Stage Tiro Istin

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Stage Tiro Istin
Elementi costitutivi
STAGE
per Arcieri e Istruttori FIARC.
per un modello didattico
TECNICHE DI TIRO CON L’ARCO
ell’insegnamento
TRADIZIONALE del tiro con l’arco.
a cura degli Istruttori
Valter Marzorati, Marco Doni, Dario Liotta, Sergio Chiara
Con la collaborazione di
o LiottaRiccardo Bandini
– Tessera Istruttore n°438
Sergio Chiara
04 Sole – Tessera Istruttore n° 343
Quando nasce l’arco tradizionale?
L’arco tradizionale nasce con l’era moderna. Prima esisteva solo l’arco attrezzo
da guerra e da caccia.
Dopo essere stato abbandonato, almeno nell’occidente europeo verso la fine
del ‘700 e l’inizio del ‘800 viene riscoperto come attrezzo per il tempo libero,
per allenare destrezza e mira. Non si può ovviamente parlare ancora di sport in
senso moderno. E’ ancora una pratica ristretta a poche elite sociali, ha
probabilmente regole incerte. Contemporaneamente nella seconda metà del
’800 in America, nel nuovo continente, alcuni pionieri venuti in contatto con le
culture dei nativi iniziano a cacciare con l’arco. Veriano Marchi che, oltre ad
essere una bile mastro arcaio, sta ricostruendo una storia delle “origini”
racconta:
“William Comptom Nasce in Michigan il 28 Settembre 1863, muore nel 1938. In
gioventù nei pressi di una tribù Sioux, nel Nebraska e da loro impara a costruire
gli archi, le frecce e a cacciare con questi strumenti. A soli 14 anni diventa un
abile cacciatore. prende con l’arco il suo primo cervo, un altro l’anno dopo e,
negli anni successivi e con brevi intervalli cattura 20 cervi, quattro antilocapre,
due elk e un bisonte. Il tutto entro un raggio di 150 Km. da casa e prima di
compiere il suo 20.mo compleanno !!Nel 1894 si affiancò ad un costruttore di
archi, F.S. Barnes che viveva in Oregon da cui imparò la costruzione del long
bow in stile inglese ma anche come ottenere e trattare la materia prima: il legno
di tasso.
Alla morte del suo maestro, nel 1913, diventato ormai un abile “bowyer” lascia
l’Oregon con mille stecche di tasso per fare altrettanti archi e si trasferisce in
California.”
William Compton, trasferitosi in California sente parlare di Ishi, questo ultimo
indiano dell'età della pietra e, incuriosito, vuole conoscerlo. Si reca al museo di
antropologia di San Francisco dove Ishi lavora come custode ed inevitabilmente
incontra anche il dott. Saxton Pope già diventato amico e protettore dell'ultimo
indiano Yahi. La passione in comune fece tutto il resto e in breve tempo Ishi,
Pope e Compton diventarono amici inseparabili.Fino a quel momento Pope
sapeva costruire solo archi indiani sulle informazioni di Ishi ma da Compton
impara a realizzare il long bow in stile inglese che nelle sue mani diventa un
attrezzo micidiale, testimone di memorabili cacciate e l’arco preferito per il
resto della sua vita.
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Accadde poi qualcosa di magico che fa pensare ad un dio speciale per gli
arcieri.
William Compton, nel 1915 aveva 52 anni e mentre partecipava ad una
esposizione arcieristica a San Francisco, incontra e successivamente diventa
mentore di un giovane di nome Art Young che gli manifesta il suo grande
interesse per l’arco. Art Young, grazie a Compton e alla sua passione si aggrega
facilmente ed il quartetto affiatato trascorre molto tempo a costruire archi,
tirarci ed usarli a caccia. In questo periodo Pope e Young coniano per William il
soprannome di “chief” (capo) per l’influenza indiana che ebbe da giovane.
Purtroppo Ishi morì l'anno successivo di tubercolosi, nel 1916, ma gli altri tre
continuarono a cacciare insieme sia la piccola che grande selvaggina.
Mentre Pope e Young erano attratti dalla caccia a “big game” in territori lontani
e anche all’estero, William si accontentava della selvaggina stanziale della
California e dedicava molto del suo tempo all’insegnamento del tiro con l’arco
formando validi arcieri che si affermavano nelle competizioni. Dopo la sua
morte, all’età di 75 anni, per la grande influenza che aveva dato all’arcieria la
NFAA (National Field Archery association) istituisce nel 1947 in suo onore la
“Compton Medal of Honor “ conferita non solo a chi ha meriti agonistici ma
anche per l'impegno devoluto al supporto e alla promozione dell’ arcieria.
Ogni anno in America si organizza il “Compton Traditional Rendezvous” in
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Michigan
dove
si
incontrano
centinaia
di
arcieri
tradizionali.
L’incredibile della storia è come questi personaggi si siano potuti incontrare in
un’epoca dove la comunicazione era ridotta al minimo, la caccia con l'arco nel
mondo "civile" non esisteva, come siano riusciti ad imparare gli uni dagli altri,
tutto in una sequenza e con dei passaggi temporali che ad averli pensati non si
sarebbe potuto fare di meglio. Per molti sarà solo casualità, a me piace
pensare che c 'era un progetto ben preciso che doveva realizzarsi.
Veriano Marchi
Interessante il contributo di Veriano Marchi perché da alcune preziose
informazioni:
- Si incontrano, nell’attività di questi pionieri due scuole originali distanti
geograficamente e culturalmente,quella dei nativi americani e quella del
long bow inglese. Da queste nascerà per fasi successive sia l “american
modern longbow”, costruito con l’utilizzo di fibre sintetiche, sia,
coniugandosi con la cultura arcieristica orientale, il bowhunter-recurve
che l’arco olimpico, nelle sue diverse versioni.
- La rinascita dell’attività venatoria va di pari passo, almeno in America,
con la rinascita dei tornei e delle competizioni, nulla ci fa pensare che
agli albori dell’arcieria moderna ci fosse una distinzione o
specializzazione delle attrezzature e delle due attività stesse.
Parallelamente in Europa si sviluppano (fin dall’inizio del ’800) le competizioni
arcieristiche, come testimonia l’articolo di Stefano Benini, che troverete tra gli
allegati. Ciò che è importante sottolineare al fine del nostro ragionamento è da
un lato la eterogeneità dei percorsi che portano alla nascita dell’arcieria
moderna e dall’altro la prossimità tecnica e culturale tra il tiro di origine
venatoria e il tiro da “competizione” alle sue origini, con una progressiva, ma
successiva, specializzazione nelle tecniche e nei materiali.
Osservando una serie di immagini dei primi maestri del tiro alla targa
(1890/1920), noteremo due cose: l’ inizio, probabilmente progressivo, di una
differenziazione tecnica nel gesto, ma solo un inizio abbozzato, probabilmente
più figlio della distinzione tra tiro da gettata di origine belliche e quello più
propriamente venatorio; attrezzature sostanzialmente simili a quelle che
abbiamo visto nelle mani di Compton o nei filmati di Howard Hill.
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In Italia è protagonista e testimone di questa fase pionieristica Giusi Pesenti.
Nell’intervista realizzata, racconta come nel ’38, ancora ragazzino vinne in
contatto con il suo primo arco portatogli dalla Somalia, allora colonia dello
“impero”, da Locatelli, ufficiale del Regio Esercito e medagli d’oro di tiro alle
Olimpiadi.
Nata questa passione nel dopo guerra Pesenti entrerà in contatto con Fred Bear
e confronterà le indicazioni sulla tecnica di utilizzo dell’arco, giuntegli dall’
Africa,
insieme all’arco Somalo con quelle di Bear fortemente influenzate dalla storia e
dalla cultura dei nativi americani, riscontrando moltissime analogie. In quegli
stessi anni darà vita al ROVING Istintivo Venatorio, la prima manifestazione
Europea di tiro di simulazione venatoria.
Ormai l’arco tradizionale è nato in continuo processo di specializzazione delle
varie tipologie d’arco rivolte ad attività simili ma diverse tra loro.
Soprattutto il suo universo inizia a distinguersi dal neonato “arco tecnologico”(il
compound di Allen, 1952) e dall’arco olimpico che a sua volta si specializza nel
tiro di precisione alla targa con l’aquisizione di una serie di accessori. Insieme
alla differenziazione degli archi nascono le manifestazioni sportive a loro
dedicate ma soprattutto si specializzano tecniche di utilizzo diverse.
La gestualità:
E’ proprio Giusi Pesenti che all’ inizio dell’avventura del tiro con l’arco istintivo
venatorio in Italia prova a codificare gli elementi fondamentali per una tecnica
del tiro on l’arco:
1) Tenuta della freccia tra indice e medio – anulare. Punto di aggancio
fisso alla guancia.
2) Si raccomanda vivamente per l’identificazione dello stile che
fissando la cocca all’angolo della bocca (il termine del labbro è
perpendicolare all’occhio direttore) indice e pollice si ancorino al
condilo (mandibola).
