unico).
Legge prevede che le donazioni indirette siano tassate allo stesso modo delle donazioni vere e proprie (art. 56bis del d.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346). Fornire il denaro necessario all'acquisto di un bene equivale dunque a donare
la stessa somma di denaro. C'è però un'eccezione importante. E' tornata infatti applicabile anche la norma che
prevede l'esenzione dall'imposta di donazione per le liberalità collegate al trasferimento di immobili o aziende
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(o costituzione di diritti reali sugli stessi beni), quando all'atto si applica l'imposta di registro proporzionale oppure
l'Iva.
Questa esenzione è particolarmente importante perché ci consente di far risultare espressamente negli atti
pubblici la provenienza dai genitori (o da altri soggetti) del denaro impiegato per l’acquisto di beni da parte
dei figli, senza dover sopportare costi aggiuntivi. Come abbiamo visto, ciò risulta opportuno sia sotto il profilo
successorio, quando l’acquirente non è figlio unico (perché viene fatto risultare chiaramente che il figlio beneficiato
dovrà imputare il bene acquistato alla propria quota ereditaria), sia sotto il profilo delle imposte dirette, quando il
figlio, come spesso avviene, non è dotato di redditi propri sufficienti a giustificare l’investimento effettuato. Per fare
risultare la donazione indiretta è sufficiente che nell’atto di acquisto l’acquirente dichiari che il pagamento del
corrispettivo è avvenuto a cura di un altro soggetto, senza bisogno che questo intervenga all'atto notarile.
Ricordiamo però che, secondo la giurisprudenza, se il figlio dichiara nell’atto di acquisto che il prezzo è stato pagato
dai genitori, l’oggetto della donazione indiretta non è il denaro ma l’immobile acquistato. Dunque l’immobile
non può considerarsi definitivamente entrato a far parte del patrimonio del figlio, perché l’eventuale revocazione
della donazione indiretta avrebbe come oggetto l’immobile e non il denaro, e lo stesso avverrebbe in caso di
riduzione della donazione indiretta per lesione della legittima: l’azione di restituzione avrebbe per oggetto
l’immobile e non la somma di denaro impiegata per l’acquisto. Sotto questo aspetto potrebbe allora essere
preferibile stipulare separatamente una donazione diretta del denaro, cui faccia seguito l’acquisto dell’immobile
da parte del figlio.
La Corte di Cassazione ha però chiarito un aspetto molto importante: le eventuali azioni di riduzione o di
restituzione avanzate dagli eredi legittimi nei confronti del beneficiario della donazione non possono mai
coinvolgere i successivi acquirenti dell’immobile oggetto di donazione indiretta (sentenza n°11496 del 12 maggio
2010). Ciò significa che quando i beni oggetto di donazione indiretta saranno rivenduti, i terzi acquirenti non
potranno essere coinvolti nelle eventuali richieste avanzate dagli eredi legittimi del donante, i quali potranno
rivolgersi esclusivamente a chi aveva beneficiato originariamente della donazione indiretta, a differenza di quanto
accade per le donazioni dirette che hanno per oggetto l'immobile. Ma significa anche che la banca che concede un
mutuo con iscrizione di ipoteca sul bene immobile oggetto di donazione indiretta non deve temere in alcun
modo l'esercizio dell'azione di riduzione o di restituzione, e quindi può concedere tranquillamente il
finanziamento senza correre alcun rischio.
La pronuncia della Corte di Cassazione fornisce un'interpretazione coerente e di buon senso. Infatti, le donazioni
indirette non risultano necessariamente dall'atto notarile, e quindi può essere difficile, se non impossibile,
verificarne la presenza. Come abbiamo visto, è consigliabile per varie ragioni far risultare dall'atto di acquisto che il
prezzo della compravendita è stato pagato da un altro soggetto, ma anche se ciò non avviene ci troviamo comunque
in presenza di una donazione indiretta, che i terzi non hanno la possibilità di rilevare, a differenza di quanto avviene
per le donazioni dirette degli immobili. Non sarebbe giusto, quindi, che il terzo acquirente possa essere danneggiato
da un fatto che avrebbe anche potuto ignorare, pur comportandosi con la massima prudenza e diligenza.
Un ultimo aspetto da considerare riguarda l’applicazione dell’eventuale regime di comunione legale. Quando il
figlio è sposato, e si trova in regime di comunione dei beni, ogni bene da lui acquistato diviene di proprietà comune.
La legge prevede espressamente alcune eccezioni, tra cui i beni ricevuti per donazione, che sono considerati beni
personali e restano di proprietà esclusiva. Se il genitori donano al figlio un immobile, questo resta sempre un bene
personale. Ma se il figlio lo acquista con il denaro dei genitori cosa succede? La Corte di Cassazione ha stabilito che
l’immobile oggetto di donazione, anche se indiretta, non rientra nella comunione legale, e rimane di proprietà
personale ed esclusiva dell’acquirente (sentenza n.15778 del 14 dicembre 2000). Ciò corrisponde, di solito, alla
volontà dei genitori, che intendono beneficiare il proprio figlio. Rimane comunque la possibilità di intestare
l’immobile a entrambi i coniugi, facendoli intervenire entrambi all’atto di acquisto.
La compravendita
Il passaggio generazionale può avvenire anche con un atto a titolo oneroso, che prevede il pagamento di un
corrispettivo da parte dell’acquirente. E’ un’ipotesi piuttosto rara, dato che di solito nei trasferimenti di beni
all’interno della famiglia non è previsto il pagamento di un prezzo, tuttavia la compravendita ha il vantaggio di non
comportare problemi per la successiva commercializzazione dell’immobile, a differenza della donazione.
Nella compravendita, comunque, è possibile pattuire un pagamento dilazionato del prezzo, anche in forma rateale,
e ove ciò avvenga nell’ambito della famiglia non si pone, di solito, il problema di fornire una garanzia, come
avverrebbe invece in un rapporto tra estranei.
La remissione del debito
La dichiarazione del creditore di rimettere il debito estingue l'obbligazione quando è comunicata al debitore,
salvo che questi dichiari in un congruo termine di non volerne approfittare (art. 1236 del codice civile).
Se la remissione del debito è eseguita, come avviene di solito, con l’intenzione di beneficiare il debitore, essa
rappresenta un’ipotesi di donazione indiretta. Si tratta infatti di un atto che, pur non avendo la forma della
donazione, ha il risultato di beneficiare il destinatario.
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Il credito può essere sorto per qualsiasi motivo, per esempio un prestito fatto precedentemente, oppure il
corrispettivo di una compravendita.
Ricordiamo che la remissione del debito è soggetta, per espressa disposizione legislativa, all’imposta di registro con
l’aliquota dello 0,50% (art. 6 della tariffa, parte prima, allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131).
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Il patto di famiglia
Il passaggio generazionale nell'impresa
Assicurare la continuità della gestione nel passaggio da una generazione all'altra è un'esigenza molto sentita
dalle imprese italiane. In un'economia caratterizzata dalla presenza di molte aziende di famiglia, il passaggio
generazionale è spesso vissuto con difficoltà, e in alcuni casi le liti insorte tra gli eredi sono causa di una vera e
propria crisi dell'impresa.
Le norme dettate dal codice civile sulla successione e la donazione sono sempre state un ostacolo per l'imprenditore
che volesse pianificare in anticipo il trasferimento dell'azienda ai soggetti più adatti a garantirne la
continuità. La legge sul patto di famiglia si propone di risolvere questo problema, pur tutelando anche le ragioni
degli altri familiari e le loro aspettative sulla successione.
Con la legge 14 febbraio 2006, n. 55, in vigore dal 16 marzo 2006, sono stati introdotti nel codice civile gli articoli
da 768-bis a 768-octies, che regolano il patto di famiglia, ed è stato modificato l'art. 458, in materia di patti
successori.
In seguito la legge ha previsto anche un'esenzione fiscale per i trasferimenti nell'ambito del patto di famiglia
(legge 27 dicembre 2006, n. 296).
Il patto di famiglia è un contratto con il quale l'imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l'azienda, e il
titolare di partecipazioni societarie le trasferisce, in tutto o in parte, a uno o più discendenti, con il consenso
del coniuge e di tutti quelli che sarebbero legittimari (eredi necessari) se la successione si aprisse in quel
momento. Chi riceve l'azienda o le partecipazioni societarie deve liquidare gli altri legittimari pagando loro una
somma corrispondente alla quota di eredità che gli spetterebbe, a meno che questi vi rinunzino in tutto o in parte.
Il trasferimento dell'azienda o delle partecipazioni societarie ha effetto immediato e definitivo, quindi non può più
essere messo in discussione neanche dopo la morte del disponente, salvo alcune eccezioni espressamente
indicate dalla legge. L'azienda o le partecipazioni societarie oggetto del patto di famiglia non rientrano nella
successione al momento della morte del disponente, e non è ammessa l'azione di riduzione nei confronti del
trasferimento, che pertanto deve intendersi come definitivo.
Prima della legge sul patto di famiglia un accordo del genere sarebbe stato impossibile, perché considerato
espressamente nullo dalla legge. Il patto di famiglia rappresenta dunque un'importante eccezione al divieto dei patti
successori tradizionalmente previsto dalla nostra legislazione (art. 458 del codice civile).
I patti successori sono tassativamente vietati dalla legge italiana, a differenza di quanto avviene negli altri Stati
europei. Per patto successorio si intende qualsiasi tipo di accordo con cui qualcuno dispone della propria
successione, oppure dispone dei diritti che gli possono spettare su una successione non ancora aperta, o vi
rinuncia. Non è possibile, dunque, stipulare un contratto per regolare una successione prima della morte
dell'interessato. Il divieto dei patti successori non è stato abrogato, ma il patto di famiglia rappresenta ora
un'importante eccezione, che riconosce l'autonomia contrattuale delle parti almeno in presenza di un'azienda o di
partecipazioni societarie.
Essendo rimasta in vigore la norma che vieta i patti successori, dobbiamo muoverci con cautela nell'applicazione
pratica del patto di famiglia, perché se ne superiamo i confini ricadiamo inevitabilmente in un patto successorio
nullo. Un'applicazione disinvolta del nuovo istituto, dunque, può facilmente portare alla nullità degli accordi presi.
Contenuto e oggetto del patto di famiglia
Il patto di famiglia è un contratto con il quale l'imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l'azienda, e il
titolare di partecipazioni societarie le trasferisce, in tutto o in parte, a uno o più discendenti, con il consenso
del coniuge e di tutti quelli che sarebbero legittimari (eredi necessari) se la successione si aprisse in quel
momento (art. 768-bis del codice civile).
Oggetto del patto di famiglia può dunque essere un'azienda, di qualsiasi genere (commerciale, industriale,
artigianale ma anche agricola), oppure partecipazioni in una società di qualsiasi tipo, che vengono trasferite in
tutto o in parte ai discendenti del titolare.
Nelle norme che disciplinano il patto di famiglia, il legislatore usa la parola "imprenditore" per indicare il soggetto
che dispone dell'azienda o delle partecipazioni societarie trasferendole ai discendenti. Il termine, in realtà, è
tecnicamente esatto solo nel caso dell'azienda gestita dal proprietario nella forma di impresa individuale, mentre
risulta usato in senso atecnico se riferito al titolare delle partecipazioni societarie. Il legislatore, parlando di
imprenditore, intende senz’altro riferirsi anche a chi gestisce l'impresa in forma societaria, da solo o con altri
soci. Rimane però dubbia la possibilità di utilizzare il patto di famiglia per trasferire una partecipazione
sociale di minoranza che non consente in alcun modo di incidere sulla gestione della società, ma rappresenta solo
una forma di investimento finanziario. Sarebbe sicuramente contrario alla legge, per esempio, un patto di famiglia
con il quale viene trasferita una piccola percentuale di partecipazioni in una società quotata, acquistata dal
disponente solo a titolo di investimento. In tal caso, infatti, il disponente non potrebbe certo essere definito,
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neppure impropriamente, come imprenditore. Nelle piccole e medie imprese il patto di famiglia non si ritiene
applicabile a una quota di partecipazione che non può essere considerata "di maggioranza" o quantomeno "di
riferimento". E' stato fatto notare, però, che evitare la polverizzazione di una quota, anche modesta, della società
potrebbe essere vantaggioso per il futuro dell'impresa. Si ritiene inoltre che non possa essere oggetto di un patto di
famiglia la partecipazione in una società considerata di comodo, che come tale non esercita un’attività di
impresa. Infine, una società creata appositamente poco prima del patto di famiglia porterebbe probabilmente
all’applicazione della normativa sull’abuso del diritto.
Per quanto riguarda il tipo di società le cui partecipazioni possono essere oggetto del patto di famiglia, sicuramente
può trattarsi di una società di persone (società semplice, società in nome collettivo o società in accomandita
semplice), di una società a responsabilità limitata oppure di una società per azioni (o in accomandita per azioni).
L'uso del termine "quote" da parte del legislatore deve intendersi come un'imprecisione di linguaggio, dato che non
ci sarebbe alcuna ragione di escludere dal patto di famiglia le azioni di s.p.a.. Si ritiene invece che non possa essere
oggetto di patto di famiglia la quota del socio accomandante di s.a.s., che non può incidere sulla gestione della
società. Non può essere oggetto di patto di famiglia il diritto di usufrutto su una partecipazione sociale, dato che
l’usufruttuario, secondo l’opinione largamente prevalente, non è considerato socio.
In ogni caso il trasferimento delle partecipazioni societarie, anche nell'ambito del patto di famiglia, deve avvenire
nel rispetto delle modalità e dei limiti previsti dalla legge, dai patti sociali o dallo statuto per le differenti
tipologie di società. Nelle società di persone, dunque, è normalmente necessario l'intervento di tutti i soci, che
devono prestare il consenso al trasferimento della quota sociale. Nelle società di capitali, invece, potrà essere
necessaria la preventiva rinuncia al diritto di prelazione da parte degli altri soci, oppure il gradimento degli stessi o
di un organo sociale, ove previsto dallo statuto vigente. Se l'azienda trasferita è gestita nella forma di impresa
familiare, sono fatti salvi i diritti dei familiari partecipanti all'impresa relativamente agli utili e agli
incrementi dell'azienda (art. 230-bis del codice civile), che devono essere liquidati direttamente dall'imprenditore e
non vanno confusi con la liquidazione a essi eventualmente spettante nell'ambito del patto di famiglia, se essi sono
anche legittimari. Non opera, invece, il diritto di prelazione previsto a favore dei familiari partecipanti all'impresa,
trattandosi di trasferimento a titolo gratuito, se non di una vera e propria donazione.