3) Che il tempo per detto aggancio di concentrazione sia breve e
mantenuto circa entro
3 secondi (un giusto libbraggio non ne concede di più).
4) Che l’attimo di intensa concentrazione sul centro del bersaglio
avvenga con ambedue gli occhi, senza che questi si basino sul
prolungamento della freccia (falso scopo).
5) Che in precedenza del tiro non venga puntata la freccia sul
bersaglio, ad arco scarico.
6) Che, caricando l’arco inspirando dal basso, un braccio spinga
mentre l’altro tiri simultaneamente l’arco.
7) Che l’arco venga mantenuto in posizione leggermente inclinata.
8) Che tutto il corpo, pure leggermente inclinato in avanti e sull’arco,
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prenda viva parte al tiro.
9) Che la punta della freccia, ad arco teso, non fuoriesca più del
necessario dalla finestra dello stesso.
Si rammenti, in fine, che la maggiore soddisfazione del tiro, e
inconsapevolmente dello sgancio, sono anche dovuti ad un relativo
libbraggio dell’arco.
Questo si legge nel manifesto del Roving Nazionale Istintivo Venatorio di Nese,
la prima manifestazione in Europa nata, negli anni ’50, per la pratica di
simulazione venatoria con gli archi tradizionali. Pochi elementi chiari, che
descrivono una tecnica di tiro antica.
La prima codificazione tecnica che ritroviamo, almeno nella cultura Arcieristica
Occidentale risale al 1545, un periodo in cui l’arco ha già iniziato il suo declino
come arma ma in cui ancora è viva la sua tradizione soprattutto in Inghilterra
che dal 1100 al 1400 costruì sopra i suoi “longbow ” i suoi successi bellici.
E’ il Toxophilus di Roger Ascham (vedi Allegato 2) a fornirci, nella forma, del
tempo un breve trattato di cultura arcieristica, che fissa, cosa che a noi qui
interessa, alcuni canoni tecnici:
Posizione
Il primo punto è, quando un uomo si accinge a tirare, l'assumere una
posizione dei piedi ed un'impostazione tale da esser sia elegante a
vedersi che efficace da usarsi, sistemando la figura e tutte le altre
parti del corpo in tal postura e portamento che egli possa sia
impegnar tutte le sue forze a suo miglior vantaggio (… ) Un piede
non deve essere posto troppo lontano dall'altro, per evitare di trovarsi
troppo in basso, il che è sconveniente, né tuttavia i piedi devono stare
troppo vicini, onde evitare di starsene troppo diritti in piedi, poiché in
tal modo un uomo né userà bene la sua forza, né tuttavia rimarrà
stabile.
Incocco
L'incoccare bene è il punto più facile di tutto, ed in ciò non vi è
scaltrezza, ma solo diligente attenzione nel sistemar la freccia né
troppo alta e né troppo bassa, ma diritta e perpendicolare all'arco
Trazione
… Perciò il tender con calma ed in modo uniforme, vale a dire non
oscillando la mano ora in alto e ora in basso, ma sempre allo stesso
modo, finché si arriva al bordo o spalla della punta, è la cosa migliore
sia per efficacia che per eleganza.
Mantenimento
Il mantenimento della trazione (al punto d'ancoraggio al volto,
n.d.t.) non deve esser protratto a lungo, ….
Rilascio
… Per il rilascio pulito, devi fare attenzione a non strusciare contro
qualsiasi cosa che tu abbia indosso...
A colui che è in grado di tirare in modo corretto non manca
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nient'altro che il tirare diritto e il mantener la distanza.
Quindi sono già individuati alcuni elementi fondanti che ritroveremo nelle
diverse gestualità che andremo ad analizzare.
E’ bene sgombrare il campo da un possibile equivoco:
Non è possibile affermare che esista un solo giusto modo per utilizzare l’arco
tradizionale.
Esistono degli elementi fondanti che combinati insieme tra loro, a seconda della
morfologia del singolo individuo, danno vita a soluzione diverse.
Noi qui cercheremo di destrutturare le variabili, gli elementi fondanti e come tra
loro si combinano:
Presa della corda - Tecnica di trazione - Punto di rilascio – Allineamento al
bersaglio – Rilascio (o seconda trazione) - Dinamica del gesto.
L’ultimo punto è forse il più complesso da spiegare ma vuole semplicemente
significare che non possiamo pensare gli altri elementi o analizzarli se non li
pensiamo in modo dinamico come un insieme in movimento nello spazio e nel
tempo. La scomposizione che stiamo qui facendo a scopo analitico diventa
fuorviante se non pensata come un insieme di forze ed equilibri in movimento.
Presa della corda:
Come abbiamo visto la presa della corda viene codificata fin dal 1500, per quel
che ci è dato sapere in infradito, presa mediterranea. Questo ha una sua
giustificazione funzionale, soprattutto pensando a archi senza punto di incocco
o con punto d’incocco precario, come possiamo presumere fosse nell’antichità.
Tutte le fonti e i testi che abbiamo analizzato, nonché le sperimentazioni e le
esperienze maturate sottolineano l’ importanza di una presa “profonda” tra la
prima e la seconda falange delle dita.
Questo perché favorisce un aggancio della corda mantenendo i muscoli
dell’avambraccio e il polso rilassati in modo da trasferire alla corda stessa le
minor tensioni possibili.
Tecnica di trazione
Abbiamo analizzato tre diversi modelli:
- a leveraggio verticale (Shultz/Hill)
- spingi e tira (Coche)
- ad arco alzato verso il bersaglio
E’ bene precisare che sono solo tre modelli “teorici” in realtà quasi sempre ogni
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arciere anche qui trova una sua forma espressiva. Spesso nella pratica di
ognuno si mischiano elementi dell’uno e dell’altro.
Il primo è forse quello più utilizzato dagli arcieri, permette l’uso di archi di
forza consistente ottimizzando le risorse dell’arciere.
L’arciere parte leggermente piegato in avanti con la freccia puntata verso terra.
Alza il braccio dell’arco verso il bersaglio, già teso e contemporaneamente
porta la corda al viso. Importante, come sempre non alzare, portare fuori
allineamento la spalla dell’arco. Meglio avere sempre un’ultima tensione,
spinta del braccio dell’arco verso il bersaglio, al momento dell’arrivo sulla
direttrice di tiro dello stesso.
Anche il secondo tipico della scuola di J.M Coche ha una ottimizzazione delle
forze in gioco. L’arciere parte in una posizione raccolta con il braccio dell’arco
raccolto, il gomito tocca il fianco, spinge l’arco verso il bersaglio, alzando
progressivamente il braccio e portando l’altra mano, quella della corda verso il
viso.
Il braccio dell’arco piegato permette un’ apertura verso il bersaglio mantenendo
le spalle già in linea verso lo stesso.
Il terzo è un metodo improprio per l’uso dell’arco tradizionale, presuppone
diverse attenzioni da parte dell’arciere, sia per non sforzare la colonna
vertebrale, procurando torsioni, al lungo andare dannose, sia per riuscire ad
utilizzare le risorse dell’arciere al meglio.L’arciere allinea la mano dell’arco e la
freccia verso il bersaglio e poi apre l’arco portando la mano della corda al viso.
Qualsiasi sia la tecnica adottata alcuni fondamentali debbono essere rispettati:
- Un corretto allineamento scheletrico a fine trazione.
- Un ottimale espansione sui piani.
Cosa bisognerebbe evitare di fare:
-
Il brandeggio, sull’asse orizzontale del braccio dell’arco.
Limitare le torsioni del polso dell’arco.
Evitare le rotazione sulla colonna vertebrale.
Evitare lo spostamento dell’anca, in apertura o in chiusura, al
momento della trazione.
Punto di rilascio
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Il punto di rilascio è assolutamente soggettivo. E’ uno dei punti di equilibrio più
delicati poicchè interagisce con diversi componenti del tiro.
Interagisce direttamente con le tecniche di mira: se usi il gapshooting preferirai
avere più presente nella visione periferica l’asta della freccia e la mano
dell’arco, quindi porterai più in alto verso l’occhio il punto di rilascio.
Mantenendo una posizione molto eretta e non inclinando leggermente la testa
preferirai un punto di rilascio più avanzato frontalmente per poter mantenere
l’asta della freccia sempre sotto l’occhio dominante.
Il punto di rilascio varia anche in relazione alla morfologia e a come l’arciere
effettua la “seconda trazione”, la tensione finale che si completa dopo il rilascio.
Proviamo a costruire uno schema che ci aiuti nell’analisi:
Il punto di rilascio può essere:
sul piano verticale
– alto (sopra l’angolo della bocca)
– medio (cocca all’angolo della bocca)
- basso (sotto l’angolo della bocca)
sul piano orizzontale
- frontale sulle labbra o difronte in caso di evidente sotto allungo.
- medio all’angolo della bocca
- arretrato indice e pollice uniti sotto l’arcata della mascella.