Per espressa previsione legislativa, il trasferimento dell'azienda o delle partecipazioni societarie può essere anche
parziale, e ciò sembra consentire al disponente di attuare un trasferimento progressivo e dilazionato nel tempo.
Nell'azienda il trasferimento parziale può riguardare un ramo di azienda oppure una quota di comproprietà. In
questo caso dovrebbe essere costituita una società tra il disponente e i discendenti beneficiari dell'assegnazione, a
meno che si voglia ipotizzare un contestuale affitto di una quota dell'azienda, che continuerebbe così a essere gestita
in forma individuale, dallo stesso disponente o dal discendente assegnatario. Nel caso delle partecipazioni societarie,
invece, il loro trasferimento parziale non crea problemi, e anzi può essere opportuno al fine di realizzare un
graduale passaggio generazionale dell'impresa, ma dobbiamo fare attenzione ad applicare il patto di famiglia a
una quota di partecipazione che non possa essere considerata "di maggioranza" o "di riferimento".
L'aver ammesso, come oggetto del patto di famiglia, solo l'azienda e le partecipazioni societarie rappresenta
naturalmente una grossa limitazione alla possibilità di raggiungere un accordo anticipato su una futura
successione. Nell'ambito del dibattito che ha preceduto e accompagnato l'approvazione della nuova legge, era stata
prospettata anche la possibilità di estendere il patto di famiglia ai beni immobili o ad altri beni compresi nel
patrimonio del defunto, ma il legislatore ha intenzionalmente voluto privilegiare le esigenze di continuità
dell'impresa, mantenendo invece l'assoluta rigidità del sistema per tutte le altre ipotesi. Niente da fare, dunque,
per chi non ha nel proprio patrimonio aziende o partecipazioni societarie, e anche per gli imprenditori non c'è
comunque la possibilità di trasferire con il patto di famiglia beni di altro genere (mobili o immobili) eventualmente
compresi nel proprio patrimonio. Per i beni che rimangono nel patrimonio del disponente, dunque, si aprirà a suo
tempo la successione secondo le regole ordinarie.
La forma del patto di famiglia
Per espressa disposizione di legge, il patto di famiglia deve essere stipulato nella forma di atto pubblico (art. 768ter del codice civile). L'intervento del notaio, dunque, è sempre necessario, anzitutto per la natura dei beni oggetto
del patto (azienda o partecipazioni societarie), il cui trasferimento richiede un controllo imparziale a garanzia dei
terzi, ma soprattutto perché occorre verificare che ciascuno dei partecipanti sia pienamente consapevole delle
conseguenze del contratto che sta firmando. Proprio per questo il legislatore non ha ritenuto sufficiente neppure la
scrittura privata autenticata dal notaio, abitualmente utilizzata per il trasferimento delle aziende e delle
partecipazioni societarie, ma ha richiesto la forma più solenne dell'atto pubblico.
La legge non prevede la presenza di due testimoni, che però è sicuramente opportuna e probabilmente sarà sempre
richiesta dal notaio, considerata la natura essenzialmente donativa del trasferimento dell'azienda o delle
partecipazioni societarie.
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I partecipanti al patto di famiglia
Al patto di famiglia devono partecipare, ovviamente, il disponente e i discendenti ai quali viene trasferita
l'azienda o le partecipazioni societarie.
La legge, inoltre, prevede espressamente la necessità che vi prendano parte il coniuge del disponente e tutti quelli
che sarebbero legittimari se nel momento della stipula del patto di famiglia si aprisse la sua successione (art. 768quater, primo comma, del codice civile). Ciò significa che il patto di famiglia può essere stipulato solo se il
disponente raggiunge un accordo con tutti i legittimari circa il trasferimento dell'azienda (o delle partecipazioni
societarie) e la liquidazione delle altre quote, in denaro o in natura.
In mancanza di accordo unanime, il patto di famiglia non può essere stipulato, quindi questo strumento non
può mai essere utilizzato per privare i legittimari dei diritti riconosciuti dalla legge, senza il loro consenso. Il patto di
famiglia, d'altronde, non è certo inteso come un mezzo per "diseredare" i legittimari, neppure parzialmente.
La deroga al divieto dei patti successori introdotta nel nostro ordinamento deve intendersi come uno strumento
eccezionale, che può essere utilizzato solo con l'accordo di tutti gli interessati. Un patto di famiglia stipulato
senza la partecipazione di tutti i legittimari sarebbe irrimediabilmente nullo e improduttivo di qualsiasi effetto.
L'ipotesi, avanzata da alcuni interpreti, di "convocare" i legittimari per la stipula del patto e poi procedere anche in
assenza di alcuni di loro appare del tutto fantasiosa e priva di qualsiasi riscontro nella legge. Anche in questo caso il
patto sarebbe nullo.
Normalmente i partecipanti al patto di famiglia saranno il disponente, il coniuge e i figli. Si può anche ipotizzare che
in alcuni casi il disponente intenda trasferire l'azienda o le partecipazioni societarie direttamente a un nipote (figlio
del figlio), saltando così una generazione, naturalmente con l'accordo dei figli. La legge non prevede la
partecipazione al patto di famiglia dei genitori (o ascendenti) del disponente, dato che questi sono legittimari solo in
assenza di discendenti, e la presenza di discendenti è sempre essenziale per la stipula del patto di famiglia.
Il trasferimento dell'azienda e delle partecipazioni sociali
Il trasferimento dell'azienda o delle partecipazioni societarie rappresenta il cuore del patto di famiglia. Il motivo per
cui si stipula il patto, infatti, è proprio quello di consentire al disponente di individuare con certezza tra i propri
discendenti il soggetto o i soggetti chiamati a garantire la continuità dell'impresa.
Con il patto di famiglia, però, non ci si limita a designare l'erede o gli eredi dell'azienda o delle partecipazioni
societarie, ma si opera un trasferimento immediato della proprietà a loro favore. A differenza del testamento,
infatti, il patto di famiglia è efficace subito, e non dopo la morte del disponente.
L'idea del legislatore è che l'imprenditore, stipulando un patto di famiglia, abbia intenzione di farsi da parte subito.
Come abbiamo visto, però, è ammessa anche la possibilità di un trasferimento parziale dell'azienda o delle
partecipazioni societarie, che può essere utile per consentire un graduale passaggio delle consegne. Inoltre, il
trasferimento può avere per oggetto la sola nuda proprietà dell'azienda o delle partecipazioni societarie, con riserva
dell'usufrutto in capo al disponente. La riserva di usufrutto può essere importante perché consente al disponente di
mantenere ancora nelle proprie mani il controllo sull'amministrazione dell'azienda o della società.
Il trasferimento, per espressa disposizione di legge, può avvenire solo a favore dei discendenti del disponente,
quindi i figli o i nipoti (figli dei figli). E' esclusa, quindi, la possibilità di stipulare un patto di famiglia a favore del
coniuge o dei fratelli del disponente, oppure di altri parenti. Il legislatore ha inteso il patto famiglia come uno
strumento per il trasferimento dell'azienda o delle partecipazioni societarie ai discendenti in linea retta.
Non è necessario, però, che tutti i discendenti siano destinatari del trasferimento. E' probabile, anzi, che il patto di
famiglia sia utilizzato soprattutto per trasferire l'azienda o le partecipazioni societarie a un solo figlio, o solo
ad alcuni dei figli, mentre gli altri intendono dedicarsi ad attività diverse, e sono quindi disposti ad accettare una
liquidazione in denaro o con altri beni.
L'importanza del patto di famiglia sta proprio nel consentire un trasferimento immediato e definitivo, che non
può più essere messo in discussione dai futuri eredi del disponente. In questo modo si possono assicurare le
condizioni migliori per lo sviluppo dell'impresa. Al momento della morte del disponente, l'azienda o le
partecipazioni societarie che sono state oggetto del patto di famiglia restano fuori dalla successione, che si aprirà
solo sugli altri beni rimasti nel patrimonio del defunto. La legge, infatti, prevede espressamente che quanto ricevuto
dai contraenti del patto di famiglia non è soggetto a riduzione né a collazione (art. 768-quater, quarto comma, del
codice civile). L'azione di riduzione, come abbiamo visto, consentirebbe di impugnare le donazioni lesive dei diritti
dei legittimari, ma nel caso del patto di famiglia non può essere esercitata. La collazione imporrebbe ai discendenti e
al coniuge del defunto di conferire nella massa ereditaria quanto ricevuto in donazione dal defunto, ma anche questa
non si applica a quanto ricevuto nell'ambito del patto di famiglia. Il trasferimento dell'azienda o delle
partecipazioni societarie è dunque definitivo.
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La liquidazione dei legittimari
Chi riceve l'azienda o le partecipazioni societarie deve liquidare gli altri legittimari pagando loro una somma
corrispondente alla quota di eredità che gli spetterebbe sull'azienda o sulle partecipazioni societarie, a meno
che questi vi rinunzino in tutto o in parte (art. 768-quater, secondo comma, del codice civile).
Questa liquidazione avviene a titolo gratuito, cioè senza corrispettivo. Naturalmente l'assegnatario dell'azienda o
delle partecipazioni societarie non ha intenzione di beneficiare i legittimari, ma adempie a un preciso obbligo
assunto nei confronti del disponente in conformità alla legge. La liquidazione viene dunque assimilata a un onere
apposto dal disponente alla donazione dell'azienda o delle partecipazioni societarie, e come tale può essere
considerata una donazione indiretta effettuata dal disponente al legittimario.
La liquidazione dei legittimari avviene in base al valore dell'azienda o delle partecipazioni societarie al
momento della stipula del patto di famiglia, determinato di comune accordo dai partecipanti, che rimane così
definitivamente fissato. La legge non prevede regole particolari per la determinazione di tale valore, che pertanto
può essere liberamente individuato dalle parti. L'espressa previsione di una possibilità di rinunciare in tutto o in
parte alla liquidazione conferma l'assoluta libertà dei partecipanti nel fissare il valore su cui essa si basa. Per evitare,
però, la possibilità che il patto di famiglia sia impugnato da parte di chi non conosceva il reale valore dell'azienda o
delle partecipazioni societarie, potrebbe essere opportuno far redigere una perizia di stima.
La liquidazione può avvenire in denaro oppure, in tutto o in parte, anche in natura, cioè con il trasferimento di
beni di qualsiasi genere. In questo caso i beni assegnati ai legittimari che partecipano al patto di famiglia sono
imputati alle loro quote di legittima secondo il valore che viene ad essi attribuito nel contratto.
Il trasferimento dei beni ai legittimari può avvenire anche con un contratto successivo, che sia espressamente
dichiarato collegato al primo, con l'intervento degli stessi soggetti o di quelli che li hanno sostituiti. E' quindi
possibile rinviare la liquidazione dei legittimari a un atto successivo, inserendo nel patto di famiglia un semplice
impegno a provvedere in tal senso.
E' prevista espressamente la possibilità che i legittimari rinunzino in tutto o in parte alla liquidazione della loro
quota di legittima. In questo caso nulla è dovuto da chi ha ricevuto l'azienda o le partecipazioni societarie, e i
legittimari, al momento della morte del disponente, parteciperanno alla successione solo sugli altri beni
eventualmente rimasti nel suo patrimonio.
La liquidazione ai legittimari rappresenta probabilmente l'aspetto più problematico nell'ambito della disciplina del
patto di famiglia, a causa dell'impostazione scelta dal legislatore, e ha già suscitato contrasti tra gli interpreti.
La scelta più logica, quella che ci indicherebbe il buon senso, sarebbe stata quella di consentire al disponente di
liquidare direttamente i legittimari, nell'ambito del patto di famiglia, assegnandogli una somma di denaro
oppure beni in natura. Per esempio, l'imprenditore avrebbe potuto assegnare l'azienda a un figlio e un immobile di
pari valore all'altro figlio. Solo nel caso in cui il valore dell'azienda fosse stato notevolmente superiore a quello degli
altri beni presenti nel patrimonio del disponente, avrebbe potuto essere prevista la liquidazione da parte di chi ha
ricevuto l'azienda. Il legislatore, invece, ha previsto come unica possibilità la liquidazione dei legittimari da
parte dell'assegnatario dell'azienda o delle partecipazioni societarie. Una scelta anomala, perché va contro la
normale volontà dei genitori di provvedere direttamente alla divisione del patrimonio tra i figli. Una scelta che si
spiega solo con la precisa volontà di limitare il patto di famiglia alla sola azienda o alle partecipazioni
societarie, ed escludere tassativamente la possibilità di utilizzarlo per trasferire beni di altro genere, in particolare
gli immobili. Una scelta discutibile, che possiamo criticare ma che non possiamo ignorare, neppure proponendo
interpretazioni che, per quanto appetibili da un punto di vista pratico, non sembrano compatibili né con la lettera
della legge né con il suo spirito.
Purtroppo dobbiamo accettare il fatto che, nell'ambito del patto di famiglia, l'imprenditore può trasferire
l'azienda a uno dei figli, ma non può compensare gli altri assegnando loro altri beni. A maggior ragione la
liquidazione degli altri legittimari non può avvenire da parte di un terzo (per esempio il coniuge del disponente). La
liquidazione degli altri legittimari deve venire solo da chi ha ricevuto l'azienda o le partecipazioni sociali.
Il primo problema che si può presentare è dunque il reperimento della liquidità necessaria, o dei beni da trasferire ai
legittimari. Se possiamo presumere che l'imprenditore giunto all'età della pensione abbia altri beni, oltre all'azienda,
nel proprio patrimonio, non altrettanto si può ipotizzare per il figlio che sta iniziando adesso l'attività. Sarà dunque
inevitabile, nella maggior parte dei casi, il ricorso al credito bancario. Chi riceve l'azienda o le partecipazioni
societarie potrà stipulare un mutuo per finanziare la liquidazione degli altri legittimari, offrendo presumibilmente in
garanzia l'azienda stessa o le partecipazioni societarie.