Qualsiasi sia la soluzione scelta è importante che il punto del rilascio permetta:
- Una corretto allineamento scheletrico
- Una corretta espansione sui piani
- Un allineamento sull’asse vericale dell’occhio dominante lungo l’asta
della freccia.
Allineamento al bersaglio
L’allineamento al bersaglio è preliminare a qualsiasi altro ragionamento.
Chi tira alla targa dispone innanzitutto i propri piedi nel corretto allineamento
perpendicolare al bersaglio. Le situazioni di tiro nel bosco, di tiro in velocità o a
sagome mobili o al volo richiedono all’arciere tradizionale una velocità di
esecuzione e una adattabilità al terreno che richiedono un’ altra tecnica di
allineamento ed equilibrio.
Per noi sarà importante allineare correttamente le spalle, la spina dorsale e il
bacino. Questo blocco costituirà per noi l’asse portante sul quale costruire il
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nostro tiro. Il nostro corpo è snodato, dispone di una serie di cerniere che
permettono d’uttilità d’orientamento.
Caviglie e ginocchi dovranno rimanere morbide, seguire le asperità sempre
variabili del terreno per permettere che l’anca si orienti perpendicolarmente al
bersaglio e con lei le spalle.
L’asse della colonna vertebrale, leggermente proiettato verso il bersaglio dovrà
comunque mantenere la sua verticalità e centralità rispetto al bacino, sia per
garantire la stabilità al momento della trazione e del tiro sia per l’utilizzo delle
forze di trazione e di spinta ottimale.
Rilascio o seconda trazione.
Come ogni arciere sa il rilascio è il momento più delicato sia che si voglia farlo
senza nessun momento di arresto, proseguendo la trazione oltre il punto di
rilascio, sia che si preferisca “fermare” il gesto quell’attimo sufficiente a
stabilizzare il corpo.
La criticità del momento in realtà è data dai momenti che lo precedono:
presa della corda, preparazione del tiro e trazione. Se si riesce ad arrivare sicuri
attraverso queste fasi senza commettere errori macroscopici il rilascio avviene
naturale. Come qualcuno ha già scritto “un buon tiro si prepara prima e dopo il
mentre non dovrebbe esistere”.
Cosa è importante fare:
- Non variare mai il rilascio, cercare la massima costanza nel gesto
- Effettuare sempre la seconda trazione: la corda scappa dalle dita perché
noi continuiamo la trazione.
- Non accompagnare mai la corda con la mano in uscita.
- Mantenere sempre l’azione sul piano orizzontale.
- Mantenere ferma la mano dell’arco verso il bersaglio.
- Liberare la mente e rimanere concentrati sul punto del bersaglio d
colpire.
Introduciamo per la prima volta un concetto (liberare la mente) che non attiene
più alla sfera della gestualità ma all’atteggiamento mentale dell’ arciere. Proprio
perché il momento del rilascio, del “passaggio attraverso il cancello” come dice
Paolo Bucci, è il momento cruciale essenziale ma anche il meno definibile e il
più interconnesso aglia aspetti psicologici del tiro ma soprattutto perché deve
risultare un atto in-volontario.
Dinamica del gesto
Tutti questi elementi si devono combinare in un tutt’uno dinamico fluido in cui
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l’armonia e l’efficacia si combinano nello spazio e nel tempo.
Lo spazio della nostra trazione e del rilascio fino al volo della freccia verso il
bersaglio e il tempo che scandisce questa nostra azione. E’ difficile e può
essere fuorviante considerare il singolo elemento al difuori dell’insieme.
La respirazione
Qualunque sia il metodo di respirazione scelto è importante coordinarla con le
azioni di tiro. Fino a qualche decennio fa era di convinzione comune l’uso di
una respirazione alta (riempire i polmoni) inspirando al momento della
trazione.
Noi proponiamo il metodo, reso noto nel nostro ambiente da J.M.Coche e che a
nostro avviso presenta dei vantaggi:
- Si prepara il tiro e la concentrazione con dei profondi respiri, al momento
della trazione si espira, fino ad arrivare al punto di rilascio, attimo di
apnea e rilascio espirando ancora l’”ultimo soffio”.
La scansione in due tempi dell’azione serve, secondo Coche, a scandire il ritmo
a obbligarci, con l’ultimo soffio, alla seconda trazione.
In questo caso la respirazione sarà diaframmatica. L’ inspirazione si chiude con
una pressione dei polmoni verso il diaframma. E’ un metodo di respirazione
basso
Di origine orientale.
(Allegato 3)
Tecniche di mira
Non abbiamo dati certi sulle tecniche di mira utilizzate nell’antichità. Ascham fa
più volte riferimento alla punta della freccia ma al tempo stesso parla di
concentrazione sul bersaglio:
“Il far caso alla punta della freccia prima del rilascio è il miglior ausilio
che vi possa essere per mantenere il giusto alzo di tiro; la qualcosa
tuttavia è d'intralcio al tirar in modo eccellente, perché un uomo non
può tirare in modo perfettamente diritto se non guarda direttamente
il bersaglio. “
Bisogna tener conto che Ascham scriveva in una società dove la cultura della
collimazione e delle armi da fuoco era ancora poco diffusa, probabilmente
dava poca importanza alla distinzione tra visione primaria e secondaria o
periferica. La stessa cultura scientifica non era ancora così diffusa e non
permeava la società come oggi.
Oggi due tecniche sono nate e si sono affermate con l’uso degli archi
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tradizionali,
- incstintive shooting
- gapshootig
Fanno parte dello stesso mondo arcieristico, della stessa storia e hanno lo
stesso ambito di utilizzo, il tiro venatorio, il tiro di simulazione venatoria o in
senso più ampio il tiro di campagna.
In cosa si assomigliano:
Incstintive shooting
Gapshooting
1) presa mediterranea
1) presa mediterranea
2) l’arciere affida al proprio
allineamento corporeo, alle proprie
capacità propriocettive il primo criterio
di mira
2) l’arciere affida anche al proprio
allineamento corporeo, alle proprie
capacità propriocettive il primo criterio
di mira
3) L’arciere necesiità:
- perfetta costanza dell’allungo
- ripetitività del gesto
- gestione della visione periferica
- educa i suoi automatismi per
mantenere la concentrazione finale sul
bersaglio.
3) L’arciere necesiità:
- perfetta costanza dell’allungo
- ripetitività del gesto
- gestione della visione periferica
- educa i suoi automatismi per
mantenere la concentrazione finale sul
bersaglio.
In cosa si differenziano:
Incstintive shooting
1) l’arciere immagina il volo della
freccia e pone la sua freccia
sulla parabola immaginata.
2) L’arciere educa i suoi
automatismi a percepire il volo
della freccia verso il bersaglio
La visualizzazione e la percezione
tridimensionale dello spazio sono
essenziali
Gapshooting
1) l’arciere con la vidsione
periferica ha sempre presente la
posizione della freccia rispetto
al punto da colpire
2) L’arciere educa i suoi
automatismi a conoscre il gap
che separa la punta dalle sua
freccia dal bersaglio da colpire
La visualizzazione e la percezione
tridimensionale dello spazio sono
essenziali
Le differenze sono sostanziali ma portano ad un risultato molto vicino.
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Il gapper come il tiratore istintivo deve riuscire a mantenere al momento del
tiro la concentrazione sul punto del bersaglio da colpire affidandosi ai suoi
automatismi. E’ il percorso di costruzione degli stessi che si differenzia. E’
anche vero che molti di noi ricorrono anche incosciamente alle due tecniche a
seconda delle situazioni di tiro… Tanto sono borderline una rispetto all’altra.
Nella pratica e nell’allenamento di ognuno è fondamentale approfondire la
conoscenza di se stessi e della propria tecnica.
Come preparare il tiro:
Non possiamo affrontare compiutamente, per questioni di spazio i temi legati al
“mentale” dell’arciere però vorremmo dare delle indicazioni generali che
fossero di ausilio e di crescita per tutti.
Un buon tiro si prepara prima:
- Cercando la posizione giusta, la stabilità e la giusta proiezione verso il
bersaglio. Non si tratta di allineare i piedi, che come sappiamo spesso è
per noi una azione meccanica quanto di sistemare il proprio corpo nello
spazio con il giusto orientamento nello spazio verso il bersaglio e
assumere un atteggiamento mentale di proiezione verso lo stesso.
- Focalizzando il bersaglio, percependo lo spazio che lo circonda e lo
separa da noi.
- Allineandosi non solo con anche e spalle ma al momento della trazione
prevedere che la trazione avvenga in linea con il bersaglio.
Si esegue:
- Visualizzando il volo della freccia verso il bersaglio, visualizzando la sua
parabola.
- Concentrandosi al momento della trazione sulla parte più piccola
possibile da colpire.
Si conclude solo quando la freccia è a bersaglio:
- Seguendo, spingendo con lo sguardo, la freccia finche non ha raggiunto il
bersaglio.
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Allegato 1
Agli albori di uno sport moderno
DI STEFANO BENINI
Alcune osservazioni sui primi archi in legno per uso sportivo e sulla loro
costruzione.