Se invece l'imprenditore vuole compensare direttamente gli altri legittimari, versando loro una somma di denaro o
trasferendogli altri beni, occorre affiancare al patto di famiglia una o più donazioni, che possono anche essere
contestuali ma rimangono necessariamente al di fuori di esso. A queste donazioni, dunque, non si può applicare la
disciplina di favore prevista per i trasferimenti disposti nell'ambito del patto di famiglia. Si tratterà dunque di
donazioni esposte all'azione di riduzione e alla collazione (oltre i limiti nei quali è ammessa una dispensa). Sarà
comunque possibile combinare gli effetti delle donazioni e del patto di famiglia, con eventuale rinuncia alla
liquidazione da parte dei legittimari già beneficiati, in modo di avvicinarsi al risultato voluto. In questo modo si
potrà anche tenere conto dei beni eventualmente già trasferiti dall'imprenditore ad alcuni figli, mediante
donazione o semplicemente fornendo i soldi necessari al loro acquisto (donazione indiretta), come spesso avviene in
pratica.
Il punto cruciale, in questo ambito, sta nell'obbligo dell'assegnatario dell'azienda o delle partecipazioni
societarie di imputare alla propria quota di eredità, al momento della futura successione, il valore di ciò che ha
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ricevuto nell'ambito del patto di famiglia. Come abbiamo visto, i beni assegnati ai legittimari che partecipano al
patto di famiglia sono imputati alle loro quote di legittima secondo il valore che viene ad essi attribuito nel contratto.
Ciò non è espressamente previsto nei confronti dell'assegnatario dell'azienda o delle partecipazioni sociali, ma è
chiaro che nella futura successione non possiamo fare a meno di tenere conto di quanto essi hanno già ricevuto
nell'ambito del patto di famiglia. In realtà, per l'assegnatario dell'azienda o delle partecipazioni sociali, questa
regola discende dalla natura essenzialmente donativa del trasferimento (art. 564, secondo comma, del codice
civile). L'assegnatario dell'azienda o delle partecipazioni societarie deve quindi imputare alla propria quota di eredità
ciò che ha ricevuto nell'ambito del patto di famiglia, secondo il valore in esso determinato, al netto di quanto egli ha
liquidato agli altri legittimari.
Grazie al meccanismo dell'imputazione, anche le donazioni effettuate al di fuori del patto di famiglia possono
essere di fatto sottratte all'azione di riduzione. Occorre però trovare caso per caso un difficile equilibrio tra le
varie disposizioni, con il rischio che la soluzione individuata sia messa in discussione da un cambiamento
imprevisto della situazione. Il legislatore, infatti, sembra volerci costringere a ragionare per compartimenti stagni: da
una parte l'azienda, che può essere oggetto di successione anticipata mediante il patto di famiglia, con contestuale
liquidazione degli altri legittimari; dall'altra parte il residuo patrimonio dell'imprenditore (beni immobili, denaro,
etc.) che continua ad essere regolato dalle norme in tema di successione (o donazione), la cui sorte sarà dunque
decisa solo alla morte dell'imprenditore. Purtroppo questo è l'esatto contrario di ciò che avviene nella realtà, dove il
patrimonio da trasferire ai figli viene sempre considerato unitariamente.
Le imposte sul patto di famiglia
Nonostante l'interesse che ha suscitato la sua introduzione, l'applicazione concreta del patto di famiglia dipenderà
soprattutto dalla sua tassazione. Nella legge che ha introdotto il patto di famiglia, gli aspetti fiscali erano stati
completamente ignorati, e ciò ha ostacolato l'immediata applicazione delle nuove norme.
Una novità importante è arrivata con la legge finanziaria per il 2007 (legge 27 dicembre 2006, n. 296), che in
seguito alla reintroduzione delle imposte sulle successioni e donazioni, ha disposto, a certe condizioni,
l'esenzione dall'imposta di successione e donazione per i trasferimenti di aziende o rami di azienda, di quote
sociali e di azioni a favore dei figli e degli altri discendenti (l'art. 2, comma 31, della legge 24 dicembre 2007, n.
244, legge finanziaria per il 2008, ha aggiunto anche il coniuge, che però non può essere beneficiario del patto di
famiglia), e ha previsto espressamente che essa si applica anche ai trasferimenti effettuati tramite i patti di
famiglia di cui agli articoli 768-bis e seguenti del codice civile.
E' stata così confermata l'opinione, prevalente tra gli interpreti, secondo cui i trasferimenti che avvengono con il
patto di famiglia rientrano nell'ambito di applicazione dell'imposta di donazione. In particolare il patto di famiglia
può essere equiparato a una donazione modale, cioè a una donazione in cui il donatario ha l'onere di versare una
somma di denaro (o trasferire beni in natura) agli altri legittimari. Questi ultimi, dunque, sono destinatari di una
donazione indiretta da parte del disponente.
Dal primo gennaio 2007, quindi, i trasferimenti di aziende o rami di azienda, di quote sociali e di azioni a favore dei
figli e degli altri discendenti nell'ambito dei patti di famiglia sono esenti dall'imposta di donazione e successione.
Se l'azienda comprende beni immobili, il trasferimento è esente anche dalle imposte ipotecarie e catastali che
dovrebbero gravare su di essi.
L'esenzione si applica a tutte le aziende e a tutte le quote di partecipazione in società di persone (s.n.c., s.a.s. e
società semplici), indipendentemente dal loro ammontare.
Se invece si tratta di azioni o quote di s.r.l. l'esenzione si applica solo alle partecipazioni che consentono al
beneficiario di acquisire o integrare il controllo della società attraverso la maggioranza dei voti esercitabili
nell’assemblea ordinaria.
Le legge prevede inoltre che il beneficiario deve impegnarsi espressamente a proseguire nella gestione
dell'azienda, o a mantenere il controllo della società, per almeno cinque anni dopo il trasferimento, a pena di
decadenza dall'agevolazione. A tal fine il beneficiario deve rendere un'apposita dichiarazione nell'atto di donazione,
ovvero allegata alla dichiarazione di successione. In caso di mancato rispetto dell'impegno assunto, sarà applicata
l'imposta di donazione nella misura ordinaria (4%), ed eventualmente le imposte ipotecarie (2%) e catastali (1%)
sugli immobili, oltre alla sanzione amministrativa pari al trenta per cento dell'importo non versato e agli interessi di
mora.
La necessità che, per godere dell'esenzione fiscale, il trasferimento di azioni o quote di s.r.l. abbia per oggetto una
partecipazione che consente al beneficiario di acquisire o integrare il controllo della società, può creare qualche
problema quando il beneficiario non è uno solo dei figli. Infatti, la ripartizione delle partecipazioni fra due o più
discendenti impedirebbe a ciascuno di essi di acquisire, da solo, il controllo della società, e di conseguenza farebbe
venire meno l'esenzione per tutti. L'Agenzia delle entrate ha mostrato di interpretare questa norma in modo
restrittivo. L'unica possibilità per godere dell'esenzione è che il pacchetto di controllo della società sia intestato ai
figli in modo indiviso, cioè essi diventino comproprietari dell'intera partecipazione di controllo, nominando poi un
rappresentante comune nei confronti della società. Si tratta sicuramente di una complicazione, ma sembra essere
l'unica soluzione per ottenere l'esenzione quando il trasferimento avviene a favore di più soggetti. La divisione delle
quote o azioni potrà dunque avvenire solo dopo cinque anni dal trasferimento.
Il trasferimento a favore dei discendenti avviene dunque in esenzione dall'imposta, se ricorrono le condizioni sopra
indicate. Più complesso è invece il discorso per quanto riguarda la liquidazione ai legittimari. L'agenzia delle
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entrate, che ha preso posizione solo all'inizio del 2008, ha stabilito che la liquidazione ai legittimari deve essere
tassata come trasferimento a titolo gratuito con l'aliquota dell'imposta di donazione prevista in base al
rapporto di parentela tra il beneficiario del patto di famiglia e i legittimari destinatari della liquidazione. Ciò
significa che nel caso, presumibilmente più frequente, in cui il beneficiario sia uno dei figli dell'imprenditore, e
debba liquidare in denaro gli altri figli, cioè i suoi fratelli o sorelle, si applicherà l'imposta di donazione con
l'aliquota del 6%, e con una franchigia limitata a 100 mila euro per ogni fratello o sorella.
In realtà si potrebbe obiettare che il patto di famiglia può essere equiparato a una donazione modale, cioè a
una donazione in cui il beneficiario ha l'onere di versare una somma di denaro (o trasferire beni in natura) agli altri
legittimari. Ciò significa che i legittimari che ricevono la liquidazione sono destinatari di una donazione indiretta
da parte del disponente. Possiamo infatti escludere che essi ricevano una donazione da parte del beneficiario del
patto di famiglia, dato che egli liquida i legittimari in esecuzione di un obbligazione assunta con il disponente nel
patto di famiglia. E' come se il padre dicesse al figlio: "Io ti lascio l'azienda, ma tu devi dare questa somma ai tuoi
fratelli". Trattandosi di una donazione indiretta da parte del disponente, la liquidazione dei legittimari dovrebbe
essere tassata con l'aliquota prevista per la donazione ai discendenti o al coniuge (4%), e soprattutto dovrebbe
beneficiare della franchigia di un milione di euro per ciascuno dei legittimari.
L'agenzia delle entrate, invece, ha dato alla norma un'interpretazione da cui risulta una tassazione più
onerosa per la liquidazione dei legittimari, e ciò rappresenta senza dubbio un ostacolo al passaggio generazionale
dell'impresa, che si pone in contrasto con lo spirito della legge. Questo fa sì che risulti conveniente esaminare
soluzioni alternative alla liquidazione dei legittimari prevista dalla legge sul patto di famiglia, in modo da
evitare una tassazione che rischia, in molti casi, di essere eccessiva.
L'impugnazione del patto di famiglia
Lo scopo principale del patto di famiglia è quello di dare certezza e stabilità al passaggio generazionale dei beni
d'impresa (aziende e partecipazioni societarie), per favorire la competitività del sistema imprenditoriale italiano.
Proprio per questo il legislatore ha previsto che i partecipanti possano impugnare il patto di famiglia, e quindi
chiederne l'annullamento per vizi del consenso (errore, violenza e dolo), entro il termine di un anno (art. 768quinquies del codice civile), in luogo dei cinque anni ordinariamente previsti. A parte questo, si applica la disciplina
generale prevista per i contratti (artt. 1427 e seguenti del codice civile). L'annullamento del contratto può dunque
essere chiesto entro un anno dal giorno in cui è stato scoperto l'errore o il dolo, oppure è cessata la violenza (art.
1442, secondo comma, del codice civile). Rimane soggetta alle regole generali anche la possibilità di convalida del
contratto annullabile.
Tra i vizi del consenso, il più importante è sicuramente l'errore. L'errore di diritto, cioè sul contenuto e gli effetti del
contratto, può essere escluso dall'intervento del notaio, che deve assicurare alle parti una piena conoscenza del
contratto che stanno concludendo. L'errore di fatto, invece, potrebbe facilmente riguardare l'oggetto del contratto, se
non tutti i partecipanti conoscono la reale consistenza economica dell'azienda o della società. Per questo
potrebbe essere opportuno, anche se non obbligatorio, far precedere il patto di famiglia da una perizia di stima
dell'azienda trasferita o del patrimonio della società le cui partecipazioni vengono trasferite, e prendere a base del
contratto i valori risultanti da tale perizia.
I legittimari sopravvenuti
Come abbiamo visto, al patto di famiglia devono partecipare il coniuge del disponente e tutti quelli che sarebbero
legittimari se nel momento della stipula del patto di famiglia si aprisse la sua successione (art. 768-quater, primo
comma, del codice civile). La situazione potrebbe cambiare dopo la stipula del patto, ma la legge vuole evitare che a
causa di questi cambiamenti sia messo in discussione il trasferimento dell'azienda o delle partecipazioni societarie.
Alla morte dell'imprenditore, i legittimari che non hanno partecipato al patto di famiglia possono chiedere ai
beneficiari il pagamento della somma che gli sarebbe spettata, quale liquidazione della quota di legittima
sull'azienda o sulle partecipazioni societarie, aumentata degli interessi legali, dalla stipula del patto fino all'effettivo
pagamento (art. 768-sexies del codice civile).
In pratica, i legittimari che non hanno potuto partecipare al patto possono essere soltanto i figli dell'imprenditore
nati dopo la stipula del patto di famiglia (oppure riconosciuti o accertati giudizialmente dopo tale data), e il
coniuge dell'imprenditore, in caso di nuovo matrimonio avvenuto dopo la stipula del patto di famiglia.
Questi soggetti conservano i loro diritti sulla successione, ma non possono chiedere una quota dell'azienda o
delle partecipazioni societarie, ormai uscite dal patrimonio del defunto. Essi hanno diritto a una somma di denaro
corrispondente al valore della loro quota, quale risultante dal patto di famiglia (il valore, dunque, è quello
determinato dai partecipanti al patto, e non può essere messo in discussione). Se alla morte dell'imprenditore ci sono
nuovi figli (anche figli naturali riconosciuti o accertati dopo la stipula del patto) o c'è un nuovo coniuge, occorre
ricalcolare le quote di legittima spettanti a ciascuno, e chi aveva ricevuto più del dovuto, sia esso l'assegnatario
dell'azienda o delle partecipazioni societarie, oppure gli altri partecipanti al patto, deve versare una somma di denaro
ai legittimari sopravvenuti, per riequilibrare la situazione.
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Solo in caso di mancato pagamento i legittimari sopravvenuti potranno impugnare il patto di famiglia. In questo
caso il legislatore ha previsto, inspiegabilmente, che si applichino le regole sull'annullamento del contratto per vizi
del consenso, mentre si tratterebbe più che altro di una risoluzione per inadempimento.
Lo scioglimento del patto di famiglia
La legge ha previsto anche due ipotesi di scioglimento del patto di famiglia (art. 768-septies del codice civile).
Anzitutto, il patto può essere sciolto con un nuovo contratto, stipulato dai medesimi partecipanti e sempre nella
forma di atto pubblico. In questo caso, l'azienda o le partecipazioni societarie ritornano al disponente, e i legittimari
devono restituire ciò che avevano ricevuto dall'assegnatario.
Il patto di famiglia potrebbe però essere sciolto anche per recesso di uno dei contraenti, con dichiarazione
certificata da un notaio, se nel patto è stata espressamente prevista questa possibilità. Per dichiarazione
certificata da un notaio, termine assolutamente improprio, si intende probabilmente un atto pubblico.