Il tiro con l’arco nella sua dimensione sportiva e ludica nacque, potremmo
presumere, quando il primo uomo scoccò una freccia per il puro piacere di
farlo, senza quindi un preciso “scopo” utilitaristico, di caccia o di guerra che
fosse. Vi sono accenni del “tiro al bersaglio” con l’arco nella stessa Bibbia,
sarebbe quindi riduttivo affermare che il nostro sport nasce nell’Inghilterra
vittoriana per poi trapiantarsi ed espandersi dagli Stati Uniti al resto del mondo.
Tuttavia, da un punto di vista meramente federativo e formale, le cose sono
andate proprio così, se non dal punto di vista strettamente olimpico della Fita,
almeno sul piano del tiro di campagna di ispirazione venatoria, che ebbe nei
fratelli Thompson prima e in Fred Bear e Hill dopo, i principali promotori.
Non esistono testimonianze scritte
Chi per primo in America entrò in possesso di un arco “sportivo” in legno di
tasso, non ci è dato saperlo. Alcuni dei primi membri della compagnia United
Bowmen di Filadelfia andarono a visitare l’Inghilterra ed è probabile che alcuni
di loro siano tornati a casa con un arco inglese tra le mani, anche se non
esistono testimonianze scritte a tale proposito negli annali del club. Tuttavia,
per quanto strano possa sembrare, gli archi in tasso erano diventati una vera
rarità persino in Inghilterra durante tutto il secondo quarto dell’ottocento:
l’improvvisa esplosione di popolarità che lo sport conobbe nel 1825 deve aver
provocato un vero saccheggio delle scorte del prezioso e raro legno, tale da
richiedere il largo impiego di legni sostitutivi fino ai giorni del leggendario
campione di tiro alla targa Horace Ford, autore tra l’altro del primo trattato sul
tiro con l’arco moderno, intitolato “Archery, Its Theory and Practice” (1856).
Correva l’anno 1829 quando il primo arco inglese “cadde” in mano agli United
Bowmen di Filadelfia: si trattava di un longbow in lemonwood rinforzato sul
dorso, opera del blasonato arcaio Waring. Nessun arciere di quella veneranda
compagnia d’oltreoceano ebbe mai un arco in tasso fino a poco tempo prima
della Guerra Civile tra Nord e Sud. Un certo Maxon, che scriveva sulla rivista
arcieristica “Badminton” nel 1894, fu il primo dell’ambiente a citare il Taxus
brevifolia (tasso americano) commentando la situazione costruttiva del tempo
con queste parole: “La mancanza di esperti costruttori di archi ha fatto sì che
fosse sinora meno rischioso procurarsi un arco inglese in tasso o in lancewood
(Oxandra lanceolata) di buona qualità piuttosto che orientarsi su un attrezzo in
legno nostrano e di costruzione americana. Il tasso della California consente di
ottenere un’eccellente stecca da arco, ma esso finora è stato assai poco usato
in quanto gli arcieri, che preferiscono il legno di tasso, generalmente
prediligono le qualità di più densa crescita provenienti dall’Europa. Alcuni archi
di eccellente fattura vennero costruiti con tasso americano a San Francisco e
New York all’incirca tra il 1880 e il 1882 e, quando vengono rinforzati sul dorso
con uno strato di Hickory, questi attrezzi non hanno nulla da invidiare a quelli
in tasso spagnolo di assai maggior pregio e costo”.
Il più costoso: un longbow in lamine di bambù
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Tuttavia, nei cataloghi dei dettaglianti di materiale arcieristico di New York e
Brooklyn di quegli anni, non troviamo nemmeno l’ombra di un accenno al
tasso. In quel periodo l’arco più costoso ed apprezzato era un longbow in
lamine di bambù incollate e congiunte al centro, che veniva venduto a “ben”
venti dollari, mentre un “arco da uomo lungo sei piedi di prima qualità, in
lancewood massello con puntali in corno o alluminio, completo di impugnatura
rivestita e corda intrecciata” veniva quattro dollari e cinquanta. Altri archi da
club, di simili caratteristiche ma di evidente superiorità qualitativa, venivano
venduti a sette dollari, mentre un altro tipo di arco in lancewood rinforzato con
hickory sul dorso e legature in seta per rinforzo ed estetica, veniva nove dollari.
Il secondo in classifica, dopo il pregiato arco in bambù, era un longbow di
snakewood massello (Piratinea guianasis), un legno originario della Guiana, che
veniva venduto a quindici dollari. Il listino di un altro grosso commerciante del
settore, Horsman’s, era più o meno uguale, ma la sua gamma di archi rinforzati
sul dorso è più interessante per via dell’ampia varietà dei legni menzionati. Gli
archi erano tutti rinforzati in lancewood, ma i bellies (le facce interne)
includevano: hickory, amaranto, beefwood (Minusops globosa), rosewood e altri
legni esotici come il pheasant. I prezzi andavano dai cinque ai nove dollari.
Questo è anche il solo esempio a me noto nel quale la pratica usuale venne
invertita e l’hickory usato sulla parte interna soggetta a compressione invece
che su quella esterna per resistere alla trazione.
Robert P. Elmer negli anni ’30-‘40
Robert P. Elmer, campione indiscusso di tiro alla targa tra gli anni ’30 e ’40, ci
riferisce di aver visto un sacco di quei vecchi archi risalenti agli inizi del 1880 e
di averne anche usati alcuni. “Si doveva essere assai prudenti - spiega Elmer poiché la colla di quei tempi cedeva all’improvviso a causa del clima
eccessivamente secco. Erano attrezzi mediocri rispetto agli standard “moderni”
(scriveva Elmer nel 1946) - ma erano magnificamente rifiniti ed eleganti
esteticamente, poiché quei legni duri consentivano la costruzione di archi
veramente sottili e snelli. I Belgi ancora usano archi di questo tipo”. Nessun
legno può essere usato se non è passato attraverso il processo di stagionatura.
La quantità di acqua normalmente presente nel legno fresco è enorme, ma la
proporzione è maggiore in alcuni tipi di legno piuttosto che in altri. Anche un
legno durissimo come il teak, che cresce per natura a fibra fitta e solo su pendii
di montagne asciutte e con perfetto drenaggio, è troppo pesante per
galleggiare quando è appena tagliato, il che implica un peso specifico superiore
alle 63 libbre (28,5 kg) per piede cubico. Quando viene seccato abbastanza per
essere messo in commercio pesa intorno ai 18 kg al piede; ciò sta ad indicare la
perdita di ben un terzo della massa iniziale. Quindi la riduzione del contenuto
acquoso del legno è “volgarmente” nota come stagionatura, ma questo
importante processo non può essere spiegato in termini così elementari e
semplicistici. È abbastanza vero che, durante la stagionatura, l’acqua in eccesso
contenuta nei vasi fibrosi del legno evapora, tuttavia è anche vero che durante
questo importante e lento fenomeno avvengono numerosi e complessi
mutamenti sia chimici che istologici, che risultano evidenti solamente dagli
effetti che essi producono ma che possono essere seguiti in dettaglio soltanto
attraverso la perseverante ricerca di personale scientifico qualificato.
Quando il legno esprime la massima forza
La Treccani o la Britannica dicono che: “La rigidità del legno aumenta con
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l’evaporazione dell’acqua solo fino a raggiungere il 3 o 4 percento di umidità
residua nel legno stesso e in questo stato il legno può esprimere la massima
forza ma non al di sotto di questa percentuale. Tuttavia, nella pratica comune,
legno così secco non si trova mai: il legname, anche in condizioni climatiche
calde e ventilate, continua a contenere almeno un 10 percento di umidità
residua”. Un tale stato di “disidratazione” può essere velocemente ottenuto
procedendo all’evaporazione del legno verde in appositi forni, ma l’effetto,
come andremo ad analizzare, diventa disastrosamente debilitante per la
struttura lignea. Purtroppo la logica moderna di lavoro è più vicina all’avidità
che non alla saggezza: deve tradurre in termini monetari ogni attimo di tempo
che passa, così che tutto il legname da opera reperibile oggigiorno è già stato
inevitabilmente trattato in quel modo indegno, salvo poche, rarissime eccezioni
relative a poetiche e pittoresche segherie di montagna, ormai in via di
estinzione. Chiunque abbia eseguito anche soltanto qualche casereccio lavoro
di carpenteria può aver notato la differenza di consistenza tra una tavola in
legno moderna e una dello stesso legno stagionata in modo naturale qualche
generazione addietro. Questa asserzione può essere scioccante per coloro che
oggigiorno hanno intenzione di costruire “romantici” archi in legno, poiché
implica il fatto che ogni nostalgico arcaio desideroso di far rivivere i magici
attrezzi del passato dovrebbe anche tagliare e stagionare per conto proprio il
prezioso materiale, con conseguente maggior “perdita” di tempo, mettendosi
quindi in netto contrasto con la logica moderna.