La possibilità di sciogliere il patto di famiglia con l'accordo di tutti i partecipanti può rivelarsi utile nel caso in cui il
mutamento della situazione renda opportuno modificare gli accordi presi all'interno della famiglia. La previsione di
una facoltà di recesso, invece, appare sicuramente contraddittoria, perché priva il patto di famiglia (e di
conseguenza il trasferimento dell'azienda o delle partecipazioni societarie) di quel carattere di stabilità e certezza che
ne giustifica la stessa esistenza.
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L’eredità e il testamento
La successione per legge
In mancanza di una diversa volontà espressa in vita dal defunto, è la legge a stabilire chi sono gli eredi e in quali
proporzioni.
Normalmente gli eredi sono il coniuge e i figli, e ciò corrisponde spesso ai desideri del defunto, che pertanto non
sente la necessità di fare testamento.
In realtà, in presenza di un patrimonio consistente o comunque articolato, ci possono essere ragioni sia sostanziali
sia fiscali che consigliano la redazione di un testamento, se non addirittura l’anticipazione del passaggio
generazionale con altri strumenti.
Un aspetto importante è, per esempio, la divisione dei beni tra gli eredi. In presenza di più beni immobili, può essere
preferibile attribuire a ciascun erede la proprietà esclusiva di uno o più di essi, anziché lasciare un’eredità
indivisa pro quote, che renderà necessaria una successiva divisione ereditaria, con possibili liti e un sicuro aumento
dei costi. In alcuni casi potrebbe anche essere utile attribuire al coniuge il diritto di usufrutto vitalizio su
determinati beni, riservandone la proprietà ai figli, in modo di evitare ulteriori passaggi per successione.
In presenza di aziende, o partecipazioni societarie, un ragionamento preventivo sulla loro sorte è ancora più
opportuno, perché una situazione di contitolarità conseguente alla successione potrebbe arrecare gravi danni in caso
di contrasto tra gli eredi.
Quando il patrimonio comprende aziende o partecipazioni societarie, l’attribuzione di esse a uno o più eredi può
incidere anche sulla possibilità di usufruire dell’esenzione fiscale totale prevista per il loro passaggio
generazionale, che comporta, di solito, un notevole risparmio sulle imposte.
Un altro aspetto da considerare è l’eventuale necessità di riequilibrare i rapporti tra gli eredi, quando sono state
fatte elargizioni a favore di qualcuno di essi, utilizzando forme non tracciabili (per esempio, versamenti di somme
di denaro, oppure acquisto di beni intestati direttamente a loro). Se si trattasse di vere e proprie donazioni, stipulate
con atto pubblico davanti al notaio, oppure di donazioni indirette dichiarate in un atto pubblico, non ci sarebbero
problemi, perché di essi si terrebbe conto nell’ambito della futura successione. Ma se ciò non è avvenuto, può essere
opportuno farne menzione nel testamento, specificando che dovranno essere pareggiati i conti nell’ambito della
successione ereditaria.
Il testamento, o altre forme alternative per regolare il passaggio generazionale, risulta poi indispensabile in
mancanza di figli, o in presenza di situazioni di convivenza per le quali, a differenza del matrimonio, il nostro
ordinamento non prevede alcun diritto di successione per legge.
Gli eredi legittimi
In mancanza di un testamento l'eredità spetta normalmente al coniuge e ai figli del defunto. Se il defunto ha un
solo figlio, l'eredità viene divisa a metà tra questo e il coniuge. Se invece i figli sono due o più, a questi spettano
complessivamente i due terzi del patrimonio ereditario, da dividere tra loro, e al coniuge rimane un terzo.
Al coniuge è stato equiparato chi era legato al defunto da un’unione civile (legge 20 maggio 2016, n. 76, nota
anche come legge Cirinnà).
Solo se il defunto non aveva figli, oltre al coniuge hanno diritto a una quota di eredità anche i fratelli e i genitori
(se questi sono ancora in vita). In ogni caso al coniuge spettano i due terzi del patrimonio ereditario. Quando il
coniuge concorre con i fratelli del defunto, a questi va dunque un terzo dell'eredità. Lo stesso accade quando il
coniuge concorre con i genitori del defunto. Se invece, insieme al coniuge, sopravvivono al defunto sia genitori che
fratelli, questi si dividono per capi la quota di eredità a loro spettante (che è sempre, complessivamente, di un terzo),
ma ai genitori spetta almeno un quarto dell'eredità, quindi ai fratelli rimane ben poco. In mancanza di figli e del
coniuge, l'eredità è divisa tra genitori e fratelli del defunto. La divisione si fa sempre per capi, ma ai genitori è
riservata almeno la metà dell'eredità.
Ricordiamo anche che quando i figli o i fratelli del defunto sono premorti oppure rinunziano all'eredità,
subentrano nei loro diritti i rispettivi discendenti, in virtù della cosiddetta rappresentazione. In questo caso
l’eredità si divide per stirpi, cioè si attribuiscono le quote che spetterebbero ai soggetti premorti o rinunzianti, e
queste vengono a loro volta divise tra i rispettivi discendenti. Per esempio, se il defunto (celibe e senza figli) aveva
due fratelli, di cui uno premorto che aveva due figli, l’eredità va per metà al fratello ancora vivente e per metà viene
divisa tra i nipoti (i figli del fratello premorto), che avranno dunque un quarto ciascuno.
In mancanza di coniuge, discendenti, ascendenti e fratelli o loro discendenti, l'intera eredità spetta ai più prossimi
tra gli altri parenti entro il sesto grado. Mancando anche questi, l'eredità è devoluta allo Stato.
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Chi sono i superstiti
Coniuge
(in mancanza di figli, genitori e
fratelli)
Uno o più figli
(in mancanza del coniuge)
Coniuge e un solo figlio
(eventuali altri parenti non hanno
alcun diritto sull'eredità)
Coniuge e due o più figli
(eventuali altri parenti non hanno
alcun diritto sull'eredità)
Coniuge e fratelli
(in mancanza di discendenti e
ascendenti)
Coniuge e genitori
(in mancanza di discendenti e
fratelli)
A chi spetta l'eredità
Intera eredità al coniuge
Intera eredità ai figli
(da dividere in parti uguali)
1/2 al coniuge
1/2 al figlio
1/3 al coniuge
2/3 ai figli (da dividere in parti
uguali)
2/3 al coniuge
1/3 ai fratelli (da dividere in parti
uguali)
2/3 al coniuge
1/3 ai genitori (da dividere in parti
uguali)
2/3 al coniuge
1/3 a genitori e fratelli (che si
Coniuge, fratelli e genitori
(in mancanza di discendenti)
dividono per capi la quota di eredità,
ma ai genitori spetta almeno 1/4)
Intera eredità da dividere per capi
Fratelli e genitori
(in assenza di coniuge e discendenti)
(ma ai genitori spetta almeno 1/2)
In mancanza di coniuge, discendenti, ascendenti e fratelli (o loro
discendenti), l'intera eredità spetta solo ai più prossimi tra gli altri parenti
entro il sesto grado.
Mancando anche questi, l'eredità è devoluta allo Stato.
Perché fare testamento
L’importanza di fare testamento viene spesso sottovalutata. Le regole della successione legittima possono essere
sufficienti a soddisfare le esigenze chi ha figli, prevedendo la ripartizione dell’eredità tra di essi. Anche in questo
caso, però, un testamento potrebbe essere utile per prevenire contrasti tra gli eredi, e magari consentire anche un
risparmio fiscale.
In altre situazioni, invece, il testamento è assolutamente opportuno, per evitare di causare problemi agli eredi.
Vediamo più specificamente quando è consigliabile fare testamento.
Chi è sposato senza figli
Molte persone sposate e senza figli sono convinte che, anche senza fare testamento, le loro proprietà passeranno
automaticamente al proprio coniuge.
Questo è vero solo in mancanza di fratelli e sorelle, e nel caso in cui i genitori non siano più in vita.
Altrimenti, al coniuge va solo una parte dell'eredità, e una parte è divisa tra i genitori, i fratelli e le sorelle.
Ricordiamo anche che se i fratelli o sorelle sono premorti, i rispettivi discendenti subentrano nella quota a loro
spettante, per il meccanismo della “rappresentazione”.
Facendo testamento, invece, è possibile lasciare al coniuge l'intero patrimonio, oppure stabilire cosa deve andare
al coniuge (per esempio l'abitazione principale e il denaro) e cosa deve andare agli altri parenti.
Chi ha figli
I diritti dei figli sono tutelati dalla legge. E' però consigliabile fare testamento quando si preferisce stabilire come
devono essere divisi i beni tra i figli, per prevenire qualsiasi lite o incomprensione (purtroppo molto frequenti
nell'ambito della divisione dell'eredità tra i familiari).
Ricordiamo inoltre che una ripartizione dei beni disposta nel testamento evita agli eredi le maggiori spese di un
successivo atto di divisione.
E’ anche possibile attribuire al coniuge il diritto di usufrutto vitalizio su determinati beni, riservando ai figli la
proprietà, per evitare ulteriori imposte al momento della futura successione.
Il testamento, infine, consente di “pareggiare i conti” tra i figli, nel caso in cui soltanto uno di essi abbia
beneficiato di una donazione fatta dai genitori mentre erano in vita, ma non formalizzata in un atto notarile, come
può accadere quando i genitori hanno aiutato un figlio ad acquistare la casa, ad avviare un’attività d’impresa oppure
a ripagare dei debiti. In tal caso può essere opportuno far risultare queste situazioni nel testamento, prevedendo al
contempo una maggior quota dell’eredità a favore degli altri figli.
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Chi ha figli minori
In presenza di figli minori, l’apertura della successione presenta particolari complicazioni, e la parte del
patrimonio ereditario destinato ai minori rimane soggetto al controllo del giudice tutelare fino al
raggiungimento della maggiore età. Per evitare che il coniuge superstite si trovi in difficoltà, soprattutto se non ha
un reddito proprio o ha un reddito minimo, può essere opportuno prevedere in un testamento la divisione dei beni
ereditari tra il coniuge e i figli, attribuendo al coniuge, in tutto o in parte, il patrimonio finanziario, e ai figli, in
tutto o in parte, il patrimonio immobiliare, eventualmente riservando il diritto di usufrutto vitalizio al coniuge.
Chi vuole beneficiare altre persone o enti
Chi desidera lasciare qualcosa a un amico oppure a un organizzazione benefica, può farlo solo attraverso un
testamento. E' possibile lasciare una somma di denaro o un bene determinato. In mancanza di eredi legittimi, è
anche possibile lasciare l'intera eredità.
Chi non è sposato e non ha figli
Fare testamento è particolarmente importante per chi non è sposato e non ha figli. Con il testamento è possibile
scegliere le persone o gli enti a cui lasciare il proprio patrimonio, anziché lasciare che sia la legge a individuare
gli eredi.
Conviventi
La legge italiana non prevede alcun diritto sull'eredità per i conviventi, nonostante la recente regolamentazione,
quindi in presenza di una coppia di fatto l'unico strumento disponibile per trasmettere, in tutto o in parte, il proprio
patrimonio al convivente è il testamento.
La forma del testamento
Il codice civile prevede diversi tipi di testamento, ma la scelta cade generalmente sul testamento “olografo”, che
può essere redatto direttamente dall’interessato. E’ però importante rispettare alcune regole, per evitare la nullità o
l’annullamento del testamento, cosa che accade abbastanza spesso. Anzitutto, il testamento deve essere scritto
interamente a mano dall’interessato (non può essere scritto a macchina, né da terzi), e deve essere firmato alla
fine delle disposizioni. E’ anche indispensabile indicare la data in cui il testamento è stato scritto (giorno, mese e
anno), sempre a mano e sullo stesso foglio. I beneficiari delle disposizioni devono essere individuati in modo certo,
senza lasciare dubbi a chi legge. Lo stesso vale per l’oggetto della disposizione, quando si vogliono assegnare beni
specifici. Se il testatore è sposato e ha dei figli, è inoltre opportuno che eviti di introdurre nel testamento
disposizioni lesive dei diritti successori riservati per legge a questi soggetti (la cosiddetta “legittima”). Per avere la
certezza di non commettere errori, che potrebbero determinare l’inefficacia delle proprie ultime volontà, è dunque
consigliabile rivolgersi a un professionista esperto.
Il testamento, infatti, potrebbe essere sgradito a quei parenti che, in mancanza di questo, riceverebbero l’eredità per
legge, oppure ne riceverebbero una parte maggiore. Questi soggetti potrebbero tentare di impugnare il testamento
per un difetto di forma. Molti dei testamenti “fai da te”, redatti senza assistenza legale, presentano infatti dei vizi
che li rendono invalidi. Se il testamento non è interamente scritto di proprio pugno dal testatore, oppure non è
firmato, è possibile farlo dichiarare nullo. Altri difetti, come la mancanza della data (piuttosto frequente), possono
portare all’annullamento. In tutti questi casi, l’eredità spetta ai parenti più stretti del defunto, nella successione
prevista dalla legge. Un’altra possibilità è che il testamento sia impugnato per incapacità del testatore, ma occorre
dimostrare che egli non era capace di intendere e di volere nel momento in cui lo ha scritto.
Un’ipotesi particolare è infine quella in cui nel testamento sono contenute disposizioni per la divisione dei beni tra
gli eredi. Infatti, se non sono considerati alcuni degli eredi istituiti, oppure alcuni dei legittimari, e non restano beni
sufficienti a formare le porzioni degli esclusi, la divisione fatta dal testatore è nulla. Se invece il valore dei beni
assegnati a un erede risulta inferiore di oltre un quarto rispetto alla quota che gli spetta, questo può chiedere la
rescissione della divisione.
Una volta redatto il testamento olografo, si pone il problema della sua conservazione. Per evitare che il testamento
vada perso o sia distrutto, accidentalmente o meno, la migliore soluzione è quella di depositarlo fiduciariamente
presso un notaio.
Ancora più sicura è la scelta del testamento pubblico, cioè redatto con atto notarile. In questo caso il notaio, oltre
a controllare il rispetto della legge, è tenuto a verificare la piena capacità di intendere e di volere del testatore,
e ciò rappresenta una garanzia contro qualsiasi tentativo di impugnazione.
Ricordiamo infine che, in caso di ripensamenti, il testamento può essere modificato dal testatore in qualsiasi
momento, indipendentemente dalla forma in cui è stato redatto.
Gli eredi necessari
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Non sempre la legge ci consente di decidere liberamente sulla destinazione del nostro patrimonio dopo la morte.
Indipendentemente dalla volontà espressa nel testamento, alcuni soggetti hanno il diritto di ricevere almeno
una parte dell’eredità. Il testatore può disporre solo di una quota del proprio patrimonio, che varia tra un quarto e
la metà, e viene appunto definita quota disponibile. La parte rimanente dell'eredità è riservata necessariamente a al
coniuge, ai figli e, in mancanza di figli, anche ai genitori del testatore. Sono questi i cosiddetti legittimari, o
successori necessari.
Al coniuge è stato equiparato chi era legato al defunto da un’unione civile (legge 20 maggio 2016, n. 76, nota
anche come legge Cirinnà).
Se c'è un solo figlio, a questo spetta almeno la metà del patrimonio, che scende a un terzo quando concorre con il
coniuge del defunto, a cui pure spetta un terzo. Se ci sono due o più figli, questi si dividono i due terzi dell'eredità,
ridotta alla metà in concorso con il coniuge, a cui spetta un quarto. Quando il coniuge è solo, gli spetta invece
almeno la metà del patrimonio. Anche nel caso della successione necessaria, se uno o più figli del defunto sono
premorti o rinunziano all'eredità, subentrano nei loro diritti i rispettivi discendenti.
Ai genitori e agli altri ascendenti del defunto, invece, spetta la legittima solo in mancanza di discendenti. Se sono
soli, i genitori hanno diritto a un terzo dell'eredità, ridotto a un quarto in concorso con il coniuge, a cui spetta sempre
la metà del patrimonio. Ricordiamo infine che al coniuge del defunto spetta sempre il diritto di abitazione sulla
casa di residenza della famiglia (se di proprietà del defunto o comune) e il diritto d'uso dei mobili che la arredano.
Questi diritti spettano al coniuge anche se rinuncia all'eredità. Ricordiamo anche che la presenza del diritto di
abitazione del coniuge consente agli altri eredi di non pagare l'Ici sulla casa già di residenza del defunto, per le quote
da essi ereditate.
Quote di eredità
riservate e disponibili
Coniuge
1/2 al coniuge
(in mancanza di figli e genitori)
1/2 disponibile
Un solo figlio
1/2 al figlio
(in mancanza del coniuge)
1/2 disponibile
2/3 ai figli (divisa in parti uguali)
Due o più figli
(in mancanza del coniuge)
1/3 disponibile
1/3 al coniuge
Coniuge e un solo figlio
1/3 al figlio
1/3 disponibile
1/4 al coniuge
1/2 ai figli (divisa in parti uguali)
Coniuge e due o più figli
1/4 disponibile
1/2 al coniuge
Coniuge e genitori
1/4 ai genitori (divisa in parti uguali)
(in mancanza di figli)
1/4 disponibile
1/3 (divisa in parti uguali)
Genitori
(in mancanza di figli e coniuge)
2/3 disponibile
Quando c'è un testamento, la legge riserva una quota di eredità solo al
coniuge e ai figli (se il defunto non aveva figli è riservata una quota
anche ai genitori ancora viventi), quindi se il testamento è valido gli altri
parenti non possono avanzare pretese
Eredi necessari
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Le imposte
Imposte su eredità e donazioni
L’imposta di successione si applica su tutto il patrimonio lasciato dal defunto, inteso come differenza tra
attività e passività, con le sole eccezioni espressamente previste dalla legge.
L’imposta di donazione si applica ai beni che ne sono oggetto.
L’imposta sulle successioni e donazioni si applica con tre aliquote (4%, 6% e 8%) differenziate in base al grado di
parentela che gli eredi hanno con il defunto oppure tra donante e donatario.
Il coniuge e i figli (o parenti in linea retta) pagano il 4%, ma è prevista una franchigia, cioè una soglia al di sotto
della quale non si paga l'imposta, di un milione di euro per ciascuno degli eredi o donatari, quindi di fatto la tassa
del 4% si paga solo sulla quota che supera, per ogni singolo beneficiario, il valore di un milione di euro.
Fratelli e sorelle pagano una tassa del 6%, ma hanno diritto a una franchigia di 100 mila euro. Anche in questo
caso la franchigia si calcola su ogni singolo erede o donatario.
Gli altri parenti fino al quarto grado, gli affini in linea retta, e gli affini in linea collaterale fino al terzo grado
pagano il 6%, senza alcuna franchigia. Si paga quindi fin dal primo euro ereditato o ricevuto in donazione. Questa
categoria comprende nipoti e pronipoti (discendenti dei fratelli), zii e prozii, primi cugini, generi e nuore, suoceri e
cognati.
Tutti gli altri soggetti, quindi i parenti più lontani e gli estranei, pagano una tassa dell'8%, anche in questo caso
senza alcuna franchigia.
I portatori di handicap riconosciuto grave (ai sensi della legge 5 febbraio 1992, n. 104), hanno sempre diritto a
una franchigia di 1.500.000 euro, indipendentemente dal rapporto di parentela con il defunto o il donante.
Queste franchigie si calcolano sempre sul valore della donazione oppure della quota di eredità attribuita a
ciascuno dei beneficiari, e non sul patrimonio complessivo lasciato dal defunto. Questo meccanismo fa sì che la
franchigia aumenti al crescere del numero dei beneficiari. Per esempio, se il defunto lascia, oltre alla moglie, quattro
figli, ciascuno di essi ha diritto alla franchigia di un milione di euro, e il patrimonio sul quale non si applica
l'imposta arriva fino a cinque milioni di euro. Grazie alla franchigia, dunque, in molti casi il coniuge e i figli non
devono pagare la tassa di successione e donazione, ma solo le imposte ipotecarie e catastali sugli immobili, se
compresi nell'eredità o nella donazione.
Ricordiamo però che nel calcolo della franchigia si devono sempre calcolare anche le donazioni
precedentemente ricevute dallo stesso soggetto.
Oltre alla vera e propria imposta di successione e donazione, sul valore degli immobili compresi nell'eredità oppure
donati si pagano le imposte ipotecarie e catastali, le stesse che paghiamo, per esempio, in caso di vendita. Se nel
patrimonio del defunto, o nella donazione, sono compresi fabbricati e terreni, dunque, si paga il 2% di imposta
ipotecaria e l'1% di imposta catastale. In totale il 3%, che si calcola sul valore catastale degli immobili, che per
fortuna è (almeno fino a oggi) molto più basso del loro valore effettivo.
Le imposte ipotecarie e catastali sono uguali per tutti, quindi i figli pagano come i parenti più lontani e gli estranei,
e purtroppo non è prevista alcuna franchigia, quindi questo 3% si paga sull'intero valore degli immobili, e non
solo oltre il milione di euro (per coniuge e figli) e i 100 mila euro (per fratelli e sorelle). Se ci sono immobili, le
imposte ipotecarie e catastali si pagano sempre.
Anche nella successione o donazione sono previste agevolazioni per la prima casa, che riguardano però
esclusivamente le imposte ipotecarie e catastali.
I beni oggetto di successione o donazione sono tassati in base al valore che essi hanno rispettivamente nel giorno
della morte, ovvero nel momento in cui si stipula l'atto di donazione.
Per quanto riguarda gli immobili, però, rimane la possibilità di ricorrere alla valutazione catastale. Fabbricati e
terreni agricoli, dunque, non sono soggetti ad accertamento quando viene dichiarato un valore superiore a quello
risultante dalla moltiplicazione della rendita per il coefficiente previsto dalla legge, con il procedimento noto come
"valutazione automatica". Naturalmente la valutazione automatica presuppone l'esistenza di una rendita catastale,
quindi non si applica mai ai terreni edificabili, e neppure ai fabbricati privi di rendita, come per esempio i fabbricati
in corso di costruzione. In questo caso è inevitabile indicare il loro valore di mercato.
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Aliquote e franchigie
Soggetti
Coniuge, figli e parenti in
linea retta
Fratelli e sorelle
SU TUTTI I BENI
Imposta
di successione e donazione
4% *
(solo sull'importo
che eccede € 1.000.000)
6%
(solo sull'importo
che eccede € 100.000)
SOLO SUGLI IMMOBILI
Imposta
Imposta ipotecaria
catastale
2%
1%
2%
1%
Altri parenti fino al 4° grado,
affini in linea retta, affini in
linea collaterale fino al 3°
grado
6%
2%
1%
Altri soggetti
8%
2%
1%
* Sono esenti dall'imposta i trasferimenti, a favore dei soli discendenti e del coniuge, di aziende o rami di azienda,
di quote sociali e di azioni, in presenza di alcune condizioni indicate dalla legge.
Agevolazioni per la prima casa
Anche nella successione o nella donazione è possibile chiedere le agevolazioni per la prima casa.
Se almeno uno degli eredi o donatari intende destinare a propria abitazione principale il fabbricato ricevuto in
successione o donazione, e sono presenti i requisiti previsti dalla legge sulla prima casa, le imposte ipotecarie e
catastali sono ridotte a 400 euro complessivi, indipendentemente dal valore dell'abitazione. L’agevolazione si
applica solo agli immobili oggettivamente destinati a essere utilizzati come abitazione, a condizione che non siano
classificati come abitazioni di lusso. L’immobile deve essere situato nel Comune di residenza dell’erede o donatario,
oppure in quello in cui egli svolge la propria attività di lavoro. Può trovarsi anche in un altro Comune, purché egli si
impegni a trasferire la propria residenza entro diciotto mesi, a pena di decadenza dalle agevolazioni. Sono inoltre
previsti altri due requisiti. Anzitutto, l’erede o donatario non deve essere proprietario (neppure in comunione con il
coniuge) né usufruttuario di un’altra abitazione situata nello stesso Comune di quella ereditata. Inoltre non deve
essere proprietario né usufruttuario di un’altra abitazione, ovunque essa si trovi, che sia già stata acquistata
usufruendo delle agevolazioni per la prima casa.
Quando ci sono più eredi e più immobili, ciascuno può chiedere le agevolazioni prima casa su un'abitazione, e
per ciascuno di essi l'agevolazione si applica all'intera unità immobiliare, anche se il beneficiario è proprietario
solo di una quota o è titolare di un diritto reale. L'Agenzia delle Entrate ha chiarito che si può chiedere
l'agevolazione anche se la casa è utilizzata dal coniuge del defunto, che mantiene per legge il diritto di abitazione
anche quando rinuncia all'eredità (risoluzione n. 29/E del 25 febbraio 2005).
Ricordiamo comunque che il semplice fatto di aver richiesto l'agevolazione per la successione o la donazione non
preclude la possibilità di ottenere nuovamente le agevolazioni per la prima casa nell'ipotesi in cui si acquisti
in un momento successivo un'altra abitazione, come ha espressamente chiarito l'Agenzia delle Entrate. In caso di
ulteriore acquisto per successione o donazione, invece, chi ha già fruito dell’agevolazione non può goderne
nuovamente, a meno che il trasferimento abbia ad oggetto quote di comproprietà dello stesso bene (circolare n. 44/E
del 7 maggio 2001).
Esenzione per i titoli di Stato
I titoli di Stato o equiparati sono esenti dall'imposta di successione, indipendentemente dal loro valore e dal
soggetto che li riceve in eredità.
Oltre ai titoli del debito pubblico italiano (Bot, Btp, Cct, nelle loro varie forme), l’esenzione si applica ai titoli del
risparmio postale (che sono emessi dalla Cassa Depositi e Prestiti e garantiti dallo Stato) e ai titoli di Stato emessi
dagli Stati appartenenti all'Unione europea e dagli Stati aderenti all'Accordo sullo Spazio economico europeo. Sono
inoltre equiparati ai titoli di Stato i titoli emessi da enti o organismi internazionali (Bei, Bers, Birs).
L’esenzione si applica anche ai fondi di investimento (o altri strumenti finanziari) il cui patrimonio comprende
titoli di Stato (o equiparati), per una quota corrispondente alla percentuale del loro patrimonio che risulta investita
in questi titoli. A tal fine la società di gestione rilascia agli eredi una lettera da allegare alla dichiarazione di
successione.
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L’investimento di parte del proprio patrimonio finanziario in titoli di Stato o equiparati può dunque rappresentare un
modo per ridurre il carico fiscale in capo agli eredi al momento della successione, soprattutto nei casi in cui non
è prevista l’applicazione di una franchigia (e quindi per i soggetti diversi dal coniuge, dai figli e dai fratelli o
sorelle), oppure il patrimonio è di entità tale da superare la soglia della franchigia prevista dalla legge.
L’esenzione prevista per i titoli di Stato si applica solo alla successione, quindi questi sono tassati in caso di
donazione.
Esenzione per i veicoli
I veicoli iscritti nel pubblico registro automobilistico sono esenti dall'imposta di successione, e quindi non devono
essere inseriti nella relativa dichiarazione. Essi sono però soggetti alle normali imposte previste per la
trascrizione del passaggio di proprietà.
Gli eredi devono dunque provvedere alla voltura del veicolo a loro nome, direttamente presso gli uffici del Pubblico
Registro Automobilistico (Pra) oppure tramite uno sportello telematico dell’automobilista, pagando le relative
imposte.
Ricordiamo che in seguito alla successione il veicolo deve sempre essere intestato a tutti gli eredi (a meno che
esista un testamento che ne ha attribuito la proprietà a uno solo di essi). La vendita del veicolo potrà avvenire solo
dopo che esso è stato volturato a nome degli eredi, poiché non è consentita la voltura dell’intestazione direttamente a
favore dell’acquirente. La stessa procedura deve essere seguita nel caso in cui uno degli eredi intenda acquisire
anche le quote di comproprietà dagli altri eredi, per diventare proprietario esclusivo del veicolo.
Esenzione per le aziende e partecipazioni sociali
La legge intende favorire il passaggio generazionale dell'impresa, sia nell’ambito della successione, sia
mediante donazione o con il nuovo strumento del “patto di famiglia”.
Solo per i figli, gli altri discendenti e il coniuge, è prevista l'esenzione dall'imposta di successione per i
trasferimenti di aziende o rami di azienda, di quote sociali e di azioni. Se l'azienda comprende beni immobili, il
trasferimento è esente anche dalle imposte ipotecarie e catastali.
L'esenzione non si applica quindi a tutti i trasferimenti di aziende o partecipazioni sociali, ma solo in presenza di
alcune condizioni espressamente indicate dalla legge.