Il processo di essiccazione
La struttura cellulare del legno è analoga per molti aspetti a quella della carne:
proprio come della carne fresca e succulenta può essere modificata dal
processo di essiccazione fino a diventare dura, rigida e resistente, quindi il
legno diviene anch’esso duro e forte a seguito di un simile processo naturale.
Tale processo, come abbiamo già accennato, non è il risultato di una semplice
disidratazione. Le cellulose, le resine, i protéidi, gli albuminoidi, gli zuccheri, gli
amidi, gli oli, i protoplasmi e le altre sostanze presenti nel legno sviluppano
complicati e poco noti cambiamenti sia chimici che fisici al loro interno ed è qui
che la moderna stagionatura artificiale fallisce il suo obiettivo: potrà anche
drasticamente ridurre il contenuto acquoso in poco tempo, ma non potrà mai
consentire alle altre complesse e delicate alterazioni di accadere. Il tempo
prescritto per legge dal governo britannico per la stagionatura del legname in
tempo di pace variava, alcuni decenni or sono, dai tre mesi per le essenze
tenere sbozzate in travi quadrate dai quattro ai sei pollici di lato, fino ai ventisei
mesi per i legni duri in travi di sezione dai due piedi in su.
Mentre questi tempi potevano essere sufficienti per le necessità degli architetti,
sono tuttavia inadeguati per quelle di un buon arcaio. Il legno di tasso, in
Inghilterra, veniva stagionato nelle botteghe dei costruttori d’archi per circa
cinque anni; a noi tutto ciò può apparire eccessivamente “conservatore”,
soprattutto in considerazione del fatto che il costruttore inglese parte da una
stecca di legno che non è molto dissimile da un arco sovradimensionato,
eliminando poi le eccedenze un po’ per volta ogni anno. Tuttavia, nel nostro
clima continentale più asciutto, tre anni di stagionatura sono più che sufficienti.
Naturalmente sono stati costruiti molti archi con legni stagionati al di sotto dei
tre anni e hanno funzionato ugualmente, ma sarebbero stati migliori e più
duraturi se il loro legno fosse stato stagionato più a lungo.
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Alburno e durame
La fondamentale differenza tra l’alburno e il durame del legno è la stessa
differenza che esiste tra la vita e la morte, infatti il durame (interno del tronco)
non è nient’altro che alburno morto. Le cellule dell’alburno sono ancora piene
di protoplasma vivente, mentre nelle cellule del durame il protoplasma è morto
ed è stato rimpiazzato da tannino e resine. L’alburno contiene anche le fibre
cave e i condotti attraverso i quali passa la linfa. Sono proprio gli zuccheri e gli
amidi presenti in questa parte esterna del tronco a richiamare gli insetti e i
batteri in cerca di cibo, ecco perché il durame del legno è più durevole ed
immune da tali rischi se esposto agli agenti esterni: pochi esseri viventi
vogliono mangiarselo. Quanto riportato dal dr. P. Elmer nel 1946 nel suo
magistrale libro “Target Archery” contrasta, quindi, per quanto riguarda l’analisi
sull’idoneità dei legnami, con quanto pubblicato più di recente da Ron
Hardcastle nella peraltro pregevolissima opera “Traditional Bowyer Bible”,
volume 1 (1992).
Nella parte dedicata al taglio e alla stagionatura del legno per archi, Ron
affronta la spinosa questione della stagionatura industriale a forno ed
argomenta che, dopo tutto, anche il legname trattato in quel modo, dopo
essere stato “lasciato in pace” per qualche mese, può riacquistare le sue
caratteristiche a causa del naturale processo di reidratazione dovuto allo
scambio igrometrico con l’umidità ambientale ed essere quindi usato dall’arcaio
con la massima fiducia.
Quelli stagionati artificialmente...
Ron quindi ne fa unicamente un problema di eccessiva essiccazione delle fibre,
dimostrando a mio avviso soverchia ingenuità e superficialità: come potrebbe
infatti del legname chimicamente debilitato riacquistare una resilienza e
robustezza che non gli abbiamo mai consentito di acquisire sin dall’inizio? Quei
delicati processi fisici e chimici che si verificano soltanto in condizioni naturali
ad opera del tempo, non sono potuti avvenire nel legno “seccato” in forno, non
importa quanto lo lasciamo riposare o reidratare all’esterno. Certo, si possono
costruire archi anche con legno industriale stagionato artificialmente, ma non
saranno nemmeno che un pallido simulacro dei loro predecessori in legno fatto
stagionare in cataste o nelle botteghe.
Stefano Benini
Da ARCOSOPHIA – Green Time
ALLEGATO 2
Tecnica di tiro con il longbow, con l'aiuto del Toxophilus,
scritto da Roger Ascham nel 1545
Il testo di Roger Ascham farà da guida a questa comunicazione che cercherò di
rendere meno tecnica possibile. Nel book distribuito ai partecipanti al Raduno
trovate sia indicazioni che ci provengono dai cronisti del passato, (Enguerrand
di Monstrelet e Plutarco) sia studi e lavori più specifici sull'arco (Gad Rausing e,
più modestamente, Dario D'Alù e Marco Dubini).
La pratica mi ha insegnato che scoccare con precisione con archi in legno di
potenza superiore alle 50 libbre costringe l'arciere ad usare la tecnica adatta, se
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non vuole farsi male e se vuole colpire il bersaglio, anche a distanze superiori ai
100 metri. Se alla tecnica corretta si aggiunge l'esercizio (e questo a molti di
noi, me compreso, manca per i soliti motivi di tempo) i risultati possono essere
eccezionali. Va comunque ricordato ancora una volta che nostro scopo non è
quello di vincere gare ma di fare ricostruzione storica (e insieme a questa
trasmettere conoscenza e cultura) e quindi le tipologie e le abilità di tiro devono
essere finalizzate a questo tipo di attività. I tiri a comando e i tiri a distanza, ma
non solo questi tipi di tiro, devono diventare la nostra specialità e non
dobbiamo mai smettere di addestrarci ad effettuarli con sicurezza e precisione.
Sono tiri altamente spettacolari, che quasi nessun arciere storico sa fare. La
storia, di nuovo, e l'esperienza sul campo ci dicono come fare.
E' possibile, e noi possiamo farlo, trasmettere in questo modo ad un pubblico
sempre più numeroso, la conoscenza della figura dell'arciere medievale che sia
la storia che l'immaginario collettivo identificano come una delle figure chiave
del periodo storico che tanto ci appassiona.
PREFAZIONE (Stefano Benini 1999):
Citato da molti, letto da pochi, conosciuto da nessuno di coloro che vivono in
realtà geografiche non anglofone, Roger Ascham ha tuttavia lasciato un segno
destinato a rimanere nei secoli indelebile: ogni volta che una freccia alata solca
i sordi rumori di questa nostra avvelenata civiltà industriale, reca con sé
qualcosa di questo lontano e ieratico poema, scritto con penne d'oca grigia
quando la neve danzava nei turbini di vento.
Il Toxophilus è un'opera sorprendentemente attuale, non solo sul piano tecnico
dell'arte del tiro, ma anche per le analisi e i contenuti filosofici ed umanistici in
essa esposti. Nel suo libro Ascham non spiega come costruirsi archi e frecce
poiché, come dice lui stesso, teme di suscitare le ire delle corporazioni di arcai
e frecciai che vedrebbero in tal manuale una minaccia al loro mestiere.
Ascham venne alla luce nel 1515, all'epoca in cui l'arco iniziava a sentire
seriamente la competizione della polvere da sparo; non tanto riguardo
all'efficienza (fino ad allora non vi era questione sul fatto che l'arco fosse più
potente come arma rispetto ai primi goffi archibugi), ma per la novità e il
prestigio che faceva ottenere il dispiegamento in bella mostra delle nuove e
terrificanti produzioni degli armaioli.
Ma, fosse come si vuole, l'arco era, nel bene o nel male, nelle prime fasi del suo
permanente e inesorabile declino quando Roger venne al mondo. Toxophilus
deriva dal termine greco "Tòxon" (arco) e "philòs" (amante), quindi, "Colui che
ama l'arco"; l'opera è scritta in forma di dialogo tra il Toxophilus e il Philologus
(letteralmente colui che ama il discorso o la parola), che sarebbe l'interlocutore
che serva ad Ascham per sviluppare il tema e che, secondo il costume
dell'epoca, rappresenta un amante dell'apprendimento e della cultura, in questo
caso la cultura arcieristica.
Nella discussione il "Maestro" spiega all'allievo il suo amore per l'arco. Sia come
svago che come pratica militare difensiva, ed espone le sue ragioni per tenere
l'arco a tale scopo, invece delle armi da fuoco portatili, recentemente inventate
e privilegiate. Nella seconda parte, che è il vero e proprio manuale e trattato
tecnico, l'autore dà istruzioni pratiche sulle tecniche di tiro, il tutto sempre
supportato e sostenuto da citazioni erudite.