Prima di tutto, se si tratta di azioni o quote di srl l'esenzione si applica solo alle partecipazioni che consentono al
beneficiario di acquisire o integrare il controllo della società attraverso la maggioranza dei voti esercitabili
nell’assemblea ordinaria. Questa regola impedisce di usufruire dell’esenzione quando le azioni, o quote di Srl,
sono attribuite a due o più eredi in parti uguali tra loro. E’ però possibile ricorrere all’intestazione congiunta agli
eredi del pacchetto azionario, o della quota di Srl (che rappresenti la maggioranza dei voti), con conseguente nomina
di un rappresentante comune per l’esercizio dei diritti sociali nei confronti della società. In ogni caso, per evitare
problemi con il fisco, è senz’altro opportuno pianificare preventivamente la successione redigendo un testamento.
Questa limitazione non è prevista per le società di persone (s.n.c., s.a.s. e società semplici), quindi l'esenzione
dalle imposte è concessa anche per le partecipazioni in società di persone che non consentono al beneficiario di
acquisire la maggioranza. Ciò è pienamente giustificato dalle peculiari caratteristiche delle società di persone, nelle
quali le decisioni più importanti devono essere prese all'unanimità e pertanto risulta improprio parlare di una
posizione di controllo della società.
In ogni caso l'erede deve impegnarsi espressamente a proseguire nella gestione dell'azienda o a mantenere il
controllo della società per almeno cinque anni dopo il trasferimento, a pena di decadenza dall'agevolazione. A
tal fine il beneficiario deve rendere un'apposita dichiarazione nella denuncia di successione.
In caso di mancato rispetto dell'impegno assunto, sarà applicata l'imposta di successione nella misura ordinaria, oltre
alla sanzione amministrativa pari al trenta per cento dell'importo non versato e agli interessi di mora.
Le polizze sulla vita
Le somme dovute dalla compagnia assicuratrice al beneficiario in caso di morte dell’assicurato (polizze “caso
morte”) non sono comprese nell’asse ereditario, e spettano al beneficiario per diritto proprio, pertanto non sono
soggette all’imposta di successione (art. 12, lettera c, del d.lgs. 30 ottobre 1990, n. 346).
Questo rappresenta un aspetto rilevante soprattutto quando il beneficiario non può godere di alcuna franchigia e
sarebbe soggetto, nell’ambito della successione, all’aliquota più alta, attualmente pari all’8% (come avviene, per
esempio, nell’ambito delle famiglie di fatto), ma anche per i parenti più stretti, quando la franchigia è stata già erosa
da donazioni fatte in vita, o si prevede che sarà interamente utilizzata per altri beni compresi nell’asse ereditario.
Inoltre i capitali percepiti in caso di morte in dipendenza di contratti di assicurazione sulla vita sono esenti
dall’imposta sul reddito delle persone fisiche (Irpef). Ricordiamo però che nel caso delle polizze che, oltre a
coprire il rischio demografico, presentano una componente finanziaria (polizze rivalutabili, multiramo, linked) si
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applica un’imposta sostitutiva delle imposte su redditi, calcolata sulla differenza tra l’importo percepito dal
beneficiario e la somma dei premi pagati.
Le agevolazioni per i disabili gravi
Il legislatore ha recentemente introdotto alcune agevolazioni destinate a favorire l’assistenza, la cura e la
protezione dei soggetti con grave disabilità (come definita dall’art. 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n.
104), soprattutto in considerazione del venir meno dei genitori, o comunque della mancanza di un adeguato sostegno
genitoriale e familiare.
La legge promuove la costituzione di trust, di vincoli di destinazione ex art. 2645 ter c.c., di fondi speciali da
contratti di affidamento fiduciario, in favore di persone con disabilità grave, attraverso regimi fiscali di favore,
e in particolare con l’esenzione dall’imposta di successione, dall’imposta di donazione e dalle imposte ipotecarie e
catastali sui trasferimenti immobiliari.
Le nuove norme sono in vigore dal 1° gennaio 2017 (legge 22 giugno 2016, n. 112 - Disposizioni in materia di
assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare).
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La protezione del patrimonio
Le esigenze di protezione
La difesa del patrimonio personale e della famiglia contro i rischi derivanti dall'attività lavorativa è sempre di più
una priorità per imprenditori, amministratori, professionisti e dirigenti.
Come è noto, l'imprenditore individuale risponde dei debiti relativi alla propria attività con tutto il suo patrimonio, e
così il socio di società di persone. Chi gestisce l'azienda attraverso una società di capitali (s.r.l. o s.p.a.), pur non
rispondendo direttamente dei debiti, deve spesso rilasciare fideiussioni e garanzie personali, e può essere chiamato a
rispondere in proprio quale amministratore. Il professionista è esposto a richieste di risarcimento da parte dei clienti,
specialmente se è membro di un collegio sindacale, e anche chi ha un incarico dirigenziale, in un'impresa o un ente
pubblico, è oggi gravato da responsabilità crescenti.
Queste esigenze di sicurezza possono essere soddisfatte da alcuni strumenti che negli ultimi anni hanno avuto una
diffusione sempre maggiore, e in particolare dal fondo patrimoniale, per i beni immobili, e da particolari prodotti
assicurativi, per quanto riguarda il denaro e il patrimonio finanziario.
Una tutela preventiva
Gli strumenti di protezione del patrimonio consentono di tutelare una i propri beni contro situazioni impreviste
che possono derivare dall’esercizio di attività potenzialmente rischiose. Svolgono quindi una funzione simile
alla limitazione di responsabilità che deriva dall’esercizio dell’attività d’impresa nella forma di società di capitali
(Srl o Spa, anche unipersonali), che consente una separazione della parte del proprio patrimonio da destinare
all’esercizio dell’attività (esponendolo ai relativi rischi) rispetto ai beni destinati alla sfera personale e famigliare,
che rimangono protetti.
Questi strumenti consentono però di proteggere il proprio patrimonio anche a quei soggetti che non svolgono attività
d’impresa ma professionale o amministrativa, per i quali risulterebbe difficile o impossibile utilizzare una società di
capitali con responsabilità limitata, oppure a chi esercita un’attività d’impresa in forma individuale o in una società
di persone.
Naturalmente, non sempre è possibile raggiungere questo risultato. In alcuni casi, è inevitabile mettere in gioco
l’intero proprio patrimonio per ottenere la fiducia dei creditori. Spesso, però, è possibile individuare alcuni beni che
possono essere mantenuti separati dal resto del patrimonio, ed essere protetti dai rischi.
Si tratta comunque, sempre e in ogni caso, di una tutela preventiva. Questi strumenti non possono essere utilizzati
per sottrarsi al rispetto degli impegni già assunti, o comunque al pagamento di debiti pregressi. Si tratta di strumenti
concettualmente simili a una polizza di assicurazione, che può essere contratta per prevenire e tutelarsi da futuri
imprevisti, ma non può mai rappresentare un rimedio per i problemi già esistenti. Proprio come un’assicurazione, si
fa sperando di non averne mai bisogno, ma sapendo che in caso di necessità è importante averla.
Ecco perché bisogna pensare in anticipo alla protezione del proprio patrimonio, quando i problemi non ci sono,
e non tentare di rimediare quando ormai è troppo tardi.
Ricordiamo infatti che in presenza di debiti anteriori, i creditori possono impugnare gli atti di disposizione
esercitando l’azione revocatoria fallimentare (entro due anni) oppure l’azione revocatoria ordinaria (entro
cinque anni, ricorrendone i presupposti).
Inoltre, per gli atti a titolo gratuito (come la donazione) e i vincoli di indisponibilità (come il fondo patrimoniale o il
trust) è stata recentemente introdotta una norma che rende più difficile sottrarre beni ai creditori con atti compiuti
dopo il sorgere del credito.
Il nuovo articolo 2929-bis del codice civile, in vigore dal 27 giugno 2015 (introdotto dal decreto legge 27 giugno
2015, n. 83) consente infatti ai creditori che siano danneggiati da un atto del debitore che ha costituito un
vincolo di indisponibilità o ha trasferito a titolo gratuito beni immobili o mobili iscritti in pubblici registri,
successivamente al sorgere del credito, di procedere all’esecuzione forzata (se muniti di titolo esecutivo) senza
aver prima ottenuto una sentenza dichiarativa dell’inefficacia dell’atto, a condizione che trascrivano il pignoramento
entro un anno dalla trascrizione dell’atto pregiudizievole.
In precedenza il creditore danneggiato dall’atto del debitore avrebbe dovuto prima di tutto esercitare l’azione
revocatoria (ordinaria o fallimentare), e solo in seguito avrebbe potuto procedere all’esecuzione forzata, con un
notevole allungamento dei tempi.
Oggi, invece, il creditore munito di titolo esecutivo può procedere immediatamente all’esecuzione forzata contro il
debitore, nonostante il vincolo di indisponibilità costituito sul bene, o direttamente contro il terzo che ha acquistato
il bene a titolo gratuito, purché trascriva il pignoramento entro un anno dalla trascrizione dell’atto pregiudizievole.
Questa facoltà è riconosciuta soltanto per i crediti già esistenti al momento in cui viene costituito il vincolo o
trasferita la proprietà del bene, e non per i crediti sorti successivamente.
Un’ulteriore conferma che questi strumenti non devono mai essere intesi come un rimedio per salvare i propri beni
in presenza di debiti, ma soltanto come forma di tutela preventiva per proteggere il patrimonio da debiti futuri ed
eventuali.
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Ricordiamo infine che sono sanzionati penalmente l’alienazione simulata e il compimento di atti fraudolenti
idonei a rendere inefficace, in tutto o in parte, la procedura di riscossione coattiva, al fine di sottrarsi al pagamento
di imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di interessi o sanzioni amministrative relativi a dette imposte,
di ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila (art. 11 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74), e
che più in generale la legge punisce il compimento di atti simulati o fraudolenti al fine di sottrarsi
all’adempimento di obblighi derivanti da una sentenza di condanna o in corso di accertamento davanti
all’autorità giudiziaria (art. 388 del codice penale).
Le società con limitazione di responsabilità
Una forma importante di limitazione della responsabilità derivante dalla gestione di un’impresa commerciale è
l’utilizzo di una società di capitali (Srl o Spa). Questi tipo di società sono caratterizzati dalla responsabilità
limitata dei soci, che rispondono dei debiti sociali soltanto con quanto conferito nella società, e non con il
proprio patrimonio personale. Le società di capitali possono anche avere un solo socio, quindi si prestano anche
all’esercizio individuale dell’impresa.
Una reale limitazione della responsabilità si ha però soltanto quando la società è adeguatamente capitalizzata, e non
deve ricorrere in modo significativo al credito bancario.
In caso contrario il socio, pur non rispondendo direttamente dei debiti, è spesso costretto a rilasciare fideiussioni e
garanzie personali, che vanificano la presenza dello schermo societario. Ricordiamo inoltre che chi assume la
qualifica di amministratore è soggetto alle responsabilità che derivano dalla carica. Anche in questi casi,
dunque, può essere opportuno prendere in esame altre forma di protezione del patrimonio personale.
L’intestazione fiduciaria
L’intestazione fiduciaria può essere realizzata con un contratto di mandato, in base al quale un soggetto (fiduciante)
trasferisce un bene ad un altro soggetto (fiduciario), che assume l’obbligo di agire nell’interesse del fiduciante, e
ritrasferirgli il bene (o trasferirlo ad altro soggetto) su richiesta del fiduciante.
Nel nostro ordinamento l’intestazione fiduciaria non ha efficacia reale, ma solo obbligatoria, quindi non è mai
opponibile ai terzi, e risulta vincolante solo nei rapporti tra le parti. Ciò significa che se Tizio trasferisce
fiduciariamente un bene immobile a Caio, il bene diventa a tutti gli effetti di proprietà di Caio, il quale è soltanto
obbligato a ritrasferirlo a Tizio, o disporne secondo la volontà di questo, in base agli accordi intervenuti tra di essi. Il
bene, dunque, non può essere aggredito dai creditori di Tizio (salvo l’esercizio dell’azione revocatoria o
l’applicazione dell’art. 2929-bis del codice civile, ricorrendone i presupposti), ma può essere aggredito dai creditori
di Caio; inoltre, in caso di morte di Tizio, il bene è compreso nella sua successione, ma cade in successione alla
morte di Caio.
L’intestazione fiduciaria è regolata dagli accordi intervenuti tra le parti, ed è importante che questi siano
formulati precisamente e correttamente. Nel caso in cui il bene sia intestato fiduciariamente in occasione del suo
acquisto da terzi, può essere utilizzata la forma del mandato ad acquistare senza rappresentanza, a cui fa seguito
l’acquisto da parte del fiduciario. Se invece il bene è già di proprietà del fiduciante, può essere trasferito al fiduciario
a vario titolo, ma occorre sempre sottoscrivere contestualmente un accordo collaterale che regola il rapporto
fiduciario tra le parti. Se il bene è destinato ad essere rivenduto in tempi ragionevolmente brevi, è possibile anche
ricorrere alla forma del mandato ad alienare senza rappresentanza.
Il rapporto fiduciario può intercorrere tra persone fisiche o giuridiche, ma esistono anche società che hanno come
oggetto proprio l’esercizio professionale di questa attività, e sono appunto definite società fiduciarie. In questo caso
il rapporto è regolato da specifiche norme di legge.
Il vincolo di destinazione
Gli atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela sono stati introdotti recentemente nel
nostro ordinamento, ma hanno finora avuto scarsa diffusione, a causa della formulazione della norma, che solleva
molti dubbi sulle situazioni nelle quali il vincolo può essere legittimamente utilizzato.
La legge consente la trascrizione degli atti pubblici con cui beni immobili (o mobili iscritti in pubblici registri) sono
destinati, per un periodo non superiore a novanta anni o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria, alla
realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni o
ad altri enti o persone fisiche (art. 2645-ter c.c.).
I beni vincolati e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione, e possono
costituire oggetto di esecuzione solo per debiti contratti per tale scopo.
La legge prevede che il vincolo di destinazione deve essere finalizzato al perseguimento di un fine meritevole di
tutela secondo l’ordinamento giuridico. Questa definizione appare a prima vista sufficientemente generica da
comprendere un’ampia serie di finalità. In realtà, però, alcuni interpreti ritengono che il legislatore abbia voluto
limitare la possibilità di costituire vincoli di destinazione per la realizzazione di finalità sociali (quali la tutela
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di persone disabili, espressamente menzionata dalla norma). Ciò ha fortemente limitato la possibilità di utilizzo
concreto del vincolo di destinazione, che ha finora avuto scarsa applicazione nella pratica.