A TUTTI I GENTILUOMINI E "YEOMEN" D'INGHILTERRA
(…) ho scritto questo piccolo trattato, nel quale, se non ho potuto soddisfare
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qualcuno, confido che egli sia almeno benevolo verso questa mia opera, perché
io sono (così suppongo) il primo ad aver scritto qualcosa su quest'argomento
(…)
ed anche perché, se avessi detto cose imprecise, sarei contento che chiunque
potesse correggermi. Oppure, se avessi detto troppo poco, che qualcuno possa
aggiungervi del suo.
Il mio intento è per il profitto ed il diletto di ognuno, non vuole ferire o
dispiacere ad alcuno, non mirando ad altro scopo che quello che la gioventù
possa essere spronata al lavoro, l'onesto passatempo e a virtù e, per quanto è
mio potere, sia allontanata dall'oziosità, dal gioco disonesto e dal vizio: perciò
solo ho lavorato a questo libro, mostrando quanto adatto sia il tiro ad ogni tipo
d'uomo, quale onesto passatempo esso sia per il corpo, la sua pratica non è di
svilimento nemmeno per i grandi uomini, e né troppo costosa da sostenere per
i poveri, non usandone in modo disonesto per sopraffare i più deboli, ma
usando degli spazi aperti alla luce del giorno, come uomini dabbene, in grado
di correggere con la loro saggezza le colpe di questo mondo imperfetto.
Alcuni tiratori prendono in mano archi più forti di quel che sono in grado di
padroneggiare. Questo fa sì che a volte essi tirino oltre il bersaglio, altre volte
troppo di lato e persino feriscano qualcuno che sta a guardare. Altri che non
hanno mai imparato a tirare, e né tuttavia conoscono le buone frecce e i buoni
archi, si impegnano al loro meglio, ma costoro comunemente tirano spostati da
un lato nel terreno, e gli arcieri esperti che li sfidano saranno sia contenti di
questo, che sempre pronti ad approfittarne e scommettere con loro. Sarebbe
meglio per questi starsene seduti tranquilli piuttosto che tirare.
Vi sono altri, che hanno archi e frecce di qualità assai buona ed una buona
conoscenza del tiro, ma sono stati addestrati così malamente da non riuscire a
tirare né con eleganza e nemmeno con precisione.
TOXOPHILUS, IL PRIMO LIBRO DELLA SCUOLA DEL TIRO.
(…) del fatto che nessuno abbia in precedenza scritto alcun libro sul tiro, la
colpa non deve essere data all'argomento e se ne valesse o no la pena di
scriverne, ma agli uomini che furono negligenti al riguardo; questa fu la causa,
così suppongo. Gli uomini che praticarono più assiduamente il tiro e che meglio
lo conobbero, non furono degli eruditi; quelli che invece furono eruditi
praticarono poco il tiro, ed ignorarono la natura dell'argomento. Perciò ben
pochi uomini sarebbero stati capaci di scrivere su quest'argomento.
Il poeta Claudio dice che la natura ci offre un primo esempio del tiro grazie al
porcospino, il quale lancia i suoi aculei per colpire chiunque combatta con lui,
per cui gli uomini in seguito impararono ad imitarlo, ed in ciò trovarono arco e
frecce. Plinio riferisce questa seconda scoperta a Scitio, figlio di Giove.
Migliori, più nobili e numerosi scrittori fanno risalire il tiro ad un più nobile
inventore, come fanno Platone, Callimaco e Galeno: da Apollo. Tuttavia molto
tempo prima di quei giorni noi leggiamo espressamente del tiro nella Bibbia, ed
anche, se dobbiamo credere a Nicolas de Lyra, che Lamech uccise Caino con
una freccia. Così il tiro, per necessità usato ai tempi di Adamo, per nobiltà
riferito ad Apollo, non solo è lodato in tutte le lingue e gli scritti, ma anche
tenuto in gran conto, nelle migliori nazioni in tempo di guerra per la difesa
delle loro terre e da ogni sorta d'uomo in tempo di pace, sia per l'onestà che è
ad esso congiunta, che per il profitto che ne deriva.
(…) le peculiarità del tempo e le cure per la sopravvivenza di ciascuno, sono i
motivi per i quali così pochi tirano, come puoi vedere in questa grande città
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(Londra n.d.r.) dove, su mille uomini fisicamente abili, a ma la pena dieci
praticano seriamente il tiro. L'artiglieria, oggigiorno, si suddivide in due tipi di
arma: le bombarde e gli archi. Peter Nannius, uomo erudito di Lovanio, rileva
alcune scomodità delle bombarde, come il costo altissimo, l'ingombranza che
ne ostacola il trasporto e, se queste son grandi, la difficoltà di messa a livello, il
pericolo per coloro che vi operano vicino, la facilità con cui chi si trova lontano
riesce ad evitarne i proiettili e, se queste son piccole, lo scarso timore che
incutono e lo scarso effetto. Ed inoltre tutte le condizioni atmosferiche avverse
ed il vento, che ne ostacola non poco la funzionalità. Del tiro con l'arco egli non
riesce a provare alcun svantaggio.
I nostri arcieri d'Inghilterra, quando venivano al corpo a corpo, avevano sempre
pronta, sia appesa alla schiena che nelle mani del loro compagno d'arme, una
mazza ferrata o altra arma simile, per abbattere con quella il nemico. Gli
scozzesi hanno un proverbio che essi son soliti ripetere nei loro discorsi e col
quale riconoscono piena lode agli inglesi per il loro tirare: "Ogni arciere inglese
porta ventiquattro scozzesi sotto la cintura".
Nota di Stefano Benini:
Il proverbio è riferito all'abitudine degli arcieri inglesi di portare il loro "mazzo"
sheaf - di 24 frecce infilato sotto la cintura, ed al fatto che si vantassero spesso a ragione - che ad ogni freccia corrispondeva la vita di un nemico).
Ascham, quando parla dell'arcieria di guerra la classifica sempre come
"artiglieria", ed in effetti il modo in cui gli arcieri venivano impiegati sia per il
"fuoco di sbarramento" che di "sfondamento", la pongono in questa categoria
militare. Non scordiamo che ai tempi di Ascham erano ben freschi i ricordi delle
gesta dei "longbowmen" della Guerra dei Cent'anni, dove i loro successi
potevano a tutto diritto costituire l'archetipo e l'apoteosi dell'arco inteso come
artiglieria.
(…) tu vedi che il più forte degli uomini non esegue sempre il più forte dei tiri,
la qual cosa prova che il tendere con forza non risiede tanto nella forza
dell'uomo, quanto nella pratica del tiro. Un uomo forte ma non abituato al tiro,
ha le braccia, il torace, le spalle e le altre parti del corpo con le quali dovrebbe
tendere fortemente, l'una che ostacola e ferma l'altra, come accade ad una
dozzina di robusti cavalli non avvezzi al carro, che si annullano e si ostacolano
l'un l'altro.
Un uomo forte, non uso al tiro, ironicamente può tendere e far volare in pezzi
molti buoni archi, come dei cavalli selvaggi correndo d'impulso manderanno in
pezzi molti robusti carri. E così gli uomini forti, senza la pratica, non posson far
nulla nel tiro per nessuno scopo, né in guerra né in pace; ma se accade loro di
tirare, scoccano tutt'al più una freccia o due, quando invece un uomo debole
ma allenato al tiro, sarà di utilità per ogni tempo e scopo, e scoccherà dieci
frecce mentre l'altro ne scocca quattro, e tenderà la corda fino al punto
d'ancoraggio ogni volta, tirando col miglior profitto.
Di nuovo, colui che non è avvezzo al tiro, sempre più tenendo l'arco in modo
sbilenco e sbatacchiando al sua freccia, non guardando la corda al giusto
tempo, mette il suo arco sempre in pericolo di spezzarsi, e allora farebbe
meglio a starsene a casa. Inoltre egli tirerà assai poche frecce, e anche quelle in
modo completamente sgraziato, alcune tese nemmeno alla metà, alcune troppo
alte e altre troppo basse, né egli sarà capace di scoccare al momento giusto e
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nemmeno di interrompere il tiro quando è necessario, ma dovrà per forza
buttar fuori la freccia, e assai spesso con risultati cattivi.
Filologo: Ti concedo, Toxofilo, che l'allenamento al tiro fa sì che un uomo
tenda forti archi, per tirare al meglio del profitto e per aver cura della propria
attrezzatura, che non è cosa trascurabile in guerra. Credo tuttavia che il tiro che
abitualmente si pratica a casa, specialmente ai terrapieni con affissi i bersagli in
carta, non sia affatto di giovamento per il tiro di potenza, che è il più utile in
guerra. Perciò, suppongo, se gli uomini si abituassero ad andar sui campi, ed
imparare ad eseguir tiri forti e potenti, senza curarsi affatto di qualsiasi
bersaglio, essi ne avrebbero assai maggior giovamento
Toxofilo: La maggior pratica fa sì che un uomo tiri sia forte che bene, che son
le due cose che nel tiro ognuno desidera. Così, organizzar gare, riunire insieme
gli arcieri, competere per veder chi tirerà meglio vincendo il torneo, incrementa
meravigliosamente la pratica del tiro tra gli uomini.Perciò nel tiro, come in tutte
le altre cose, non vi può esser né quantità e nemmeno qualità se queste tre
cose - predisposizione, conoscenza e pratica - non stanno insieme.