La fondazione
Una forma di separazione di una parte del patrimonio di un soggetto è attuabile anche mediante la costituzione di
una fondazione.
La fondazione è un ente avente personalità giuridica, costituito da un complesso di beni destinato al
perseguimento di uno scopo.
La fondazione può essere costituita solo per scopi caratterizzati dalla pubblica utilità (ricerca, attività culturale,
benefica e assistenziale, etc.), e ciò rappresenta un limite all'autonomia privata. La fondazione pertanto non si presta
a un utilizzo generale per la tutela del patrimonio, ma può essere impiegata soltanto per il raggiungimento di
determinate finalità.
La fondazione deve ottenere il riconoscimento da parte dello Stato (attraverso la Prefettura competente) oppure
della Regione (se le sue finalità si esauriscono in tale ambito territoriale). In ogni caso occorre dimostrare la
presenza di un patrimonio minimo sufficiente al perseguimento dello scopo dichiarato.
Il trust
Il trust è un istituto tipico del diritto anglosassone, che consente di separare alcuni beni dal patrimonio di una
persona.
Nel trust un bene o un diritto viene trasferito da un soggetto (il “disponente”) a un altro soggetto (il “trustee”), che
ne diviene titolare, ma resta completamente separato dal resto del suo patrimonio. Il trustee amministra ciò che ha
ricevuto nell’interesse di uno o più “beneficiari”, o comunque per un fine specifico. L'oggetto del trust,
naturalmente, è estraneo anche al patrimonio del disponente, che se ne è spogliato con l’atto istitutivo del trust, e
degli eventuali beneficiari, i quali possono, secondo i casi, avere il diritto di utilizzare i beni oppure goderne i frutti.
Il trust presenta alcuni vantaggi particolari, tali da renderne appetibile l’utilizzo anche nel nostro ordinamento
giuridico. Anzitutto, il patrimonio del trust è assolutamente inattaccabile dai creditori del disponente, del trustee e,
entro certi limiti, anche del beneficiario. Il trust, infatti, a differenza del nostro negozio fiduciario, ha efficacia
reale, ed è quindi opponibile ai terzi. Inoltre, i beni del trust, pur essendo di proprietà del trustee, non cadono in
successione alla sua morte. I beneficiari, quindi, sono tutelati anche contro questa evenienza. Infine, il trust può
assumere le stesse finalità di una fondazione, ma con un’amministrazione più semplice e soprattutto senza la
necessità del riconoscimento governativo.
L’Italia ha aderito a una convenzione internazionale per il riconoscimento del trust, ma non lo ha mai
disciplinato con una normativa specifica. Si ritiene comunque ammissibile l’istituzione di trust in Italia, se le sue
finalità non sono in contrasto con il nostro ordinamento (come sarebbe, per esempio, un trust istituito allo scopo di
aggirare la normativa antiriciclaggio).
Negli ultimi anni alcuni trust sono stati istituiti in Italia, e si sono delineati i primi orientamenti della giurisprudenza
e degli operatori. L'Associazione Bancaria Italiana, per esempio, ha inviato a tutte le banche una circolare per
spiegare come aprire un conto corrente intestato a un trustee. Nelle conservatorie dei registri immobiliari sono
state eseguite trascrizioni di immobili costituiti in trust o acquistati da trustee.
Certo siamo ancora lontani da un impiego diffuso del trust in Italia. Non essendoci una legge italiana che regola
il trust, è necessario fare riferimento a una legge straniera, quindi i costi sono sostenibili solo in presenza di un
patrimonio rilevante. Per una vera e propria diffusione del trust in Italia dovremo quindi attendere
l'approvazione di una legge che lo disciplini puntualmente.
Per quanto riguarda gli aspetti fiscali, rimangono ancora alcuni dubbi, anche se il legislatore ha disciplinato i vincoli
di destinazione, tra cui rientra il trust. L'Agenzia delle entrate ha chiarito ufficialmente la posizione
dell'amministrazione finanziaria (circolare 6 agosto 2007, n. 48, e circolare 22 gennaio 2008, n. 3). Il
trasferimento dei beni dal disponente al trustee è soggetto all'imposta di donazione con aliquota proporzionale
(4%, 6% o 8%) calcolata in base al grado di parentela tra il disponente e il beneficiario (si applica l'aliquota
massima se il beneficiario è indeterminato), oltre alle imposte ipotecarie e catastali (2% e 1%) se vengono
trasferiti beni immobili. Sono comunque applicabili le franchigie previste per i parenti in linea retta, il coniuge, i
fratelli e le sorelle e i portatori di handicap grave. Non è tassato, invece, il trasferimento dei beni dal trustee al
beneficiario.
Sotto il profilo delle imposte sul reddito il trust, quale soggetto passivo d’imposta, è tenuto ad adempiere gli
specifici obblighi previsti per i soggetti Ires, a iniziare dall’obbligo di presentare annualmente la dichiarazione dei
redditi. Inoltre il trust residente deve avere un proprio codice fiscale e, qualora eserciti attività commerciale, anche
la partita Iva. Tutti gli adempimenti tributari del trust sono assolti dal trustee.
Ricordiamo comunque che il trust, in quanto atto a titolo gratuito, è sempre soggetto all’azione revocatoria
ordinaria e fallimentare, quindi non può essere utilizzato in frode dei creditori, e ad esso si applica anche la nuova
normativa che consente ai creditori che siano danneggiati da un atto del debitore che ha costituito un vincolo di
indisponibilità o ha trasferito a titolo gratuito beni immobili o mobili iscritti in pubblici registri,
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successivamente al sorgere del credito, di procedere all’esecuzione forzata (se muniti di titolo esecutivo) senza
aver prima ottenuto una sentenza dichiarativa dell’inefficacia dell’atto, a condizione che trascrivano il pignoramento
entro un anno dalla trascrizione dell’atto pregiudizievole (art. 2929-bis del codice civile, introdotto dal decreto legge
27 giugno 2015, n. 83).
Il fondo patrimoniale
Il fondo patrimoniale è un vincolo costituito, con atto notarile, su alcuni beni, che vengono destinati a far fronte
ai bisogni della famiglia. Questi bisogni comprendono, oltre alle necessità primarie, anche il mantenimento del
tenore di vita liberamente scelto dai coniugi.
La legge dispone che i beni compresi nel fondo patrimoniale e i loro redditi non sono soggetti a esecuzione
forzata per i debiti che il creditore sapeva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia. Tra
questi rientrano, secondo l’opinione prevalente, i debiti contratti nell’esercizio di un’impresa commerciale o
comunque di un’attività professionale, e anche, nella maggior parte dei casi, i debiti derivanti da obblighi di
risarcimento dei danni e da sanzioni amministrative.
Rimangono alcuni dubbi sull’efficacia del fondo patrimoniale nei confronti del fisco. Alcune sentenze hanno
affermato che anche i debiti fiscali devono fermarsi di fronte ai beni costituiti in fondo patrimoniale, se non si tratta
di debiti sorti per soddisfare i bisogni della famiglia (Cassazione 7 luglio 2009, n. 15862 e Commissione Tributaria
di Milano 20 dicembre 2010, n. 437). In altri casi, però, la giurisprudenza ha consentito al fisco di aggredire i beni
compresi nel fondo patrimoniale (per esempio, Cassazione, 24 febbraio 2015, n. 3738). Le decisioni dei giudici
sono spesso determinate dalla particolarità dei casi che si trovano ad esaminare (nel caso sopra citato, per esempio,
nel fondo patrimoniale erano stati inseriti i beni utilizzati per l’esercizio dell’impresa, quindi si è ritenuto che
dovessero rispondere dei debiti tributari relativi all’impresa stessa), e comunque si tratta di interpretazioni che
possono cambiare nel corso del tempo.
Il beneficio riguarda tutti i debiti estranei ai bisogni della famiglia. Ricordiamo però che per i debiti anteriori
alla costituzione del fondo patrimoniale, i creditori possono impugnare la costituzione del fondo esercitando
l’azione revocatoria fallimentare (entro due anni dalla costituzione del fondo) oppure l’azione revocatoria
ordinaria (entro cinque anni, ricorrendone i presupposti). Inoltre i coniugi devono sempre dimostrare che il
creditore sapeva che il debito era stato contratto per scopi estranei ai bisogni della famiglia.
Il fondo patrimoniale, dunque, non può mai essere utilizzato per sottrarsi al pagamento di debiti preesistenti.
Un simile tentativo, infatti, potrebbe avere rilevanza penale, soprattutto se si tratta di debiti fiscali o nei confronti
dello Stato.
Il fondo patrimoniale è destinato a tutelare le esigenze della famiglia, e da qui deriva la principale limitazione al suo
utilizzo: per costituire un fondo patrimoniale occorre essere sposati. Le coppie di fatto non sono state prese in
considerazione dal legislatore.
Il fondo patrimoniale può essere costituito sui beni di proprietà di uno solo dei coniugi o di entrambi. Di solito è
utilizzato per gli immobili (case, fabbricati di ogni genere, terreni edificabili o agricoli), ma può comprendere titoli
di credito (per esempio azioni di s.p.a., ma non quote di s.r.l.) o beni mobili registrati (autoveicoli, imbarcazioni,
aeromobili). In teoria potrebbero essere inseriti nel fondo patrimoniale anche i beni utilizzati per l’esercizio
dell’attività lavorativa o d’impresa, ma in questo caso risulta difficile sostenere una loro destinazione alla sfera
famigliare, quindi la tutela risulta sicuramente più debole.
La costituzione del fondo non comporta il trasferimento dei beni, che restano intestati a chi ne era già
proprietario.
In qualsiasi momento è possibile comprendere altri beni nel fondo patrimoniale già costituito, con un nuovo atto
notarile.
Il fondo patrimoniale può essere costituito anche da una persona diversa dai coniugi (per esempio un genitore, o
un figlio), su beni che rimangono di sua proprietà, anche se ciò avviene raramente, a causa dei dubbi sulla situazione
giuridica dei beni di proprietà di una persona ma destinati a soddisfare le esigenze di altri.
Come funziona il fondo patrimoniale
L’amministrazione ordinaria dei beni del fondo patrimoniale spetta a entrambi i coniugi disgiuntamente,
secondo le regole della comunione legale. E' però necessario il consenso di entrambi i coniugi per la vendita dei
beni costituiti in fondo patrimoniale, anche se il proprietario è uno solo di essi. Lo stesso vale per tutti gli atti
dispositivi, come per esempio la costituzione di un diritto di usufrutto sul bene, oppure la concessione di ipoteca a
garanzia di un mutuo.
Se nella famiglia ci sono figli di minore età, la vendita dei beni compresi nel fondo patrimoniale deve essere
autorizzata dal tribunale. Questa regola, però può essere derogata inserendo nell'atto costitutivo del fondo
patrimoniale una clausola che consente di disporre dei beni senza bisogno dell'autorizzazione del tribunale,
anche in presenza di figli minori. In questo caso è possibile vendere liberamente i beni o stipulare un mutuo,
concedendo quale garanzia un'ipoteca sui beni personali compresi nel fondo patrimoniale.
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Lo scioglimento del fondo patrimoniale
La legge non prevede espressamente la cessazione consensuale del fondo patrimoniale. L’art. 171 del codice civile,
infatti, elenca quali cause di cessazione del fondo soltanto l’annullamento, lo scioglimento o la cessazione degli
effetti civili del matrimonio. Sono quindi stati avanzati dubbi sulla possibilità di scioglierlo per volontà dei coniugi.
Anche la giurisprudenza di merito si è espressa in modo contrastante.
Recentemente, però, la Corte di Cassazione ha preso posizione ammettendo lo scioglimento consensuale del fondo
patrimoniale da parte dei coniugi che l’hanno istituito (sentenza 8 agosto 2014, n. 17811), in conformità con
quanto già in precedenza affermato dal Tribunale di Milano (decreto del 6 marzo 2013).
La suprema corte non ritiene dunque tassativa l’elencazione di cui all’art. 171 del codice civile, poiché il fondo
patrimoniale è comunque una convenzione matrimoniale, e pertanto è assoggettato alla relative norme ed, tra cui gli
artt. 162 e 163 del codice civile che ne disciplinano modifica e risoluzione. Bisogna inoltre considerare il fatto che i
coniugi potrebbero pervenire ad un risultato analogo a quello determinato dallo scioglimento consensuale alienando
i beni compresi nel fondo patrimoniale.
La Corte di Cassazione ha comunque precisato che se i coniugi hanno figli minorenni, anche solo nascituri, per
sciogliere il vincolo occorre anche il loro consenso, e che essi devono essere rappresentati da un curatore
speciale, a tal fine nominato e autorizzato dal giudice tutelare.
La protezione del patrimonio finanziario
Denaro, quote di fondi di investimento e altre forme di investimento finanziario non possono essere comprese nel
fondo patrimoniale, con la sola eccezione delle azioni e dei titoli di credito nominativi. Peraltro il fondo
patrimoniale potrebbe essere uno strumento adeguato alla protezione di questi titoli solo nel caso di un investimento
a lungo termine, che non preveda un’attività di trading (acquisto e vendita dei titoli).
Per tutelare il patrimonio finanziario, però, c’è la possibilità di ricorrere a prodotti quali le polizze assicurative sulla
vita (che rientrano nella polizze di ramo I, cioè assicurazioni sulla durata della vita umana), caratterizzati da
impignorabilità e insequestrabilità.
Queste polizze, a fronte del pagamento di un premio (in una o più soluzioni) alla compagnia assicuratrice prevedono
il versamento di una somma di denaro all’assicurato (anche sotto forma di rendita vitalizia) al
raggiungimento di una determinata età, oppure al beneficiario indicato nel contratto, in caso di morte
dell’assicurato. Si ritiene pertanto che le polizze sulla vita svolgano una funzione previdenziale, oltre a coprire il
rischio della morte dell’assicurato. Chi conclude un contratto di assicurazione sulla vita, infatti, intende spesso
garantirsi un reddito integrativo della pensione.
La legge dispone che le somme dovute dall’assicuratore al contraente o al beneficiario non possono essere
sottoposte ad azione esecutiva o cautelare, dunque sono impignorabili ed insequestrabili. Sono però fatte salve,
rispetto ai premi pagati, le disposizioni relative alla revocazione degli atti compiuti in pregiudizio dei creditori
(azione revocatoria) e quelle relative alla collazione, all'imputazione e alla riduzione delle donazioni. (art. 1923
c.c.).
I creditori del contraente possono, dunque, far valere i propri diritti (esercitando l’azione revocatoria, se ne
ricorrono i presupposti) sulla somma dovuta dalla compagina assicuratrice soltanto fino all’importo dei premi
pagati dal contraente, e non sull’intera somma. Anche ai fini di determinare l’eventuale lesione dei diritti di
legittima, si deve tenere conto soltanto della somma dei premi pagati dal contraente, e non della somma che
viene liquidata al beneficiario dalla compagnia assicuratrice.
La giurisprudenza ha precisato che l’impignorabilità e insequestrabilità riguarda soltanto la disciplina civile e non
la responsabilità penale, in presenza della quale è possibile il sequestro preventivo (si veda, per esempio, Cass. 6
maggio 2014, n. 18736, relativa a un ipotesi di evasione fiscale, e Cass. 2 maggio 2007, n. 16658). La Corte di
Cassazione ritiene inoltre che l’impignorabilità ed insequestrabilità della polizza sulla vita si applichi anche in caso
di fallimento (Cass. 31 marzo 2008, n. 8271).
Ricordiamo però che l’impignorabilità e insequestrabilità è stata recentemente messa in discussione dalla
giurisprudenza per quelle polizze che, pur presentandosi nella forma di assicurazione sulla vita hanno in realtà
un prevalente contenuto finanziario, nelle quali cioè la finalità di investimento prevale su quella previdenziale.
Ciò non significa che tutte le polizze con un contenuto finanziario siano pignorabili, ma chi vuole avvalersi di
questo beneficio deve prestare attenzione alle caratteristiche del prodotto che sottoscrive.
Nell’ottica della protezione del patrimonio è pertanto essenziale individuare il giusto prodotto assicurativo, che
consenta, pur in presenza di un contenuto finanziario, di mantenere la prevalenza della finalità previdenziale e
assicurativa, da cui discende il beneficio dell’impignorabilità e insequestrabilità. Per questo è importante
l’assistenza di un consulente finanziario qualificato.
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Le polizze assicurative
L’assicurazione sulla vita
Le polizze assicurative sulla vita si prestano ad essere utilizzate, a determinate condizioni, sia per la protezione del
patrimonio (con un’importante funzione previdenziale), sia nell’ambito della pianificazione del passaggio
generazionale e della successione in genere.
Il contratto di assicurazione sulla vita (che rientra tra le polizze di ramo I, assicurazioni sulla durata della vita
umana) prevede che la compagnia assicuratrice, a fronte del pagamento di un premio in denaro (che può essere
versato ratealmente o in un’unica soluzione), versi una somma di denaro al verificarsi di un determinato evento
correlato alla vita dell’assicurato, e in particolare la morte, oppure il raggiungimento di una determinata età (art.
1919 del codice civile). Le polizze sulla vita possono essere temporanee o a vita intera.
In caso di morte dell’assicurato (“caso morte”), la somma concordata viene versata al beneficiario indicato
dal contraente. Il beneficiario può essere designato dal contraente direttamente nel contratto di assicurazione, con
una successiva comunicazione scritta fatta all’assicuratore, oppure in un testamento (art. 1920 del codice civile). La
revoca o la modifica dell’indicazione del beneficiario può avvenire nelle stesse forma.
E’ anche possibile che i beneficiari siano indicati genericamente come “gli eredi”, oppure anche “gli eredi legittimi”
o “gli eredi testamentari”. In caso di indicazione degli eredi legittimi, i beneficiari saranno esclusivamente gli eredi
designati dalla legge, anche in presenza di un testamento che nomina eredi altri soggetti. Se invece sono indicati
come beneficiari gli eredi testamentari, questi avranno diritto a incassare l’importo dell’assicurazione, anche se nel
testamento non si fa espresso riferimento alla polizza sulla vita.
Il contratto di assicurazione sulla vita può prevedere il versamento di una determinata somma al beneficiario al
raggiungimento di una determinata età (“caso vita”). In questo caso, il beneficiario del contratto è lo stesso
contrente, e si ritiene pertanto che la polizza sulla vita svolga una funzione previdenziale, cioè sia destinata a
garantire al contraente un reddito integrativo della pensione. Il contratto può precedere che la somma spettante al
contraente sia versata in un’unica soluzione, oppure sotto forma di rendita vitalizia. Negli ordinari contratti di
assicurazione sulla vita l’importo spettante al contraente per il caso vita è predeterminato, pertanto la compagnia
assicuratrice si assume sia il rischio demografico (legato alle probabilità statistiche di vita dell’assicurato) sia il
rischio finanziario (dipendente dall’investimento dei premi versati dall’assicurato, che devono essere investiti dalla
compagnia a proprio rischio). Il contratto può comunque prevedere una forma di rivalutazione del capitale, e anche
il collegamento con l’andamento di titolo indici sottostanti (nelle cosiddette polizze “linked”, che possono pertanto
avere anche una finalità di investimento finanziario).
Impignorabilità e insequestrabilità
In virtù della loro funzione previdenziale, le polizze sulla vita sono caratterizzate da impignorabilità e
insequestrabilità.
La legge dispone che le somme dovute dall’assicuratore al contraente o al beneficiario non possono essere
sottoposte ad azione esecutiva o cautelare, dunque sono impignorabili ed insequestrabili. Sono però fatte salve,
rispetto ai premi pagati, le disposizioni relative alla revocazione degli atti compiuti in pregiudizio dei creditori
(azione revocatoria) e quelle relative alla collazione, all'imputazione e alla riduzione delle donazioni. (art. 1923
c.c.).
I creditori del contraente possono, dunque, far valere i propri diritti (esercitando l’azione revocatoria, se ne
ricorrono i presupposti) sulla somma dovuta dalla compagina assicuratrice soltanto fino all’importo dei premi
pagati dal contraente, e non sull’intera somma. Anche ai fini di determinare l’eventuale lesione dei diritti di
legittima, si deve tenere conto soltanto della somma dei premi pagati dal contraente, e non della somma che
viene liquidata al beneficiario dalla compagnia assicuratrice.
La giurisprudenza ha precisato che l’impignorabilità e insequestrabilità riguarda soltanto la disciplina civile e non
la responsabilità penale, in presenza della quale è possibile il sequestro preventivo (si veda, per esempio, Cass. 6
maggio 2014, n. 18736, relativa a un ipotesi di evasione fiscale, e Cass. 2 maggio 2007, n. 16658). La Corte di
Cassazione ritiene inoltre che l’impignorabilità ed insequestrabilità della polizza sulla vita si applichi anche in caso
di fallimento (Cass. 31 marzo 2008, n. 8271).
Ricordiamo però che l’impignorabilità e insequestrabilità è stata recentemente messa in discussione dalla
giurisprudenza per quelle polizze che, pur presentandosi nella forma di assicurazione sulla vita hanno in realtà
un prevalente contenuto finanziario, nelle quali cioè la finalità di investimento prevale su quella previdenziale.
Ciò non significa che tutte le polizze con un contenuto finanziario siano pignorabili, ma chi vuole avvalersi di
questo beneficio deve prestare attenzione alle caratteristiche del prodotto che sottoscrive.
Nell’ottica della protezione del patrimonio è pertanto essenziale individuare il giusto prodotto assicurativo, che
consenta, pur in presenza di un contenuto finanziario, di mantenere la prevalenza della finalità previdenziale e
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assicurativa, da cui discende il beneficio dell’impignorabilità e insequestrabilità. Per questo è importante
l’assistenza di un consulente finanziario qualificato.
Estraneità alla successione
Le somme dovute dalla compagnia assicuratrice al beneficiario in caso di morte dell’assicurato non sono
comprese nell’asse ereditario, poiché spettano al beneficiario per diritto proprio, quindi non rientrano nella
successione.
Ciò consente, in alcuni casi, di utilizzare questo strumento nell’ambito della pianificazione successoria, in
particolare per chi vuole attribuire, dopo la propria morte, un capitale a determinati soggetti senza correre il
rischio dell’impugnazione per lesione dei diritti di legittima degli eredi necessari. Teniamo presente, però, che
l’esclusione dall’asse ereditario può essere contestata per le polizze a contenuto prevalentemente finanziario,
soprattutto in caso di lesione dei diritti di legittima (in particolare dei figli e del coniuge).
Un altro vantaggio delle polizze sulla vita è rappresentato dal fatto che le somme dovute dalla compagnia
assicuratrice al beneficiario in caso di morte dell’assicurato (polizze “caso morte”), proprio perché non
comprese nell’asse ereditario, e spettano al beneficiario per diritto proprio, non sono soggette all’imposta di
successione (art. 12, lettera c, del d.lgs. 30 ottobre 1990, n. 346). Questo rappresenta un aspetto rilevante
soprattutto quando il beneficiario non può godere di alcuna franchigia e sarebbe soggetto, nell’ambito della
successione, all’aliquota più alta, attualmente pari all’8% (come avviene, per esempio, nell’ambito delle famiglie di
fatto), ma anche per i parenti più stretti, quando la franchigia è stata già erosa da donazioni fatte in vita, o si prevede
che sarà interamente utilizzata per altri beni compresi nell’asse ereditario.
I capitali percepiti in caso di morte in dipendenza di contratti di assicurazione sulla vita sono esenti dall’imposta
sul reddito delle persone fisiche (Irpef). Ricordiamo però che nel caso delle polizze che, oltre a coprire il rischio
demografico, presentano una componente finanziaria (polizze rivalutabili, multiramo, linked) si applica
un’imposta sostitutiva delle imposte su redditi, calcolata sulla differenza tra l’importo percepito dal beneficiario e
la somma dei premi pagati.
Le polizze linked
Oggi sono disponibili numerose forme di polizza sulla vita. In particolare, esistono polizze con un contenuto (in
tutto o in parte) finanziario, che si prestano ad essere utilizzate per una finalità di investimento del patrimonio
(anche nelle forme più avanzate di private insurance). Si tratta delle polizze di ramo III, ovvero assicurazioni le cui
prestazioni principali sono direttamente collegate al valore di quote di organismi di investimento collettivo del
risparmio o di fondi interni ovvero a indici o ad altri valori di riferimento.
Questi prodotti sono normalmente definiti polizze linked, e prevedono solitamente il pagamento del premio in
un’unica soluzione alla sottoscrizione del contratto. L’espressione “linked” (che significa letteralmente “collegato”)
indica un collegamento fra la somma di denaro a cui avrà diritto l’assicurato e l’andamento di certi titoli o
indici sottostanti. I sottostanti possono essere quote di fondi investimento o Sicav (“unit linked”) oppure indici di
borsa (“index linked”). La variabilità degli elementi sottostanti introduce un elemento di rischio a carico
dell’assicurato.
La giurisprudenza ha recentemente messo in discussione l’impignorabilità e insequestrabilità delle polizze che, pur
presentandosi nella forma di assicurazione sulla vita hanno in realtà un prevalente contenuto finanziario,
nelle quali cioè la finalità di investimento prevale su quella previdenziale. L’equiparazione della polizza a un
prodotto finanziario può anche comportare conseguenze sul piano successorio, soprattutto per quanto riguarda le
valutazioni sull’eventuale lesione del diritto di legittima degli eredi necessari (in particolare dei figli e del coniuge),
quando viene indicato come beneficiario un altro soggetto.
Ricordiamo infatti che nelle ordinarie polizze sulla vita, la compagnia assicurativa si assume, oltre al rischio
demografico (legato alle probabilità statistiche di vita dell’assicurato), anche il rischio finanziario (dipendente
dall’investimento dei premi versati dall’assicurato, che non incide sull’importo dovuto al beneficiario al termine del
contratto). Nelle polizze linked, invece, è l’assicurato che sostiene, in tutto o in parte, il rischio finanziario
collegato all’andamento degli investimenti, beneficiando del risultato positivo, ma anche subendo le conseguenze
dell’eventuale risultato negativo. Le polizze linked hanno infatti una finalità ulteriore rispetto ai contratti di
assicurazione sulla vita. L’obiettivo del contraente non è soltanto quello di conseguire un capitale o una rendita al
termine del rapporto assicurativo, ma anche quello di massimizzare l’investimento. La sottoscrizione di una polizza
di questo genere implica pertanto un certo grado di rischio, che può essere maggiore o minore in base agli strumenti
finanziari nel quale si investe.
Non si può però ritenere che tutte le polizze linked siano prodotti prevalentemente finanziari. Bisogna valutare
caso per caso, tenendo conto di tutte le caratteristiche del rapporto che si instaura fra le parti. Per esempio, si può
distinguere fra polizze linked garantite, polizze linked parzialmente garantite e polizze linked pure. Nel primo caso
la restituzione del capitale da parte dell’impresa assicurativa è effettivamente garantita (pertanto la natura
assicurativa-previdenziale del contratto difficilmente può essere negata). In altri casi la previsione contrattuale può
essere nel senso della restituzione di una parte del capitale investito, oltre a una maggiore somma eventuale in
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relazione all’andamento degli investimenti effettuati. Occorre dunque valutare se l’elemento assicurativo è
prevalente rispetto a quello finanziario. Nelle polizze linked pure, invece, la corresponsione di un capitale non è
affatto certa, in quanto dipende dall’andamento del titolo sottostante. In caso di insolvenza dei soggetti emittenti, il
valore della polizza può addirittura azzerarsi. La funzione della polizza cessa dunque di essere previdenziale, per
divenire esclusivamente finanziaria.
Un’altra distinzione riguarda quelle polizze linked che consentono al contraente di intervenire direttamente nella
gestione quotidiana del patrimonio, con precise istruzioni al gestore dei fondi, andando ben oltre la mera
indicazione di una strategia generale (più o meno prudenziale o aggressiva). Queste polizze saranno facilmente
considerate dai giudici come prodotti finanziari, analoghi nella sostanza ai fondi di investimento, e non come
contratti di assicurazione.
Risulta pertanto essenziale individuare il giusto prodotto assicurativo, che consenta, pur in presenza di un
contenuto finanziario, di mantenere la prevalenza della finalità previdenziale e assicurativa. Per questo è sempre
importante l’assistenza di un consulente finanziario qualificato.
Scarica la relazione dal sito tonalini.it oppure con il QR-code:
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