TOXOPHILUS, IL SECONDO LIBRO DELLA SCUOLA DEL TIRO.
Fil: quali sono gli strumenti?
Tox: il parabraccio, il guanto da tiro, la corda, l'arco e le frecce.
Fil: cosa è comune a tutti gli uomini?
Tox: le condizioni atmosferiche e il bersaglio, tuttavia il bersaglio è sempre
subordinato alle condizioni atmosferiche.
Fil: dove risiede il ben maneggiare gli strumenti?
Tox: completamente all'interno dell'uomo stesso: alcune operazioni sono
tipiche degli strumenti, alcune delle condizioni atmosferiche, alcune del
bersaglio ed altre stanno dentro l'uomo stesso.
Fil: quali operazioni son tipiche degli strumenti?
Tox: la posizione, l'incocco, la trazione, il mantenimento, il rilascio, dai quali
proviene il giusto tirare, il quale non appartiene né al vento e nemmeno alle
condizioni atmosferiche, e nemmeno ancora al bersaglio poiché sotto la pioggia
e senza alcun bersaglio un uomo potrebbe eseguire un tiro corretto.
Fil: quali operazioni appartengono alle condizioni atmosferiche?
Tox: la conoscenza del vento, a nostro favore, contro di noi, di lato,
pienamente laterale, vento laterale di un quarto a favore, vento laterale di un
quarto a sfavore e così via.
Fil: quali operazioni appartengono al bersaglio?
Tox: fare attenzione alla propria posizione, tirare con giusta parabola, tendere
ogni volta allo stesso modo, sganciare sempre allo stesso modo, considerare la
natura della visuale da colpire, sulle alture o negli avvallamenti, nelle aperte
pianure e nei posti ventilati, e inoltre concentrarsi sul proprio bersaglio.
Fil: e cosa è solamente all'interno dell'uomo stesso?
Tox: il prestar buona attenzione, ed evitare ogni emotività. Il che spesse volte
significa la riuscita o il fallimento di tutto.
Toxofilo: l'imparar qualsiasi cosa, e specialmente l'eseguire manualmente
qualcosa, deve essere fatto, se qualcuno vuole eccellervi, nella giovinezza.
Colui che vuol raggiungere quest'alta perfezione nel tiro, di cui noi parliamo,
deve necessariamente iniziare ad applicarvisi in gioventù, e l'aver trascurato
tale cosa in Inghilterra ha fatto sì che vi fossero meno tiratori, e che quelli che
son tiratori tirino peggio di come farebbero se fosse stato loro insegnato. Un
uomo, usando dapprima archi deboli, ben al di sotto della sua forza, potrà
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essere reso malleabile e pronto ad assimilare la giusta tecnica di tiro come
qualsiasi bambino, e la pratica quotidiana del tiro lo manterrà nel corretto tirare
e lo porterà infine anche ad un tiro forte.
Il miglior tirare è sempre il tirare più elegante.
Il giusto tirare deriva da queste cose: la posizione, l'incocco, la trazione, il
mantenimento e il rilascio, i quali io passerò in rassegna brevemente.
I difetti degli arcieri superano il numero degli arcieri stessi, e ciò a causa
del praticare il tiro senza l'insegnamento.
Tutti gli ostacoli che le cattive abitudini hanno radicato negli arcieri, non
possono né esser velocemente estirpati e né tuttavia esser da me rapidamente
riconosciuti, poiché essi sono innumerevoli.
Posizione
Il primo punto è, quando un uomo si accinge a tirare, l'assumere una posizione
dei piedi ed un'impostazione tale da esser sia elegante a vedersi che efficace da
usarsi, sistemando la figura e tutte le altre parti del corpo in tal postura e
portamento che egli possa sia impegnar tutte le sue forze a suo miglior
vantaggio, che eseguire il suo tiro e padroneggiarlo per il piacere e il diletto di
chi osserva. Non ci si deve accingere a questo troppo velocemente, poiché ciò
sarebbe avventato, né tuttavia attardarsi a ponderarvi troppo. Un piede non
deve essere posto troppo lontano dall'altro, per evitare di trovarsi troppo in
basso, il che è sconveniente, né tuttavia i piedi devono stare troppo vicini, onde
evitare di starsene troppo diritti in piedi, poiché in tal modo un uomo né userà
bene la sua forza, né tuttavia rimarrà stabile.
Incocco
L'incoccare bene è il punto più facile di tutto, ed in ciò non vi è scaltrezza, ma
solo diligente attenzione nel sistemar la freccia né troppo alta e né troppo
bassa, ma diritta e perpendicolare all'arco. Un incocco incostante fa sì che il
tiratore perda parte del suo allungo. Ed oltre a questo, se la mano della freccia
è in alto e la mano dell'arco in basso, o il contrario, l'arco è in pericolo di
rompersi, e la freccia, se è sottile, sobbalzerà, mentre se è grossa zoppicherà
faticosamente.
Trazione
Oggigiorno noi tendiamo la corda fino all'orecchio destro. Tendere all'orecchio
è grandemente lodato, grazie a ciò si può tirare con maggior forza e a distanze
maggiori. Nel tiro al bersaglio, la fretta e il tender rapidamente non è né sicuro
né tuttavia elegante. Perciò il tender con calma ed in modo uniforme, vale a dire
non oscillando la mano ora in alto e ora in basso, ma sempre allo stesso modo,
finché si arriva al bordo o spalla della punta, è la cosa migliore sia per efficacia
che per eleganza.
Mantenimento
Il mantenimento della trazione (al punto d'ancoraggio al volto, n.d.t.) non deve
esser protratto a lungo, poiché ciò mette l'arco in pericolo ed inoltre rovina il
rilascio; esso deve essere breve al punto che possa esser meglio percepito nella
mente quando si verifica, piuttosto che visto ad occhio nudo quando si esegue.
Rilascio
Lo sgancio (scocco), deve essere molto simile. Così rapido e secco da esser
privo di ogni intralcio; così dolce e gentile da far volar la freccia non come se
fosse gettata fuori da una custodia. La via di mezzo tra questi due estremi, che
è lo sgancio perfetto, non è così difficile da mettersi in pratica come lo è da
descriversi in un insegnamento. Per il rilascio pulito, devi fare attenzione a non
strusciare contro qualsiasi cosa che tu abbia indosso. Per la stessa ragione
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l'Imperatore Leone ordinava a tutti i suoi arcieri in guerra di avere sia le teste
tosate che le barbe rasate, nel caso che i capelli potessero coprir la visuale ed i
peli delle loro barbe potessero ostacolare il tragitto della corda.
A colui che è in grado di tirare in modo corretto non manca nient'altro che
il tirare diritto e il mantener la distanza.
Nota di Stefano Benini:
E' mia convinzione che con tirar diritto e tenere la distanza Ascham avesse già
allora magistralmente e sinteticamente codificato le due coordinate che,
presupponendo una tecnica di tiro corretta e costante, sono gli unici due fattori
che determinano il punto dove la freccia avrà il suo impatto: per ottenere il
centro è necessario che il tiro sia perfettamente in linea con la mezzeria del
bersaglio (tirare diritto), ma è altrettanto necessario che oltre a ciò l'arciere dia
il "giusto alzo", ossia calcoli la giusta parabola da dare al tiro in relazione ad
ogni distanza, che è la seconda coordinata vettoriale necessaria per ottenere il
centro, senza la quale il tiro sarebbe o troppo alto o troppo basso, anche se
centrale (tenere la distanza).
(…) Il peggior nemico del tiro è il vento e la stagione, nei quali risiede la
principale causa di ostacolo al vero mantener la distanza. La miglior qualità di
un buon tiratore è il conoscer la natura dei venti: a favore e contro, ed in tal
modo egli potrà tirare al suo bersaglio con maggior precisione. I buoni tiratori,
quando non
è possibile colpire il bersaglio, si impegneranno a colpirlo il più vicino possibile.
Un buon arciere imparerà a conoscer la natura del vento, e con saggezza egli
valuterà nella sua mente di quanto egli dovrà alterare il suo tiro, sia nell'alzo
che nella centralità di esso.
I saggi arcieri hanno sempre strumenti adatti alla loro forza, ed attendono il
clima e la stagione che sian favorevoli alla loro attrezzatura. Perciò se il tempo
è troppo brutto ed inadatto al tuo tirare, lascia stare per quel giorno ed attendi
che la stagione migliori. Poiché è un folle colui che non va dove la necessità lo
conduce.
Del (falso) scopo di mira non posso dir bene ciò che dovrei dire. Poiché in uno
strano modo esso elimina ogni occasione di gioco sleale, la qual cosa è tutto
ciò che vi è di lodevole in questo; tuttavia, a mio parere, esso ostacola la
conoscenza del tiro e rende gli uomini più negligenti, il che è deprecabile.
Nota di Stefano Benini:
L'asse ottico, che ad arco teso al punto d'ancoraggio al volto si trova al di sopra
della freccia, rende possibile notarne la punta e collimarla con un punto di
riferimento al di sotto del bersaglio, noto anche come falso scopo, o falso
punto di mira. A riconferma dell'attualità del pensiero di Ascham egli non lo
ammette che in casi eccezionali, e lo considera esattamente per ciò che è: una
rinuncia alle proprie facoltà di percezione dello spazio e delle forze in gioco
che, unite alla pratica, sono le sole in grado di produrre risultati perché frutto
del nostro intero essere e non di banali e spesso ingannevoli sovrapposizioni
ottiche.
(…) Una volta che la tua freccia è a posto, allora devi impugnar il tuo arco
esattamente nel mezzo, altrimenti oltre a perdere il tuo giusto allungo di
trazione, metterai l'arco in pericolo di spezzarsi. L'incocco avviene appena
dopo, ed è assai della medesima natura. (…)
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Nota di Stefano Benini:
Ascham non menziona mai, nemmeno una volta, il punto d'incocco. Potrebbe
sembrare una lacuna, o una trascuratezza tecnica, ma se vi riflettiamo con
attenzione ci dovremmo porre questa domanda: "in riferimento a che cosa
avrebbero dovuto segnare il punto dove incoccare la freccia sulla corda dal
momento che sull'arco non vi era nessuna impugnatura e nemmeno alcuna
traccia del benché minimo appoggio per l'asta della freccia?"
L'asta poggiava direttamente sulla mano, che a sua volta non aveva alcun
riferimento sensibile su cui porsi ma solo un piccolo segno sul fianco dell'arco,
che era anche il marchio del costruttore (vedi i reperti della nave inglese Mary
Rose, ora al Museo di Portsmouth). Una mano serrata in prossimità di un
approssimativo centro dell'arco è in effetti un appoggio troppo empirico per
segnare un preciso punto d'incocco sulla corda.
(…) Quindi tendi sempre allo stesso modo, sgancia sempre allo stesso modo,
mantenendo la tua mano sempre alla stessa altezza per tenere la giusta
parabola. Il far caso alla punta della freccia prima del rilascio è il miglior
ausilio che vi possa essere per mantenere il giusto alzo di tiro; la qualcosa
tuttavia è d'intralcio al tirar in modo eccellente, perché un uomo non può
tirare in modo perfettamente diritto se non guarda direttamente il
bersaglio.
Ora, se tu fai caso diligentemente alle condizioni atmosferiche, mantieni la tua
posizione in modo corretto, impugni e incocchi nel giusto mezzo, tendi e
scocchi in modo uniforme e costante e mantieni la giusta parabola, non
sbaglierai mai il tuo tiro in lunghezza.
La principale ragione per la quale gli uomini non riescono a tirare diritto
risiede nel fatto che essi guardano l'asta della freccia; e questo errore
accade perché ad un uomo non viene insegnato a tirare fin da quand'è giovane.
Tener gli occhi sempre sul proprio bersaglio è il solo modo per tirare
diritto. L'eleganza è il solo giudice del miglior modo di guardare al
bersaglio. L'occhio è la guida, il sovrano ed il soccorritore di tutte le altre parti.
La mano, il piede e le altre membra, non osano far nulla senza l'occhio, come è
evidente nella notte e negli oscuri anfratti. L'occhio è il vero linguaggio col
quale l'intelligenza e la ragione parlano ad ogni parte del corpo, e l'intelligenza
non fa in tempo a ricevere un'informazione dall'occhio, che ogni parte è pronta
a seguirlo o addirittura prevenirne il comando.
Il piede, la mano e tutto il resto fanno affidamento sull'occhio. Perciò un
arciere può star certo, imparando a guardare al bersaglio fin da giovane, di
tirare sempre diritto.
Per imparare a smetterla di guardare all'asta, imparando a guardare al
bersaglio, può esser usato questo metodo, che un buon tiratore una volta mi
disse di aver praticato. Si esca con l'arco di notte e si tiri a due fonti di luce
(torce o candele), ed ecco che in tal modo si sarà obbligati a guardar sempre al
bersaglio e
mai alla freccia: tale cosa, praticata una volta o due, farà si che uno smetta di
guardar la freccia.
Per quanto riguarda il tirar con la giusta parabola (su ogni distanza), son certo
che i precetti che ti ho dato non ti inganneranno mai. Così che nulla verrà mai a
mancare, sia del colpir sempre il bersaglio, oppure del giungervi molto vicino,
salvo che l'errore risieda solamente nell'intimo di te stesso, il che può accadere
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in
due modi. O nell'aver poco ardire o coraggio, oppure nell'esser soggetto tu
stesso ad esser troppo guidato dalle passioni. Se la mente d'un uomo gli viene
a mancare, il corpo, che è governato dalla mente, non potrà mai fare il suo
dovere. Se non fosse per la mancanza di coraggio, gli uomini potrebbero
eseguire molti più virtuosismi di quanti ne compiono.
Tutte le passioni, e in special modo la collera, feriscono sia la mente che il
corpo. La mente è cieca in tal maniera, e se la mente è cieca non può governare
il corpo nel modo giusto. Il corpo, di sangue e di ossa come si suol dire, viene
sviato dal suo giusto corso e ragion della collera. Per cui un uomo diviene privo
della sua giusta forza e non può perciò ben tirare.
Riferimenti bibliografici:
1. Ascham Roger, Toxophilus. La scuola del tiro, Greentime Spa, 1999
2. Bartlett Clive, Embleton Gerry, English longbowman 1330-1515, Osprey
Military, Warrior Series n.
11, 1995
3. Hansard George Agar, The Book of Archery, Henry G. Bohn, London 1841
4. Hardy Robert, Longbow, storia civile e militare dei lunghi archi, Palutan
Editrice, 1992
5. Morse Edward S., Ancient and moder methods of arrow-release, Bulletin of
the Essex Institute, vol
XVI. Oct-Dec. 1885
6. Rausing Gad, The bow, some notes on its origin and development, Lund
1967, Berlingska
Boktryckeriet
San Secondo Parmense (PR), 18 aprile 2004.
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ALLEGATO 3
Note sulla respirazione diaframmatica:
Una buona respirazione, che si avvale dell'utilizzo consapevole del diaframma,
favorisce l'aumento della capacità polmonare, genera un miglioramento
posturale, l'aumento dell'afflusso sanguigno, l'eliminazione delle tossine e
porta ad un miglioramento delle funzionalità degli organi interni interessati alla
digestione. Inoltre, una respirazione lunga e profonda è particolarmente
efficace in situazioni di stress ed ansia.
Nel Tai Chi la respirazione si basa proprio sull'attività del diaframma, muscolo a
forma di cupola posizionato tra la cavità toracica e quella addominale.
Espandendo e richiamando le fasce addominali si favorisce il movimento del
diaframma che, scendendo e risalendo, sviluppa un'efficace azione respiratoria
in sinergia con i polmoni. E' fondamentale che la respirazione segua il proprio
ritmo naturale.
Ciò premesso bisogna tener conto che mentre alcune posizioni sono di facile
apprendimento ed è quindi semplice eseguirle applicando una respirazione
lunga e profonda, altre posizioni più complesse richiedono una buona dose di
coordinazione. Va da sé che, durante e le prime fasi di apprendimento delle
posizioni più impegnative, sia necessario concentrare la propria attenzione sul
controllo dei movimenti, piuttosto che sul respiro. In un secondo tempo,
quando la posizione è stata acquisita e fatta propria, è possibile sviluppare
maggior attenzione al ritmo del respiro.
Per capire come respirare durante l'esecuzione delle posizioni di Tai Chi ci si
può rifare al loro significato originario in relazione alle applicazioni marziali.
Conoscendo il significato delle tecniche eseguite (parate, spinte, leve, ecc.) si
può facilmente associare la respirazione rispettando i canoni fondamentali. In
genere quando si inspira si è in difesa, l'ossigeno riempie la cassa toracica e
crea una camera d'aria che protegge gli organi vitali ammortizzando eventuali
colpi ricevuti. In fase di espirazione si portano invece le tecniche di
contrattacco. Praticare a coppie le tecniche marziali, anche a velocità rallentata,
favorisce lo sviluppo consapevole del proprio respiro.
Da un punto di vista salutistico la respirazione, basata sul movimento del
diaframma, favorisce la concentrazione nel nostro centro (Tan Tien) dell'energia
acquisita durante l'atto dell'inspirazione. Qui essa viene trasformata e
reindirizzata, durante l'espirazione, nel resto del corpo. Nelle tecniche di difesa
personale, invece, l'intenzione (Yi) può guidare parte dell'energia verso
l'esterno. Infatti, da un punto di vista marziale, le fasi della respirazione sono
normalmente caratterizzabili in questo modo: l’inspirazione protegge e ci
carica di energia, l’espirazione accompagna le tecniche di contrattacco in cui
parte dell'energia è destinata al concretizzarsi dell’azione.
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